Dopo le pesanti condanne per devastazione e saccheggio confermate dalla Cassazione torniamo a parlare di amnistia

Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e dunque impatta quelle presenti. Per questa ragione le organizzazioni del movimento operaio, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno storicamente fatto ricorso alla rivendicazione di amnistie per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Garantire una lotta vuole dire serbare intatta la forza e la capacità di riprodurla in futuro.
Le amnistie politiche sono sempre state degli strumenti di governo del conflitto, un mezzo per sanare gli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Le amnistie sanano la discordanza di tempi tra conservazione e cambiamento. Esse rappresentano dei passaggi decisivi nel processo d’aggiornamento della giuridicità


Un Libro per riflettere – Amedeo Santosuosso e Floriana Colao, Politici e Amnistia, Tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità ad oggi, Bertani editore, Verona 1986

di Paolo Persichetti

 

Negli ultimi anni ripetuti cicli di lotte hanno ridato smalto all’azione collettiva. Questo nuovo clima d’effervescenza sociale non ha coinvolto soltanto tradizionali settori dell’attivismo politico più radicale, ma parti intere di popolo, pezzi di società. Le vaste dimensioni della rappresaglia giudiziaria stanno lì a dimostrarlo. Si è parlato di circa novemila persone sottoposte a procedimenti penali.
Scomponendo il dato ci accorgiamo che le figure sociali coinvolte riguardano lavoratori e sindacalisti degli stabilimenti Fiat di Melfi, Termini Imerese, Cassino, personale degli aeroporti, dipendenti del trasporto urbano, precari. Ci sono militanti antiguerra coinvolti nei blocchi ferroviari, le popolazioni meridionali di Scanzano e Acerra. I senzatetto, gli attivisti antiCpt e dei Centri sociali che hanno partecipato ad azioni contro l’esclusione, il carovita, il lavoro interinale, per il diritto alla casa. Militanti noglobal che hanno preso parte alle mobilitazioni di Napoli e Genova, gli attivisti No Tav, i manifestanti denuciati e condannati per le manifestazioni del 14 dicembre 2010 e del 15 ottobre 2011 a Roma.
Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e dunque impatta quelle presenti. Per questa ragione le organizzazioni del movimento operaio hanno storicamente fatto ricorso alle amnistie per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Garantire una lotta vuole dire serbare intatta la forza e la capacità di riprodurla in futuro.
Le amnistie politiche sono sempre state degli strumenti di governo del conflitto, un mezzo per sanare gli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Le amnistie sanano la discordanza di tempi tra conservazione e cambiamento. Esse rappresentano dei passaggi decisivi nel processo d’aggiornamento della giuridicità.
È stato così per oltre un secolo, ma in Italia non accade da più d’un trentennio. Le ultime amnistie politiche risalgono al 1968 e al 1970, dopo più nulla perché alla fine degli anni 70 hanno prevalso scelte favorevoli all’autonomia del politico contro le insorgenze sociali, col risultato di dare vita ad un divorzio drammatico tra sinistra storica e movimenti, per questo sarebbe ora di chiudere quella disastrosa parentesi. Si tratta di salvaguardare il dissenso di massa che si è espresso in questi ultimi tempi e chiudere gli strascichi penali di stagioni ormai concluse che con il loro protrarsi ipotecano pesantemente il futuro.

L’amnistia del 1968 e del 1970
Le amnistie del 1968 e del 1970, spiegano Amedeo Santosuosso e Floriana Colao in un volume apparso a metà degli anni Ottanta, sanciscono la fine del dopoguerra. Per la prima volta, infatti, scompare ogni riferimento agli strascichi della guerra civile per far fronte unicamente ai problemi posti dal conflitto moderno. Politici e amnistia era il titolo del libro, dove per «politici» non s’intendono certo i condòmini del Palazzo, come la vulgata populista affermatasi più tardi potrebbe indurre a credere, ma quei «militanti di strada», protagonisti delle battaglie sociali più aspre che hanno fatto avanzare il Paese.
Il progressivo mutamento di senso che ha investito questo termine dimostra quanto forte sia stata la volontà di spoliticizzare il sociale. Senza dubbio una delle ragioni che hanno ostacolato la promulgazione di nuove misure amnistiali per fatti politici.
La definizione più ampia di amnistia si trova nel provvedimento del 1970, rivolto a quei delitti «commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale». Le tipologie di reato investite vanno dallo sciopero del pubblico servizio, alla resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, interruzione di servizio pubblico, istigazione a commettere reati e disobbedire alle leggi, boicottaggio, occupazione d’azienda, sabotaggio, violenza privata e danneggiamento.
Nell’amnistia del 1968 sono inclusi anche il blocco stradale e ferroviario, la devastazione, l’incendio, la detenzione d’armi da guerra. Illuminanti appaiono gli argomenti avanzati per giustificarne la necessità. Nel giugno 1968, il relatore, senatore Codignola, richiamava «il divario crescente fra alcune norme penali e di sicurezza tuttora in vigore, e la diversa coscienza che si è venuta maturando fra i giovani. I procedimenti giudiziari che ne sono seguiti ne costituiscono la logica conseguenza, ma riconfermano la necessità e l’urgenza di una radicale revisione del Codice penale, della legge di Pubblica sicurezza e di altre leggi, la cui ispirazione autoritaria risale al fascismo o comunque ad una concezione repressiva dello Stato».
Da rilevare come quella normativa, allora tanto biasimata, non solo è ancora in vigore, ma è stata ulteriormente irrigidita. Alla Camera, Giuliano Vassalli difendeva l’amnistia del 1970 sostenendo che tali dispositivi «sono adottati quando si tratti di por fine a procedimenti penali propri e caratteristici d’una determinata situazione storicamente superata e della quale non è pensabile una riproduzione a breve scadenza o a procedimenti penali instaurati per reati che sono il frutto particolare di eccezionali rivolgimenti politici, economici e sociali arrivati a positiva conclusione, della quale taluni eccessi sono il prezzo fatale, ed un prezzo del quale pertanto non appare giusto esigere il pagamento fino alle estreme conseguenze del processo e della condanna».

Perché l’amnistia oggi
Nel 2001 con l’introduzione del Mae (il mandato di arresto europeo che ha reso quasi automatiche le estradizioni all’interno dello spazio Shengen, abolendo l’immunità e le garanzie che un tempo tutelavano le infrazioni di natura poltica) e le direttive europee che hanno invitato i paesi membri ad estendere la nozione di terrorismo a condotte politiche e sociali ritenute un tempo normale espressione della conflittualità sociale e sindacale, oltre a designare come un possibile movente «terrorista» il dissenso politico contro i governi, si è sempre più affievolita la distinzione tra reati e atti illeciti tipici delle lotte sociali e dei movimenti di contestazione interni al sistema e reati di natura apertamente sovversiva e insurrezionale. I margini di tolleranza dei governi e gli spazi di agibilità democratica si sono drasticamente ridotti con effetti paradossali, dovuti alla disproporzione tra la forza immensa dei mezzi repressivi impiegati e le forme d’illegalità politica a bassa intensità tipiche del dissenso sociale diffuso, quasi a voler imporre una sorta di domesticazione cimiteriale d’ogni possibilità di critica che ha trovato sostegno in quella cultura della legalità che La Boètie non avrebbe esitato a designare come una una tragica prova di servitù volontaria.
In Italia il codice Rocco, arricchito della legislazione speciale antisovversione varata sul finire degli anni 70, si è rivelato un’eredità molto proficua con la sua dottrina del nemico interno. La presenza di questo potente arsenale giuridico repressivo ha permesso alla magistratura di avvalersi d’un ventaglio d’ipotesi d’accusa estremamente ampio e insidioso, come la molteplice presenza di reati di natura associativa:

– dall’originario 270 cp previsto dal guardasigilli del regime fascista Alfredo Rocco, al successivo 270 bis introdotto con la legislazione d’eccezione antissoversione, ai successivi 270 ter, quater, quinques e sexties, situati nel famigerato capitolo secondo dei delitti contro la personalità interna dello Stato;

– all’impiego del 419 cp (devastazione e saccheggio, con pene che variano da un minimo di 8 ad un massimo di 15 anni, che si è tornati ad impiegare dopo i fatti del G8 genovese per sanzionare tradizionali scontri di piazza, conflitti di strada che rientrano nell’ambito della gestione dell’ordine pubblico e non certo all’interno di condotte con finalità insurrezionali). Un reato recepito dalle corti di giustizia in 51 anni di storia repubblicano-costituzionale (dal 1948 al 1999) solo 10 volte. E ben 13 dal 2000 ad oggi, cioè più di un processo all’anno nonostante sia del tutto evidente che il decennio 2000 non può essere paragonato per intesità di violenza politica e presenza di culture politiche rivoluzionarie al trentennio precedente, o anche solo agli anni 70. A dimostrazione che il rinnovato ricorso a questo tipo di imputazione è frutto di una torzione autoritaria della cultura giuridica della magistratura e più in generale del sistema politico italiano;

– o ancora la riesumazione in alcune inchieste recenti del 304 cp, “Cospirazione politica mediante accordo”, norma travasata dal codice Zanardelli all’interno del codice Rocco, impiegata in origine per colpire il diritto di sciopero, tant’è che la corte costituzionale è dovuta intervenire con sentenza n. 123 del 28 dicembre 1962 dichiarando che «compete al giudice di merito disapplicare le norme ricordate artt. 330, 304, 305 cod. pen. in tutti quei casi rispetto ai quali l’accertamento degli elementi di fatto conduca a far ritenere che lo sciopero costituisca valido esercizio del diritto garantito dall’Articolo 40 Cost.».

Evocare il rapporto di forza sfavorevole per liquidare il problema rappresentato dall’amnistia, serve a poco, anzi in genere è la prova della codardia e dell’immensa dose di opportunismo che cova in chi ne fa ricorso. 
«
Spesso – scriveva Seneca a Lucilio – non è perché le cose sono difficili che non si osa, ma è perché non si osa che diventano difficili»
.
Il rapporto di forza sfavorevole è il presupposto di ogni ragionamento sull’amnistia, altrimenti le soluzioni chiamerebbero in causa la scienza ingegneristica delle demolizioni. La vera novità negativa è che se anche oggi ci fosse un rapporto di forza favorevole, l’amnistia non sarebbe percepita come un’ipotesi legittima. Dunque il problema sta nella testa, perché se da un lato il giustizialismo è dilagato dall’altro l’unica alternativa sembra il vittimismo martiriologico.

Ogni movimento futuro avrà davanti questo problema: riassorbire la legislazione d’emergenza nella quale si annidano le tipologie di reato più insidiose, abolire il codice Rocco, la pena dell’ergastolo, la legislazione premiale in ogni suo aspetto, decarcerizzare, sprigionare, aprire una vertenza per l’indulto e l’amnistia in favore dei reati politici, sociali e per sfollare le carceri.

Per approfondire
L’inchiesta di Cosenza contro Sud Ribelle
Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo
L’amnistia Togliatti
Una storia politica dell’amnistia

La fine dell’asilo politico
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?

Il Nemico interno/L’Ennemi interieur, La généalogie coloniale et militare de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine

Il “nemico interno” dello Stato. Le periferie come le colonie

Paolo Persichetti
Liberazione 12 luglio 2009

La temperatura sociale delle periferie francesi è sempre alta. La cronaca non esita a restituirci immagini non molto lontane dalle scene di guerra. E, in effetti, i dispositivi messi in piedi dal governo evocano apertamente la figura del «nemico interno». Dispiegamento delle più aggiornate tecnologie rigousteantisommossa (elicotteri, micro-droni, telecamere di sorveglianza), fino alla spettacolarizzazione delle retate di polizia con massiccio dispiegamento di forze sotto gli occhi delle telecamere, fermi in massa, introduzione d’istituti giuridici come la «testimonianza sotto anonimato» e i giudizi processuali per direttissima; creazione di una branca specifica dei Servizi (appartenenti alla nuova Direction centrale du renseignement intérieur, Dcri), con competenza sulle banlieue, sui moti urbani, il cosiddetto fenomeno delle «bande», la nascita di nuove banche dati centrali, come il sistema Edvige-Edvirsp e Cristina (Cf. Liberazione – Queer del 5 ottobre 2008), finalizzati alla schedatura «di ogni persona d’età superiore ai 13 anni che abbia sollecitato, esercitato o stia esercitando un mandato politico, sindacale o economico o che rivesta un ruolo istituzionale, economico, sociale o religioso significativo». Insomma un intero arsenale tecnico, giuridico e poliziesco che rinvia apertamente al regime dello stato d’eccezione.
E’ indubbio che tutto ciò ricalca un immaginario di guerra che conduce a rappresentare alcune zone della società come dei teatri bellici dove l’intervento pubblico non si concepisce più nei termini della politica e del welfare ma unicamente sotto l’aspetto repressivo, per giunta nella sua forma più intensa: quella militare. Questo «nuovo ordine sicuritario» contemporaneo avrebbe una genealogia ben precisa rintracciabile nell’esperienza coloniale e militare della Francia. E’ quanto dimostra Mathieu Rigouste in L’Ennemi interieur, La généalogie coloniale et militare de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine (La Découverte, 2009).
Il caso francese deve intendersi come un laboratorio, un’esperienza pilota, l’anticipazione di scenari e comportamenti esportabili nel resto del mondo. police-partout3
In fondo è già accaduto in passato, quando la «dottrina della guerra rivoluzionaria», elaborata dagli stati maggiori francesi nel corso delle guerre coloniali d’Indocina e d’Algeria, popolarizzata nel libro del colonnello Roger Trinquier, pubblicato nel 1961 col titolo, La Guerre Moderne, (ripubblicato da Economica nel 2008) ed a cui la Cia ispirò il suo primo manuale antisovversione, è diventata la madre di tutte le dottrine contro-insurrezionali del dopoguerra impiegate dalle forze Nato come da tutte le dittature militari e fasciste, in particolare in Sud America. La counterinsurgency statunitense altro non è che la rielaborazione delle tesi che i generali francesi hanno insegnato nelle scuole di guerra del Nord America. Si veda in proposito il lavoro di Marie-Monique Robin, Escadrons de la mort, l’école française, (La Découverte 2004), che rintraccia l’inquietante percorso di alcuni ufficiali maggiori dell’esercito di Parigi, reduci dall’Indocina e dall’Algeria, che hanno formato alla controguerriglia gli ufficiali Usa a Fort Bragg e nella famigerata Scuola delle Americhe. Un apostolato antisovversivo segnato da varie tappe: lo sbarco come consigliere militare in Argentina, nel 1957, del colonnello Bentresque; il suo primo giro di conferenze (1962) nelle caserme sudamericane per insegnare le strategie antisovversive; Il manuale, Instruction pour la lutte contre la subversion, scritto sempre dai colonnelli Ballester e Bentresque; la proiezione, nel 1971, all’interno della scuola di meccanica della Marina a Buenos Aires (dove furono seviziati migliaia di cittadini sospettati d’essere militanti di sinistra) delle scene presenti nel film, La battaglia d’Algeri, di Gillo Pontecorvo, per rendere più efficaci i corsi di tortura impartiti ai presenti. La missione in Brasile del generale Paul Aussaresses, il gran maestro della tortura in Algeria, l’uomo che ha perfezionato e insegnato a tutti gli eserciti e polizie dell’Occidente l’uso degli elettrodi (sui genitali e le tempie) e della waterboarding (l’annegamento simulato) durante gli interrogatori. Metodi impiegati diffusamente anche dalla nostra Digos contro i militanti della lotta armata arrestati nel biennio 1982-83, ben prima che suscitassero scandalo perché impiegati dalla Cia nelle prigioni di Guantanamo e Abu Ghraib.
Le tesi della guerra rivoluzionaria sostituite da De Gaulle, non senza difficoltà, grazie all’arma nucleare acquisita nel 1960, e con la dottrina della dissuasione del «debole verso il forte», non sarebbero mai state rimosse definitivamente, anzi avrebbero mantenuto solide radici all’interno di alcuni settori militari per trasmigrare nelle forze di polizia ispirando le politiche di «mantenimento dell’ordine», utilizzate “ufficiosamente” nell’area d’influenza africana e nella gestione del controllo interno dopo il 1968 e da qui, soprattutto dopo l’11 settembre, assorbite anche dal mondo della politica fino a dare forma a un modello di potere militarizzato. Al vecchio nemico geopolitico comunista dell’epoca dei blocchi, dopo l’89 si sono venuti a sostituire una proliferazione di «nuove minacce», terrorismo, islamismo, violenze urbane, incivilités (qualcosa che assomiglia al nostro bullismo) che hanno giustificato la riedizione di una nuova figura di nemico interno, l’immigrato post-coloniale in grado di riattivare il risorgere di passate rappresentazioni razziste. Un nemico socio-etnico, locale e globale al tempo stesso, dissimulato nei quartieri popolari, residente nelle periferie, soprattutto tra i «non bianchi poveri».
L’immaginario, la costruzione e proiezione di raffigurazioni che vanno ad arricchire il repertorio delle classi pericolose e delle leggende ansiogene, costituiscono un elemento decisivo di questo nuovo ordine sicuritario che ispirandosi ai criteri della «guerra totale», ricorre alla cosiddetta «guerra psicologica», ovvero alla mobilitazione delle coscienze, alla costruzione di consenso, lì dove lo Stato-nazione è concepito come un organismo che la difesa nazionale deve immunizzare dalle malattie sociali, dai contagi rivoluzionari, dalla piaga del crimine, l’epidemia del vizio, e rassicurare dalle paure.
Questo nuovo ordine collima con una nuova formazione sociale che Mathieu Rigouste definisce «capitalismo sicuritario», dove il controllo oltre a riprodursi in forma allargata ha ingenerato un proprio mercato. La forma più inquietante di questo modello è la constatazione del grado di adesione dei controllati ai controllori. Non si tratta di un semplice modello di dominazione ma di un processo di adesione dal basso, di controllo reciproco e autocontrollo. Quello che il sociologo Philippe Robert coglie descrivendo l’emergere di un «neoproletariato della sicurezza», reclutato grazie al precariato di massa all’interno di quel sistema di polizia sociale che è il mondo della sicurezza e della vigilanza privata. Un sottosistema del controlli brulicante di sorveglianti nei metrò e nei supermercati, subalterni della sicurezza di vario ordine e natura, fino ai mediatori sociali, gli stuart degli stadi, gli assistenti sociali, eccetera. Un sistema dove il povero è preso a controllare l’altro povero e non alza più la testa.

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