Sergio Segio, ovvero chi frequenta l’infamia

L’Esportazione della colpa

Certo che ormai è roba vecchia, ma siccome il web archivia tutto e basta un clic per ritrovare cose dimenticate, un po’ come quando entri in una soffitta o una cantina, allora getto anch’io nel ripostiglio della memoria questa vecchia polemica, un po’ per liberarmene, un po’ perché fuori dal carcere ho rimesso piede da poco e così ad anni di distanza scopro altre cose che non sapevo, come il fatto che un signore di nome Sergio Segio (alias comandante Sirio, pensate che tipo. Roba da estetismo dannunziano), per altro mai conosciuto personalmente, taccia me ed altri fuoriusciti, come Scalzone, d’essere calunniatori nei suoi confronti.
Allora proviamo a ricostruire tutti i passaggi della schermaglia (si, vabbé è tempo perso…).

Tutto comincia all’alba del 25 agosto (in realtà il 24 a sera, ma ora sorvoliamo sui dettagli), quando sotto il tunnel del Monte Bianco vengo ceduto dall’antiterrorismo francese alla Digos italiana, dopo 11 anni di esilio parigino. Oggi sappiamo che fu un “rapimento” bello e buono realizzato nel clima delle extraordinary rendition dell’epoca.
Serve ora una premessa: ero andato via nel 1991. Un anno e mezzo prima, al processo di primo grado ero stato assolto dall’accusa più grave (contro di me c’era la testimonianza contraddittoria di un pentito che non resse al vaglio dibattimentale). Intervenne così la scadenza termini per il reato di banda armata. Ovviamente la procura fece appello. Intanto nelle carceri oltre l’80% dei prigionieri, che non avevano aderito alla dissociazione, proclamano, in varie forme, la conclusione del ciclo politico della lotta armata. Fuori c’erano esperienze politiche nuove che in buona parte avevo già conosciuto (ero entrato in carcere solo nel 1987). Nel frattempo scoppiò anche una lunga occupazione delle università che prese il nome di “movimento della Pantera”. Il processo d’appello, svoltosi nel febbraio 1991, fu anche una vendetta contro il nostro attivismo politico alla luce del sole, contro il tentativo di mettere in pratica il “passaggio alla lotta politica di massa” di cui parlavano una parte degli ex militanti provenienti dalla lotta armata.
Risultato: il verdetto di primo grado fu capovolto e il residuo pena di sei mesi si traformò in altri 20 anni di reclusione da scontare. Arriva l’estate e scoppia il caso Cossiga, l’allora presidente della repubblica comincia a “picconare” e tra l’altro lancia la proposta di un’amnistia per i reati politici degli anni 70-80. Simbolicamente predispone un decreto di grazia per Renato Curcio che il guardasigilli Claudio Martelli rifiuta di firmare. In coro Dc e Pci ripropongono la linea della fermezza e la “soluzione politica” scema.
A quel punto, dopo aver superato delle stupide reticenze, mi decido a partire. Approdo in Francia e qui ricomincio una nuova esistenza sbarcando il lunario, seguendo la trafila classica dell’esule: vita precaria, senza documenti, senza una lira… ma pur sempre una vita libera. Undici anni passano fino a quella notte sotto il tunnel del Monte Bianco.

E in tutto questo che c’entra Sergio Segio, direte? Già che c’entra? Questo me lo sono chiesto pure io. Ma gli stronzi sono stronzi proprio per questo. Perché come tutti gli stronzi a questo mondo vogliono entraci sempre per forza. Altrimenti che stronzi sarebbero?

Dunque c’entra e come, anzi non attende altro, scalpita.

Nel frattempo, abbastanza inconsapevole della trappola che si stava richiudendo su di me, della sceneggiata mediatica che era stata preparata e della montatutura poliziesco-giudiziaria messa in piedi per coinvolgere i fuoriusciti nell’attentato Biagi, arrivavo in Italia come Pinocchio tra i gendarmi.
L’atteggiamento distaccato, il tono sereno ma fermo che avevo mantenuto in quelle ore aveva irritato però la protervia di tanti chierici. Aveva infastidito le loro coscienze, la quieta codardia con la quale avevano pensato d’evacuare gli anni 70. Riemergeva un rimosso, solido e tosto, scomodo, troppo scomodo, perché testimonianza di come avrebbe potuto evolvere quella vicenda se non avesse avuto come risposta soltanto il carcere.
Fonte di quell’indignazione erano gli anni 90, con il loro paradigma della libertà rappresentato dai fuoriusciti, anteposto a quello dell’impunità di Stato, sempre avallata con l’appoggio, a volte tacito, a volte aperto, alle leggi premiali e alle misure di sostegno e remunerazione dei collaboratori di giustizia. Il valore sacrosanto della certezza della pena, che ora veniva riscoperto, era stato mercanteggiato per lungo tempo alla fiera delle indulgenze. Per questo appariva intollerabile ogni riflessione libera dalle ipoteche e dai ricatti emergenziali. Inammissibili erano quei percorsi sottratti al dominio del paradigma penale, delle ricostruzioni ammaestrate e delle teorie del complotto. Insopportabile diventava ogni testimonianza d’oltrepassamento, ogni storicizzazione che non rinunciasse al vaglio della critica sul passato e sul presente.
«Basta con i santuari», «basta con l’impunità», titolavano i maggiori quotidiani di quei giorni. La concomitanza con l’anniversario dell’11 settembre ricordava come la musica nel mondo fosse cambiata. Era tempo, ormai, per un forte richiamo all’ordine, alla riaffermazione dell’autorità, al rispetto assoluto della legge, al ripristino della certezza della pena. Tolleranza zero, repressione assoluta, massima sicurezza, guerra preventiva, lotta «senza frontiere» contro ogni posizione che non fosse allineata.
C’era bisogno di simboli.
Anche i giudizi dei commentatori più importanti si assomigliavano. Ma ciò che più colpiva era il fatto che in quel frangente mi venisse rimproverato il presente più del passato. Non era tanto il giovane venticinquenne condannato a ventidue anni e mezzo di carcere che suscitava biasimo, quanto l’adulto quarantenne. C’era qualcosa che l’Italia non riusciva ad accettare nell’uomo che tornava con le manette ai polsi. Perché ce l’avevano tanto con me?
Grandi firme come Barbara Spinelli, Sergio Romano, Mario Pirani, Gianfranco Pasquino mi rimproverano di tutto: «non aver mai ripudiato la violenza», addirittura qualcuno evocando i presunti «segreti del caso Moro» m’accusava di «non aver detto tutta la verità», dimenticando nella fretta che nel marzo 1978 non avevo 16 anni, fino alla corrività con gli attentatori di Biagi.

Ed è a questo punto che appare lui, il nostro Sergetto, che fremente attendeva l’occasione per salire in cattedra e dare le sue stucchevoli lezioni.

A questo punto consentitemi di risparmiare tempo e raccontare l’episodio con le parole utilizzate in un libro che ho scritto in carcere:

«Anche un ex esponente di Prima linea, Sergio Segio, irrompeva sulla scena. Noto irriducibile della dissociazione, frequentatore delle “aree omogenee”, durante gli anni di cattività come un mammifero da circo in cambio dello zuccherino era stato ammaestrato a salire in cattedra e recitare la morale. Il ravveduto esponente di uno dei più cospicui gruppi della lotta armata degli anni 70, al pari di una foca ammaestrata, aveva appreso la gesuitica arte dell’autocritica degli altri e da allora non perdeva occasione per fare mostra della propria eccellenza. La parabola edificante di cui si voleva testimone, lautamente ricompensata dalle leggi premiali dell’emergenza, doveva essere per tutti la via maestra. La sicumera era tale, forse perché sostenuta dalla convinzione d’aver già conquistato un posto in paradiso, che Segio scalpitava per la predica e sponsorizzato dalle pagine di Repubblica (del 27 agosto) intimava a me (appena incarcerato), e agli altri fuoriusciti, di «prendere una chiara posizione contro l’inaccettabile prassi dell’omicidio e della violenza politica», altrimenti – sentenziava – «finirete per diventare lo specchietto per le allodole».
Da autentico domenicano dell’inquisizione e poliziotto delle coscienze, lanciava l’accusa di correità, avanzava dubbi su una presunta opacità e connivenza culturale con i nuovi attentatori di Biagi e D’antona. Si distingueva come uno zelante ausiliario della pubblica accusa che disegna la cornice ideologica nella quale inchiodare alle loro responsabilità i recalcitranti. Parlava del rischio che si aprisse una caccia aperta ed egli era il primo che sparava. Ma come un cacciatore di frodo però, un vile bracconiere che colpisce alle spalle un uomo ammanettato.
Con il collare del suo nuovo padrone, il vecchio lupo era diventato un cane da guardia che aveva perso il pelo ma non il vizio. Da bravo lacchè suggeriva la via d’uscita: importa poco che non abbiate fatto nulla; ciò che conta è schierarsi, altrimenti quel nulla può diventare tutto.
A Segio non bastava più la presa di distanza dal passato, voleva imporre agli altri anche quella dal presente e dal futuro».

Link
Segio:“La rivoluzione era un pranzo di gala”
La Prima linea, il film che vorrebbe seppellire gli anni 70 sotto il peso del senso di colpa
L’esportazione della colpa (1)
Miccia corta e cervello pure
Sergio Segio: “Scalzone e i parigini condannino la lotta armata” (2)
Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà” (3)
“Monsieur de la calomnie” (4)
Scalzone: “Caro Segio, non c’ è nulla da cui mi devo dissociare” (5)
Sergio Segio, il narcisismo del senso di colpa (6)
Segio e l’ideologia del ravvedimento (7)
I ravveduti
Il Merlo, il dissociato e il fuoriuscito


Sergio Segio detta l’autocrita ai rifugiati, «Scalzone e i parigini condannino la lotta armata»

L’attacco di Sergio Segio agli esuli parigini: se in Italia qualcuno ha preso di nuovo le armi è colpa della mancata dissociazione dei fuoriusciti riparati in Francia, «non hanno mai preso le distanze dall’omicidio poltico, hanno solo criticato la dissociazione e le legge premiali»

di Carlo Bonini
La Repubblica 27 agosto 2002

ROMA – Sergio Segio ci pensa su. Paolo Persichetti, Oreste Scalzone, Parigi. In fondo, per gli “ex” – e lui lo è: ex Prima linea, ex detenuto, ex dissociato – è sempre così. La storia di un singolo non è mai soltanto la sua storia. E se, come in questo caso, la fine di una latitanza significa forse la fine dell’eccezione francese, allora la voglia di prendere parola diventa prepotente. Soprattutto se la sfida è ai “compagni” di ieri. “Tanto vale che lo dica…”. Cosa? “Che la comunità francese dei rifugiati politici, a prescindere dalle responsabilità di ciascuno, oggi ha un dovere collettivo e una necessità”. Quali? “Prendere una chiara posizione contro l’inaccettabile prassi dell’omicidio e della violenza politica. E non penso a una generica petizione di principio, che per altro, in vent’anni, non c’è mai stata. Penso a una cesura politica netta. Che riguardi non il passato, ma soprattutto il presente e il futuro”. Detto da lei che l’omicidio politico lo ha praticato… “E infatti provo imbarazzo a parlarne. Ma credo di avere qualche ragione in più per farlo. Non fosse altro che per il doloroso insegnamento etico e politico che vent’anni di galera e la stagione della dissociazione hanno prodotto sul sottoscritto e su un’intera generazione. Una generazione – diciamolo una buona volta – che non ha collaborato, ma, al contrario di alcuni, non si è mai sottratta alle sue responsabilità individuali riparando all’estero per fuggire la galera”. Perché accusa Scalzone e parte dei rifugiati di opacità politica? “In questi anni, le cronache e la pubblicistica dall’esilio francese hanno raccontato una comunità che almeno nella sua parte più rumorosa si è distinta soltanto per la severità e ingenerosità dei giudizi politici ed etici, ai limiti della calunnia, nei confronti di chi, in Italia, o stava attraversando in carcere il faticoso passaggio della dissociazione o sperimentava da libero nuove forme non violente di conflitto sociale. Basta leggere cosa scriveva Persichetti non più tardi del luglio scorso dell’esperienza del movimento di Genova o dei girotondi. Evidentemente non voglio far polemica con chi oggi ha perso la libertà, ma segnalare come in tanto profluvio di analisi politica non ho mai letto una sola e seria riflessione destinata all’Italia sul drammatico e antistorico ritorno all’omicidio politico. Nei ‘parigini’ ho sempre notato la logica dei due pesi e delle due misure”. Anche lei è convinto della contiguità tra “rifugiati” e nuove Br? “Assolutamente no. Credo che la cattura di Persichetti significhi soltanto ‘arrestarne uno per ammonirne cento’. E credo anche che per quanto le Br abbiano ereditato quel che di peggiore, cinico e volgare esisteva della tradizione stalinista non siano arrivate al punto di immaginare una direzione strategica estera. Ma proprio perché sono convinto di questo ritengo che sia necessario un segnale politico dei rifugiati. Se prendono una posizione chiara sulla violenza politica otterranno due importanti risultati. Primo: eviteranno di diventare specchietto per le allodole utile per ogni tipo di strumentalizzazione o sospetto. Secondo: sveleniranno il clima in vista di un autunno che si annuncia complicato, privando di ogni alibi chi immagina una ripresa della violenza politica e una repressione indiscriminata”. Veramente Scalzone sembra avere altro in testa. “Ho un antico affetto per Scalzone. Constato però un suo forte scollamento rispetto al contesto. Nella sua generosità, a cominciare dall’annuncio dello sciopero della fame per Persichetti, c’è un velo di megalomania che fa torto alla sua intelligenza. Non può non capire che la strada verso l’indulto, che da tempo sostengo, passa anche attraverso una assunzione di responsabilità storica e politica”.

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Il merlo, il dissociato e il fuoriuscito

«Sergio Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà»

Intervista di Jacopo Iacoboni a Paolo Persichetti

«Segio mi ricorda una frase di Kundera rivolta a coloro che per un po’ dì di futuro hanno venduto il loro passato. La dissociazione è stata uno dei prodotti più velenosi dell’emergenza. Non punisce il passato del militante – i reati commessi – ma il presente carcerario, le sue opinioni»

La Stampa 25 settembre 20002

L’uomo che parla da una cella del «braccio ordinario» del carcere di Marino del Tronto è Paolo Persichetti, il brigatista condannato per l’assassinio del generale Giorgieri ed estradato a fine agosto dal governo neogollista di Jean-Pierre Raffarin. Poco distante, in questo edificio, ci sono le stanze che hanno ospitato negli anni, il «criminologo» delle Br Giovanni Senzani, il padrino della Nuova camorra Raffaele Cutolo, l’attentatore del papa Alì Agca e, adesso, il boss dei boss, Totò Riina. Persichetti, al contrario dei precedenti «ospiti» illustri, è stato fatto accomodare nella sezione comune [in realtà, nel reparto isolamento, sezione nuovi giunti dove rimarrà per tutti i 4 mesi e mezzo di permanenza in quell’istituto]. Gli è stato permesso di scrivere e ricevere posta. Non gli è stato dato un computer. Lo conforta, dice, «l’insurrezione dell’opinione pubblica transalpina, ogni giorno ricevo decine di lettere da cittadini francesi scioccati che mi esprimono caldamente solidarietà». Anche le Monde s’è esposto in sua difesa. Ciononostante, a detta dell’emittente pubblica France 3 esiste già una lista di quattordici latitanti che potrebbero andare a fargli compagnia. In testa Giorgio Pietrostefani, condannato a ventidue anni come mandante dell’omicidio del commissario Calabresi. Nella prima intervista, concessa per iscritto, dopo il rientro forzato in Italia, Persichetti spiega di non credere che quelle estradizioni verranno eseguite: «La Francia ha già fatto marcia indietro di fronte alla reazione indignata della sua opinione pubblica». Chiede ai politici di ascoltare Cossiga, tra i pochi ad aver detto «cose lucide» suggerendo la soluzione-amnistia. Critica con accenti aspri i «professionisti della dissociazione» alla Sergio Segio, «stanno ancora pagando le cambiali della libertà». Sostiene di aver sperimentato, sulla sua pelle, l’esattezza dell’analisi svolta dal ministro Tremonti sulla Stampa, «anche io temo stia prendendo forma un’Europa profondamente anti-giuridica». Ostinati silenzi arrivano, invece, se gli si chiede di dire cosa pensi dell’omicidio di Marco Biagi e di quelle «nuove Br» da cui, pure, s’è già professato arci-distante; oppure dell’agguato che portò alla morte del generale dell’Aeronautica Licio Giorgieri. Quel passato, par di capire, per il ricercatore di scienze politiche a Paris VIII è un mondo chiuso, finito.

Persichetti, che pensa dell’accordo sulle estradizioni firmato dal Guardasigilli Castelli con il collega Perben?
«Il grande evento simbolico che doveva rappresentare l’incontro dell’11 settembre è finito in una merenda a “pizza e fichi”. La Francia ha chiaramente fatto marcia indietro di fronte alla reazione indignata della sua opinione pubblica. Ha monitorato la situazione giuridica dei fuoriusciti e ha scoperto che tutte le loro sendenze penali erano precedenti al 1982. Così ha stabilito questa data come una soglia invalicabile».

E perché Parigi darebbe marcia indietro?
«Chirac deve tener conto dell’umore degli elettori di sinistra che tanta parte hanno avuto nella sua rielezione plebiscitaria. Forse l’Eliseo non era nemmeno al corrente di quanto stavano tramando i balladuriani Sarkozy e Perben. Smentita nella forma, la dottrina Mitterrand è stata confermata nella sostanza».

Lei in che circostanze è stato fermato? E perché soltanto oggi?
«Potevano venire a casa, ma hanno scelto di prendermi in strada, nell’ultimo fine settimana di agosto, in una Francia ancora distratta. Un sabato sera alle 20.25, in un luogo isolato, una zona di uffici, deserta a quell’ora. Sono stato caricato in macchina, mi è stato impedito di avvisare i miei legali e verso mezzanotte ero già in viaggio per l’Italia. Più che un trasferimento sembrava un «rapimento». Quando in Francia s’è scatenata la riprovazione mediatica, era ormai troppo tardi. La mano degli inquirenti francesi è stata sapientemente forzata facendo balenare sulla mia testa il sospetto per gli ultimi attentati».

Eppure il Viminale ha invitato a non fare collegamenti tra vecchie e nuove Br, tra lei e gli assassini di D’Antona e Biagi. Lei condanna questi omicidi?
«Di sicuro gli Interni hanno istillato il dubbio su un mio collegamento con gli ultimi attentati attraverso il «teorema dei quarantenni» che appassiona il Risiko investigativo a cui giocano alcuni inquirenti. Reo di avere quarantenni e per giunta dimostrandone anche meno, ero la preda migliore da incasellare in questa tipologia del sospetto. Poi dopo le dimissioni di Scajola e il buco clamoroso di San Petronio, avevano bisogno di fabbricare un «grande successo operativo».

Ma gli omicidi? Almeno un’idea sulle nuove Br ce l’avrà? Chi milita in queste organizzazioni?
«La semplice riappropriazione di una sigla rubata dal museo della Storia non vuol dire nulla. Le nuove Br sono solo un logo ad alto contenuto simbolico, che offre maggiore e immediata visibilità. La pubblicità insegna: altro che vecchie Br, qui siamo al post-moderno. Invece il gruppo per la cui appartenenza fui condannato, ovvero le Br-Udcc, s’è autodisciolto nel 1989 dichiarando «concluso il ciclo politico della lotta armata» e aperto il «passaggio alla lotta politica aperta e di massa».

Forse è un po’ poco agli occhi di chi ha perso parenti e amici. A loro l’estradizione – tanto più in un’Europa comunitaria – sembrerà normalissima, non crede?
«La mia estradizione è solo un piccolo tassello di un fenomeno più vasto e inquietante che sta inquinando dalle fondamenta l’edificio europeo. La giudiarizzazione della società come modello di governo. La politica di massa, sia quella radicale che quella riformista, sta morendo spodestata dal protagonismo dei poteri finanziari e delle procure. Prende forma un’Europa profondamente antigiuridica, in cui la partecipazione democratica è del tutto superficiale, modellata sugli interessi dei circoli d’affari: lo ha detto persino Tremonti, sul vostro giornale. Anche il mandato europeo nasce tra le asimmetrie più stridenti dei codici penali».

Era l’obiezione sollevata agli altri paesi Ue dal governo di centro-destra italiano.
«Preoccupazione sensata. Per le profonde diversità dei criteri di formulazione della prova. Per le differenze tra riti accusatori e inquisitori. Per le disparità delle pene».

Toni Negri si augura che il suo arresto possa riaprire la discussione sull’amnistia: sarebbe uno strumento utile per chiudere gli «anni di piombo».
«Cos’altro fare, quando un paese vede un’area sociale che supera il milione – di cui almeno centomila militanti – alimentare per oltre un decennio ondate di movimenti contestatori, sovversivi e armati? Dopo la prima risposta giuridico-militare, logica e buon senso vorrebbero che sopraggiungesse una gestione politica della vicenda. Chiusa l’eccezione, si ripristina la norma comune, sanando l’eccesso. Cossiga, Macaluso, Erri De Luca, gli unici che hanno detto cose lucide dopo la mia estradizione, parlano nel vuoto come profeti nel deserto».

Sergio Segio ha accusato Oreste Scalzone di aver fatto mancare, in questi anni, un’esplicita dissociazione. Scalzone gli ha risposto «non ho niente da cui dissociarmi». Lei come considera la questione della dissociazione?
«Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà. Mi ricorda una frase di Kundera rivolta a coloro che per un po’ dì di futuro hanno venduto il loro passato. La dissociazione è stata uno dei prodotti più velenosi dell’emergenza. Non punisce il passato del militante – i reati commessi – ma il presente carcerario, le sue opinioni. Risultato: Paolo Maurizio Ferrari, condannato per reati associativi è in galera da 28 anni. Segio, reo confesso di numerosi omicidi, è in libertà».

Persichetti, come le pare la sinistra politica italiana?
«Ha navigato a vista, fatto giravolte, cambiato giacca, eleggendo di volta in volta nemici di turno – Andreotti o Craxi – per finire sempre per mangiare nel piatto dove sputava. Il craxismo è diventato parte integrante della cultura della maggioranza diessina. Hanno cavalcato il giustizialismo, senza accorgersi che apriva la strada all’egemonia berlusconiana».

I girotondi?
«La manifestazione del 14 settembre è stata un frullato d’istanze confuse e stati d’animo fugaci. Nanni Moretti è un berluschino in sedicesimo, anche lui ricorre alle proprie risorse aziendali per fare politica. Dov’è la differenza, se non nelle proporzioni?».

In definita, prende le distanze oggi dall’uso della violenza come strumento di lotta politica? Di recente ha criticato il “dogmatismo non violento” di certi no-global…
«Ma di quale violenza si sta parlando? A differenza dei loro maestri non violenti – Ghandi e Thoreau – i no-global condannano la violenza dei deboli che bruciano cassonetti, ma non hanno il coraggio di disobbedire ai veri divieti dei forti».

L’intervista è finita. Paolo Persichetti è un uomo «in cattività», dunque torna in cella. Vuole dire, infine, qualcosa alla vedova del generale Giorgieri, assassinato il 20 marzo 1987 da un comando delle Br-Udcc, «ho apprezzato la misura mostrata dalla signora Giorgieri. Chi soffre merita rispetto e del rispetto fa parte il pudore di non disturbare. Quanto al dialogo, è prerogativa di chi è libero. Io in questo momento posso solo esercitarmi con le quattro mura che mi circondano».

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I Ravveduti
Segio: “La mia rivoluzione era un pranzo di gala”
La Prima linea, il film che vorrebbe seppellire gli anni 70 sotto il peso del senso di colpa
L’esportazione della colpa
Segio: “Scalzone e i parigini condannino la lotta armata”
Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà”
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Sergio Segio, il narcisismo del senso di colpa
Segio e l’ideologia del ravvedimento

 





Sergio Segio, «Quanto mi rode!»

• Subject: Persichetti, o monsieur de la calomnie
• From: “Segio” <sergiosegio@libero.it>
• Date: Thu, 26 Sep 2002 15:36:02 +0200

Persichetti, o monsieur de la calomnie

di Sergio Segio
26 settembre 2002

Un po’ di storia e di verità sugli anni 70 e la detenzione politica. Ho sempre avuto un deciso fastidio per le polemiche tra “ex” e per l’autolesionistica propensione alla rissosità, così radicata nel Dna della sinistra. Ho sempre solidarizzato con chi sta in carcere, non solo per comune condizione ed esperienza, ma in quanto, parafrasando il poeta inglese John Donne, l’imprigionamento di ogni uomo mi diminuisce e mi addolora, perché sono implicato nell’umanità. D’altro canto, dalle calunnie bisogna pur difendersi. Specie se sono gratuite e non episodiche.
Paolo Persichetti, in un’intervista al quotidiano “La Stampa” del 25 settembre, dimostra e conferma di essere un calunniatore professionale. Anche ora, dalle carceri italiane, mantiene una pigra continuità con la pratica di quella esigua parte di fuoriusciti soggiornanti a Parigi che, nel corso degli anni, ha fatto della maldicenza e dell’insulto lo strumento preferito della battaglia politica. Nulla di nuovo: è l’onda lunga e triste dello stalinismo.

Calunnia, calunnia, qualcosa resterà
Per anni, nel pozzo nero delle carceri e dei “braccetti” speciali sottoposti al famigerato articolo 90, abbiamo dovuto sopportare il venticello della calunnia e del rancore che arrivava da alcuni bistrot parigini. Certo, a opera solo di una minoranza dei fuoriusciti a Parigi, una sorta di “banda dei 4”, ma assai rumorosa e petulante, dunque con qualche visibilità ed efficacia, secondo il noto motto: calunnia, calunnia, qualcosa resterà. Temo che, grazie al buco nero nella memoria collettiva e a certa compiacenza o antiche frequentazioni di qualche lobby intellettual-mediatica-salottiera per tale minoranza rumorosa, qualcosa delle reiterate campagne di disinformazione sugli anni 70 e sulla detenzione politica operate da costoro possa attecchire. Soprattutto in chi, per ragioni anagrafiche, non li ha vissuti e stante che, anche nelle assemblee del movimento, si aggirano tuttora ex colleghi o coimputati di Persichetti altrettanto e impudentemente maldicenti.

La delegittimazione della lotta armata
L’accusa che viene rivolta a me e ad altri, ma con ancora maggiore livore a Toni Negri, era ed è che «l’invenzione del concetto della dissociazione e della “delegittimazione dall’interno” della sovversione politica ha fornito – a partire dai primi anni 80 – un contributo molto più decisivo ed efficace di Sofri, e altri dirigenti di Lc, come Marco Boato ed Enrico Deaglio, nella lotta contro la sovversione politica e la lotta armata in Italia» (cfr. Il libro Il nemico inconfessabile, di Persichetti e Scalzone).
Insomma, chi in quegli anni nelle carceri italiane portava avanti il movimento della dissociazione era un traditore, al servizio di uno stato per giunta assai poco riconoscente: «Il trattamento restrittivo e vendicativo che gli [a Toni Negri] è stato riservato dopo il rientro in Italia e la sua costituzione alla giustizia nel luglio 1997, mostra una mancanza di gratitudine da parte dello Stato italiano assai notevole» continuano ironici e compiaciuti gli autori del testo citato.

Dignità e onestà intellettuale
È forte il fastidio di vedere questo livore e disprezzo rivolto a chi, come Adriano Sofri ma come lo stesso Negri, sono in carcere da tempo con una dignità, senso della responsabilità e onestà intellettuale ammirevoli ed evidentemente – letteralmente – incomprensibili a Persichetti e Scalzone. Beninteso: io non sono un sostenitore delle virtù della pena e del carcere. Tutt’altro. Penso che il carcere sia una violenza non necessaria, sempre avvilente e spesso feroce; da tempo sono impegnato anche nel volontariato penitenziario e da anni porto avanti una battaglia per provvedimenti di amnistia e indulto rivolti a tutti i reclusi. Sono però assertore del senso di responsabilità politica, che è cosa assai diversa (ben più alta e più impegnativa) di quella giuridica, e del coraggio dell’autocritica e della revisione. Facoltà queste ultime (autocritica e revisione delle analisi) che Scalzone ammette per sé (cfr. intervista a “L’Espresso” del 28 settembre 1980), ma evidentemente nega agli altri.

Prima disertori, poi censori
Detto ciò, mi pare francamente paradossale che tali accuse e contumelie arrivino da coloro che, nella logica dei movimenti rivoluzionari (e specie se si assume che negli anni 70 in Italia ci fu una sorta di “guerra civile”, come alcuni sostengono), sono da considerarsi dei disertori. Uso questo termine in senso puramente tecnico e fattuale, non certo come insulto, avendo (non in questo caso, ma certo in generale) un’alta considerazione di chi si sottrae alla logica della guerra, di classe, di religione o d’Impero che sia. Per dirla con la Cassandra di Christa Wolf: «Tra morire e uccidere, c’è una terza possibilità: vivere». Dunque, ben vengano i “disertori”, purché non si arroghino in seguito il ruolo dei giudici e dei censori dei comportamenti, delle scelte e della moralità dei prigionieri.

La collettività della Terza via e i crumiri
La mia e nostra scelta nelle carceri fu, appunto, un faticoso e doloroso percorso collettivo di ricerca di una “terza via”, di una diversa soluzione rispetto alle diserzioni individuali, al cannibalismo dei “pentiti”, al continuismo acefalo degli “irriducibili” e all’opportunismo dei “silenti”, poi lesti, come i crumiri in fabbrica, nel fruire delle conquiste collettive, legge sulla dissociazione o “Gozzini” che sia. Fu un percorso di desistenza collettiva e condivisa, nel senso proprio di decisa assieme, in assemblea: e questa mi pare differenza non da poco rispetto alla logica di sopravvivenza, di trattativa o diserzione individuale. E non perché abbia una moralità superiore, ma in quanto ha valore politico. E questo, ad esempio, è anche il motivo per cui oggi nessuno può sognarsi di riesumare la sigla di Prima linea per compiere omicidi, a differenza di quanto avviene per le Br.

Disinnescare la macchina e la logica di guerra
E questo è, veramente, il punto: l’aver “delegittimato dall’interno” la lotta armata, l’aver sciolto pubblicamente Prima linea e altre organizzazioni minori, ovvero essersi assunti la responsabilità di disinnescare la macchina e la logica di guerra che si era in precedenza costruita o accettata, è esattamente il motivo per cui oggi nessuno può più uccidere con quel nome e con quei simboli. Viceversa, il fatto che le Br non abbiano compiuto percorsi analoghi, collettivi e pubblici, contribuisce a far sì che qualcuno, oggi, si senta legittimato a usare quel “logo” per uccidere Biagi e D’Antona. Questo è il punto: la rottura di continuità, pubblica e politica, la proposta di una diversa “Linea di condotta”; che è cosa diversa dal proprio certificato penale. Questo è quanto Scalzone finge di non sapere o effettivamente non capisce.

I magistrati dell’emergenza
Del resto, il nostro percorso carcerario e politico fu fortemente e lungamente osteggiato dai magistrati dell’emergenza antiterrorismo (chi si ricorda della “lobby dei 36”?), nonché dall’apparato penitenziario. Non a caso: perché toglieva spazio e credibilità sia ai “pentiti” sia al continuismo “irriducibile” o “silenzioso” che, a sua volta, veniva usato per legittimare e perpetuare all’infinito la logica dell’emergenza e del sostanzialismo giuridico. Ma sicuramente gli avversatori più tenacemente rancorosi, aggressivi e sleali furono la parigina “banda dei 4” e, in carcere, i “pentiti di essersi pentiti”, ovvero quei militanti che avendo collaborato coi giudici e magari fatto arrestare i loro compagni, poi si “pentirono” di tale scelta e divennero i più implacabili fustigatori di ogni vero o supposto cedimento da parte di altri militanti incarcerati.

La legge sulla dissociazione e la legge Cossiga
Un percorso, quello della dissociazione, che portò infine a una legge: brutta per alcuni aspetti, ma che in ogni modo si tradusse in una sorta di indulto, che consentì l’uscita progressiva e anticipata dal carcere di migliaia di persone, a cominciare dai tantissimi giovani con scarse responsabilità penali ma gravati da condanne esorbitanti, appunto per le logiche e le leggi dell’emergenza (la “legge Cossiga” in primo luogo).
Questo io chiamo responsabilità: chi si è arrogato, o comunque obiettivamente ha avuto, un ruolo trainante nella radicalizzazione violenta del conflitto e nella scelta delle armi, a sconfitta avvenuta, après le déluge come ama dire Scalzone, non può decretare l’“ognuno per sé” o rivendicare e giustificare il “diritto al silenzio” (cfr. intervista a Scalzone su “la Repubblica” del 28 agosto 2002). Nemmeno può fingere che tutto ciò sia stato una specie di laboratorio politico, una semplice rappresentazione in vitro del conflitto: perché è stata carne e sangue, morte e carcere. E di questo bisogna dare conto ed evitare che si ripeta. Non il conflitto, beninteso: la morte e il carcere.

Responsabilità intellettuale e discorso etico
Oltre a tutto questo, appunto, vi sarebbe da fare un ragionamento sulla responsabilità anche umana e intellettuale, non solo politica; un discorso etico, non solo politico, sul rifiuto della violenza, della morte, dell’omicidio politico, sulla sofferenza delle vittime e dei familiari. Ma, in sede di polemica con quelle logiche, mi sembra veramente sprecato e, come dire?, irricevibile.
Fatto sta che è ormai ventennale la campagna di menzogna e di odio alimentata nei confronti del movimento della dissociazione e di suoi singoli esponenti. Campagna che allora diventò una legittimazione, se non una obiettiva istigazione, all’aggressione fisica nei nostri confronti.

Tentativi di omicidio
Proprio pochi giorni fa, Toni Negri ha rivelato a “Le Monde” il tentativo dei brigatisti di ucciderlo durante la sua prima detenzione. Lo stesso successe a me e ad altri nelle carceri speciali, quando istruimmo il percorso politico della dissociazione. Un movimento e un percorso, lo ripeto, collettivo; tanto che, sono costretti a riconoscere gli stessi Persichetti e Scalzone, coinvolse la «quasi totalità di Prima linea», nonché molti altri gruppi minori, pezzi dell’Autonomia e del movimento e tanti singoli, anche delle Br.
Percorso politico, dunque. Che è cosa ben diversa dal «firmare lettere di dissociazione», come dice Scalzone. Percorso politico significa conflitto e mediazione. E questo è stato. Perché l’indulto e l’amnistia, le soluzioni di libertà non basta invocarle. E tanto più dai bistrot o solo per sé. Bisogna contribuire politicamente a renderle possibili. Anche assumendo le responsabilità politiche che competono a ciascuno, in misura maggiore o minore a seconda delle scelte compiute ma anche dei ruoli avuti.

L’innocenza meschina del casellario giudiziario
A questo argomento, Scalzone usa eccepire che non gli vengono contestati omicidi o reati di sangue (cfr. l’intervista a “la Repubblica” già citata). In sostanza rivendica quell’innocenza «che attiene al casellario giudiziario» e che lui stesso definì «meschina» qualche lustro fa (in “Synopsis”, numero speciale del 24 marzo 1984). In ciò mostrando una cocciuta indisponibilità a considerare (a comprendere?) il concetto di responsabilità politica, e non solo penale, rispetto a quegli anni e quegli avvenimenti. Anche questo è paradossale, perché somiglia da vicino alla logica con cui gran parte dei magistrati di quegli anni si rifiutavano di considerare altro che la responsabilità penale, in uno schema binario colpevole/innocente, senza alcuno spazio per la motivazione politica e il contesto storico e sociale di quegli avvenimenti.

Il passato e il futuro, la dignità e la libertà
Su “La Stampa” Persichetti cita Kundera, peraltro con la medesima frase che apre un capitolo del libro scritto con Scalzone. A entrambi, propongo allora questo brano dello stesso autore: «Il muro dietro il quale erano imprigionati uomini e donne era interamente tappezzato di versi, e davanti a quel muro si danzava. Ah no, non una danza macabra. Lì danzava l’innocenza! L’innocenza col suo sorriso insanguinato» (Milan Kundera, La vita è altrove).
È l’innocenza, meschina appunto, non la poesia che ha danzato in questi anni fuori da quelle mura dietro e dentro di cui noi, uomini e donne imprigionati per la sanguinosa utopia cui abbiamo partecipato, vivevamo, morivamo e intanto costruivamo percorsi autocritici, collettivi e dignitosi di libertà e di futuro, prospettive di nuovo impegno sociale in cui, in effetti e per davvero, ora molti di noi sono collocati e attivi.
Infine, e tornando ai veleni di Persichetti («Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà. Mi ricorda una frase di Kundera rivolta a coloro che per un po’ di futuro hanno venduto il loro passato», «Segio, reo confesso di numerosi omicidi, è in libertà»): vorrei tranquillizzarlo. Non ho sottoscritto alcuna cambiale, sono abituato a pagare sempre i miei debiti (e talvolta anche quelli non miei), ma in contanti, di persona e senza elemosinare sconti. Sono ancora sottoposto a misure di restrizione della libertà, pur se dopo 20 anni di carcere la mia condanna sta quasi finendo. So che i tribunali e le carceri del popolo brigatiste hanno pene più severe, ma grazie al cielo non sono sottoposto alla loro giurisdizione. Ho avuto accesso alle misure alternative solo in seguito a un lungo sciopero della fame e grazie alla forte solidarietà di tante persone che in quell’occasione mi hanno sostenuto. Ciò a differenza di tutti gli altri detenuti nelle mie medesime condizioni e con le mie stesse condanne, e a differenza di tantissimi altri detenuti politici non-dissociati, che invece hanno avuto regolare e giusto accesso alle misure alternative allorché si sono trovati nelle condizioni previste. Sono praticamente l’ultimo militante di Pl ancora sottoposto a limitazioni della libertà e a frequentissimi controlli della polizia. Ho avuto il lavoro all’esterno (cd. “articolo 21”), con piantonamento e accompagnamento degli agenti penitenziari, credo caso unico in Italia; poi ho avuto la semilibertà con un trattamento ancor più restrittivo dell’articolo 21.

La strada, l’impegno sociale e i no global
Stante che i reati da me compiuti sono, per propria natura, non individuali i casi sono solo tre: o, come dicono Scalzone e Persichetti per Toni Negri, lo stato non ha mostrato grande gratitudine per il mio “servizio”, a differenza di tutti i miei coimputati e co-dissociati; o io non sono molto bravo a vendermi; o, più semplicemente e veridicamente, non ho mai barattato il passato per il futuro, conservando dolorosa memoria del primo e non rinunciando a pensare in termini collettivi il secondo (del resto, solo uno sciocco può assumere il passato, e l’identità, come materia inerte e immobile). E non rinunciando a lavorare dentro il presente, assieme ai tanti senza futuro e senza diritti con cui ho continuato in questi anni l’impegno sociale. Nelle strade, dentro e fuori le carceri, tra tossici e poveri di varia natura, non nelle università.
Forse sarà per questo che ancora non ho finito la mia pena. Certo è per questa fondamentale differenza che Persichetti non può capire ciò di cui sto parlando. Forse è proprio per tutto ciò che Persichetti arriva a concludere l’intervista su “La Stampa” dicendo che «i no global condannano la violenza dei deboli che bruciano i cassonetti, ma non hanno il coraggio di disobbedire ai veri divieti dei forti». Se non altro, nel disprezzo di Persichetti mi trovo in buona compagnia: assieme alle centinaia di migliaia di donne e uomini che da Genova e ancor prima stanno sognando e costruendo un mondo diverso. Senza ingiustizie, e possibilmente senza calunniatori.

Link
Segio: “La mia rivoluzione era un pranzo di gala”
Miccia corta e cervello pure
La Prima linea, il film che vorrebbe seppellire gli anni 70 sotto il peso del senso di colpa

L’esportazione della colpa
Sergio Segio detta l’autocrita, «Scalzone e i parigini condannino la lotta armata»
Paolo Persichetti, «
Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà»

Scalzone, «Caro Segio, non c’ è nulla da cui mi devo dissociare»
Sergio Segio, il narcisismo del senso di colpa
Segio e l’ideologia del ravvedimento
I ravveduti
Il Merlo, il dissociato e il fuoriuscito

 

Oreste Scalzone: «Caro Segio, non c’ è nulla da cui mi devo dissociare»

Oreste Scalzone: «Caro Segio, non c’è nulla da cui mi devo dissociare»

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Fabrizio Ravelli
Repubblica, 28 agosto 2002

PARIGI – «Nessuno, né un pentito né un magistrato, mi ha mai accusato di essere coinvolto in omicidi politici. Di averli eseguiti o di esserne stato il mandante, o di aver fatto parte di organizzazioni clandestine. Io sono sempre stato contrario all’omicidio politico, e Sergio Segio lo sa bene. E allora perché e di che cosa avrei il dovere etico di fare autocritica?».
Seduto al tavolino di uno scalcinato caffè berbero vicino al Beaubourg, Oreste Scalzone risponde alla sfida lanciata dall’ ex-terrorista dissociato. Magrissimo, male in arnese, torrentizio e acuto: Scalzone dopo 21 anni di esilio in Francia («Quasi ottomila pomeriggi, un pozzo senza fondo») respinge al mittente le richieste di dissociazione.
Dopo l’ estradizione di Persichetti forse la comunità dei rifugiati italiani a Parigi corre qualche rischio. Segio vi chiede una posizione chiara sulla violenza politica. Visto che non l’avete mai fatto. «Guardi, a me gli amici mi hanno sempre rimproverato di essere troppo buono e un po’ fregnone. Adesso mi arrendo, provo a dare una risposta cattiva. Sfido Segio a dire quali sono state le mie posizioni in materia di omicidio politico, di clandestinità, di forma guerrigliera. Lo autorizzo a dire qualsiasi cosa, anche di rilevanza penale. Se poi vuole può anche dire se è vero o no che ero percepito come uno che nella sfera militare era troppo liberale, non settario, uno che non sapeva picchiare il can che affoga. Un vecchio gauchista, che finiva per fare il pompiere. Per noi di Potere operaio, l’omicidio politico era arcaico: una forma di tirannicidio che non può essere un dovere etico, quando un tiranno personale non c’ è più. E io che sia legittimo giustiziare per punire, lo dica un lottarmatista o un dipietrista, non l’ho mai creduto».
Parliamo della comunità parigina, di cui lei è il «sindacalista». «I parigini non mi hanno mai dato una delega a rappresentarli. Sono un insieme variegato e atipico di persone, e pochissimi sono d’ accordo con me. Non sono miei proseliti. Non siamo un gruppo. Siamo uniti non da un’affinità elettiva, ma da una condizione materiale. Quel che rivendico, è la mia voce. Su 84 arresti, con pochi compagni a me affini, abbiamo fatto 84 campagne: Scalzone c’è, perché è l’ espressione di quei pochi che hanno difeso tutti».
Resta il fatto che da questa comunità, dice Segio, una ripulsa chiara della lotta armata non è venuta. «Davvero non so di che cosa parli. La maggior parte dei parigini ha firmato come lui e con lui lettere di dissociazione, fin dal 1987. La violenza l’hanno condannata come lui. Quelli dell’Autonomia hanno scelto una dissociazione dichiarandosi innocenti, e non confessando come Segio. Ma sono faccende fra loro». E gli ex-brigatisti? «Se ce ne sono di clandestini, a Parigi, io non lo so. Quelli che conosco, e che magari hanno degli ergastoli, sono più moderati di me. Non è gente che parli di politica tacendo sulla violenza. No, vogliono starsene zitti e basta. Cosa si dovrebbe fare, secondo Segio, stanarli o contestare il loro silenzio? Ma forse ce l’ ha proprio con me e Persichetti». Vi accusa di aver prodotto soprattutto giudizi ingenerosi e calunniosi su quel che accadeva in Italia: da Genova ai girotondi. «Abbiamo scritto due lettere aperte alle tute bianche e ai cosiddetti black bloc, prima di Genova. Ai casseurs, che non sentiamo il problema etico di condannare, dicevamo: non andate a Genova a fare le comparse, i cascatori della recita. Alle tute bianche di Casarini, invece: non buttate olio sul fuoco, gettate le armi di cartapesta o finirà in una frittata di fragole e sangue. Forse portiamo scalogna. Ma che c’entra con la questione dell’omicidio politico?». C’entra con la violenza. Cosa ne pensa? «Io non ho il dono della nonviolenza, ma riconosco la superiorità etica della nonviolenza assoluta rispetto alla guerriglia speculare al potere. Però cerco di essere coerente. Trovo che le bombe di Hamas non siano migliori di quelle di piazza Fontana. Per me è stragismo anche mandare un ragazzo kamikaze ad ammazzare coetanei. Non so come la pensino Agnoletto o Casarini. So che molti dicono che in quel caso la colpa è del colonialista. Io credo che ci siano mezzi che nessun fine giustifica. Peraltro non siamo d’accordo neanche sui fini. Loro sono giacobini, io comunista libertario». Le daranno del filoisraeliano. «Me ne hanno date di tutte, nessun problema. Io sarò anche uno stracciaculo, ma nessuno mi farà sentire in colpa per esser nato a Terni invece che a Gaza. Mi difendo i brigatisti miei e i miei casseurs, e non credo al valore della punizione. E mi fanno schifo quelli che brinderebbero sapendo che Berlusconi ha un cancro. Gli stessi che vorrebbero dettarmi la mia autocritica. Anzi, che vorrebbero la scrivessi da solo, come dev’ essere secondo loro».

Per approfondire
Miccia corta e cervello pure

Segio: “La mia rivoluzione era un pranzo di gala”
La Prima linea, il film che vorrebbe seppellire gli anni 70 sotto il peso del senso di colpa
L’esportazione della colpa
Sergio Segio: “Scalzone e i parigini condannino la lotta armata”
Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà”

“Monsieur de la calomnie”
Scalzone: “Caro Segio, non c’ è nulla da cui mi devo dissociare”
Sergio Segio, il narcisismo del senso di colpa
Segio e l’ideologia del ravvedimento
I ravveduti
Il Merlo, il dissociato e il fuoriuscito

 

 

Sergio Segio, ovvero il narcisismo del senso di colpa

Il continuo protagonismo di Sergio Segio, l’occupazione sistematica della scena, esprimono nella sua personalità infetta il bisogno di colmare, attraverso la testimonianza di una esemplarità rinfacciata agli altri, la purulenta piaga narcisistica della propria dissociazione

Il suo discorso sugli anni 70 contiene un vizio teologico che ha integrato il senso di colpa come motore della storia, proponendo una visione confessionale ed espiativa della politica, condita di scomuniche, inquisizioni e autodafé.
Il continuo protagonismo di Segio, l’occupazione sistematica della scena, l’interpretazione perenne di un ruolo compunto e contrito, la recita continua del Pater libera nos a malo, oltre ad essere istigato e gradito da alcuni particolari centri editorial-emergenziali, come Repubblica, da correnti di pensiero eredi di un azionismo che ha sempre creduto di poter esercitare un magistero etico, una superiorità morale nonostante i mille voltafaccia esistenziali, dall’orbace all’aggiotaggio passando per via Veneto, probabilmente risponde al bisogno di colmare attraverso la testimonianza di una esemplarità rinfacciata agli altri, la purulenta piaga narcisistica della propria dissociazione.

Link

La Prima linea, il film che vorrebbe seppellire gli anni 70 sotto il peso del senso di colpa
L’esportazione della colpa (1)
Sergio Segio: “Scalzone e i parigini condannino la lotta armata” (2)
Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà” (3)
“Monsieur de la calomnie” (4)
Scalzone: “Caro Segio, non c’ è nulla da cui mi devo dissociare” (5)
Sergio Segio, il narcisismo del senso di colpa (6)
Segio e l’ideologia del ravvedimento (7)
I ravveduti
Il Merlo, il dissociato e il fuoriuscito



Sergio Segio, ovvero l’ideologia del ravvedimento

Libri – stralci da Esilio e Castigo di Paolo Persichetti, La città del sole edizioni 2005, capitolo XII

L’ideologia del ravvedimento

Qualche tempo dopo l’uccisione di Massimo D’Antona da parte delle Ncc che a partire da quell’episodio recuperarono la sigla – da tempo consegnata alla storia – delle Br pccc, la redazione del Manifesto promosse una tavola rotonda alla quale vennero invitati, per fornire una risposta pubblica agli autori dell’attentato, Mario Moretti insieme a Prospero Gallinari e Piero Bertolazzi, membri del nucleo storico delle Brigate rosse. In quella circostanza i tre, oltre a ricordare il mutato contesto sociale e la decisiva discontinuità con l’epoca precedente, spiegarono come la lotta armata fosse già largamente in crisi nei primi anni 80, ma che «fu la dissociazione che impedì all’epoca una riflessione seria». Benché inizialmente contrastata dagli ambienti più ottusi dell’emergenza, che concepivano l’antiterrorismo unicamente come confronto militare, l’operazione dissociazione fu presto recepita e appoggiata da quei settori più avvertiti dello Stato, proprio per sferzare un decisivo colpo politico contro i movimenti sovversivi. Il suo effetto su un’area politica in piena crisi si rivelò devastante, poiché sanzionava qualunque approccio critico al bilancio della lotta armata che mantenesse fermi e chiari dei requisiti d’autonomia e indipendenza e che, in ultima istanza, non risultasse recuperabile dall’antiterrorismo. Tolse così ai prigionieri rinchiusi nelle carceri speciali ogni residuo spazio di riflessione poiché immediatamente percepito come una forma di cedimento.
Quell’incontro non piacque affatto a Sergio Segio, anzi deve essergli andato decisamente di traverso, se è vero che ne parla ancora nel suo libro, Miccia corta. Una storia di Prima linea, DeriveApprodi, 2005. Alla fine del testo, vengono infatti riprodotti diversi materiali d’epoca, tra cui un articolo apparso sulla Repubblica del 1 luglio 1999. Insieme a Susanna Ronconi e Cecco Bellosi, Segio vi critica la mancata «assunzione dell’errore politico e di un’etica della responsabilità» da parte dei tre brigatisti che avevano preso parte al dibattito. Gli argomenti che lì vengono esposti ruotano però attorno ad una insanabile aporia, ovvero un ragionamento ad imbuto secondo il quale non può aversi analisi critica e autocritica degli anni 70 senza approdare alla dissociazione, cioè iscrivendo la propria riflessione all’interno di un dispositivo statuale che ne legittimi la valenza etica e politica, ricevendo in cambio cospicui sconti di pena e vantaggi penitenziari di natura premiale e differenziale. Tant’è che Segio e colleghi, poche righe dopo, definiscono la dissociazione: «l’unico percorso collettivo dei detenuti per gli anni settanta».

Ma che cosa è stata la dissociazione?
Piuttosto che un’etica della responsabilità – come suggerisce Segio – qualcuno, in realtà, potrebbe intravedervi l’assenza assoluta d’etica e morale, ovvero un atteggiamento di mero opportunismo, un comportamento tipicamente anetico. Il problema però non è quello del processo alle intenzioni, quanto l’assunto concettuale. La dissociazione non è stata un gesto equanime dello Stato nei confronti dei suoi nemici sconfitti, ma un proseguimento dello scontro. Un diritto di guerra, una clemenza concessa al nemico in cambio della sua sottomissione, un passaggio alla guerra civile fredda per completare quella calda. La dissociazione è stata la forma moderna del “processo connivenza”, grazie al quale l’impiego della convenzione giuridica si è trasformata da strumento di difesa a mezzo per la contrattazione e lo scambio politico. Una scelta priva di libero arbitrio poiché direttamente legata alla necessità di un riconoscimento da parte dell’autorità giudiziaria e penitenziaria. Non solo, ma come in ogni forma di rendita parassitaria, essa ha tratto e trae senso e forza contrattuale solo dal protrarsi (reale o fittizio) del fenomeno da cui ha preso cinicamente le distanze: “la lotta armata per il comunismo”. Per questo è un qualcosa d’assolutamente opposto al divenire politico del fenomeno stesso, al suo approdare altrove, al suo oltrepassarsi attraverso un tragitto sottratto a qualsiasi forma di connivenza, intelligenza o compiacenza col potere. L’effetto finale che un tale dispositivo ha introdotto è stato quello di trasformare l’intero arco della punizione in un processo permanente, rivolto a dei parametri soggettivi che si insinuano nella coscienza del singolo prigioniero o militante, soppesandone le idee, la visione del mondo, le intenzioni (spesso supposte o attribuite). In effetti, la dissociazione ha contribuito a riportare in auge quella vecchia tipologia d’autore che, soffermandosi sull’identità del soggetto, trasforma quest’aspetto nel vero oggetto della sanzione finale. Non si resta più imprigionati per delle responsabilità che molti anni prima una corte di giustizia ha ritenuto di poter individuare, ma per quello che si è o si è diventati e che non piace al singolo arbitrario giudizio di un giudice, o di un collegio di magistrati, divenuti i sovrani assoluti di ciò che è legittimo e corretto pensare.
Negli anni passati non si è mai voluto seriamente riflettere sui danni giuridici e sullo sfarinamento della cultura critica che l’assunzione del modello dissociativo ha contribuito a diffondere, facendo della repentance un paradigma sempre più alla moda, insieme alla delegittimazione della radicalità, alla mistificazione della storia. Dispositivo infido, poiché non opera minimamente il superamento filosofico del problema, ma unicamente un’esportazione della responsabilità altrove.

La dissociazione dalla lotta armata
Nella dissociazione ostentata da Segio s’intravede la rivendicazione di una sorta di primato: l’aver in precedenza commesso l’errore giusto, distinto dall’errore ingiusto che egli ritualmente annovera tra i brigatisti, ed in seguito l’aver ripudiato nel modo più giusto, la giustezza dell’errore passato. Ne emerge un desiderio di primazìa etica, una sorta d’eccellenza assoluta che, al di là delle stagioni della vita, resta sempre la stessa, immutata. Per il personaggio l’importante è mantenere, quali che siano state le posture, le pieghe, gli inchini, i valzer, i veri e propri strisciamenti assunti nel tempo, l’ambìto status di persona non comune che un tempo si diceva persino comunista. In fondo, chi sfoggia biasimo per se stesso, più che umiltà esprime una giubilazione del negativo. Come spiegava Nietzsche, chi disprezza se stesso continua pur sempre ad apprezzarsi come disprezzatore. Vittima dunque o piuttosto infermo dell’ipertrofia di un super-io, il cui crollo ha provocato la messa in scena del lamento, della derelizione e del risentimento.
[…]
Infine, da non dimenticare, la pittoresca posizione della caleidoscopica area piellina e dintorni: i poeti armati, l’esercito scapigliato, la tribù del “mucchio selvaggio”, gli sturm und drang del settantasette nostrano, come essi stessi amano tanto dipingersi. Bohémiens e cultori del calibro ben oliato, militaristi ma anche sognatori impazienti, adepti del carpe diem, «i nostri attimi sono eterni e ci ripagano di tutto». Quelli del nonostante tutto, fiori appassiti più che fiori del male, maledetti mancati ma redenti riusciti. Quelli che narrano di se l’appartenenza «al novero dei destinati alla sconfitta, che non scelgono l’esilio ma di andare sino in fondo, pagando quel che bisogna pagare al sogno a lungo coltivato». Esteti del combattimento, ma anche «anime capaci di tenerezza» che sceglievano «di morire non nella lenta emorragia della vita ma di fretta, senza risparmio, come candele accese dai due lati[…] non per malattia del corpo ma per quella della coerenza, per un’inguaribile infezione dell’anima». Anche se poi a morire non toccava sempre a loro, ma che importa, quel che conta era il rimirar la poesia del gesto, la metrica dell’intenzione, lasciandosi trasportare, inebriati da bottiglie di Veuve Cliquot e Brut valdo, da quell’eroico «andar incontro alla bella morte» di saloina memoria, cercando di recitare un ingiallito copione dannunziano ma con l’inevitabile lieto fine holliwoodiano, che li ha visti inesorabilmente condannati a vivere ravveduti e contenti.
[…]
Anche per Prima linea, o quanto meno secondo l’opinione di quello che fu un loro capo, si ripropone più che mai lo schema binario. Come degli Enrico Toti di massa lanciati all’assalto dalle affollate trincee del movimento, condivise con creativi, libertari, anarchici, femministe e quant’altro, essi si auto-rappresentavano come «la linea di combattimento più avanzata» di quel vasto schieramento. Fuori restavano soltanto le tanto odiate, quanto imitate, Brigate rosse. Ma la memoria e la storia successiva non ne hanno tenuto conto, oscurando l’impresa dell’armata brancaleone, almeno così lamenta Segio con grande disappunto (una volta tanto gli si può dar ragione. In termini relativi, ovvero proporzionali alla durata del gruppo, 1976-1981, pari a meno di un terzo della vita della famiglia brigatista, Prima linea ha avuto un numero superiore di militanti inquisiti), spiegando ciò come l’ennesimo malefico frutto del brigatismo, troppo speculare ai suoi avversari nel modo di pensare e concepire il potere e quindi da questi meglio riconoscibile. Magari, però, ad averli messi in ombra non è stata solo la vicenda Moro e l‘effetto dirompente che essa ha avuto nell’immaginario nazionale, ma anche la storia della dissociazione, nata come un’operazione di smarcamento proprio dalle Brigate rosse, designate così – non solo dall’avversario – come interpreti assolute e nefaste della lotta armata. Ma «l’eresia comporta il non avere patria e chiese» , chiosa in fine Segio in Miccia corta, col tono un po’ depresso di chi è consapevole della propria sfiga. Ma che eretico è chi si concede all’abbraccio dell’inquisitore, fino ad indossare l’abito domenicano del sacro censore? Apostata ma convertito, apatride ma nazionalizzato, eretico ma ravveduto, egli appare sempre in bilico, consumato dall’eterno dilemma del “vorrei ma non posso”.

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Segio: “La mia rivoluzione era un pranzo di gala”
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Sergio Segio, il narcisismo del senso di colpa
Segio e l’ideologia del ravvedimento
I ravveduti
Il Merlo, il dissociato e il fuoriuscito


Sergio Segio: Miccia corta e cervello pure

Libri pattumiera: la stucchevole elegia autocelebrativa in salsa dannunziana propinata da Sergio Segio in, Miccia corta, Una storia di Prima linea, DeriveApprodi, 2005

Paolo Persichetti
23 maggio 2005

Con uno stile che a tratti cerca di imitare la moda gauchiste del noir, Segio copertina-miccia-corta1 narra in forma d’epopea l’evasione organizzata, il 3 gennaio 1982, dal carcere di Rovigo. In realtà il testo è un pastiche di generi diversi: si apre con una lunga introduzione “precauzionale” (non sia mai che il magistrato di sorveglianza si arrabbi), nella quale si avverte il lettore che i fatti raccontati non implicano il tragitto successivo del protagonista, ravvedutosi ampiamente delle sue gesta precedenti. Dopo aver recitato la penitenza l’autore finalmente si avventura nel racconto dell’assalto portato alle mura del carcere. Episodio narrato, almeno nelle intenzioni iniziali, col punto di vista di chi vorrebbe riprodurre parole, sentimenti, emozioni dell’epoca; quelle integrali e genuine, non quelle filtrate e deformate dalla memoria. In realtà, l’artificio letterario ricercato non riesce. La sequenza della giornata è intercalata da lunghi e noiosi intermezzi che diventano veri e propri excursus sulla nascita e la storia di Prima Linea, proposti dall’io narrante insieme ad altre riflessioni e considerazioni che svariano nel tempo, celando malamente il senno (?!) del poi spacciato per l’avvedutezza del prima. Ove mai nel frattempo qualcuno avesse frainteso le intenzioni di un racconto fin troppo compiaciuto sull’evasione, o l’incedere minuzioso di lunghi passaggi sull’armamento, i vari calibri ben oliati, le loro caratteristiche, gli usi possibili e consigliabili, nonché i riferimenti alle marche di champagne e ristoranti alla moda che sembrano anticipare gli anni della Milano de bere, il volume si conclude con un apparato di lettere e articoli che descrivono il percorso politico successivo alla cattura, per ricordare l’esperienza carceraria che condusse alla creazione delle «aree omogenee», al mutato giudizio sul passato, a quell’autocritica degli altri che prese il nome di «dissociazione della lotta armata». Nonostante, in quel 1982, Segio avesse maturato la convinzione del fallimento della lotta armata, egli si racconta avvinto da un ineluttabile destino: «non c’è salvezza possibile per chi ha sognato di cambiare il mondo». Inanellando una serie impressionate di goffe citazioni scapigliate, fa torto a quella generazione che gli fu accanto nel lottare e che trascina nel «novero dei destinati alla sconfitta, che non scelgono l’esilio ma di andare sino in fondo, pagando quel che bisogna pagare al sogno a lungo coltivato». Come immerso nella recita di un consunto copione dannunziano, raffigura se stesso e i suoi compagni avvolti in un’atmosfera d’estetismo combattente, «anime capaci di tenerezza» che sceglievano «di morire non nella lenta emorragia della vita ma di fretta, senza risparmio, come candele accese dai due lati[…] non per malattia del corpo ma per quella della coerenza, per un’inguaribile infezione dell’anima». Poeti armati, esercito scapigliato, tribù del “mucchio selvaggio”, novelli sturm und drang del settantasette nostrano, sognatori impazienti, adepti del carpe diem. «I nostri attimi sono eterni e ci ripagano di tutto», quelli del nonostante tutto, fiori appassiti più che fiori del male, maledetti mancati ma redenti riusciti. Le parole incedono al rimirar la poesia del gesto, la metrica dell’intenzione che conduceva ad un eroico «andar incontro alla bella morte» di saloina memoria. A metà tra l’imitazione di Marinetti e quella del Vittoriale, non manca persino il lieto fine holliwoodiano che condanna i protagonisti a vivere finalmente ravveduti e contenti. Al di là di tutto, il libro una sua utilità la conserva comunque, poiché consente di comprendere meglio l’intimità corrotta della dissociazione e dei suoi personaggi di maggiore spicco, i suoi aspetti reconditi, un certo malanimo, la molta falsa coscienza. Esemplare il risentimento schiumoso verso quei militanti che hanno sempre criticato il modello dissociativo. Forse è la prima volta che uno dei maggiori esponenti di quel movimento-istituzione, che fu appunto la dissociazione della lotta armata, affronta apertamente un tentativo di ricostruzione di quel percorso. Il tentativo c’è stato. La ricostruzione un po’ meno. La storia può attendere.

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