Milei usa l’estradizione di Bertulazzi per riabilitare la dittatura

Leonardo Bertulazzi nell’atelier di liutaio dove lavorava prima di essere arrestato e sottoposto a procedura di estradizione

La mattina di lunedì 16 luglio è stato esaminato davanti la corte suprema federale di cassazione argentina il ricorso presentato dalla difesa di Bertulazzi contro il nuovo arresto eseguito dopo il parere favorevole alla estradizione concesso dalla corte suprema di giustizia. La corte si è riservata e la decisione finale verrà comunicata nei prossimi giorni.
In precedenza sempre la corte di cassazione aveva annullato la sua incarcerazione, concedendo la misura dei domiciliari, perché il ricorso presentato contro la revoca dello status di rifugiato politico, riconosciutogli nel 2024, sospendeva l’effetto della decisione unilaterale intrapresa del governo fascista di Javier Milei. L’avvocato di Bertulazi, Rodolfo Yanzón, ha ribadito che nonostante il parere favorevole concesso alla estradizione: «Bertulazzi continua ad avere lo status di rifugiato presso le Nazioni Unite, poiché è pendente un causa presso il tribunale amministrativo su questa questione». E la corte suprema è stata molto chiara sul punto: l’estradizione non può essere materializzata finché non verrà chiarita in modo definitivo la questione del rifugio. Milei ha introdotto una nuova legge su misura che impedisce di concedere protezione alle persone implicate in reati di terrorismo (anche se il sequestro dell’armatore Costa per cui è stato condannato Bwrtulazzi non lo è perché realizzato prima dell’introduzioni delle aggravanti speciali antiterrorismo). Norma antiBertulazzi che tuttavia non ha valore retroattivo e non può incidere su una decisone presa ventuno anni prima.

Estradare Bertulazzi per riabilitare la dittatura
Nei giorni scorsi, prima la ministra della sicurezza nazionale, Patricia Bullrich, e successivamente Maria Florencia Zicavo, capo gabinetto del ministero della Giustizia argentino e responsabile della Commissione nazionale per i rifugiati (Conare), oltre a rilanciare la menzogna sul ruolo «importante che Bertulazzi avrebbe avuto nell’operazione che portò al rapimento e al successivo omicidio di Aldo Moro», nonostante in quel momento si trovasse nelle carceri italiane da quasi un anno, fake agitato con forza nello spazio pubblico argentino per rafforzare il dossier fragile che sostiene le ragioni della estradizione, hanno proposto un ribaltamento del giudizio storico sul recente passato dittatoriale argentino.
L’estradizione di Bertulazzi fa parte di una più generale riscrittura e cancellazione della storia e dei crimini della dittatura, all’interno della quale i soli colpevoli e responsabili diventano gli oppositori, coloro che hanno combattuto la dittatura e da questa sono stati perseguitati: ex prigionieri politici, i militanti assassinati, le migliaia di desaparecidos, i minori rapiti e adottati dalle famiglie dei militari del regime. L’operazione Bertulazzi serve ad aprire una prima breccia, ribaltando la responsabilità della violenza e dei crimini attribuendola a chi provò ad opporsi alla dittatura o nemmeno fece in tempo a farlo. Un po’ come se oggi in Italia il governo Meloni iniziasse a dare la caccia ai superstiti ancora in vita della resistenza antifascista.

Il gioco delle tre carte
D fronte a questa operazione la sinistra italiana, il Pd, i «democratici», tacciono, fanno finta di non sentire o capire, per soddisfare la pretesa punitiva della giustizia dell’emergenza di cui sono stati i padrini. La procura genovese in mano a giudici di Md, si è portata garante davanti alla giustizia argentina sulla possibilità che una volta in Italia Bertulazzi possa essere riprocessato nuovamente, e giudicato stavolta correttamente, correggendo le pesanti e inique condanne ricevute all’epoca (leggere l’intervista di Mario Di Vito del manifesto). Una bella promessa che purtroppo non è una garanzia poiché la legge italiana dice altro, prevede solo 30 giorni per fare la richiesta di riapertura del processo, ma poi sarà la corte d’appello a decidere. E l’intera giurisprudenza passata ci dice che una cosa del genere non è mai avvenuta. Addirittura in alcuni casi analoghi i giudici hanno fatto partire il conteggio dei trenta giorni non dal momento della riconsegna all’Italia dell’estradato ma da quando questi avrebbe avuto notizia ufficiale delle condanne pendenti. Ovvero in questo caso oltre venti anni fa, quando la giustizia argentina decise di non estradarlo perché condannato in contumacia.
Il sistema giudiziario italiano non ha mai voluto rimettere in discussione i processi di quegli anni. E così la nuova destra argentina oggi al potere potrà sbiancare la storia della dittatura sulla pelle dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi con la complicità delle anime bella della sinistra italiana.

Il caso Bertulazzi

Genova solidale contro l’estradizione di Leonardo Bertulazzi


di Leonardo Bertulazzi

Ci sono stati tempi in cui la prigione non è stata l’unico modo per epurare una condanna. L’esilio è stato per molti secoli il destino imposto ai trasgressori. Si considerava l’esilio, lo sradicamento come una pena, una pena senza ritorno, una rottura totale del corso della vita di una persona tra un prima nella propria terra, la terra della sua famiglia, e un dopo tutto da costruire, senza l’aiuto dei codici che la vita, relazioni e conoscenze di prima avevano sedimentato.
Questa rottura, questa separazione dell’albero dalle sue radici vive nel senso degli esiliati come una pietra miliare cruciale che segna il profondo della loro coscienza in modo più o meno doloroso, ma sempre presente. L’esilio è sempre stato considerato una pena, una punizione.
Nel 1951 con la convenzione di Ginevra i paesi del mondo hanno sottoscritto l’impegno di promuovere la protezione degli stranieri in cerca di un rifugio.
Ciò che nella convenzione di Ginevra spicca come impegno inderogabile è il principio di “Non Refoulement”: una volta che un paese riconosce un espatriato come rifugiato, offrendogli la sua protezione, si impegna a non mancare alla parola data, a non riportarlo nel paese in cui è in pericolo. Dare asilo significa dire: “Qui sei al sicuro. Qui puoi rifarti la vita».
La convenzione di Ginevra sancisce nel principio del “non refoulement” una prova che era già iscritta nella coscienza collettiva come espressione del valore della parola data, del dovere di uno stato di rispettare i suoi impegni e di non giocare con la vita delle persone e dei profughi, trasformandoli in moneta di scambio per gli affari tra paesi.
Il paese che concede la sua protezione a uno straniero lo mette in condizione di vivere nel suo territorio e nella sua società, dove porterà il granello di sabbia del suo lavoro, attività e relazioni umane.
Ecco perché il caso di Leonardo Bertulazzi fa così male. È arrivato 23 anni fa, ha lavorato, ha formato una casa, è invecchiato in pace. Oggi, a 73 anni, è in prigione e potrebbe essere estradato. Lo stesso paese che lo ha ospitato sembra disposto a cederlo, anche se il suo status di rifugiato è ancora in vigore.
Per giustificare il colpo di scena, viene dipinto come un “assassino”. Falso: mai è stato accusato o condannato per crimini di sangue. La cosa inquietante è vedere uno Stato cedere alle pressioni esterne e dimenticare la sua parola, lasciando un rifugiato alla mercé di coloro che lo hanno perseguitato.
Il “non-refoulement” o non-refoulement non è lettera piccola, è il muro che protegge le vite dalla diplomazia delle convenienze. Se lo abbattiamo, non tradiamo solo Leonardo: infrangiamo la fiducia in tutto il sistema di protezione internazionale.
Il caso Bertulazzi non è un altro dossier. È la prova vivente che la nostra parola vale qualcosa o se finisce fradicia e rotta, come carta bagnata.

L’ex Br Bertulazzi: «Sono in fuga dal 1980, ma non regalo mea culpa»

Oggi è un liutaio, per anni ha lavorato come grafico e traduttore, è stato un militante della colonna genovese delle Brigate rosse ai suoi esordi, nella pirma metà degli anni 70. Nel 1980 lascia l’Italia, quando viene processato vive già all’estero da tempo ma i giudici pensano sia un clandestino in attività così lo condannano ad una pena abnorme, 27 anni, nonostante fosse stato un irregolare, cioè mai clandestino, senza reati di sangue contestati. Dopo esser passato per la Grecia, approda in Salvador dove vive fino al 2002, quando entra in Argentina dove viene arrestato. La magistratura tuttavia nega l’estradizione perché condannato in contumacia. Poco dopo gli viene concesso l’asilo politico, procedura che interrompe il processo di estradizione annullando il rigetto già pronunciato. Nel 2013 la sua condanna va in prescrizione, la cassazione italiana conferma ma successivamente la procura di genova fa riaprire il procedimento ottenendo l’annullamento della decisione. Nell’estate 2024 la nuova giunta argentina del presidente Milei, un nostalgico delle dittature fasciste sud americane e del piano Condor, con una decisione arbitraria annulla la concessione dell’asilo politico. Il governo Meloni ne approfitta e rilancia l’estradizione avvalendosi della mancata conclusione della precedente procedura di estradizione, dove era stato espresso parere favorevole. I nuovi giudici, allineati col nuovo potere revanchista, concedono una estradizione col trucco accettando la promessa fatta dalla procura genovese che una volta in Italia Berrtulazzi sarà nuovamente processato: nonostante la legge e la giurisprudenza non lo prevedano.

Mario Di Vito, il manifesto 18 marzo 2025

Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali: due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina. Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato arrestato. Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città in cui vive dal 2002.

«Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan todos era lo slogan».

E lei arriva lì.
Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una campagna in mio favore.

E poi?
Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della giustizia.

Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni?
Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai.

Da allora il paese è molto cambiato.
Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che la tortilla se de vuelta.

In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano.
La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza. 

Veniamo ai suoi processi.
Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo già lasciato il paese da anni.

La procura di Genova scrive: «In conclusione, è ragionevole riconoscere che nessun elemento allo stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua contumacia».
Lo stesso giudice argentino, che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura che avrò diritto a un nuovo processo.

Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria, anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)».
Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un nuovo processo. 

Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di 10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti antifascisti e nuovi».
Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto “più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta, mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che hanno provocato il rigurgito fascista.

Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo, per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia?
Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi. Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando.

Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti?
Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno 2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23 febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però,la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era stato preso in considerazione. 

Quale sarebbe il fatto nuovo?
Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires.

La Cassazione aveva annullato la prescrizione.
Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo.

Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti?
Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi. L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito. Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza.

«Sì all’estradizione di Bertulazzi in cambio di un nuovo processo in Italia», i giudici argentini accolgono la promessa fatta dalla procura di Genova che non verrà mantenuta

Si fonda su una bugia l’avviso favorevole concesso dalla magistratura argentina alla estradizione dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi, riparato negli anni 80 in America Latina, prima in Salvador e poi dal 2002 in Argentina, dove vent’anni fa gli era stato riconosciuto l’asilo politico, ritirato con una decisione arbitraria dopo l’arrivo al potere del governo fascio-revanchista Milei. La procura generale di Genova ha fatto sapere ai giudici di Buoneos Aires che una volta in Italia Bertulazzi avrà sicuramente diritto ad un nuovo processo, tanto è bastato per concede l’ammissibilità alla estradizione.
Sono state pubblicate ieri, 7 marzo, le motivazioni giuridiche che hanno portato a questa decisione sancita nella udienza del 27 febbraio scorso. I giudici argentini sono tornati sui loro passi, smentendo l’avviso contrario espresso 21 anni fa, il 5 giugno del 2003, quando rifiutarono l’estradizione perché l’Italia non forniva sufficienti garanzie sullo svolgimento di un nuovo processo contro Leonardo Bertulazzi. Va detto che l’ordinamento penale argentino non prevede la contumacia. Purtroppo l’iter decisionale dei giudici argentini non venne completato perché nel frattempo giunse il riconoscimento dello status di rifugiato, che secondo la legislazione argentina, e la convenzione sui diritti dei rifugiati, impedisce la consegna e persino il processo di estradizione quando lo status di rifugiato è in vigore. Situazione che portò la corte suprema a revocare quella prima decisione e non dichiarare irricevibile la domanda di estradizione. Così al governo Milei è bastato ritirare con un pretesto lo status di rifugiato per riaprire la partita.
Bertulazzi era stato condannato nel 1985 in due diversi processi – quando già da diverso tempo aveva lasciato l’Italia – a 15 anni di reclusione per complicità nel sequestro Costa del 1977 e 19 anni per il reato associativo, condanne che una volta cumulate, nel 1997, hanno portato a una pena definitiva di 27 anni. Una enormità considerando la breve militanza all’interno della colonna genovese, interrotta anche da un periodo di detenzione, e il fatto che fosse un «irregolare» a cui non sono stati mai contestati reati di sangue.
Secondo i giudici, in questa nuova procedura sarebbe intervenuto un fatto nuovo che avrebbe cambiato le carte in tavola: ovvero le garanzie fornite dal procuratore generale della Repubblica di Genova, in una nota del 9 settembre 2024, in merito alla possibilità per Bertulazzi di ottenere un nuovo processo una volta riconsegnato all’Italia.
Le garanzie della procura genovese tuttavia contrastano con l’ordinamento italiano, art. 175 comma 2 cpp, che non prevede automatismi in caso di condanne in contumacia ma soltanto la possibilità per il condannato estradato, entro 30 giorni dalla consegna, di poter chiedere la riapertura del processo a certe condizioni.
Dominus della decisione resta la corte di appello non la procura generale. Corte che non si è ancora pronunciata e non ha inviato alcuna rassicurazione ai giudici argentini. Sul punto poi esiste una costante giurisprudenza di cassazione che scoraggia le richieste di riapertura. Il principio di intangibilità della cosa giudicata resta fortemente radicato nel sistema giudiziario italiano e nella cultura giurisprundenziale, un muro invalicabile, un tabù intoccabile.
A favore di Bertulazzi tuttavia postrebbero giocare altri passaggi presenti nell’ordinanza dei giudici argentini, lì dove si afferma esplicitamente che «per la Repubblica Argentina, dal punto di vista dell’estradizione, [Bertulazzi} è un accusato, tenendo conto che queste condanne devono essere riaperte nella Repubblica Italiana». Altro passaggio da sottolineare è quello dove i giudici ricordano che, «la persona condannata in contumacia deve essere considerata un imputato e godere di garanzie sufficienti per esercitare il suo diritto alla difesa una volta arrivata nel suo paese».
Insomma per i giudici argentini Bertulazzi, poiché condannato in contumacia, non va considerato e non può essere estradato in qualità di condannato ma solo di persona imputata, ovvero in attesa di giudizio.
Il concetto è molto chiaro, meno chiara è l’interpretazione che ne sarà data in Italia se la corte suprema federale dovesse confermare l’estradizione e il Conare rigettasse il ricorso contro l’abolizione del status di rifugiato politico.
Cosa farà allora la magistratura italiana che sciopera in questi giorni contro il progetto di separazione delle carriere voluto con forza dal governo Meloni? Cosa diranno l’opposizione, l’avvocatura, i giuristi?

Primo sì dei giudici argentini alla estradizione dell’ex Br Bertulazzi, Milei si aggiudica la prima manche della lunga battaglia legale

Anche se nessuna agenzia lo ha ancora scritto, giunge dall’Argentina la notizia del parere favorevole alla estradizione dell’ex brigatista della colonna genovese, oggi settantacinquenne, Leonardo Bertulazzi, concesso dai giudici di Buonos Aires stanotte (ora italiana).
Dopo una udienza lampo è stata accolta la richiesta proveniente da parte italiana. Il contenuto giuridico del provvedimento sarà noto solo nei prossimi giorni, sapremo così come i giudici hanno risolto, forse è meglio dire aggirato, il problema della contumacia.
Entrato nella colonna genovese quasi alla sua nascita, fu arrestato e condannato nel 1976 per un episodio minore. Scarcerato nel 1979, dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito entrato nelle Br solo più tardi, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese perché era fuggiasco. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire d’accapo con il conteggio. E così quarantanove anni dopo è arrivato il primo sì alla estradizione.
Milei si è dunque aggiudicato, come era nelle previsioni, questa prima partita. La strettissima intesa con il governo di Giorgia Meloni che in cambio ha rinunciato ad estradare il sacerdote torturatore Franco Reverberi (leggi qui), tanto che pochi giorni fa il ministro della giustizia argentino ha concordato con Nordio i passaggi della estradizione e quest’ultimo si recherà nei prossimi giorni i Argentina, e la necessità dello stesso MIlei di ottenere una vittoria simbolica nella speranza di riuscire a incarcerare, prima o poi, gli esponenti della vecchia resistenza armata degli anni 70 e primi anni 80 alle giunte militari fasciste di cui si proclama il naturale erede, hanno fatto il resto.
La partita tuttavia non è ancora conclusa. La decisione di ieri notte può essere appellata davanti alla corte suprema federale (equivalente della nostra cassazione), prima che sia definitiva. Ma soprattutto è ancora aperto il ricorso di fronte al Conare, l’organo federale che decide sulla concessione dell’asilo politico e che bloccherebbe l’estradizione. Bertulazzi aveva già ottenuto questo beneficio nel 2004 ma con una decisione arbitraria la protezione gli è stata tolta lo scorso agosto, quando venne arrestato. Arresto poi rimesso in discussione dai giudici della corte suprema federale con una sentenza molto dura. La procedura davanti al Conare è stata più vote rinviata e alla fine ritardata: probabilmente per consentire alla procedura di estradizione di fare passi avanti e creare una situazione che renda più difficile concedere l’asilo. Milei sta barando in tutti i modi cercando di accomodare una situazione che altrimenti giuridicamente gli sarebbe andata contro. Mentre il Conare rinvia, Milei sta cambiando i vecchi giudici della corte suprema con uomini di fiducia ed ha varato un decreto che impedisce la concessione dell’asilo a chi è stato condannato per reatio di terrorismo, circostanza che non dovrebbe valere per Bertulazzi, sempre che non venga calpestato la regola della non retroattività. Il suo ricorso davantio al Conare è precedente al decreto del presidente ma soprattutto Bertulazzi non sta chiedendo per la prima volta protezione. Ma la partita giuridica sembra sempre più truccata.

Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente Milei

L’affaccio di Meloni accanto a Milei dal balcone della Casa rosada

Con una decisione dai contenuti durissimi la corte di Cassazione argentina ha censurato l’operato del governo Milei che aveva arbitrariamente revocato lo statuto di rifugiato politico a Leonardo Bertulazzi, l’ex Br della colonna genovese riparato da quattro decenni in America Latina e da 20 anni residente a Buenos Aires.
I giudici hanno annullato con rinvio le precedenti decisioni delle corti di prima istanza che avevano rigettato la richiesta di scarcerazione avanzata dai suoi legali. Bertulazzi è attualmente già ai domiciliari dopo aver trascorso le prime settimane in carcere.
L’equivalente della nostra corte d’appello dovrà quindi nuovamente pronunciarsi nei prossimi giorni sulla sua scarcerazione tenendo conto delle indicazioni vincolanti espresse dalla Cassazione. La liberazione di Bertulazzi è dunque rimandata anche se i media italiani, telegiornali in testa, hanno dato ieri la notizia inesatta della sua scarcerazione.

Un arresto arbitrario e una revoca illegittima
I magistrati di Cassazione hanno definito «arbitraria», la decisione del governo Milei di revocare lo status di rifugiato politico riconosciuto a Bertulazzi nel 2004, spiegando che la protezione non può essere revocata prima che sia concluso l’iter amministrativo che dovrà decidere sulla sua validità. La procedura di revoca infatti è regolata da un iter giuridico che prevede un ricorso e una decisione finale che non può essere anticipata da un atto unilaterale del governo. Sulla detenzione di Bertulazzi i giudici dell’alta corte hanno sottolineato come non sia mai esistito alcun pericolo di fuga: Bertulazzi vive da 20 anni a Buenos Aires, ha una casa, ha sempre lavorato, ha radici profonde nella società argentina. Le precedenti argomentazioni delle corti che hanno rifiutato la scarcerazione sono state etichettate come «dogmatiche».
I giudici di Cassazione hanno duramente stigmatizzato il comportamento del governo del presidente Milei rimettendo la vicenda su dei correti binari di giudizio fondati sulle regole del diritto interno e non sui voleri politici revanscisti dell’attuale governo ultrareazionario di Milei, che poco prima dell’arresto di Bertulazzi aveva annunciato di voler riaprire tutti i processi contro gli ex Montoneros, guerriglieri avversari della dittatura militare argentina di cui MIlei si rivendica erede.
Questa decisione positiva per Bertulazzi tuttavia è solo un primo step, la procedura amministrativa sulla conferma o revoca dello status di rifugiato è ancora in corso mentre un’altra corte sta ultimando la fase istruttoria prima di valutare la richiesta di estradizione, fotocopia di quelle passate, rilanciata recentemente dall’Italia.
Certo è che le parole della Cassazione avranno un peso sul seguito di questa vicenda.

L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi

Dietro l’arresto dell’ex brigatista, oggi settantaduenne, Leonardo Bertulazzi ci sarebbe un patto tra Meloni e MIlei per salvare dalla giustizia argentina un prete italo-argentino coinvolto nei crimini della dittatura sudamericana degli anni 70. Il suo nome è Franco Reverberi, ultraottantenne emigrato giovanissimo in Argentina dove la sua famiglia si trasferì nel secondo dopoguerra in cerca di fortuna.

Il sacerdote assassino che benediva le torture

Nel nuovo continente il giovane Reverberi finì in seminario per poi prendere i voti e diventare parroco di Salto de Las Rosas, una piccola località sotto le Ande. Nel 1976, mentre il ventiquattrenne Bertulazzi lasciava Lotta continua, una formazione della estrema sinistra ormai in crisi per entrare nella nascente colonna genovese della Brigate rosse, don Reverberi, allora trentanovenne, sulla scia del golpe militare guidato dal generale Jorge Videla diventava cappellano militare, ausiliare dell’VIII squadra di esplorazione alpina di San Rafael.
Nel 1980 – recitano le accuse della giustizia argentina – iniziò a frequentare il centro di detenzione clandestina “La Departamental”, una delle strutture utilizzate dal regime dittatoriale nell’ambito del “Piano Condor”. Un progetto di sterminio delle opposizioni politiche contro le dittature, portato avanti a colpi di arresti, sparizioni, torture di massa e omicidi dei militanti della sinistra rivoluzionaria, peronisti e radicali (almeno duemila le persone uccise e trentamila quelle scomparse, i cosiddetti desaparecidos). L’operazione concordata tra le dittature fasciste del Sud America (Cile, Argentina, Brasile, Bolivia, Paraguay e Perù) aveva la supervisione della Cia. Reverberi è stato accusato di aver partecipato nel 1976 al sequestro, seguito da torture e omicidio, di un giovane peronista, Josè Guillermo Beron. Secondo le testimonianze rilasciate da diversi sopravvissuti ai centri di detenzione della dittatura, il sacerdote era solito frequentare le stanze delle torture per assistere agli interrogatori leggendo passi della bibbia e invitando i seviziati a collaborare con i propri torturatori, perché questo sarebbe stato il volere di Dio. Finita la dittatura Reverberi riuscì a farsi dimenticare continuando a dire messa. Soltanto nel 2010 emersero le sue prime responsabilità, ma il prete fece in tempo a riparare in Italia per tornare a dire messa nella sua parrocchia natale, Sorbolo, un paesino in provincia di Parma, ospite di don Giuseppe Montali

Due pesi e due misure
Raggiunto da una prima richiesta di estradizione, nel 2013 la magistratura italiana respingeva la domanda poiché non emergevano con nitidezza responsabilità dirette del sacerdote. Nell’ottobre 2023 tuttavia la cassazione confermava l’avviso favorevole a una nuova richiesta di estradizione, formulato in precedenza dalla corte d’appello di Bologna, che stavolta conteneva prove nuove sul suo coinvolgimento nella morte del giovane Beron e le torture inferte a nove detenuti. Secondo la cassazione i reati commessi da Reverberi si inserivano in «un sistema seriale di torture, catalogabili come crimini contro l’umanità, posti in essere nei confronti di dissidenti politici del regime militare allora al potere in Argentina, effettuate all’interno di una struttura penitenziaria adibita allo scopo e all’interno della quale vi era l’odierno estradando che svolgeva le funzioni di cappellano militare e che si assume avesse favorito l’operato dei militari».
Ancora una volta però Reverberi riusciva a cavarsela: nel novembre dello stesso anno, infatti, sale alla presidenza della repubblica argentina l’esponente dell’ultradestra Javier Milei. Così nel gennaio 2024, il ministro della giustizia del governo Meloni, Carlo Nordio, a cui spettava la decisione finale, non concedeva l’estradizione del prete torturatore, a causa dell’età avanzata (86 anni) e del suo precario stato di salute. Una decisione solo in apparenza garantista, per altro in netto contrasto con l’attività persecutoria promossa dal governo italiano nei confronti di Leonardo Bertulazzi, condannato (leggi qui) – a differenza di Reverberi – solo per reati associativi e per il sequestro dell’armatore Pietro Costa, sulla base dei de relato di due pentiti che non avevano partecipato al fatto, anzi uno dei due non era ancora entrato nelle Brigate rosse quando avvenne.

Il patto dei Bravi
I fatti appena elencati mostrano come la decisione di Nordio sia stata frutto di un accordo politico sancito dal caloroso tête-à-tête che Meloni e Milei hanno offerto ai fotografi durante le giornate del G7, tenutesi in Puglia lo scorso giugno 2024. Concessa l’immunità al torturatore Reverberi, come auspicato da Milei, la premier Meloni ha ricevuto in dono la cattura di Leonardo Bertulazzi in aperta violazione del ne bis in idem. La magistratura argentina, infatti, aveva già respinto la domanda di estradizione inviata nel 2002 perché incompatibile con il proprio ordinamento giudiziario, all’interno del quale non si prevede la possibilità di comminare condanne definitive in contumacia. Dopo questa decisione Bertulazzi aveva ottenuto nel 2004 lo status di rifugiato politico. Asilo improvvisamente revocato il giorno del suo nuovo arresto, il 24 agosto 2024, con un atto di puro arbitrio privo di qualsiasi fondamento giuridico. In questi giorni sulla stampa argentina sono emersi i primi retroscena di questa decisione. Secondo Tiempo argentino Luciana Litterio, fresca di nomina alla testa della commissione nazionale per i rifugiati (Conare), su designazione del ministro dell’Interno del governo Milei, avrebbe «ricevuto una chiamata che l’ha messa tra l’incudine e il martello. Il presidente della Repubblica, Javier Milei, gli ha chiesto, o forse gli ha ordinato, di revocare immediatamente lo status di rifugiato a Leonardo Bertulazzi». La nuova responsabile del Conare si sarebbe ritrovata con le spalle al muro – prosegue sempre il quotidiano argentino: «Litterio aveva due opzioni: ignorare la richiesta, rispettando così i patti internazionali firmati dal Paese e onorando il suo passato di accademica specializzata in rifugiati e migrazioni internazionali, con una carriera di 16 anni come responsabile degli affari internazionali presso la Direzione nazionale delle migrazioni. – carica per la quale fu nominata durante il primo mandato di Cristina Fernández e confermata da tutti i governi successivi –, o rispettare l’ordine presidenziale, gettando a mare la sua carriera e il suo prevedibile passaggio a un posto dirigenziale presso l’Unhcr o a un posto diplomatico nelle Nazioni unite».

Una nuova caccia mondiale ai comunisti
La mancata estradizione di don Reverberi e il riarresto di Bertulazzi, nonostante l’asilo politico concesso, mostrano che nelle due vicende sono stati applicati registri diversi, privi di qualunque standard giuridico, ispirati solo da un feroce revanscismo anticomunista e dalla volontà di proteggere feroci criminali delle dittature sudamericane. A riprova di questo fatto ci sono le dichiarazioni rilasciate al Sussidiario.net dall’attuale capo di gabinetto del ministero della Sicurezza che ha coordinato l’arresto di Bertulazzi nella sua abitazione argentina, pochi minuti dopo la revoca dell’asilo politico. Secondo Carlos Manfroni, «il ministero della Sicurezza, che ha a capo Patricia Bullrich, ha preso la decisione di non proteggere più gli ex terroristi [comunisti rivoluzionari degli anni 70 ndr] dall’estradizione. Rispetto invece ai terroristi argentini [gli oppositori antifascisti della dittatura ndr], che hanno commesso crimini aberranti nella decade degli anni 70», Manfroni si rammarica del fatto che «sfortunatamente la Corte [argentina ndr] in quegli anni decise che le loro azioni criminali erano cadute in prescrizione e che non si trattava di delitti ascrivibili alla lesa umanità. Un criterio sul quale non sono d’accordo ma che al momento impedisce di incarcerarli».

I crimini del potere e quelli degli insorti
Manfroni cita la giurisprudenza che la magistratura argentina ha prodotto negli anni della transizione postdittatura, secondo la quale i reati commessi dagli oppositori alla dittatura militare sono di fatto prescritti, a causa dei decenni trascorsi, mentre i crimini del potere dittatoriale (omicidi, torture e sparizioni), la cosiddetta «guerra sucia», commessi da membri del regime militare, restano tuttora perseguibili perché ritenuti crimini contro l’umanità, per questo imprescrittibili. Una giurisprudenza avanzatissima che, riprendendo i principi del diritto di resistenza, distingue tra violenza frutto della oppressione del potere statale e violenza dal basso commessa dagli insorti. 
A conclusione della sua intervista, Carlos Manfroni rivela anche la strategia concordata tra Milei e Meloni per giungere alla estradizione di Bertulazzi: «nel 2004 – spiega – l’ex Br non venne estradato perché in Italia era stato condannato in sua assenza. Ma secondo il trattato di estradizione tra Argentina e Italia, se l’Italia è pronta ad offrire un nuovo processo invece di usare la vecchia sentenza, Bertulazzi si può estradare e credo che questo, alla fine, sarà lo strumento che verrà usato». Tuttavia in Italia non esiste nessuna norma che preveda un nuovo processo dopo che è stata emessa una sentenza definitiva.

L’esperienza francese

Un precedente recente e significativo che si è scontrato contro questo limite insormontabile riguarda il rifiuto della magistratura francese di estradare dieci ex militanti della sinistra armata italiana degli anni 70. Le corti francesi hanno preso atto della impossibilità da parte italiana di garantire un nuovo processo per chi è stato condannato in contumacia e per questo hanno negato le estradizioni richiamando il mancato rispetto della regola del giusto processo, indicato nell’art. 6 della convenzione europea dei diritti umani. A cui hanno aggiunto anche l’esigenza di tutelare i diritti acquisiti (art. 8) nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese (ovvero le innumerevoli decisioni giudiziarie, politiche e amministrative pronunciate nel tempo dalla autorità francesi). Precedente giuridico che i giudici argentini chiamati a giudicare il caso Bertulazzi non potranno certo ignorare.

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Argentina, ecco le foto inedite dei voli della morte

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LA GUACAMAYA ROJA, 25 gennaio 2020

Di recente sono state rese pubbliche immagini che testimoniano i cosiddetti voli della morte compiuti dall’ESMA. Questi documenti si aggiungono alle testimonianze, come quella di Adolfo Scilingo, ex capitano di questi voli, che da giorni si aggira libero per le strade di Madrid.
Nel 2011, la Commissione interamericana per i diritti umani (IACHR) ha fornito per la prima volta 130 immagini che supportano le testimonianze del maxi processo “i voli della morte” (Vedi qui http://sitiosdememoria.uy/recurso/266).
Tutto è iniziato nel 2011, quando il giudice federale Sergio Torres, incaricato di investigare sui crimini commessi dall’ESMA, si è recato negli Stati Uniti per consultare la documentazione del fascicolo relativo all´IACHR, in particolare quello legato alla visita di tale agenzia in Argentina nel 1979. C’erano più di trenta faldoni che sembravano non essere stati più aperti da allora. Il giudice li ha esaminati uno ad uno ed è lì che ha trovato una cartella gialla con un centinaio di fotografie che accompagnavano i rapporti su corpi apparsi, da quel che sembra, tra il 1976 e il 1978, nei pressi di diverse città lungo la costa del vicino Uruguay: Colonia, Carmelo, José Ignacio, Balizas, Laguna de Rocha, Laguna de Garzón, Piriápolis, Solana del Mar, La Paloma.
Il materiale proviene dai documenti redatti da Daniel Rey Piuma, un marinaio che disertò nel 1980 e rese pubbliche le relazioni fatte dai servizi di intelligence e dagli agenti di polizia.
Le immagini sono agghiaccianti. Appare il corpo di una donna, con le unghie smaltate e i segni di stupro. È stato trovato a Laguna de Rocha, che sbocca sul mare, in Uruguay, il 22 aprile 1976. Un’altra donna aveva un documento di identità tra i suoi vestiti, che riportava la data di nascita, 1954. Nelle tasche degli abiti indosso ad alcuni corpi c´erano monete e banconote di quel tempo in Argentina.
La prova inconfutabile dei “voli della morte” è venuta alla luce nel 2005, quando l’équipe di antropologia forense argentina (EAAF) ha identificato i corpi apparsi nel 1977 sulla costa di Buenos Aires. Si trattava della fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo, Azucena Villaflor de Devincenti, delle sue compagne Esther Ballestrino de Careaga, Esther Ballestrino de Careaga e Angela Aguad, e della suora francese Leonie Duquet, rapita tra l’8 e il 10 dicembre. I corpi apparvero sei giorni dopo il sequestro sulle spiagge di Santa Teresita, trascinati dalla corrente, e furono sepolti come NN nel cimitero General Lavalle.

Dichiarazione di Scilingo
Nel 1995, Scilingo confessa al giornalista Horacio Verbitsky di aver partecipato e di essere il responsabile di due voli in cui furono gettate vive nel vuoto 30 persone. È la prima testimonianza di un repressore dopo la dittatura. Scilingo descrive i suoi atti come «cose peggiori dei nazisti».
La parola di Scilingo avviene in un contesto avverso al recupero della memoria, fissato da due leggi: Ley del Punto final (anche detta “Estinzione dell’azione penale”) e Ley de obediencia devida (Legge dell´obbedienza dovuta).
Nella sua testimonianza racconta anche degli elenchi di coloro che si appropriarono dei figli delle detenute desaparecidas in stato di gravidanza. E riferisce anche il fatto che membri della chiesa li consegnassero ai carnefici.
Negli incontri con Verbitsky, il repressore ha fornito dettagli su come funzionavano questi voli.
Nel 1998 Scilingo ritratta la sua confessione. Pinochet era stato arrestato da Baltasar Garzón, lo stesso che aveva processato Scilingo, la strategia è di screditare il giudice.
E qui Scilingo fa uno spettacolo patetico, fa uno sciopero della fame, entra in campo su una barella, come se dormisse.
Sono stato citato come testimone dal tribunale nazionale di Madrid.
Racconto che dal carcere di Carabanchel mi ha inviato lettere dove mi dà maggiori dettagli di quello che è successo. I giudici le guardano, si mettono le mani tra la testa, si guardano l’un l’altro, bisbigliano tra loro, chiamano Scilingo, Scilingo si avvicina alla cattedra del tribunale, gli mostrano le lettere, indicano la firma. Scilingo annuisce, Scilingo mi guarda, guarda in basso e dice: Sì, è proprio come ha appena detto il signor Verbitsky.
Fine della ritrattazione, il processo riprende, viene condannato a 600 anni di carcere …

Horacio Verbitsky, Care with the Dog: Chapter 5

Attualmente Scilingo è stato condannato a più di 1000 anni, irrevocabili. Eppure anche così, ha ottenuto flessibilità per la sua condanna e gode della libertà di camminare per le strade a condizione di dormire in un centro di reinserimento sociale. Varie organizzazioni per i diritti umani hanno espresso il loro ripudio.

Le foto declassificate dell’IACHR:
La carta d’identità di María Cristina Cámpora, figlia di Juan Carlos Cámpora, scomparsa nel 1977 per mano del terrorismo di stato. Secondo il racconto di Rey Piuma, si presume che i militanti scomparsi avessero documenti di identificazione dei parenti, per questo motivo i documenti di Maria Cristina compaiono negli archivi.

La cartella completa con le fotografie è consultabile in http://sitiosdememoria.uy/recurso/266

Fonti: http://www.infojusnoticias.gov.ar/ / “El Vuelo” Horacio Verbitsky

Apparso su https://bresciaanticapitalista.com/2020/01/30/compaiono-foto-inedite-dei-voli-della-morte-argentini-durante-la-dittatura-militare/

 

Merry riot, Natale d’assalto in Argentina

Conflitto sociale – Argentina assaltati centinaia di negozi, oltre 500 arrestati, 2 morti e decine di feriti

 

Elisabetta Della Corte
Cordoba, Argentina, 24 dicembre 2012

Il Natale è arrivato non tutti in Argentina possono permettersi un banchetto a base di carne e altri beni di consumo. Dai quartieri popolari di diverse città come Bariloche, Rosario, San Fernando, Campana tra il 19 e il 21 dicembre si è levata un’ondata di espropri proletari che la stampa ufficiale continua a bollare come atti vandalici, saccheggi, ponendo l’accento sul fatto che quei “dannati della terra” non si siano limitati a portare via solo il cibo necessario ma anche elettrodomestici e così via, per delegittimare così questo conflitto che mina l’apparente quiete argentina. I segni di un disagio crescente erano già nell’aria nei giorni precedenti, quando alcune catene della grande distribuzione ubicate nei pressi dei quartieri popolari di Buenos Aires per calmare le acque avevano offerto beni di consumo a basso prezzo. La strategia del discount non ha funzionato e migliaia di persone in oltre 40 città argentine, questo il numero riportato da diverse fonti, hanno preso d’assalto i negozi e preso quanto potevano. Le foto e i video di questi giorni riportano alla mente le scene della crisi del 1998 e del 2001 che fecero cadere il governo di Alfonsin prima e quello di Della Rua poi. Certo, l’intensità è diversa e oggi non è in gioco la stabilità del governo Kirschner, molto è stato fatto per ripartire dopo il disastro delle politiche neoliberiste, e negli ultimi anni, partendo dal basso, il ritmo di crescita è avanzato a passo di rumba. Quanto sta accadendo però riporta in primo piano delle semplici domande sulla “bontà” del modello di sviluppo capitalistico, sui criteri di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, e questo vale tanto per l’Argentina quanto per i paesi dell’Europa in crisi. Domande scomode su cui spesso si sorvola fino a quando il conflitto sociale non si presenta ai nostri occhi con la dovuta violenza.
Da qui alla presenza di polizia e militari nelle strade per riportare la “calma”, difendere i negozi e scacciare nuovamente i “dannati” nei quartieri popolari, nelle prigioni patrie, per poi pubblicizzare un piano sociale di reinserimento e incentivi per l’educazione, è storia conosciuta.

Il saldo del conflitto sociale
Il saldo di questi due giorni di fuoco presenta cifre diverse. A secondo delle fonti, in prigione sono finite tra le 500 e le 650 persone. I morti invece sono due: una donna di 40 anni ferita mortalmente da un vetro  e un giovane di 22 colpito da un proiettile, per cui  si indaga sulle responsabilità della polizia che in teoria avrebbe dovuto usare proiettili di gomma. Decine, invece, i feriti, tra questi uno solo della polizia. I negozi saccheggiati sono circa 290 e i danni, secondo le stime della Camera di commercio della piccola e media impresa (CAME) si aggirano intorno ai 26, 5 milioni di pesos (3.866.676 euro).

Alla ricerca della regia occulta: benvenuti nel gioco del tutti contro tutti
Nel tentativo di individuare una gabina di regia dei saccheggi che hanno perturbato la vigilia del natale argentino il gioco del tutti contro tutti ha preso il sopravvento: governo contro sindacati, questi ultimi contro il governo e allo stesso tempo velatamente in lotta tra di loro.
Secondo le fonti governative non si tratta di atti spontanei. Anche se mancano le prove, il capo del gabinetto, Abal Medina, e il segretario della Sicurezza, Sergio Berni, accusarono Moyano leader della sinistra radicale del sindacato dei camionisti (CGT), e altri sindacalisti in contrasto con il governo, di aver coordinato gli espropri. Sul fronte opposto l’accusato Moyano rinvia la responsabilità della crisi sociale al governo che secondo lui cerca capri espiatori per nascondere i propri errori. Il sindacato opposto alla CGT, nella versione offerta da Scioli, altro leader sindacale, ha parlato invece di gruppi preparati per seminare il caos, ma a differenza del governo, ha evitato le accuse dirette. Mentre l’altra anima del sindacato dei camionisti, capeggiata da Calò, si è limitata a fare riferimento a gruppi radicalizzati.
Uscendo dal campo delle accuse reciproche per guardare invece ai luoghi in cui sono avvenuti i fatti e alle persone, emerge un quadro di povertà ed emarginazione. Quartieri privi dei servizi minimi, baraccopoli senza luce, gas e acqua; giovani, donne e uomini che difficilmente potrebbero permettersi un televisore al plasma, seppure da pagare in 50 rate. I dati parlano di gente che vive al di sotto della soglia di povertà in una società fortemente polarizzata dove alcuni, pochi, vivono in quartieri protetti e case con piscine mentre altri, gli abitanti dei quartieri poveri, aspettano che le grandi tormente estive portino loro l’acqua.

Le previsioni economiche per il 2013 non sono incoraggianti
Dopo i cinque anni di forte espansione, dal 2005 in poi, negli ultimi due anni si avvertono segni di rallentamento. Solo per comprende con un esempio alcune delle questioni macroeconomiche, una parte delle speranze per l’aumento del Pil sono legate al settore automobilistico: in Argentina, da Cordoba, dove sono allocate le maggiori multinazionali del settore auto, si esporta oltre l’80% di auto e parti componenti verso il Brasile, ma è necessario che il gigante brasiliano continui a tirare e che la concorrenza del Messico, paese divenuto di recente un competitore, venga contenuta per far sì che quelle previsioni di aumento di alcuni punti percentuali si realizzino. Intanto il governo provinciale come quello nazionale, negli anni non ha fatto mancare lauti incentivi a questo settore che, qui come in Europa, continua ad essere sostenuto da fondi pubblici in cambio di posti di lavoro, seppur del tipo che spacca la schiena e infiamma i tendini con buona pace del sindacato.
Vi è poi il problema dell’inflazione crescente che impatta sulle capacità d’acquisto. E’ anche vero che in questi anni il governo ha portato avanti una politica espansiva, sconosciuta nell’Italia di Monti e più in generale nell’Europa che si affannata a ridurre la spesa pubblica, centrata sulla creazione, 5 milioni stando alle statistiche governative, di posti di lavoro più che di tagli,  ma rimane il fatto che il malcontento è in aumento, nonostante gli sforzi.
Molte altre questioni rimangono da trattare per restituire parte della complessità di quanto sta accadendo. Può questo modello, dipendente dalle multinazionali, come quelle dei call-center, sganciarsi e procedere verso una società post-crescita, valorizzando le risorse locali? Si può pensare ad uno sviluppo agricolo indipendente dalla soia e dalla presenza di Monsanto?

Sarebbe bello pensare che un’altra strada sia ancora possibile, riaprendo le conclusioni di Gabriel Garcia Marquez in Cento anni di solitudine, affinché «le stirpi condannate a cento anni di solitudine abbiano infine una seconda opportunità sulla terra».