Carceri, giustizia, processi, condanne: il Paese inventato nel salotto di Bruno Vespa e quello reale descritto nel VII rapporto sulle carceri di Antigone

Menzogne, bugie e talk show. Il mondo virtuale che rovescia la realtà mandato in onda da Bruno Vespa a Porta a Porta

Paolo Persichetti
Liberazione 23 ottobre 2010


Nei giorni scorsi il Corriere della sera ha dato rilievo alla denuncia pubblica lanciata da Sabina Rossa, figlia del sindacalista rimasto ucciso nel gennaio 1979 in un attentato delle Brigate rosse. La donna, oggi parlamentare del Pd, raccontava di essere stata convocata per posta dal tribunale di sorveglianza di Bologna. Un funzionario di polizia l’attendeva per raccogliere su un verbale di “sommarie informazioni” il suo parere riguardo alla domanda di liberazione condizionale presentata da Prospero Gallinari, esponente storico delle Br, ormai al suo trentesimo anno di pena scontata, tra carcere e arresti domiciliari ottenuti a causa delle sue condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario. Da una decina di anni i giudici di sorveglianza hanno istituito una prassi non contemplata dalla norma di legge, l’articolo 176 cp. Ritengono essenziale per la concessione della liberazione condizionale la presenza del perdono dei familiari delle vittime, equiparandola di fatto alla concessione della grazia. Misura di clemenza profondamente diversa che estingue, per intero o in parte, la pena. La liberazione condizionale introduce invece un regime di “libertà vigilata” la cui durata non può oltrepassare i 5 anni. Sabina Rossa ha contestato sia il merito della richiesta che la procedura intrapresa. Altri tribunali di sorveglianza pretendono dal detenuto che voglia farne domanda l’invio di lettere con richiesta di perdono ai familiari delle vittime. Prassi che riapre ferite laceranti e carica sulle spalle dei familiari scelte politiche e giudiziarie che appartengono allo Stato. E’ quanto sostenuto dalla senatrice Rossa che sottolinea come «il perdono della persona offesa non sia richiesto dalla legge». Per questo ha anche presentato una proposta di legge, che ha raccolto l’assenso di altri familiari e parlamentari, con l’obiettivo di ripristinare una separazione tra diritto e morale introducendo criteri di giudizio oggettivi, come il comportamento.
Giovedì sera Bruno Vespa ha colto al volo l’occasione per invitare a Porta a porta la senatrice e dedicare una intera puntata alla «giustizia che non fa giustizia», al «carcere che scarcera». Un minestrone di disinformazione, di errori grossolani e propaganda forcaiola che metteva insieme situazioni diverse: esecuzione di pene ultradecennali, casi di cronaca nera ancora alle prime indagini come quello di Sarah Scazzi, delitti a sfondo razzista come quello di Alessio Burtone, vicende passate in giudicato come i nuovi omicidi commessi dal collaboratore di giustizia Angelo Izzo, o i delitti nazisti firmati Ludvig di Abel uscito per fine pena, per dire in sostanza che c’è troppa clemenza in giro nonostante le carceri esplodano, che un condannato arriva a scontare appena un terzo della pena inflitta (panzana grottesca). Un frullato incommestibile di chiacchiere da bar, fandonie e bugie incapace persino di percepire il ridicolo quando, dopo aver denunciato la solita incertezza della pena, nel chiedere alla senatrice Rossa che fine avessero fatto le persone condannate per la morte di suo padre, ha ricevuto come risposta: «uno è stato ucciso nel marzo 1980 in un blitz dei carabinieri del generale Dalla Chiesa in via Fracchia, l’altro è in carcere da più di 30 anni».
Accade così che vi sia una realtà virtuale tutta in bianco e nero, quella raccontata da Vespa, che narra un paese rovesciato dove il crimine se la passa liscia e le vittime non trovano giustizia. E poi il mondo reale come quello descritto nel VII rapporto sulle carceri italiane presentato ieri mattina a Roma dall’associazione Antigone. I detenuti sono 68.527 per soli 44.612 posti letto. Praticamente non ci sono più nemmeno i posti in piedi. Niente a che vedere con le cifre ascoltate nel salotto di Vespa. I semiliberi sono appena 877. Alla faccia del carcere che mette fuori facilmente. L’area penale esterna, cioè quelli che scontano misure alternative per condanne, inferiori o residuali, sotto i due-tre anni, sono 12.492. Tra questi quelli che hanno commesso reati sono appena lo 0,23%. Nel paese dove si racconta che l’ergastolo non esiste più, i “fine pena mai” sono 1491. I detenuti con meno di 25 anni sono invece 7.311, i bambini sotto i tre anni 57. Quelli che hanno commesso violazioni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe 28.154, il doppio della media europea. 113 i morti in carcere, di cui 72 suicidi e 18 ancora da accertare. Nei primi 9 mesi del 2010 i suicidi sono già a quota 55. Ad avere solo un anno da scontare sono 11.601, a riprova del fatto che in carcere è più facile entrare che uscire. 43,7% i reclusi (record europeo) ancora giudicabili, tra questi 15.233 in attesa del primo giudizio. Siamo il paese del carcere preventivo, della pena anticipata, della sanzione senza processo dove finiscono solo poveri, immigrati, tossicodipendenti, infermi di mente. Quelli che da Vespa non vedremo mai.

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Cronache carcerarie
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili

Carcere di Forlì, muore in cella abbandonato, nessuno lo ha soccorso

Franco Paglioni arrestato per tre grammi di eroina, aveva denunciato forti dolori ma nessuno gli ha dato ascolto
Muore in carcere abbandonato da tutti tranne che dai compagni di cella

Paolo Persichetti
Liberazione
12 settembre 2008

Riverso a terra, esanime tra le proprie feci. È morto così, in una cella del carcere di Forlì, Franco Paglioni. Cinismo, indifferenza, sprezzo della vita umana, hanno precipitato la morte di un uomo di 44 anni profondamente debilitato da una malattia che il senso comune fa fatica a pronunciare, l’Aids. La mattina del 25 agosto Paglioni si trovava in carcere da soli 4 giorni. Era conosciuto: dal personale di custodia e da quello medico. Nell’infermeria una cartella ne tracciava la storia medica. Arrestato per il possesso di tre grammi di eroina (che periziati sarebbero forse risultati molto meno) era finito nell’istituto di via della Rocca, penitenziario da dove entrava e usciva ripetutamente. Come da prassi all’ingresso è stato sottoposto a visita medica e qui aveva segnalato forti dolori. «Stava talmente male – raccontano in una lettera i suoi compagni di detenzione – che non poteva alzarsi dal letto e neppure mangiare. I suoi piatti rimanevano pieni e l’assistente di turno, anziché preoccuparsi, ordinava di mettere il cibo nuovo sopra quello vecchio. In quei giorni andava avanti solo a tè o camomilla, grazie ad un detenuto che ogni sera gli preparava gli infusi. Abbiamo chiesto più volte alle guardie di turno l’intervento urgente di un medico ma nessuno si è mai visto e l’infermiere che è passato in sezione per la consegna della terapia per ben 2 volte (alle 20.30 del 24 sera e alle 7.30 del 25 agosto) non si è preoccupato neppure di chiamarlo nonostante l’uomo, perché è di questo che stiamo parlando, stesse malissimo». Uomo? Persona? Viene da pensare alle parole del nuovo capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che al momento del suo insediamento ha sottolineato la necessità di considerare sempre delle «persone» i detenuti. Una lapalissiana ovvietà fuori dalle mura di cinta, dentro molto meno. Ora il dottor Ionta ha di fronte a sé l’occasione buona per dimostrare che quelle sue parole avevano un senso, erano davvero animate da sincera volontà. Può farlo esigendo piena luce sulle responsabilità che hanno portato a questa terribile morte. «Una fine assurda», come l’hanno definita i compagni di carcere di Paglioni che puntano l’indice contro il clima di incuria che sta dietro quanto è accaduto. «Episodi come questi non devono succedere. Neanche i cani si abbandonano così, si curano. E lui era una persona». Agghiacciante è la descrizione di quanto avvenuto la mattina del 25 agosto «quando il lavorante davanti alla cella ha fatto presente lo stato del Paglioni, riverso tra le sue feci. Noi tutti eravamo presenti. L’assistente di turno l’ha visitato e assieme a un detenuto l’ha portato sotto la doccia, nonostante lo stato esanime in cui quel poveretto si trovava. Poi è stato riportato in cella. Quando finalmente è stato chiamato il dottore era troppo tardi. Ne ha potuto solo constatare il decesso». Il personale di custodia del carcere non risponde, vincolato dalla gerarchia alla consegna del silenzio. Un silenzio che però risuona come una fragorosa ammissione di responsabilità. Interpellata dal Resto del Carlino, la segretaria del comparto penitenziario della Cgil funzione pubblica, Daniela Avantaggiato, accampa scuse che hanno dell’incredibile: «Il giorno prima del decesso Paglioni è stato visto dal medico, ma le sue condizioni erano così gravi che anche un ricovero all’ospedale non lo avrebbe salvato». La direttrice del carcere, Alba Casella, è irraggiungibile. Come spesso accade in provincia, i direttori dirigono più istituti contemporaneamente. Di fatto queste strutture sono acefale, abbandonate alla mera gestione militare del personale di custodia. Concepito per una capienza massima di 135 detenuti, il carcere di Forlì ne ammassa in realtà 210. Una specie di sottovuoto penitenziario. Intanto i compagni di Franco Paglioni, quelli che hanno accompagnato gli ultimi giorni della sua vita chiedono «che una volta tanto anche un detenuto riceva giustizia. Crediamo che una persona non debba e non possa essere lasciata morire così, come un cane».

Carcere killer: oltre Forlì altre tre vittime in poche ore

Paolo Persichetti
Liberazione
13 settembre 2008

«È morto per cause naturali e in carcere ha avuto tutte le cure di cui aveva bisogno». Non sa trovare altre parole la direttrice del carcere di Forlì, Alba Casella, per spiegare la morte di Franco Paglioni, deceduto in circostanze drammatiche lo scorso 25 agosto (vedi Liberazione di ieri), trovato riverso sul pavimento della cella tra le sue feci dopo aver inutilmente denunciato forti dolori. L’Istituzione come di consueto si è chiusa a riccio e respinge ogni accusa. Nega che nella vicenda vi siano responsabilità o ombre. L’incuria, l’indifferenza, il cinismo, non c’entrano. «Questo è quello che dicono i detenuti…», risponde la funzionaria, preoccupata soprattutto della propria carriera e di tutelare il buon nome dell’amministrazione. Il cappellano del carcere, don Dario Ciani, scrive che le condizioni di salute del detenuto erano note, tanto che in passato aveva sempre ottenuto misure alternative a causa della sua incompatibilità con la detenzione. Questa volta non è accaduto o non si è fatto in tempo. «Ogni carcere, compreso quello di Forlì, non può essere utilizzato come discarica», spiega il prete. Della vicenda è stata informata l’autorità giudiziaria che ha subito sotterrato il caso senza nemmeno accertare le cause esatte della morte. Tanto Paglioni aveva il destino segnato da una sieropositività conclamata. Evidentemente la vita di chi è affetto da questa sindrome vale meno delle altre. L’altro ieri si è tenuto anche un presidio sotto le mura della casa circondariale per denunciare l’episodio, mentre i Radicali annunciano una interpellanza parlamentare. Paglioni era stato collocato in isolamento nell’unica cella disponibile del reparto protetti. Uno come lui andava assegnato in una comunità. Quantomeno necessitava di un ricovero in infermeria. Ma il sovraffollamento attuale impedisce una gestione razionale della popolazione incarcerata.
La fabbrica della punizione sforna più detenuti di quanto l’industria penitenziaria sia in grado di contenere. Ciò alimenta lo stillicidio di morti: altri tre negli ultimi giorni. Un paraplegico trovato incredibilmente “impiccato” nel carcere di Opera. È il secondo caso del genere che si registra in questo istituto. Un detenuto marocchino deceduto per inalazione di gas a Bad’e Carros (Nuoro) e poi, martedì scorso, la morte nell’ospedale di Velletri di Stefano Brunetti, 41 anni. Arrestato l’8 settembre per un tentativo di furto, il giorno successivo era stato ricoverato a causa delle pesanti percosse subite, non si sa ancora se durante la permanenza nella questura di Anzio oppure dopo l’ingresso in carcere. La magistratura ha disposto l’autopsia per conoscere se le cause del decesso sono di origine violenta o meno. La notizia è stata diffusa dal garante dei detenuti del Lazio e dall’associazione Antigone. Episodi che attirano l’attenzione sulle pratiche sempre più violente che ormai dilagano senza freni negli apparati di polizia.