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Dopo le pesanti condanne per devastazione e saccheggio confermate dalla Cassazione torniamo a parlare di amnistia
Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e dunque impatta quelle presenti. Per questa ragione le organizzazioni del movimento operaio, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno storicamente fatto ricorso alla rivendicazione di amnistie per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Garantire una lotta vuole dire serbare intatta la forza e la capacità di riprodurla in futuro.
Le amnistie politiche sono sempre state degli strumenti di governo del conflitto, un mezzo per sanare gli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Le amnistie sanano la discordanza di tempi tra conservazione e cambiamento. Esse rappresentano dei passaggi decisivi nel processo d’aggiornamento della giuridicità
Un Libro per riflettere – Amedeo Santosuosso e Floriana Colao, Politici e Amnistia, Tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità ad oggi, Bertani editore, Verona 1986
di Paolo Persichetti
Negli ultimi anni ripetuti cicli di lotte hanno ridato smalto all’azione collettiva. Questo nuovo clima d’effervescenza sociale non ha coinvolto soltanto tradizionali settori dell’attivismo politico più radicale, ma parti intere di popolo, pezzi di società. Le vaste dimensioni della rappresaglia giudiziaria stanno lì a dimostrarlo. Si è parlato di circa novemila persone sottoposte a procedimenti penali.
Scomponendo il dato ci accorgiamo che le figure sociali coinvolte riguardano lavoratori e sindacalisti degli stabilimenti Fiat di Melfi, Termini Imerese, Cassino, personale degli aeroporti, dipendenti del trasporto urbano, precari. Ci sono militanti antiguerra coinvolti nei blocchi ferroviari, le popolazioni meridionali di Scanzano e Acerra. I senzatetto, gli attivisti antiCpt e dei Centri sociali che hanno partecipato ad azioni contro l’esclusione, il carovita, il lavoro interinale, per il diritto alla casa. Militanti noglobal che hanno preso parte alle mobilitazioni di Napoli e Genova, gli attivisti No Tav, i manifestanti denuciati e condannati per le manifestazioni del 14 dicembre 2010 e del 15 ottobre 2011 a Roma.
Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e dunque impatta quelle presenti. Per questa ragione le organizzazioni del movimento operaio hanno storicamente fatto ricorso alle amnistie per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Garantire una lotta vuole dire serbare intatta la forza e la capacità di riprodurla in futuro.
Le amnistie politiche sono sempre state degli strumenti di governo del conflitto, un mezzo per sanare gli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Le amnistie sanano la discordanza di tempi tra conservazione e cambiamento. Esse rappresentano dei passaggi decisivi nel processo d’aggiornamento della giuridicità.
È stato così per oltre un secolo, ma in Italia non accade da più d’un trentennio. Le ultime amnistie politiche risalgono al 1968 e al 1970, dopo più nulla perché alla fine degli anni 70 hanno prevalso scelte favorevoli all’autonomia del politico contro le insorgenze sociali, col risultato di dare vita ad un divorzio drammatico tra sinistra storica e movimenti, per questo sarebbe ora di chiudere quella disastrosa parentesi. Si tratta di salvaguardare il dissenso di massa che si è espresso in questi ultimi tempi e chiudere gli strascichi penali di stagioni ormai concluse che con il loro protrarsi ipotecano pesantemente il futuro.
L’amnistia del 1968 e del 1970
Le amnistie del 1968 e del 1970, spiegano Amedeo Santosuosso e Floriana Colao in un volume apparso a metà degli anni Ottanta, sanciscono la fine del dopoguerra. Per la prima volta, infatti, scompare ogni riferimento agli strascichi della guerra civile per far fronte unicamente ai problemi posti dal conflitto moderno. Politici e amnistia era il titolo del libro, dove per «politici» non s’intendono certo i condòmini del Palazzo, come la vulgata populista affermatasi più tardi potrebbe indurre a credere, ma quei «militanti di strada», protagonisti delle battaglie sociali più aspre che hanno fatto avanzare il Paese.
Il progressivo mutamento di senso che ha investito questo termine dimostra quanto forte sia stata la volontà di spoliticizzare il sociale. Senza dubbio una delle ragioni che hanno ostacolato la promulgazione di nuove misure amnistiali per fatti politici.
La definizione più ampia di amnistia si trova nel provvedimento del 1970, rivolto a quei delitti «commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale». Le tipologie di reato investite vanno dallo sciopero del pubblico servizio, alla resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, interruzione di servizio pubblico, istigazione a commettere reati e disobbedire alle leggi, boicottaggio, occupazione d’azienda, sabotaggio, violenza privata e danneggiamento.
Nell’amnistia del 1968 sono inclusi anche il blocco stradale e ferroviario, la devastazione, l’incendio, la detenzione d’armi da guerra. Illuminanti appaiono gli argomenti avanzati per giustificarne la necessità. Nel giugno 1968, il relatore, senatore Codignola, richiamava «il divario crescente fra alcune norme penali e di sicurezza tuttora in vigore, e la diversa coscienza che si è venuta maturando fra i giovani. I procedimenti giudiziari che ne sono seguiti ne costituiscono la logica conseguenza, ma riconfermano la necessità e l’urgenza di una radicale revisione del Codice penale, della legge di Pubblica sicurezza e di altre leggi, la cui ispirazione autoritaria risale al fascismo o comunque ad una concezione repressiva dello Stato».
Da rilevare come quella normativa, allora tanto biasimata, non solo è ancora in vigore, ma è stata ulteriormente irrigidita. Alla Camera, Giuliano Vassalli difendeva l’amnistia del 1970 sostenendo che tali dispositivi «sono adottati quando si tratti di por fine a procedimenti penali propri e caratteristici d’una determinata situazione storicamente superata e della quale non è pensabile una riproduzione a breve scadenza o a procedimenti penali instaurati per reati che sono il frutto particolare di eccezionali rivolgimenti politici, economici e sociali arrivati a positiva conclusione, della quale taluni eccessi sono il prezzo fatale, ed un prezzo del quale pertanto non appare giusto esigere il pagamento fino alle estreme conseguenze del processo e della condanna».
Perché l’amnistia oggi
Nel 2001 con l’introduzione del Mae (il mandato di arresto europeo che ha reso quasi automatiche le estradizioni all’interno dello spazio Shengen, abolendo l’immunità e le garanzie che un tempo tutelavano le infrazioni di natura poltica) e le direttive europee che hanno invitato i paesi membri ad estendere la nozione di terrorismo a condotte politiche e sociali ritenute un tempo normale espressione della conflittualità sociale e sindacale, oltre a designare come un possibile movente «terrorista» il dissenso politico contro i governi, si è sempre più affievolita la distinzione tra reati e atti illeciti tipici delle lotte sociali e dei movimenti di contestazione interni al sistema e reati di natura apertamente sovversiva e insurrezionale. I margini di tolleranza dei governi e gli spazi di agibilità democratica si sono drasticamente ridotti con effetti paradossali, dovuti alla disproporzione tra la forza immensa dei mezzi repressivi impiegati e le forme d’illegalità politica a bassa intensità tipiche del dissenso sociale diffuso, quasi a voler imporre una sorta di domesticazione cimiteriale d’ogni possibilità di critica che ha trovato sostegno in quella cultura della legalità che La Boètie non avrebbe esitato a designare come una una tragica prova di servitù volontaria.
In Italia il codice Rocco, arricchito della legislazione speciale antisovversione varata sul finire degli anni 70, si è rivelato un’eredità molto proficua con la sua dottrina del nemico interno. La presenza di questo potente arsenale giuridico repressivo ha permesso alla magistratura di avvalersi d’un ventaglio d’ipotesi d’accusa estremamente ampio e insidioso, come la molteplice presenza di reati di natura associativa:
– dall’originario 270 cp previsto dal guardasigilli del regime fascista Alfredo Rocco, al successivo 270 bis introdotto con la legislazione d’eccezione antissoversione, ai successivi 270 ter, quater, quinques e sexties, situati nel famigerato capitolo secondo dei delitti contro la personalità interna dello Stato;
– all’impiego del 419 cp (devastazione e saccheggio, con pene che variano da un minimo di 8 ad un massimo di 15 anni, che si è tornati ad impiegare dopo i fatti del G8 genovese per sanzionare tradizionali scontri di piazza, conflitti di strada che rientrano nell’ambito della gestione dell’ordine pubblico e non certo all’interno di condotte con finalità insurrezionali). Un reato recepito dalle corti di giustizia in 51 anni di storia repubblicano-costituzionale (dal 1948 al 1999) solo 10 volte. E ben 13 dal 2000 ad oggi, cioè più di un processo all’anno nonostante sia del tutto evidente che il decennio 2000 non può essere paragonato per intesità di violenza politica e presenza di culture politiche rivoluzionarie al trentennio precedente, o anche solo agli anni 70. A dimostrazione che il rinnovato ricorso a questo tipo di imputazione è frutto di una torzione autoritaria della cultura giuridica della magistratura e più in generale del sistema politico italiano;
– o ancora la riesumazione in alcune inchieste recenti del 304 cp, “Cospirazione politica mediante accordo”, norma travasata dal codice Zanardelli all’interno del codice Rocco, impiegata in origine per colpire il diritto di sciopero, tant’è che la corte costituzionale è dovuta intervenire con sentenza n. 123 del 28 dicembre 1962 dichiarando che «compete al giudice di merito disapplicare le norme ricordate artt. 330, 304, 305 cod. pen. in tutti quei casi rispetto ai quali l’accertamento degli elementi di fatto conduca a far ritenere che lo sciopero costituisca valido esercizio del diritto garantito dall’Articolo 40 Cost.».
Evocare il rapporto di forza sfavorevole per liquidare il problema rappresentato dall’amnistia, serve a poco, anzi in genere è la prova della codardia e dell’immensa dose di opportunismo che cova in chi ne fa ricorso.
«Spesso – scriveva Seneca a Lucilio – non è perché le cose sono difficili che non si osa, ma è perché non si osa che diventano difficili».
Il rapporto di forza sfavorevole è il presupposto di ogni ragionamento sull’amnistia, altrimenti le soluzioni chiamerebbero in causa la scienza ingegneristica delle demolizioni. La vera novità negativa è che se anche oggi ci fosse un rapporto di forza favorevole, l’amnistia non sarebbe percepita come un’ipotesi legittima. Dunque il problema sta nella testa, perché se da un lato il giustizialismo è dilagato dall’altro l’unica alternativa sembra il vittimismo martiriologico.
Ogni movimento futuro avrà davanti questo problema: riassorbire la legislazione d’emergenza nella quale si annidano le tipologie di reato più insidiose, abolire il codice Rocco, la pena dell’ergastolo, la legislazione premiale in ogni suo aspetto, decarcerizzare, sprigionare, aprire una vertenza per l’indulto e l’amnistia in favore dei reati politici, sociali e per sfollare le carceri.
Per approfondire
L’inchiesta di Cosenza contro Sud Ribelle
Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo
L’amnistia Togliatti
Una storia politica dell’amnistia
La fine dell’asilo politico
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?
Niente amnistia perché ci vogliono i 2/3 del parlamento? Allora abolite le ostative del 4 bis e allungate la liberazione anticipata. Basta la maggioranza semplice
Il nuovo Guardasigilli Nitto Palma dice no all’amnistia e parla della solita depenalizzazione dei reati minori e del reintegro della detenzione domiciliare, disattivata dalla Cirielli
Paolo Persichetti
Liberazione 13 agosto 2011
Per il nuovo ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma, il ricorso ad un’amnistia, accompagnata da un indulto, come chiesto a viva voce da Marco Pannella nel corso del suo ultimo sciopero della fame per affrontare la drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri: «non è percorribile politicamente data la necessità di una maggioranza qualificata per la sua approvazione in parlamento». Il guardasigilli si è affrettato a chiudere ogni spiraglio a ridosso della giornata di sciopero della fame e della sete promossa dal partito radicale per domenica 14 agosto, ed a cui hanno aderito le diverse associazioni che si occupano di carcere, alcuni esponenti politici ma soprattutto il segretario nazionale del sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari insieme ai responsabili di altre sigle del sindacalismo penitenziario come l’Uil-Pa penitenziari, l’Osapp e il comparto sicurezza Cgil-Fp. Una presenza istituzionale che la dice lunga sulle preoccupazioni e i malumori che circolano all’interno dell’universo penitenziario insoddisfatto per l’incapacità messa in mostra da questo governo dopo il conferimento dei poteri speciali al capo del Dap, il piano straordinario di edilizia penitenziaria e la ridicola leggina “svuota carceri”.
Defilata appare invece la presenza dei detenuti, meno massiccia del solito, sparpagliata e disorganizzata. Segno di rassegnazione e fatalismo? Due anni fa di questi tempi si moltiplicavano proteste e rivendicazioni un po’ ovunque. Il capo del Dap era costretto a correre da una prigione all’altra mentre i sindacati degli agenti di custodia denunciavano il rischio di una esplosione generale della rivolta. Oggi la situazione sembra sedata, nel vero senso della parola, cioè sottoposta all’effetto di sedativi. E’ il carcere dei disgraziati, di chi fa largo abuso di benzodiazepine o peggio, e si affida alla provvidenza come i pescatori di Verga nei Malavoglia. In gran parte figure destrutturate, incapaci di darsi una soggettività. L’alto numero di suicidi e le diffuse pratiche autolesioniste delineano il profilo sociologico fragile, sofferente, ultramarginale, di una popolazione che raccoglie tra le sue fila per buona parte tossicodipendenti, persone con problematiche psichiatriche, immigrati catapultati da altre rive. Un nuovo ciclo dei vinti sul quale infierisce con brutale cinismo una cultura assai trasversale ispirata ad una sorta di nuovo malthusianesimo penale che cerca di sbarazzarsi di questa umanità ritenuta uno sgradevole esubero. Attenzione però, sotto questo sonno covano spesso gli incendi più paurosi, come le jacqueries di un tempo.
Quindi la battaglia per arrivare ad un nuovo indulto accompagnato da quell’amnistia mancata nel 2006 è già finita prima di cominciare? C’è da giurare che Pannella non si arrenderà tanto facilmente. Ha ragione a tenere la barra alta e chiedere un provvedimento amnistiale per rovesciare quell’amnistia di classe, quotidiana e silenziosa, che porta il nome di prescrizione, valida solo per colletti bianchi e ceti abbienti. Da una parte un’amnistia mascherata e tutta di censo per chi riesce sempre a sottrarsi al processo, figuriamoci alla condanna; dall’altra condanne pesanti, aggravanti e recidive di ogni ordine e grado, celle affollate, pene lunghe e senza benefici per chi non appartiene ai ceti del privilegio. Resta il fatto che i rapporti di forza in parlamento, e soprattutto la presenza di una cultura politica giustizialista egemone e trasversale agli schieramenti politici, rendono improba la battaglia. Nel 2006 l’indulto arrivò sull’onda di una risicata vittoria parlamentare del centrosinistra, votato ad inizio legislatura quando nelle aule parlamentari e nella coalizione di governo era ancora presente Rifondazione comunista, prima della scissione. Oggi al suo posto c’è l’Idv, i Radicali sono soli e nel Pd l’idea non crea certo l’unanimità. Sulla questione c’è chi ha posizioni persino più rigide delle destre, al punto che nessuno ha protestato per le disposizioni ultraforcaiole (e incostituzionali), come l’abolizione del rito abbreviato e l’esclusione dai benefici penitenziari per alcune categorie di reato, contenute nel ddl detto «allunga processi», passato recentemente al senato.
Il nuovo guardasigilli sembra orientato a lavorare su misure minime come la depenalizzazione dei reati minori e una nuova leggina sui domiciliari, questa volta con maglie più larghe. Mezzucci. Con lo “svuota carceri” (e riempi celle) che tanta paura aveva suscitato solo a MarcoTravaglio sono usciti meno di 3000 persone. Bastava applicare correttamente le norme sui domiciliari e l’affidamento previste dalla Gozzini e ne sarebbero uscite molte di più.
Se l’intenzione del neoministro è quella di volare così basso, i Radicali possono sfidarlo proponendo l’abolizione dei vincoli ostativi previsti dal 4 bis, che impediscono l’accesso alla Gozzini, e il raddoppio dei giorni di liberazione anticipata. 180 giorni all’anno di sconto per buona condotta. Non serve l’insormontabile maggioranza qualificata richiesta dall’amnistia. Basta la maggioranza semplice.
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L’insostenibilità economica del sistema penitenziario: riduciamo i detenuti e dimezziamo le carceri
Cronache carcerarie
Carceri, è rivolta contro l’affollamento: “Amnistia”
Dopo la prigione di Lucca, fuochi e tumulti al Bassone di Como e Solliciano
Paolo Persichetti
Liberazione 19 agosto 2009
Al calar della sera si sono accesi i primi bagliori di rivolta. È successo lunedì scorso, nemmeno 24 ore dopo la più grande visita parlamentare mai avvenuta nelle carceri italiane dal dopoguerra. Prima nella casa circondariale Bassone di Como, poi in quella di Sollicciano a Firenze. Ieri è stato il turno di Capanne, il penitenziario di Perugia. È allarme generale ma non una sorpresa: «Da giorni, settimane, mesi ripetiamo che la situazione penitenziaria del Paese, a causa del costante sovraffollamento, è ogni giorno sempre più critica», ha ribadito in un comunicato il segretario del Sappe, una delle maggiori sigle sindacali della polizia penitenziaria.
L’incendio scoppiato all’interno di una cella del carcere di Capanne ha richiesto l’intervento di alcune squadre dei vigili del fuoco. Secondo le prime informazioni ad appiccare le fiamme sarebbero stati alcuni detenuti. A quanto pare l’episodio sarebbe circoscritto, a differenza di quanto è invece accaduto a Sollicciano tra le 23 e l’una di notte di lunedì. La battitura delle inferiate, programmata dai detenuti per dare voce alla protesta contro il sovraffollamento e rivendicare l’amnistia, si è rapidamente trasformata in una mezza sommossa. Per far sentire oltre le mura il respiro affannato di chi è rinchiuso, l’impasto di sudore e afa, le brande infuocate, l’aria densa e immobile che affoga gli spazzi stracolmi delle celle, i detenuti hanno deciso la protesta del rumore, una delle più classiche e antiche manifestazioni che danno voce al mondo dei rinchiusi. Una battitura ritmica delle inferiate realizzata con pentole, coperchi, bombolette del gas vuote, sgabelli e quant’altro si può percuotere contro le sbarre delle finestre o i blindati. Il tutto accompagnato da urla, fischi, slogan in favore dell’amnistia e dell’indulto. Presi dall’adrenalina altri hanno, invece, cominciato a dare fuoco a tutto quello che si poteva incendiare: giornali, lenzuola, stracci da mostrare alla città. No, non c’era nessun piano, nessun complotto in una situazione dove spesso manca la stessa grammatica per organizzare una protesta. Solo disperazione, tanta rabbia che esplode e accende gli animi. Provate voi a stare accatastati in quel modo, in pochi metri quadrati anche solo per qualche giorno. 950 persone rinchiuse in una struttura che ha una capienza massima di 400. In quelle stanze non circola aria ma grisù. Basta un nulla che prende fuoco.
Lo sanno gli agenti di custodia, e lo dicono ormai da diverso tempo. Lo sanno i direttori degli Istituti, lo sanno i dirigenti del Dap. Lo sa il ministro Alfano. Lo sanno tutti. E sanno anche qual’è l’unica soluzione. Ma fino ad oggi hanno deciso di fare finta di nulla accampando un piano carceri che, anche se solo riuscisse a decollare in parte dopo i tanti rinvii, non risolverebbe nulla se non gonfiare i portafogli di quegli imprenditori che avranno gli appalti.
A Sollicciano lunedì sera la tensione è salita alle stelle. Le cronache raccontano l’attivazione di un immediato piano sicurezza. La casa circondariale è stata subito circondata da gazzelle del nucleo radiomobile dei carabinieri e da agenti delle volanti. Altri rinforzi sono arrivati dal reparto mobile della polizia. Attorno al carcere è stato costituito un fitto cordone di sicurezza, neanche avessero dovuto fare fronte a una guerra civile. Ma forse è un po’ a questa idea che i governanti vogliono prepararci. Già ad ogni crocicchio e semaforo di strada si vedono mimetiche dell’esercito armate di tutto punto. Nell’immediato dopoguerra alcune rivolte esplose in diverse carceri sovraffollate come oggi vennero sedate a colpi di cannone. Ci fu un massacro. Stiamo attenti, dunque.
Per fortuna l’altra sera la situazione si è placata nel giro di alcune ore, la polizia penitenziaria è entrata sezione dopo sezione per spegnere i focolai d’incendio. La protesta è di nuovo ripresa alle 10 e 30 del mattino successivo con una nuova battitura. Il garante per i detenuti Franco Corleone dopo un sopralluogo ha spiegato che le proteste nascono da una somma di carenze, diffuse un po’ ovunque nei penitenziari della penisola, aggravate dall’affollamento: la riduzione dei colloqui con familiari e delle ore di passeggio causa ferie del personale di custodia, la mancanza di docce, l’impossibilità di avere visite mediche rapide, sommata alla mancanza di spazi, l’impossibilità di lavorare o svolgere attività, la sordità delle magistrature di sorveglianza che negano i benefici penitenziari.
Non stupisce allora se anche a Como, una delle strutture penitenziarie più degradate d’Italia, la protesta è durata tre giorni. Dalla battitura iniziale e lo sciopero della fame intrapreso da alcuni, si è passati nei giorni successivi all’esplosione delle bombolette di gas in dotazione per i fornellini da cucina fino alla rottura dei neon delle celle col tentativo di provocare cortocircuiti, almeno secondo quanto riferito da un esponente della Uil penitenziaria. Angelo Urso, in una nota ha ricordato come nel carcere di Como «in questi anni non sono mai stati realizzati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. Pertanto la fatiscenza e l’insalubrità dei locali non può che aggravare la condizioni detentive».
Qualcosa di simile era già accaduto nella prigione di Lucca nei primi giorni di agosto. Anche lì, una protesta dimostrativa si era trasformata in un piccolo tumulto con il lancio di bombolette e focolai d’incendio nelle sezioni. Insomma si assiste ad una fisiologica tendenza all’inasprimento delle forme di lotta conseguenza dell’esasperazione suscitata dalle condizioni d’invivibilità. Nonostante questi ripetuti segnali e i continui appelli lanciati da tutti gli operatori del settore, dal cielo della politica non vengono risposte. Il governo è in vacanza, come i vertici del Dap e del ministero. Intervistato dal Gr della Rai, Ionta ha ribadito le virtù del suo piano straordinario d’edilizia carceraria, senza però indicare date precise sulla sua presentazione. Un’incertezza dietro la quale si nasconde l’assenza di copertura finanziaria e una sostanziale mancanza di credibilità. L’opposizione dovrebbe mobilitarsi con una grande iniziativa politica per impedire che nelle carceri avvengano tragedie. È ora di riaprire la vertenza sull’amnistia.
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Liberazione 18 agosto 2009
Tutti i reati sono in calo, dagli omicidi, alle rapine, ai furti, alle violenze sessuali, ha spiegato nel corso della consueta conferenza stampa di Ferragosto, il ministro degli Interni Roberto Maroni. Addirittura la delittuosità generale sarebbe in forte regresso, 13,95% in meno rispetto al periodo precedente (quello del governo Prodi). Secondo i dati del Viminale nei primi 14 mesi del governo Berlusconi vi sarebbe stata una flessione del 3,7% per gli omicidi, del 7,7% per le violenze sessuali, del 18,6% per i furti, del 20,4% per le rapine, del 15,1% per le estorsioni e del 16,1% per i reati da usura.
Secondo Maroni queste cifre devono ascriversi all’azione positiva del suo governo che avrebbe trovato la ricetta giusta per sconfiggere la criminalità, le mafie, eccetera. Un piano straordinario contro la criminalità, «contro il male» ha detto Berlusconi che ha presenziato alla conferenza stampa, verrà presentato in settembre.
Quel che Maroni non dice, però, è che la curva discendente dei reati non fa che confermare un tendenza avviatasi da tempo, almeno dalla seconda metà del 2007. Già nel 2008, prim’ancora che s’insediasse nuovamente il governo Berlusconi, i reati erano in calo di otto punti. Da questa realtà taciuta si può trarre una prima conclusione: la flessione dei reati non è un merito di questo governo in cerca di spot pubblicitari per giustificare il varo di legislazioni sempre più liberticide come l’ultimo pacchetto sicurezza. E sia detto per inciso, non è nemmeno un merito della compagine di centrosinistra che di allarmi sicurezza è morta, che sul terreno sicuritario ha voluto rivaleggiare con la destra riuscendo solamente a tirargli la volata per la vittoria finale. Vi ricordate l’affondo di Veltroni dopo l’omicidio Reggiani, la donna violentata e trucidata in un tugurio nei pressi della stazione di Tor di Quinto a Roma? E le ordinanze degli assessori, come Cioni a Firenze, o dei sindaci-sceriffo come Cofferati a Bologna, che fecero da modello per molti altri amministratori locali in tutta Italia?
Se approfondissimo ulteriormente l’analisi scopriremmo, come spiegava Ilvo Diamanti pochi giorni fa su Repubblica, che il peso dei reati sulla società attuale è addirittura inferiore a quello di un ventennio fa. Nel 1991 c’erano 4666 delitti per 100 mila abitanti, oggi 4520.
Se andassimo ancora più a fondo dovremmo chiederci quale incidenza ha avuto il varo dell’indulto del luglio 2006 sul crollo della delittuosità e nella fattispecie della recidiva. Uno studio realizzato da Giovanni Torrente (vedi Liberazione del 15 luglio) ha messo in luce la relazione diretta tra beneficio dell’indulto e crollo della recidiva. Per chi ha usufruito dello sconto di pena di tre anni la reiterazione del reato è stata pari al 28,45%. Tra quelli che invece hanno scontato la pena per intero, il tasso di recidiva si è impennato e raggiunge il 68%. Gli indultati tornati a delinquere sono meno della metà di quelli che non hanno avuto sconti. Non solo, ma la propensione a delinquere cala ancora di più tra i cittadini stranieri, solo il 21,36% rispetto al 31,9% degli italiani. A confermare questa tendenza c’è un ulteriore dato: la reiterazione del reato precipita (appena il 21,78%) tra chi accede a misure restrittive diverse dalla detenzione, sia che si tratti della fase antecedente al processo che durante l’esecuzione pena. Eppure lo schieramento politico di cui il ministro Maroni è espressione, aveva indicato nell’indulto la causa di tutti i mali, allertando l’opinione pubblica su un’emergenza criminalità inesistente: «Indulto, uno su due è tornato in carcere»; «Indulto, il 36 per cento è tornato in Galera»; «Effetto indulto, un detenuto su 4 è rientrato in cella. Incremento del sette per cento nell’ultimo mese»; «Alfano condanna l’indulto: fallito, carceri piene di recidivi», solo per citare alcuni titoli di quel periodo.
Il processo sociale attraverso il quale l’indulto è divenuto nel sentire comune un fallimento, la causa principale del (presunto) aumento della criminalità, è lo stesso che nei mesi precedenti e successivi ha allargato la forbice tra ciò che avveniva realmente nella realtà sociale e la sua percezione, o meglio la maniera in cui questa realtà veniva raccontata, travisata, deformata.
Un recente rapporto stilato dall’Osservatorio di Pavia su “Sicurezza e media” (curato da Antonio Nizzoli) ha rilevato come la descrizione della criminalità in tivvù dipenda più da scelte di politica dell’informazione che dalle emergenze quotidiane della cronaca. Solo nel secondo semestre del 2007 i telegiornali di prima serata delle reti Rai e Mediaset avevano dedicato ben 3500 servizi a fatti di cronaca nera. Nel secondo semestre del 2008 questi sono scesi a poco più di 2500, per arrivare a meno di 2000 nel primo semestre di quest’anno. Una flessione finale di 50 punti a fronte di un calo reale di 8.
I dati forniti dal ministro sollecitano un’altra domanda: ma se i reati diminuiscono, com’è possibile che i detenuti crescano fino a battere tutti i record della Repubblica (quasi 64 mila)? Anche qui, a voler leggere bene tra i dati scopriamo che il calo di reati contro la persona e i beni non trova giustificazione nell’incarcerazione degli autori, messi cosi in condizione di non nuocere. L’affollamento carcerario è dovuto all’incarcerazione di un altro tipo di popolazione: stranieri in situazione irregolare e consumatori di sostanze stupefacenti. Due specifiche sottoclassi sociali a cui questa società ha dichiarato guerra.
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I dati che smentiscono la campagna terroristica contro l’Indulto
Post da completare…. la mole dei dati è enorme. Un po’ di pazienza!
Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità
di Giovanni Torrente [1]
Come noto, con la legge 31 luglio 2006 è stato concesso provvedimento di indulto per tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006 puniti entro i tre anni di pena detentiva e con pene pecuniarie non superiori a 10.000 euro, sole o congiunte a pene detentive. Il provvedimento prevede anche uno sconto di tre anni per coloro che sono stati condannati a una pena detentiva di maggiore durata e abbiano commesso il fatto precedentemente alla data sopraindicata. Sono esclusi dalla concessione dell’atto di clemenza i colpevoli di alcuni reati previsti dal codice penale. L’indulto, infatti, non si applica ai colpevoli di diversi delitti, tra i principali quelli concernenti: associazione sovversiva, reati di terrorismo, strage, sequestro di persona, banda armata, associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice penale, associazione di tipo mafioso, riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, usura, riciclaggio, produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti. Il beneficio dell’indulto è revocato di diritto se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data della sua entrata in vigore, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni.
Il provvedimento nasce con l’obbiettivo esplicito di rimediare ad una situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari che, a partire dagli anni ’90, ha visto aumentare progressivamente il numero di presenze all’interno delle carceri italiane, arrivando a toccare tassi di detenzione mai raggiunti durante l’epoca repubblicana[2]. Tale grave indice di sovraffollamento ha storicamente contribuito a porre dei seri interrogativi sulla legalità stessa del complesso del sistema dell’esecuzione penale del nostro paese, così come più volte testimoniato dagli osservatori delle associazioni non governative impegnate nella tutela dei diritti fondamentali nel sistema penale e dagli organismi internazionali che vigilano nella prevenzione della tortura all’interno dell’Unione Europea[3]. Il provvedimento ha quindi svolto la funzione di riportare il sistema penitenziario italiano all’interno dei parametri della legalità e di permettere condizioni di esecuzione della pena compatibili con i principi posti a tutela dei diritti fondamentali delle persone private della libertà.
Pur in presenza di tali ragioni, la legge è stata oggetto di pesanti critiche. Tali critiche paiono essersi sviluppate, in primo luogo, sul piano mediatico, il quale ha visto schierata contro il provvedimento la quasi unanimità degli organi di informazione di massa, coinvolgendo, in una seconda fase, la generalità degli attori politici, compresi coloro che a suo tempo avevano votato a favore della legge[4]. Il progressivo incremento delle critiche pare aver nel tempo generato una sorta di senso comune secondo il quale l’indulto avrebbe provocato un aumento dell’insicurezza causato dai dei reati commessi dalle persone liberate grazie alla legge. Tale progressiva convinzione degli effetti negativi dell’indulto non pare tuttavia essere stata accompagnata da dati oggettivi che corroborassero tale rappresentazione. Da tale constatazione nasce quindi l’idea di un monitoraggio sul comportamento recidivante degli indultati che affianchi i dati impressionistici su cui si fonda il dibattito pubblico con il quadro del fenomeno che emerge dalla ricerca empirica.
La ricerca di cui si ha l’occasione di presentare i risultati costituisce l’ideale proseguimento del monitoraggio sulla recidiva degli “indultati” che, sino a questo momento, ha conosciuto due precedenti momenti di verifica. Il primo, dopo sei mesi dall’entrata in vigore della legge[5]; il secondo, dopo diciassette mesi di applicazione del provvedimento[6]. In entrambe le occasioni i dati sul comportamento recidivante dei soggetti beneficiari della legge hanno suggerito un giudizio positivo sugli effetti prodotti dal provvedimento. In entrambi i casi, infatti, si è rilevato come la recidiva delle persone liberate fosse significativamente più bassa rispetto a quella “ordinaria” individuata dalle ricerche che si sono occupate del tema nel nostro paese. In quelle occasioni, tuttavia, le valutazioni sono state guidate da un criterio di prudenza in quanto l’arco temporale di riferimento, inferiore rispetto alle precedenti ricerche italiane sul tema, impediva una completa valutazione dei dati raccolti. I dati presentati costituiscono un aggiornamento di tale monitoraggio attraverso l’analisi dei reingressi in carcere di beneficiari del provvedimento di indulto aggiornati al 15 ottobre 2008. I risultati a cui si è giunti, occorre da subito ribadirlo, sono il risultato dell’incontro fra le ambizioni della ricerca e le prassi organizzative adottate dal Ministero della Giustizia nella raccolta dei dati statistici che hanno fortemente condizionato le scelte di metodo adottate. Occorre quindi, prima di soffermarsi sulla lettura dei dati, concentrarsi sulle implicazioni metodologiche che debbono guidare la lettura dei risultati della ricerca.
1. Nota metodologica
Come sottolineato nella prima parte di questo lavoro, prima di addentrasi nelle discussioni relative ai tassi di recidiva, occorre stabilire che cosa si intenda per recidiva. In questa occasione non ci si è voluti riferire al significato tecnico-giuridico della declaratoria di recidiva ex art. 99 c.p. Nell’ottica degli obiettivi che si è posto un monitoraggio in “tempo reale” sul comportamento dei beneficiari della legge, si è preferito adottare un criterio di interpretazione del fenomeno che facesse riferimento al semplice reingresso in carcere di soggetti beneficiari della provvedimento. In questo senso, l’arresto della persona già liberata a seguito dell’indulto è stato considerato come un criterio sufficiente a considerare il soggetto come recidivo. È evidente come alcuni degli arrestati potranno successivamente essere stati dichiarati innocenti al momento della celebrazione del processo penale; è altresì possibile che nell’eventuale sentenza di condanna non venga contestata la recidiva. In questo senso, è corretto affermare che il criterio utilizzato tende leggermente a sovrastimare il fenomeno rispetto al dato giuridico. Tuttavia, tale sovradimensionamento è l’implicazione di una scelta metodologica che si è inteso adottare al fine di presentare dati utilizzabili nell’immediato come strumenti di valutazione dell’impatto prodotto da un provvedimento controverso come l’indulto. Appare altresì evidente come future osservazioni, più lontane nel tempo, non ponendosi l’obiettivo di entrare nell’immediato all’interno del dibattito sull’impatto della legge, potranno utilizzare un criterio di interpretazione della recidiva maggiormente conforme al dettato normativo.
Ulteriori precisazioni debbono inoltre riguardare l’arco temporale di riferimento ed il campione oggetto di osservazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, come si è detto, i dati sono aggiornati al 15 ottobre 2008, e si riferiscono quindi ad un arco temporale di 26 mesi e 15 giorni. Per quanto riguarda il campione di riferimento, riguarda la totalità dei soggetti scarcerati grazie alla legge ed un campione di 1.414 persone liberate dalla misura alternativa. L’arco temporale e la scelta del campione hanno tuttavia subito pesanti condizionamenti nel momento in cui le scelte di metodo si sono confrontate con l’organizzazione del ministero della Giustizia nella raccolta dei dati statistici. È su questo aspetto che occorre quindi soffermarsi brevemente.
Le cifre presentate sono il frutto di una rielaborazione su dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Come noto, l’esecuzione penale nel nostro paese è suddivisa fra l’area penale interna, competente sull’esecuzione delle pene all’interno degli stabilimenti penitenziari, e l’area penale esterna, competente sull’esecuzione delle misure alternative al carcere. A tale divisione corrisponde una parallela struttura organizzativa degli uffici che coinvolge anche l’ambito statistico. All’interno di tale strutturazione organizzativa, i dati statistici relativi all’esecuzione penale interna sono raccolti dall’Ufficio per lo Sviluppo e la Gestione del Sistema Informativo Automatizzato, mentre i dati relativi all’area penale esterna sono raccolti dall’Osservatorio delle misure alternative presso la Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna. Tale modalità organizzativa pone dei seri problemi al ricercatore interessato all’analisi delle statistiche sull’universo dell’esecuzione penale in quanto impone di presentare le medesime richieste a due differenti uffici, non coordinati fra loro, strutturati in maniera differente e con sistemi di raccolta dati differenti. Tali difficoltà, inoltre, si rivelano maggiori nel momento in cui emerge che i due uffici trattano, in parte, gli stessi temi, ma con prassi organizzative, nella raccolta ed elaborazione dei dati statistici, sostanzialmente differenti. In materia di indulto, ad esempio, si è fatto prevalentemente riferimento a dati forniti dall’Ufficio per lo Sviluppo e per la Gestione del Sistema Informativo Automatizzato del DAP, il quale ha svolto un monitoraggio sulle liberazioni e sui reingressi in carcere, sia dei soggetti provenienti dal carcere, sia di parte dei soggetti liberati dalla misura alternativa. Tale monitoraggio, tuttavia, non considera il numero reale di persone rientrate in carcere, quanto piuttosto il numero di “eventi di ingresso”; tale criterio, specie sul lungo periodo, tende evidentemente a sovradimensionare la reale entità del fenomeno. Ai fini di una corretta rappresentazione si è quindi dovuto richiedere agli uffici del DAP uno sforzo organizzativo volto alla distinzione fra numero di eventi di ingresso e numero reale di soggetti recidivi. Tale computo ha causato diverse difficoltà, sia agli uffici del ministero, sia ai ricercatori impegnati nel monitoraggio che hanno determinato un aggravio dei compiti e l’allungamento dei tempi della ricerca. Tuttavia, i dati in questa sede presentati si riferiscono al numero reale di soggetti rientrati in carcere.
Per quanto riguarda il campione di soggetti liberati dalla misura alternativa, occorre rilevare come esso corrisponda al totale delle persone che hanno usufruito della misura dopo un periodo di carcerazione, non comprendendo quindi tutti i soggetti dimessi dalla misura alternativa che non hanno mai fatto ingresso in carcere in quanto giunti alla misura alternativa dalla libertà. Per ottenere il numero totale di beneficiari dell’indulto, comprendente sia i soggetti scarcerati, sia i soggetti liberati dalla misura alternativa, ci si è quindi dovuti rivolgere alla Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna, la quale, nel computo dei soggetti liberati dalla misura alternativa, considera sia i soggetti che hanno usufruito della misura alternativa dopo un periodo di detenzione, sia i soggetti che hanno ottenuto l’applicazione della misura alternativa a seguito della sentenza di condanna, senza patire un periodo di detenzione. Tale ufficio, peraltro, non ha svolto alcun monitoraggio sul comportamento recidivante dei soggetti liberati dalla misura alternativa e quindi, per la rilevazione dei reingressi in carcere di tali soggetti, ci si è dovuti affidare al monitoraggio svolto dagli uffici statistici dell’area penale interna, limitatamente al campione da loro analizzato. Per quanto riguarda, invece, il comportamento recidivante dei soggetti liberati dalla misura alternativa che non hanno patito un periodo di detenzione, non esistono al momento dati disponibili ed un eventuale monitoraggio è affidato a future ricerche a campione all’interno di tale universo.
Accanto a tali difficoltà “strutturali”, un ulteriore problema ha riguardato nello specifico questa terza fase di monitoraggio del provvedimento. Nell’ultimo anno, infatti, il sistema di monitoraggio dati dal DAP ha conosciuto dei cambiamenti che hanno riguardato prevalentemente il sistema centrale di raccolta dati. Tali cambiamenti hanno determinato la cancellazione di diverse query e l’impossibilità di recuperare alcuni lavori non di routine. Per quanto riguarda i dati sulla recidiva degli indultati, tali mutamenti hanno comportato delle difficoltà nel ricostruire i tassi di recidiva distinguendo fra il campione di soggetti provenienti dalla misura alternativa e gli scarcerati. È accaduto così che, se relativamente al dato generale sulla recidiva, si è riusciti a mantenere la distinzione fra provenienti dal carcere e provenienti dalla misura alternativa, per quanto riguarda la lettura del dato in relazione alle specifiche variabili socio-anagrafiche e giudiziarie, tale divisione non è più stata possibile ed i dati presentati si riferiscono alla generalità dei soggetti beneficiari dell’indulto monitorati dal DAP. Inoltre, l’ufficio statistiche, in questa fase del monitoraggio, non è stato più in grado di soddisfare la nostra richiesta relativamente al dato aggiornato sui tassi di recidiva rispetto al numero di precedenti carcerazioni. Ne deriva che il dato presentato è aggiornato al 31 dicembre 2007.
2. I beneficiari del provvedimento
Il numero di soggetti che sono tornati in libertà dopo aver usufruito del provvedimento di clemenza è pari a 44.994. Tale cifra si ottiene sommando i 27.607 scarcerati con i 17.387 dimessi dalla misura alternativa (tabella n.1). Occorre tuttavia rilevare che il dato dei dimessi dalla misura alternativa non è aggiornato al 31/12/2007, ma bensì al 31/12/2006 in quanto, a seguito di quella data, gli uffici preposti alla raccolta di dati statistici relativi all’area penale esterna non hanno proseguito il monitoraggio sul numero di dimessi per via dell’indulto. Tale scelta si giustifica con il fatto che la quasi totalità dei soggetti in misura alternativa beneficiari del provvedimento è stata dimessa nei mesi immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge.
Tabella n. 1. Beneficiari del provvedimento di indulto
Numero dei beneficiari
Liberati dalla detenzione: 27.607
Liberati dalla misura alternativa: 17.387
Totale: 44.994
Se si procede con l’analizzare la composizione della popolazione liberata in relazione alla posizione giuridica, è possibile rilevare (tabella 2) come fra i provenienti dal carcere vi è una netta prevalenza di soggetti in detenzione con una condanna definitiva, cui segue una percentuale di circa il 20% di persone con una posizione giuridica “mista”, caratterizzata da una o più condanne definitive e da ulteriori procedimenti penali a carico. Residuale è il numero di soggetti appellanti, ricorrenti ed in attesa di primo giudizio.
Fra i soggetti in misura alternativa liberati (tabella 3), prevalgono gli affidati in prova al servizio sociale, i quali costituiscono oltre il 60% dei liberati, mentre gli affidati in prova in casi particolari[7] ed i soggetti in detenzione domiciliare si dividono il rimanente 40% dell’universo dei liberati dalla misura alternativa.
Tabella n. 2. Posizione giuridica dei detenuti scarcerati
Posizione giuridica Numero di scarcerati
Definitivi puri: 19.071 (69,1%)
Misti con più procedimenti a carico: 5.635 (20,4%)
Appellanti: 1.603 (5,8%)
Ricorrenti: 802 (2,9%)
In attesa di primo giudizio: 496 (1,8%)
Totale: 27.607
Tabella n. 3. Dimessi dalla misura alternativa rispetto al tipo di misura
Tipo di misura alternativa Numero di dimessi
Affidamento in prova al servizio sociale: 10.697 (61,5%)
Affidamento in prova in casi particolari: 3.410 (19,6%)
Detenzione domiciliare: 3.280 (18,9%)
Totale: 17.387
3. La recidiva dei beneficiari della legge
Come detto, il calcolo della recidiva dei beneficiari dell’indulto (tabella 4) è stato effettuato sulla totalità dei detenuti beneficiari della legge liberati e su un campione di 7.615 soggetti dimessi dalla misura alternativa, corrispondente a coloro che hanno usufruito della misura dopo un periodo di detenzione[8]. I dati aggiornati al 15 ottobre 2008 mostrano un tasso di rientri in carcere del 26,97% fra gli ex detenuti e del 18,57% fra coloro che erano in misura alternativa al momento dell’entrata in vigore della legge.
Tabella 4. Tassi di recidiva
Numero di liberati Numero di rientrati Tasso di recidiva
Liberati dalla detenzione: 27.607 7.445 26,97%
Campione di liberati dalla misura alternativa: 7.615 1.414 18,57%
I dati aggiornati a 26 mesi e 15 giorni dall’entrata in vigore della legge offrono importanti prospettive di analisi. Per quanto riguarda la recidiva degli ex detenuti, l’aggiornamento dei dati suggerisce di abbandonare, in parte, la prudenza adottata nelle precedenti occasioni a favore di una maggiore convinzione nel giudicare positivamente l’impatto della legge in termini di recidiva dei beneficiari. Come detto in precedenza, il monitoraggio più significativo con cui comparare i dati in nostro possesso si riferisce alla rilevazione effettuata dall’Ufficio Statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, citata dallo studio di Fabrizio Leonardi (2007), che ha mostrato come il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998 abbia, nei successivi 7 anni, fatto reingresso in carcere una o più volte. Il dato presentato in quella occasione, purtroppo, non conteneva informazioni sulla scansione temporale dei reingressi in carcere. Non è dato sapere, in altre parole, se i reingressi fossero avvenuti prevalentemente nei primi anni, così come dimostrato per i soggetti provenienti dalle misure alternative, o se invece la tempistica fosse differente. Ora, il dato sui reingressi in carcere dei soggetti scarcerati a seguito del provvedimento di indulto mostra una percentuale di recidivi sensibilmente inferiore rispetto al dato del 68,45% rilevato nell’arco temporale dei sette anni. A ciò occorre aggiungere la lettura dei dati sull’andamento mensile dei reingressi rappresentato nel grafico n. 1. Tale grafico mostra come il numero mensile di reingressi tenda, nel medio periodo, a diminuire. Pur mostrando diverse oscillazioni, è possibile infatti osservare come, dopo il sensibile aumento dei primi tre mesi, vi è una progressiva tendenza alla diminuzione degli ingressi mensili che raggiunge le cifre più basse a partire dal maggio 2008. Tale dato è confortato dalla lettura del calcolo dell’aumento mensile medio della recidiva (tabella 5) che mostra come, nelle 3 rilevazioni effettuate, l’aumento medio mensile del tasso di recidiva sia progressivamente diminuito. I dati paiono quindi confermare quanto affermato dalla ricerca italiana ed internazionale sul tema, dimostrando come i recidivanti tendano a ricommettere reati soprattutto nei primi mesi dalla liberazione. La progressiva diminuzione nell’incidenza del fenomeno porta ad ipotizzare, nel lungo periodo, un comportamento recidivante fra le persone scarcerate grazie all’indulto inferiore rispetto all’ordinario. Le variabili che possono aver contribuito a determinare il fenomeno appaiono molteplici e non si ha la pretesa di ricostruirle in questa sede. Ciò che preme sottolineare è come tale tasso di recidiva offra indicazioni sull’impatto del provvedimento che si discostano sostanzialmente rispetto a quella che è la rappresentazione dominante. In particolare, il dato sulla recidiva offre ipotesi di ricerca che si muovono in direzione opposta rispetto alla vulgata dominante che associa il provvedimento di clemenza ad un aumento della criminalità. La chiave di lettura offerta dai dati attualmente disponibili suggerisce piuttosto che la possibilità offerta attraverso la scarcerazione anticipata, abbinata alla minaccia di scontare la pena comminata con la sentenza di condanna maggiorata del residuo pena precedentemente abbuonato in caso di commissione di un nuovo reato, producano un effetto deterrente nei confronti di una parte dei beneficiari, rendendo di fatto inferiore il rischio di commissione di nuovi reati da parte dei beneficiari.
Considerazioni in larga parte uguali possono ricavarsi dalla lettura dei tassi di recidiva dei soggetti dimessi dalla misura alternativa. In questo caso, la presenza di recenti ricerche che hanno trattato in maniera approfondita l’argomento consente di proporre qualche valutazione ulteriore rispetto a quanto proposto per gli ex detenuti. Confrontando delle cifre, è possibile osservare come Santoro e Tucci (2006) abbiano rilevato, all’interno di un arco temporale di cinque anni, un tasso di recidiva del 28,38% su un campione di soggetti tossicodipendenti ed alcool-dipendenti in affidamento terapeutico ed un tasso di recidiva del 18,84% su un campione di soggetti in affidamento in prova ai servizi sociali “ordinario”. Parallelamente, Fabrizio Leonardi (2007) ha rilevato un tasso di recidiva, sull’arco di sette anni, del 42% su un campione di affidati al trattamento terapeutico provenienti dal carcere, del 30% fra gli affidati al trattamento terapeutico provenienti dalla libertà, del 21% tra gli affidati in prova provenienti dal carcere e del 16% tra gli affidati in prova provenienti dalla libertà. Ora, il dato a nostra disposizione contiene sia soggetti in affidamento in prova ai servizi sociali, sia soggetti sottoposti ad altre forme di esecuzione penale alternativa al carcere. A rendere ancor più problematico il confronto, occorre considerare che il nostro campione è composto sia da soggetti non tossicodipendenti, in regime di affidamento “ordinario”, sia da soggetti tossicodipendenti o alcoldipendenti, prevalentemente assegnati al regime di affidamento in prova terapeutico. Tuttavia, se consideriamo il dato generale sui soggetti dimessi in misure alternativa (tabella 3), possiamo osservare come vi sia una prevalenza di soggetti in affidamento ordinario, sui quali le ricerche concordano nel rilevare tassi di recidiva inferiori rispetto alle persone in affidamento terapeutico, che comunque costituiscono un quinto dell’universo di riferimento, mentre nulla è dato conoscere della recidiva delle persone sottoposte alla detenzione domiciliare[9]. Infine, occorre rilevare come il nostro arco temporale di riferimento, 26 mesi e 15 giorni, sia inferiore a quello utilizzato dagli studi citati, corrispondente nel primo caso a 60 mesi e nel secondo a 84 mesi. Alcune considerazioni possono, tuttavia essere avanzate partendo dal dato sull’attuale tasso di recidiva e considerando che esso si riferisce ad universo composto da soggetti approdati alla misura alternativa dopo un periodo di carcerazione. Tali soggetti, nella ricerca di Fabrizio Leonardi, mostrano tassi di recidiva superiori rispetto a coloro che sono approdati alla misura alternativa dalla libertà[10]. In questo senso, il tasso di recidiva del 18,57% deve opportunamente essere confrontato con il dato del 42% per i soggetti in affidamento terapeutico e con il 21% rilevato sui soggetti in affidamento “ordinario”. Occorre quindi domandarsi se il più basso tasso di recidiva debba essere attribuito esclusivamente al minor tempo trascorso. La risposta a tale interrogativo può essere in parte ricavata facendo riferimento a quanto rilevato da Fabrizio Leonardi nella ricerca appena richiamata. Egli, infatti, rileva come il 90% dei recidivi sia rientrato in carcere entro i primi 54 mesi. Confrontando inoltre l’andamento temporale dei primi 24 mesi, Leonardi mostra come la metà dei recidivi abbia commesso un reato entro i primi 21 mesi; per quanto riguarda l’andamento temporale dei rientri, la ricerca di Leonardi mostra infine come, nei primi 24 mesi, il numero di ingressi sia sostanzialmente uguale nei primi due anni, con un lieve incremento nel secondo rispetto al primo. Nel nostro caso, anche relativamente alla misura alternativa, i dati a nostra disposizione mostrano una progressiva diminuzione del tasso di incremento mensile medio con il susseguirsi delle rilevazioni (tabella 5). In questo senso, rispetto a quanto rilevato dalla ricerca di Leonardi, l’andamento dei reingressi in carcere pare aver seguito un rallentamento in tempi più brevi. È quindi possibile ipotizzare, anche se con maggiore prudenza rispetto a quanto affermato relativamente agli ex detenuti, che anche il tasso di recidiva fra i provenienti dalla misura alternativa tenda ad attestarsi su livelli inferiori rispetto all’ordinario, soprattutto considerando che il nostro campione di riferimento è costituito anche da soggetti alcool-dipendenti e tossicodipendenti. Il dato appare significativo in quanto, a prescindere dalla più o meno netta differenza rispetto al tasso di recidiva ordinario, dimostra come l’interruzione di programmi di esecuzione della pena di carattere extra carcerario, caratterizzata da una marcata attenzione all’elemento trattamentale, non abbia provocato un aumento dei tassi di recidiva fra i soggetti coinvolti.
Tabella n. 5. Tasso di recidiva rilevato nei diversi monitoraggi [11]
Periodo di rilevazione Recidiva ex detenuti Recidiva dimessi dalla misura alternativa
Dopo 6 mesi 11,11% (+ 1,85% al mese) 6% (+ 1% al mese)
Dopo 17 mesi 20,64% (+ 1,21% al mese) 13,35% (+ 0,79% al mese)
Dopo 26 mesi e 15 giorni 26,97% (+ 1,03% al mese) 18,57% (+ 0,70% al mese)
Ulteriori considerazioni debbono infine riguardare il confronto fra il tasso di recidiva delle persone scarcerate e quello di coloro che provengono dalla misura alternativa. Anche in questo caso, così come dimostrato da praticamente tutte le ricerche che si sono occupate del tema, emerge come i soggetti provenienti da un percorso di esecuzione della pena di carattere non detentivo presentino percentuali di recidivi inferiori rispetto a quelli rilevati fra coloro che hanno scontato la pena totalmente in carcere. Di fronte a tale dato di evidenza, sono prevalentemente adottate due forme di interpretazione: la prima, fa leva sul fatto che il campione delle persone in misura alternativa è composto da soggetti in qualche modo “selezionati” rispetto all’universo carcerario; la seconda, concentra l’attenzione sull’intrinseca efficacia risocializzatrice delle misure alternative. In questa sede è possibile offrire un contributo al dibattito muovendo dall’analisi della composizione dei rispettivi campioni rispetto alle due principali variabili che la ricerca impegnata sul tema ha individuato come di maggiore incidenza nella produzione delle statistiche sui tassi di recidiva: l’età ed il numero di precedenti carcerazioni.
Partendo dalla prima variabile, è possibile osservare (tabella 6) come il 67,61% delle persone scarcerate abbiano un’età inferiore ai quarant’anni. Tale età, occorre ricordarlo, è considerata quella maggiormente a rischio per la reiterazione dei reati[12]. Fra coloro che sono stati dimessi dalla misura alternativa la percentuale degli infra-quarantenni scende al 59,72%, quindi di quasi 8 punti percentuali rispetto agli ex detenuti. Inoltre, all’interno del campione di persone dimesse dalla misura alternativa vi è una percentuale (17,79%) di soggetti ultracinquentenni – solitamente caratterizzati da tassi di recidiva più bassi – di sette punti più alta rispetto a quella presente fra le persone scarcerate (10,82%). In questo senso, è possibile ipotizzare che la presenza di un numero superiore di persone meno giovane all’interno del campione di persone dimesse dalla misura alternativa possa aver contribuito ad aumentare il divario con il tasso di recidiva degli ex detenuti[13].
Tabella 6. Composizione dei campioni di riferimento relativamente all’età
Età Soggetti scarcerati Soggetti dimessi dalla misura alternativa
18-20 603 (2,18%) 107 (1,41%)
21-24 2.422 (8,77%) 546 (7,17%)
25-29 4.766 (17,26%) 1.163 (15,27%)
30-34 5.642 (20,44%) 1.406 (18,46%)
35-39 5.235 (18,96%) 1.326 (17,41%)
40-44 3.624 (13,13%) 1.006 (13,21%)
45-49 2.326 (8,43%) 705 (9,26%)
50-59 2.282 (8,27%) 874 (11,48%)
60-69 628 (2,27%) 372 (4,89%)
70-Oltre 77 (0,28%) 108 (1,42%)
Non rilevata 2 (0,01%) 2 (0,03%)
Totale 27.607 7.615
La tesi sulla selezione del campione degli affidati rispetto a quello degli ex detenuti pare essere solo in parte avvalorata dai dati sulla composizione del campione in relazione al numero di precedenti carcerazioni. Purtroppo, come si è detto nella nota metodologica, non si dispone, relativamente a tali dati, dell’aggiornamento al 15 ottobre 2008. E’ quindi necessario riferirsi all’ultimo aggiornamento disponibile relativo al 31 dicembre 2007. I dati di allora (tabella 7) mostravano come fra i soggetti dimessi dalla misura alternativa vi fosse una percentuale leggermente maggiore di persone incensurate o con solo una precedente carcerazione alle spalle. Diminuiva fra le persone in misura alternativa, anch’essa in maniera non eclatante, la percentuale di soggetti con più di sei esperienze detentive alle spalle. Anche in questo caso appare quindi come il minor numero di soggetti con numerose precedenti carcerazioni alle spalle possa aver contribuito a generare il dato, anche se in questo caso l’incidenza appare quantitativamente meno significativa rispetto al dato sull’età.
Tabella 7. Composizione del campione rispetto al numero di precedenti carcerazioni[14]
Numero di precedenti carcerazioni Soggetti scarcerati Soggetti dimessi dalla misura alternativa
Nessuna
10.714 (39,67%)
3.024 (42,03%)
Una
5.088 (18,84%)
1.529 (21,25%)
Due
3.200 (11,85%)
902 (12,54%)
Tre
2.240 (8,29%)
562 (7,81%)
Quattro
1.734 (6,42%)
384 (5,34%)
Cinque
1.196 (4,43%)
289 (4,02%)
Da sei a dieci
2.489 (9,22%)
441 (6,13%)
Undici e oltre
349 (1,29%)
64 (0,89%)
Totale
27.010
7.195
Se tali aspetti legati alla composizione del campione paiono in parte avvalorare la tesi che giustifica la differenza nei tassi di recidiva fra ex detenuti e soggetti provenienti dalla misura alternativa con il fatto che questi ultimi costituiscono un campione selezionato rispetto ai primi, allo stesso tempo i dati sulla composizione del campione non paiono giustificare totalmente una così significativa differenza fra i due gruppi. Inoltre, un altro aspetto relativo ai tassi di recidiva in relazione al numero di precedenti carcerazioni pare fornire argomenti a favore della tesi opposta che attribuisce una maggiore efficacia intrinseca alla misura alternativa. Occorre infatti rilevare come, fra i soggetti provenienti dalla carcerazione, i dati aggiornati al 31 dicembre 2007 confermino quanto già appariva evidente un anno prima, vale a dire una stretta correlazione fra l’aumento del numero di precedenti carcerazioni ed il tasso di recidiva rilevato (tabella 8). Appare quindi significativo il fatto che solo il 12,85% dei 10.714 soggetti scarcerati che erano alla prima esperienza detentiva abbiano fatto reingresso in carcere nei successivi 17 mesi. Per tali soggetti è possibile ipotizzare che la scarcerazione anticipata abbia prodotto effetti positivi in quanto ha interrotto quel processo di introiezione della cultura e dell’identità deviante che, come dimostrato dagli oramai classici studi sul tema (Sykes, 1997), raggiunge il massimo dell’efficacia a seguito di lunghi periodi di detenzione ed in conseguenza di diverse esperienze detentive, provocando una sempre maggiore estraniazione del soggetto rispetto alle dinamiche relazionali extra-carcerarie. La mancata acquisizione dell’identità deviante, e la presenza di legami esterni non totalmente scalfiti dall’esperienza detentiva, paiono aver costituito l’occasione, per circa 9.300 scarcerati alla prima esperienza detentiva, per riprendere un processo di socializzazione solo parzialmente interrotto dall’esperienza detentiva. La medesima lettura, purtroppo, non può essere offerta per coloro che avevano alle spalle un elevato numero di esperienze carcerarie. Uno sue tre fra i soggetti scarcerati con alle spalle cinque esperienze detentive ha fatto reingresso in carcere almeno una volta nei primi 17 mesi dall’entrata in vigore della legge, mentre addirittura più di uno su due fra i soggetti con alle spalle più di undici esperienze detentive ha fatto in pochi mesi reingresso in carcere. Si tratta di percorsi esistenziali consolidati che il carcere non riesce ad interrompere, ma piuttosto consolida attraverso l’insieme di pratiche relazionali efficacemente descritte attraverso la metafora del processo di prigionizzazione (Clemmer, 1997). In questo senso, per tali soggetti appare evidente come il carcere acquisisca la forma di una struttura a “porte girevoli” (Robert, 1995) che in breve tempo tornerà ad ospitare nuovamente persone coinvolte in una pluralità di esperienze devianti. In presenza di tali situazioni, l’indulto appare poco più che una delle tante tappe di un processo di criminalizzazione (Hester, Eglin, 1999) che non è interrotto da un gesto episodico di clemenza, ma che richiederebbe un processo di revisione esistenziale, adeguatamente supportato, non percorribile attraverso la semplice scarcerazione. In parte, le misure alternative appaiono in grado di supportare tali percorsi di mutamento. I dati sulla recidiva del campione di soggetti in misura alternativa (tabella 9) mostrano come anche per tali soggetti vi sia una progressiva tendenza all’aumento dei tassi di recidiva rispetto al numero di precedenti carcerazioni. È interessante osservare (grafico n. 2) come tale incremento proceda con una tendenza pressoché parallela rispetto a quello che si verifica per i soggetti provenienti dalla detenzione. Tuttavia, pur aumentando progressivamente, i tassi di recidiva dei soggetti con numerose esperienze detentive alle spalle rimangono sempre su livelli inferiori rispetto a quelli riscontrati fra le persone provenienti dal carcere. Nel caso del campione di liberati dalla misura alternativa, ad esempio, poco più di uno su cinque fra i soggetti con alle spalle cinque esperienze detentive ha fatto nuovamente reingresso in carcere nei 17 mesi che hanno seguito l’indulto, mentre circa il 60% dei soggetti con alle spalle undici detenzioni ed oltre non ha nuovamente commesso reati nel periodo in considerazione. Tale dato pare fornire argomenti a favore dell’intrinseca maggiore efficacia delle misure alternative nel supporto del percorso di reinserimento sociale non deviante, anche nei confronti di quei (pochi) soggetti con numerose esperienze penitenziarie che riescono ad ottenere l’applicazione di una forma di esecuzione della pena di carattere extra-carcerario. In questo senso, la maggiore efficacia delle misure esecutive della pena di natura extra-carceraria pare manifestarsi anche a prescindere del processo selettivo che i dati sulla composizione del campione in base all’età ed al numero di precedenti esperienze detentive suggeriscono. D’altro canto, non occorre trascurare il fatto che le modalità e la natura di tale efficacia debbono essere necessariamente verificate in maniera maggiormente compiuta e che il processo di selezione del campione di condannati che giungono alla misura alternativa opera attraverso procedure che vanno oltre il dato statisticamente rilevabile attraverso la lettura dei dati oggettivi sull’età ed il numero di precedenti esperienze detentive[15]. Tuttavia, i riscontri offerti dai dati in possesso, e la presenza di precedenti ricerche che offrono una medesima chiave di lettura del fenomeno (Santoro, Tucci, 2006), inducono a prospettare tale ipotesi come punto di partenza di un percorso di ricerca volto ad indagare i possibili effetti positivi, in termini di prevenzione speciale, di un allargamento nell’utilizzo delle misure alternative come forma di esecuzione della pena nei confronti di un più elevato numero di persone sottoposte ad esecuzione penale.
Tabella n 8.. Tasso di recidiva rispetto al numero di precedenti carcerazioni[16]
Numero di carcerazioni
Numero di scarcerati
Numero di reingressi
Tasso di recidiva
Nessuna
10.714
1.377
12,85%
Una
5.088
917
18,02%
Due
3.200
697
21,78%
Tre
2.240
547
24,42%
Quattro
1.734
504
29,06%
Cinque
1.196
396
33,11%
Da sei a dieci
2.489
953
38,29%
Undici e oltre
349
185
53,01%
Totale
27.010
5.576
20,64%
Tabella n. 9. Tasso di recidiva rispetto al numero di precedenti carcerazioni dei soggetti provenienti dalla misura alternativa[17]
Numero di carcerazioni Numero di liberati Numero di reingressi Tasso di recidiva
Nessuna
3.024
268
8,86%
Una
1.529
181
11,84%
Due
902
128
14,19%
Tre
562
100
17,79%
Quattro
384
80
20,83%
Cinque
289
61
21,11%
Da sei a dieci
441
122
27,66%
Undici ed oltre
64
25
39,06%
Totale
7.195
965
13,41%
4. Informazioni sulle caratteristiche personali degli indultati
Un discorso maggiormente compiuto sulle condizioni che hanno favorito la produzione dei tassi di recidiva rilevati in questo studio richiederebbe un’approfondita analisi delle caratteristiche individuali dei beneficiari del provvedimento di clemenza e di quelle di coloro che hanno fatto reingresso in carcere. Purtroppo tale analisi è notevolmente limitata dal fatto che molti di tali dati non sono disponibili o, quando sono presenti, non sono utilizzabili.
Procedendo con ordine, occorre rilevare come i dati relativi all’età dei beneficiari del provvedimento di clemenza e dei rientrati confermino quanto detto relativamente alla maggiore tendenza dei giovani alla ricaduta nel crimine. I dati relativi ai reingressi in carcere di soggetti beneficiari dell’indulto[18] (tabella 10), mostrano una progressiva diminuzione del tasso di recidiva con l’aumentare dell’età. Se si considera il tasso di recidiva totale medio del 25,15%, è possibile rilevare come i soggetti fra i 25 ed i 39 anni presentino costantemente una percentuale di reingressi in carcere superiore rispetto alle altre fasce di età. Tale dato è coerente con quanto rilevato dalla ricerca empirica italiana ed internazionale che si è occupata del tema e con quanto rilevato dallo studio del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale su provvedimenti di clemenza e recidiva. Contrasta in parte con il fenomeno il dato relativo ai giovanissimi fra i 18 ed i 25 anni i quali presentano tassi di recidiva sostanzialmente in linea con la media generale. Occorre tuttavia rilevare come probabilmente di tali giovani hanno beneficiato dell’indulto quando stavano scontando una delle prime carcerazioni alle quali, come visto, corrispondono tassi di recidiva meno elevati. Superati i 45 anni il tasso di recidiva diminuisce progressivamente sino ad arrivare ai livelli molto bassi degli ultrasessantenni. In questa sede preme tuttavia soffermarsi sulla prevedibilità del dato. Come dimostrato nella prima parte di questo saggio, la connessione fra l’età e la ricaduta nel reato è fenomeno da tempo dimostrato dalle ricerche che si sono occupate dell’argomento. Un utilizzo, anche superficiale, dei riscontri emersi dalla ricerca sul campo avrebbe condotto alla facile previsione che la liberazione di un elevato numero di persone, di cui la maggioranza in giovane età, sarebbe dovuta essere supportata in maniera adeguata al fine di favorire il reingresso in società delle persone più giovani. Se inoltre si riflette sul fatto che per alcuni di essi l’entrata in vigore dell’indulto ha coinciso con la cessazione di programmi di esecuzione della pena di carattere extra-carcerario finalizzati alla cura di tossicodipendenze ed alcool-dipendenze, è evidente come tali forme di supporto si rivelassero indispensabili. Purtroppo, l’indulto, almeno nella prima fase, non è stato accompagnato da alcuna forma di accoglienza, né generalizzata, né specifica per i più giovani. Nei primi giorni di agosto di entrata in vigore della legge l’accoglienza è stata affidata esclusivamente alle scarse risorse, specie in periodo di vacanze, del volontariato e degli enti locali. I successivi progetti presentati anche grazie ai finanziamenti dei Ministeri della Giustizia e della Solidarietà Sociale sono diventati operativi con grave ritardo rispetto alle necessità immediate degli scarcerati. In questo senso, un razionale approccio al problema avrebbe mostrato come con frequenza sono i giovani dimessi dagli istituti di pena a commettere reati e come tali reati vengano commessi nelle settimane – quando non giorni – immediatamente successivi alla scarcerazione. Il caso dell’indulto ha prontamente confermato tale dato largamente prevedibile ed ha gettato un’ombra di rammarico su un fenomeno che poteva forse essere limitato.
Tabella 10. Tasso di recidiva dei soggetti beneficiari dell’indulto in relazione all’età
Età Numero di dimessi Numero di rientrati Tasso di recidiva
18-20
20-24
710
2.968
182
723
25,63%
24,36%
25-29
5.929
1.606
27,09%
30-34
7.084
1.960
27,67%
35-39
6.561
1.795
27,36%
40-44
4.630
1.188
25,66%
45-49
3.031
668
22,04%
50-59
3.156
588
18,63%
60-69
1.000
131
13,1%
70-Oltre
185
16
8,65%
Non rilevata
4
2
–
Totale
35.222
8.859
25,15%
Altre variabili potenzialmente assai preziose nell’analisi dei comportamenti recidivanti sono quelle relative ai livelli di istruzione ed alla condizione lavorativa dei beneficiari del provvedimento. Allo stato attuale, tuttavia, l’utilizzo di tali variabili risulta scarsamente praticabile. I dati raccolti dall’Amministrazione Penitenziaria, presentati nelle tabelle 11 e 12, appaiono infatti di assai problematica lettura. Entrambe le tabelle presentano infatti un’elevata percentuale di dati non rilevati che rende pressoché impossibile un efficace utilizzo delle variabili nell’ottica dell’interpretazione del fenomeno della recidiva. Accade così che i tassi di recidiva in relazione al livello di istruzione appaiano più elevati fra i possessori del titolo di maturità (36,78%) o del diploma universitario (31,67%) rispetto a coloro che si dichiarano analfabeti (18,15%) o privi di titoli di studio (18,25%). Il dato in realtà è fortemente condizionato dal fatto che su ben 10.680 dei 35.222 soggetti dimessi (il 30,32% ) non è stato rilevato il dato sul titolo di studio in possesso; fra i rientrati in carcere, la percentuale di non rilevati sale ulteriormente giungendo addirittura a 3.441 su 8.859 rientrati (pari al 38,84%). Appare evidente come, in presenza di una così alta percentuale di soggetti cui non è stato rilevato il dato relativo al livello di istruzione, non sia possibile presentare alcuna credibile lettura del fenomeno. Inoltre, è possibile supporre che con maggiore frequenza le rilevazioni non siano avvenute fra quei soggetti per i quali si sia rivelato impossibile ricostruire il percorso scolastico o per i quali le informazioni disponibili non hanno permesso di collocare la persona all’interno di una delle categorie statistiche di riferimento. Tali soggetti, con ogni probabilità, appartengono con maggiore frequenza alle categorie in possesso dei titoli di studio di livello più basso ed avrebbero contribuito ad incrementare il tasso di recidiva dei soggetti privi di titoli di studio di livello superiore, probabilmente ribaltando l’immagine che una lettura frettolosa del dato disponibile avrebbe potuto suggerire. Al riguardo, appare significativo che le categorie “Altro” e “Non rilevato” mostrino rispettivamente tassi di recidiva del 35,19% e del 32,22%, più alti rispetto a quelle rilevate fra i possessori di titoli di studio correttamente rilevati.
Le medesime considerazioni possono essere mosse nell’analisi della variabile relativa alla condizione lavorativa. Tali dati mostrano una netta maggiore tendenza alla recidiva da parte di coloro che si dichiarano in cerca di prima occupazione (44%) – probabilmente tale categoria corrispondente in larga parte con i soggetti più giovani – seguiti da coloro che si dichiarano occupati saltuariamente (37,20%), pensionati (35,75%) e disoccupati (25,33%). Presentano invece tassi di recidiva inferiori alla media coloro che si dichiarano studenti (1,36%) ed occupati stabilmente (10,87%). I dati sembrerebbero quindi suggerire una stretta correlazione fra la condizione lavorativa precaria e la maggiore tendenza alla recidiva. Tuttavia, anche in questo caso, l’incertezza sulla rilevazione dei dati impedisce di proporre delle considerazioni attendibili. In questo caso il campione di soggetti per i quali è risultato impossibile rilevare il dato è ancora maggiore rispetto a quello registrato in relazione al livello di istruzione. Ben 17.715 su 35.222 soggetti dimessi (il 50,30%) non hanno fornito dati attendibili sulla situazione lavorativa pregressa alla carcerazione e tale percentuale sale in misura sproporzionata fra i soggetti rientrati in carcere, essendo ben 5.752, su 8.859 rientrati (64,93%!). Anche in questo caso si rileva come i soggetti fra i quali non sono state rilevate informazioni relative allo stato lavorativo presentano un tasso di recidiva fra i più elevati (32,47%), di circa sette punti percentuali superiore alla media. Occorre inoltre considerare come, oltre all’assenza del dato, emerga il problema della veridicità dello stesso essendo, da un lato, notoria la tendenza dei detenuti a dichiarare capacità lavorative non corrispondenti alla realtà in vista di un più facile accesso alle misure alternative o alle possibilità lavorative offerte dal carcere e, dall’altro lato, non essendo attuata dagli istituti penitenziari alcuna forma di indagine sulle reali posizioni lavorative dei soggetti carcerati.
Tali condizioni strutturali impongono quindi di abbandonare, allo stato attuale, ulteriori descrizioni sulla tendenza recidivante dei soggetti in relazione al proprio status culturale o lavorativo a favore di indagini aventi come oggetto le modalità organizzative nella raccolta di tali dati da parte degli uffici statistici del DAP ed all’interno dei singoli istituti penitenziari, volte a spiegare le ragioni organizzative che impediscono una corretta produzione di tali statistiche.
Tabella n. 11. Tasso di recidiva dei soggetti scarcerati in relazione al livello di istruzione
Livello di istruzione Numero di scarcerati Numero di rientrati Tasso di recidiva
Analfabeta 606 110 18,15%
Privo di titolo di studio, sa leggere e scrivere 1.260 230 18,25%
Licenza di scuola elementare 7.164 1.400 19,54%
Licenza di scuola media inferiore 12.840 3.202 24,94%
Diploma di scuola professionale 605 22 3,64%
Diploma di scuola media superiore 1.131 175 15,47%
Maturità 348 128 36,78%
Diploma universitario 60 19 31,67%
Laurea breve 43 13 30,23%
Laurea e post lauream 197 18 9,14%
Altro 287 101 35,19%
Non rilevato 10.680 3.441 32,22%
Totale 35.222 8.859 25,15%
Tabella 12. Tasso di recidiva degli scarcerati in relazione alla condizione lavorativa dichiarata
Situazione lavorativa Numero di scarcerati Numero di rientrati Tasso di recidiva
Disoccupato 6.793 1.721 25,33%
Occupato stabilmente 5.502 598 10,87%
Occupato saltuariamente 1.164 433 37,20%
In cerca di occupazioe 659 94 14,26%
Casalinga 327 42 12,84%
Pensionato 179 64 35,75%
Studente 147 2 1,36%
In cerca di prima occupazione 50 22 44%
Ritirato dal lavoro 60 – –
Inabile al lavoro 32 8 25%
Altra condizione 488 122 25%
Non rilevato 17.715 5.752 32,47%
Totale 35.222 8.859 25,15%
5 Luoghi di arresto e nazionalità dei recidivi
Se i dati relativi alle caratteristiche personali dei beneficiari dell’indulto non paiono soddisfare una maggiore conoscenza del fenomeno, interessanti spunti di osservazione possono essere tratti dai dati relativi alle regioni di liberazione ed arresto dei beneficiari e da quelli che si riferiscono alla nazionalità degli indultati.
Partendo dal dato relativo alla distribuzione territoriale delle dimissioni e degli arresti è possibile osservare come il dato regionale offra un quadro assai variegato (tabella 13). Alcune differenze sono naturalmente riconducibili alla dimensione delle regioni ed alla collocazione dei grandi centri urbani che hanno attirato i movimenti migratori delle persone scarcerate. Appare quindi comprensibile il fatto che regioni più piccole, prive di grandi centri urbani, presentino percentuali di reingressi assai più basse rispetto alla media nazionale e che fra molte delle regioni più grandi vi siano percentuali di rientri superiori alla media nazionale. Tuttavia, all’interno di tale quadro generale, vi sono notevoli differenze, fra regioni anche molto vicine fra di loro, che non possono essere attribuite esclusivamente alla presenza o meno di grandi centri urbani o spiegate sulla base delle migrazioni dei soggetti scarcerati verso le grandi città. Se in alcuni casi, come ad esempio la Campania, l’elevato tasso di recidiva era, per diverse ragioni, prevedibile[19], non è possibile affermare la stessa cosa per regioni, quali la Toscana, la Puglia e la Liguria che presentano anch’esse una percentuale di recidivi superiore rispetto alla media nazionale. Parallelamente, alcune regioni territorialmente vicine a quelle con i più elevati tassi di recidiva, e con grandi centri urbani al loro interno, come la Lombardia, il Lazio, il Piemonte e la Sicilia mostrano tassi di reingressi inferiori alla media nazionale. Appare quindi evidente come tali sensibili differenze nelle percentuali di reingressi in carcere nascondano specificità proprie delle singole regioni che necessitano di essere indagate attraverso specifici studi di caso. In particolare, attualmente non si dispone di dati certi relativi all’accoglienza delle persone ex detenute. Come si è detto, la mancanza di un reale coordinamento centrale al momento dell’emanazione del provvedimento ha determinato una situazione a macchia di leopardo nella quale, probabilmente, le regioni con maggiori risorse, in termini di enti locali impegnati nell’accoglienza dei soggetti in difficoltà, oltre che di organizzazione del volontariato, hanno potuto offrire maggiori risorse nell’accoglienza degli indultati. Allo stesso tempo, i dati relativi all’accoglienza dei liberati non sono da soli sufficienti a spiegare le differenze fra una regione ed un’altra, altrimenti non si spiegherebbe perché una regione tradizionalmente impegnata nell’accoglienza dei soggetti in difficoltà come la Toscana presenti tassi di recidiva nettamente più elevati rispetto ad altre regioni meno attive in tal senso. Si ritiene quindi che una prospettiva di indagine completa sulle procedure che hanno determinato tali differenze nei dati debba necessariamente andare ad indagare anche le prassi operative delle agenzie del controllo sociale all’interno delle singole regioni e le scelte organizzative adottate da tali agenzie nel controllo dei soggetti liberati.
Tabella n. 13 Tassi di recidiva suddivisi per regione di scarcerazione e di rientro
Regione Numero di scarcerati Numero di rientrati Tasso di recidiva
Abruzzo 961 217 22,58%
Basilicata 339 77 22,71%
Calabria 1.123 232 20,66%
Campania 4.262 1.402 32,90%
Emilia Romagna 2.408 563 23,38%
Friuli Venezia Giulia 574 124 21,60%
Lazio 3.668 903 24,62%
Liguria 1.141 311 27,26%
Lombardia 5.170 1.224 23,68%
Marche 469 119 25,37%
Molise 240 33 13,75%
Piemonte 2.857 631 22,09%
Puglia 2.360 657 27,84%
Sardegna 1.250 338 27,04%
Sicilia 3.763 881 23,41%
Toscana 1.831 551 30,09%
Trentino Alto Adige 364 95 26,10%
Umbria 553 96 17,36%
Valle d’Aosta 190 35 18,42%
Veneto 1.697 370 21,80%
Non rilevato 2 – –
Totale 35.222 8.859 25,15%
Per molti versi ancor più interessante appare il dato relativo alla nazionalità dei beneficiari del provvedimento e di coloro che in questi mesi hanno nuovamente fatto ingresso in carcere. È noto infatti come le carceri italiane abbiano visto negli ultimi anni progressivamente aumentare il numero di soggetti stranieri reclusi. Tale incremento percentuale della popolazione detenuta straniera è generalmente interpretato come una maggiore tendenza a delinquere degli immigrati rispetto agli italiani[20]. È altresì noto come alcuni studi abbiano proposto un’interpretazione alternativa fondata sul fatto che i soggetti stranieri sono generalmente sottoposti ad un più incisivo controllo sociale, godono di minori garanzie nel momento in cui si confrontano con il sistema della giustizia penale ed accedono con maggiore difficoltà, a causa del proprio status sociale, alle forme alternative di esecuzione della pena previste dall’Ordinamento Penitenziario[21]. I dati disponibili sulla recidiva degli stranieri beneficiari del provvedimento di indulto sono in grado di offrire un contributo al dibatti sul tema che in parte smentisce la tesi dominante secondo la quale gli stranieri sarebbero maggiormente inclini alla reiterazione del reato. I dati presentati nella tabella 14 confermano innanzitutto le difficoltà con cui gli stranieri accedono alla misura alternativa. Se, infatti, il rapporto fra scarcerati italiani e stranieri (61,63% italiani; 38,37% stranieri) riflette sostanzialmente il rapporto fra la popolazione detenuta italiana e straniera nel nostro paese nei mesi precedenti all’approvazione dell’indulto[22], il rapporto fra il numero di liberati dalla misura alternativa vede una netta prevalenza di soggetti italiani (85,17%) rispetto agli stranieri (14,83%). Tale dato conferma quindi la maggiore facilità con cui i cittadini italiani accedono alle misure alternative al carcere, in ragione di criteri che ne garantirebbero una maggiore affidabilità in termini di mancata reiterazione del reato. Tale affidabilità, tuttavia, appare smentita dai dati sulla recidiva dei due gruppi (tabella 15) i quali mostrano una netta maggiore tendenza al rientro in carcere fra gli italiani: la percentuale di reingressi fra gli stranieri è del 19,80%, mentre fra gli italiani risulta essere il 27,81%. Ora, a mitigare la sorpresa per tale dato possono influire diversi fattori. In primo luogo, non occorre trascurare il fatto che alle scarcerazioni di soggetti stranieri sono con frequenza seguiti provvedimenti di espulsione che potrebbero aver diminuito la capacità recidivante dei soggetti stranieri scarcerati. Tuttavia, in assenza di dati certi sul numero di espulsioni di soggetti beneficiari del provvedimento di clemenza realmente eseguite, non è possibile quantificare con esattezza il fenomeno; inoltre, l’esperienza insegna che, a fronte di un elevato numero di provvedimenti di espulsione nei confronti di cittadini stranieri privi di regolare permesso di soggiorno, e di conseguenti ingressi nei Centri di Permanenza Temporanea, i rimpatri materialmente eseguiti sono in realtà un numero assai ridotto. In secondo luogo, non occorre trascurare il fatto che lo stato di clandestinità permette, per alcuni soggetti, di vivere in una condizione di “ombra”, fatta fra l’altro di dati anagrafici inesatti o difficilmente riconducibili alla reale identità dell’individuo. Tale condizione permette ad alcuni, una volta fermati, di sfuggire all’identificazione e quindi di non risalire ai reali precedenti penali. In questo senso, i dati statistici sui reingressi dei soggetti stranieri debbono necessariamente essere valutati con una certa prudenza.
Tabella 14. Composizione del campione in relazione alla nazionalità
Numero di dimessi dal carcere Numero di dimessi dalla misura alternativa Totale
Italiani 17.015 (61,63%) 6.486 (85,17%) 23.501 (66,72%)
Stranieri 10.592 (38,37%) 1.129 (14,83%) 11.721 (33,28%)
Totale 27.607 7.615 35.222
Tabella 15. Tassi di recidiva in rapporto alla nazionalità
Numero di scarcerati Numero di rientrati Tasso di recidiva
Italiani 23.501 6.536 27,81%
Stranieri 11.721 2.321 19,80%
Totale 35.222 8.859 25,15%
In questa sede è stato possibile approfondire l’analisi indagando la composizione del campione degli stranieri in relazione alla provenienza comunitaria o non comunitaria. I dati sugli stranieri liberati dal carcere (tabella 16) mostrano una netta prevalenza fra la popolazione straniera in carcere di persone non cittadine dell’Unione Europea. Tale differenza appare ancora più netta se si osserva il dato relativo alla composizione della popolazione straniera dimessa dalla misura alternativa che vede una percentuale del 92,21% di soggetti extracomunitari[23]. Occorre quindi domandarsi quali differenze vi siano fra i due gruppi in relazione ai tassi di rientri in carcere. I dati evidenziati dalla tabella 17 mostrano come la differenza sia sensibile in quanto gli stranieri comunitari hanno un tasso di recidiva di oltre 6 punti inferiore rispetto agli stranieri non comunitari e di ben 11 punti inferiore agli italiani. Allo stesso tempo, il dato mostra come il numero di stranieri comunitari presente nel campione non influisca in maniera sensibile nel raffronto con il dato relativo alla recidiva degli italiani in quanto gli stranieri extracomunitari presentano comunque una percentuale di rientri in carcere di quasi cinque punti inferiore agli italiani.
Tabella 16. Composizione del campione degli stranieri relativamente alla cittadinanza comunitaria
Numero di dimessi dal carcere Numero di dimessi dalla misura alternativa Totale
Stranieri comunitari 1.312 (12,39%) 88 (7,79%) 1.400 (11,94%)
Stranieri non comunitari 9.280 (87,61%) 1.041 (92,21%) 10.321 (88,06%)
Totale 10.592 1.129 11.721
Tabella 17. Tasso di recidiva degli stranieri in relazione alla cittadinanza comunitaria o non comunitaria
Numero di dimessi Numero di rientrati Tasso di recidiva
Stranieri comunitari 1.400 200 14,29%
Stranieri non comunitari 10.321 2.121 20,55%
Totale 11.721 2.321 19,80%
Un ultimo dato relativo ai tassi di recidiva degli stranieri su cui occorre riflettere riguarda i reingressi su base regionale. Come mostrato nella tabella n. 18, relativa ai tassi di recidiva dei soggetti stranieri scarcerati suddivisi su base regionale, i reingressi in carcere di soggetti stranieri beneficiari del provvedimento di indulto presentano macroscopiche differenze fra una regione ed un’altra. Così come per il dato generale sui reingressi su base regionale, anche in questo caso il dato può essere in parte spiegato con i movimenti migratori che hanno mosso le persone straniere verso le regioni con i grandi centri urbani. Appare quindi comprensibile il fatto che le regioni con il più alto numero di abitanti stranieri, e di soggetti stranieri scarcerati, contribuiscano in maniera numericamente più rilevante al raggiungimento del totale di stranieri recidivi. Si può infatti notare come, sommando il numero di stranieri rientrati in carcere in Lombardia, Toscana, Lazio,Emilia Romagna e Piemonte, si ottenga il totale di 1.457 rientri, pari a circa i due terzi del totale degli stranieri scarcerati recidivi. Al tempo stesso, i tassi di recidiva su base regionale suggeriscono un’interpretazione del fenomeno più complessa. All’interno delle regioni di dimensioni medio-grandi, emergono sensibili differenze nei tassi di recidiva rispetto al numero di scarcerati le cui cause non possono trovare un’immediata comprensione. Emerge come regioni quali la Toscana (31,23%), il Trentino Alto Adige (31,98%) e la Liguria (25,47%) presentino tassi di recidiva degli stranieri sensibilmente superiori rispetto alla media nazionale; altre regioni con grandi centri urbani, aventi un elevato numero di stranieri recidivanti, come il Piemonte (19,08%), il Veneto (21,36%) ed il Lazio (20,30%), presentano invece percentuali di reingressi in carcere in linea o di poco superiori alla media nazionale. Tali differenze a livello regionale, a nostro parere, non possono essere interpretate esclusivamente come il frutto dei movimenti migratori dei cittadini stranieri beneficiari dell’indulto, ma richiedono necessariamente ulteriori analisi che indaghino sulle politiche di controllo sociale dell’immigrazione adottate a livello regionale. In particolare, occorre rilevare come le tre regioni con il più elevato tasso di rientro in carcere degli stranieri corrispondano a quelle regioni con i più elevati tassi di reingressi in generale, Campania esclusa. Appare quindi come, in queste regioni, all’innalzamento dei tassi di recidiva abbiano contribuito in maniera sensibile i rientri degli stranieri. Al riguardo, basti rilevare che la Toscana, a livello generale, presenta un tasso di recidiva di circa 5 punti superiore alla media nazionale mentre, per quanto riguarda gli stranieri, ha un tasso di rientro di ben 12 punti superiore alla media nazionale; il Trentino Alto Adige ha una media generale di rientri in carcere di solo un punto superiore alla media nazionale, mentre ha un tasso di recidiva degli stranieri di più di 12 punti superiore alla media nazionale. Appare quindi con evidenza la necessità di indagini specifiche che vadano ad indagare le politiche di controllo degli immigrati beneficiari dell’indulto adottate in queste regioni. L’ipotesi che in questa sede è possibile muovere, e che necessita di conferma attraverso opportuni studi di caso, è che in tali regioni si è proceduto con un controllo dell’immigrazione di stampo prevalentemente repressivo e che tali forme di controllo abbiano in questi mesi determinato il reingresso in carcere di percentuali così elevate di persone immigrate.
Tabella n. 18 Tasso di recidiva degli stranieri su base regionale
Regione Numero di stranieri scarcerati Numero di stranieri rientrati Tasso di recidiva
Abruzzo 299 26 8,70%
Basilicata 124 18 14,52%
Calabria 250 28 11,20%
Campania 459 76 16,56%
Emilia Romagna 1.210 233 19,26%
Friuli Venezia Giulia 288 53 18,40%
Lazio 1.197 243 20,30%
Liguria 534 136 25,47%
Lombardia 2.055 470 22,87%
Marche 179 36 20,11%
Molise 59 1 1,69%
Piemonte 1.326 253 19,08%
Puglia 251 33 13,15%
Sardegna 429 66 15,38%
Sicilia 864 106 12,27%
Toscana 826 258 31,23%
Trentino Alto Adige 172 55 31,98%
Umbria 257 39 15,18%
Valle d’Aosta 103 12 11,65%
Veneto 838 179 21,36%
Totale 11.721 2.321 19,80%
Più in generale, ciò che, a nostro parere, pare emergere dai dati a nostra disposizione è l’affermarsi di un progressivo differente utilizzo del carcere rispettivamente nei confronti dei cittadini italiani e di quelli stranieri. Se, da un lato, il carcere per gli italiani pare avere col tempo, soprattutto a seguito dell’introduzione delle normative che offrono la possibilità di accedere a misure alternative di esecuzione della pena, assunto una “quasi reale” dimensione di extrema ratio riservata a soggetti con percorsi esistenziali problematici; dall’altro lato, la progressiva carcerizzazione delle persone straniere pare col tempo assunto dimensioni strutturali. In altre parole, l’impatto con il sistema della giustizia penale, e con il carcere, pare assumere le vesti di un tappa obbligata dei percorsi di immigrazione che non trova giustificazione in una presunta maggiore tendenza delinquenziale del soggetto straniero quanto piuttosto in cause strutturali sulla base delle quali l’immigrazione è posta in condizioni di marginalità sociale che hanno come diretta conseguenza una maggiore tendenza all’utilizzo di strumenti repressivi nei confronti della popolazione immigrata[24]. Come mostrano i tassi di recidiva a livello regionale, le modalità nell’utilizzo di tali strumenti assumono forme diverse in luoghi differenti e necessitano di essere adeguatamente analizzate. Allo stesso tempo, i recenti dati sulla composizione della popolazione penitenziaria dopo l’indulto, che ha visto progressivamente aumentare la percentuale di soggetti stranieri reclusi rispetto agli italiani[25] pur in presenza di tassi di recidiva inferiori, pare avvalorare la tesi di un progressivo incremento del controllo sociale di stampo repressivo nei confronti delle popolazioni migranti che non trova giustificazione in una reale maggiore pericolosità di tali persone.
Conclusioni
“Indulto, uno su due è tornato in carcere”[26]; “Indulto, il 36 per cento è tornato in Galera”[27]; “Effetto indulto, un detenuto su 4 è rientrato in cella. Incremento del sette per cento nell’ultimo mese”[28]; “Alfano condanna l’indulto: fallito, carceri piene di recidivi”[29]. Questi sono solo alcuni dei titoli dei principali quotidiani nazionali che in questi mesi hanno sancito il fallimento dell’indulto sotto l’aspetto della recidiva. Il processo sociale attraverso il quale l’indulto è divenuto nel sentire comune un fallimento, la causa principale del (presunto) aumento della criminalità, meriterebbe uno studio specifico. In questa sede, nell’ottica dell’economia di questo saggio, è opportuno tuttavia chiedersi quale sia la fonte delle cifre attraverso le quali i mass media ed il campo politico hanno ribadito il fallimento del provvedimento. Da un primo punto di vista, possono essere interpretate come il risultato di una strategia che ha teso, sin dall’approvazione della legge, alla delegittimazione della stessa attraverso il risalto offerto ai risultati negativi che essa avrebbe prodotto. Pur convinti della validità di tale tesi, confermata tra l’altro dall’esistenza di un vero e proprio senso comune che associa l’indulto ad un aumento della criminalità, si intende tuttavia in questa sede soffermare l’attenzione su un secondo punto di vista. A nostro parere, è infatti possibile avanzare la tesi secondo la quale tale profusione di cifre radicalmente lontane dalla realtà dei fatti non sarebbe stata possibile all’interno di un sistema dotato di una cultura attenta alla verifica delle procedure adottate. In altre parole, si ritiene che in presenza di un approccio culturale propenso al monitoraggio del reale impatto dei provvedimenti di legge, l’utilizzo parziale ed inesatto dei dati numerici sarebbe più facilmente contrastabile attraverso rilevazioni maggiormente puntuali. In assenza di tale cultura, tutto diventa possibile. Accade quindi che il dato numerico venga utilizzato come strumento di rappresentazione della realtà senza che vi sia la reale possibilità di contestare il dato in quanto non si dispone degli strumenti necessari. È possibile inoltre che vengano fornite cifre totalmente inesatte che sono facilmente manipolabili in relazione agli obiettivi che si pone colui che le utilizza. All’interno di tale sistema si possono altresì verificare errori interpretativi che non sono adeguatamente sottolineati. È il caso, ad esempio, del dato fornito dal ministro Alfano alla fine dell’agosto 2008 nel quale afferma che il 36% dei beneficiari dell’indulto è tornato in carcere. La fonte del dato è la medesima utilizzata in questo studio, occorre quindi domandarsi come sia possibile che il dato non coincida con quello a nostra disposizione. La risposta, a nostro parere, è rinvenibile nelle modalità attraverso le quali il DAP ha effettuato il monitoraggio sui reingressi in carcere degli indultati che, come detto, non si riferisce al numero reale di recidivi, ma agli eventi di reingresso. In quel caso, evidentemente, il dato citato dal ministro non riguardava la recidiva “reale”, ma un dato sugli “eventi di reingresso” che tende a sovradimensionare il fenomeno. Quello citato è solo un esempio del prodotto di un sistema organizzativo non finalizzato alla produzione di dati utilizzabili come strumento di analisi delle politiche criminali. Appare quindi evidente come occorra un processo di revisione culturale, che coinvolga sia il sistema organizzativo del Ministero della Giustizia, sia più in generale la cultura giuridica interna del nostro paese, volto ad un maggiore e più consapevole utilizzo dello strumento del dato numerico al fine della valutazione dell’impatto delle procedure adottate.
Il ruolo di questa ricerca, in questo senso, è stato quello di cercare di fornire un contributo di razionalità all’interno di un dibattito dominato dagli istinti emozionali e dagli interessi di parte. Attraverso i dati sulla recidiva delle persone beneficiarie della legge si è potuto, da un lato, contribuire a sfatare alcuni “miti” che da tempo accompagnano il dibattito in tema di politiche criminali; dall’altro lato, si è cercato di offrire indicazioni utili ai fini della programmazione delle politiche di sostegno ai cittadini provenienti da un periodo di limitazione della libertà personale. Sotto il primo aspetto, occorre rilevare come il caso dell’indulto fornisca argomentazioni di carattere opposto rispetto a quelle avanzate da coloro che auspicano una maggiore coincidenza fra pena comminata e pena realmente scontata nel momento in cui l’esperienza del provvedimento clemenziale mostra tassi di reiterazione del reato fra i beneficiari della legge inferiori a quelli ordinari. In questo senso, è possibile ipotizzare che l’adozione di provvedimenti di clemenza, accompagnati dai relativi benefici e dalla minaccia di scontare una pena maggiorata in caso di reiterazione del reato, possa costituire uno strumento efficace nella limitazione del recidivismo. Ovviamente il discorso non può essere semplificato e l’efficacia di tali provvedimenti deve necessariamente essere verificata nel tempo ed all’interno di diversi periodi storici[30]; tuttavia, il presente studio di caso offre una prospettiva di analisi sull’impatto dei provvedimenti clemenziali totalmente trascurata all’interno del dibattito politico, ma anche giuridico, impegnato a reclamare il ruolo della certezza della pena come strumento deterrente per la reiterazione del crimine. Inoltre, ancor più seccamente è smentito il ruolo della pena carceraria, certa e definita, come efficace strumento di limitazione della recidiva. Come noto, purtroppo, le attuali tendenze di politica penale paiono rivolgersi verso una limitazione dei benefici previsti dalla legge n. 663/86 a favore di un maggiore impiego del carcere come luogo di esecuzione della sentenza di condanna[31]. L’inefficacia di tali politiche nella repressione dei fenomeni criminali pare emergere in maniera evidente dalla lettura dei tassi di recidiva “ordinari” dei soggetti provenienti dal carcere, specialmente se confrontati con quelli di coloro che hanno scontato la pena in misura alternativa alla detenzione. In questa sede occorre sottolineare come un ulteriore irrigidimento del sistema attraverso il quale è possibile usufruire delle misure alternative al carcere ricondurrebbe all’interno del circuito penitenziario soggetti che fino ad ora hanno potuto accedere a sistemi di esecuzione della pena di carattere extra-carcerario, con ottimi risultati in termini di limitazione della recidiva. Inoltre, l’efficacia dimostrata dalla misura alternativa nella limitazione degli episodi criminali anche da parte di coloro che provenivano da numerose esperienze carcerarie dovrebbe stimolare un utilizzo maggiore di tali misure, anche nei confronti di soggetti cui fino ad ora sono state negate, piuttosto che una loro riduzione. Il tutto senza considerare che una chiusura nella concessione delle misure alternative, magari accompagnata dall’entrata in vigore di provvedimenti che puniscono ulteriormente l’immigrazione clandestina, provocherebbe il definitivo collasso del sistema carcerario che per alcuni mesi è rientrato all’interno dei margini della legalità grazie all’indulto. Fra i miti che sono in parte sfatati da questo lavoro, vi è quello dello straniero recidivo. In questi mesi si sono ripetuti sui giornali titoli come “Indulto, ora l’allarme viene dai clandestini. Dei detenuti in libertà la metà sono extracomunitari”[32], volti ad individuare nello straniero extracomunitario il pericolo “numero uno” fra le diverse figure di liberati grazie alla legge. Come detto, il dato sulla recidiva in base alla nazionalità deve essere interpretato con prudenza, tuttavia, esso mostra come la focalizzazione sulla figura dello straniero come il probabile autore di nuovi reati non sia giustificata.
Sotto l’aspetto delle politiche a sostegno dei cittadini dimittendi, occorre ribadire come i dati della ricerca confermino quanto dimostrato dai precedenti studi condotti in ambito italiano ed internazionale nel momento in cui individuano nella giovane età e nei numerosi precedenti penali due fra i principali fattori di rischio in termini di probabilità di reiterazione dei reati. Rifiutando in questa sede di aderire a quelle correnti di pensiero che associano all’individuazione di tali criteri di predittività un maggiore controllo di stampo repressivo nei confronti di coloro che possiedono tali caratteristiche, si ritiene piuttosto che l’individuazione di categorie particolarmente a rischio possa essere di aiuto nell’ottica dell’organizzazione di forme di accoglienza post-detentiva di carattere non repressivo. Il caso dell’indulto, a nostro parere, mostra come vi siano spazi per un utilizzo più limitato dello strumento carcerario. Tali spazi possono essere coperti da forme di supporto che purtroppo nel caso dell’indulto non sono state attivate in maniera puntuale. È in quella direzione, si ritiene, che debbano orientarsi le politiche penali in materia di esecuzione della pena all’interno di un sistema, come quello del nostro paese, che con grande velocità pare avvicinarsi ad una nuova fase di profonda crisi.
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Note
[1] L’autore intende ringraziare tutti i dipendenti del Ministero della Giustizia che in questi mesi ci hanno pazientemente assistito nel percorso di ricerca. Si intende in particolare ringraziare il dott. Fabrizio Leonardi, Direttore dell’Osservatorio delle misure alternative presso la Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna, il dott. Ferdinando Mulas, direttore dell’Ufficio per lo Sviluppo e la Gestione del Sistema Informativo Automatizzato, e la dott.ssa Anna Fino per il suo prezioso contributo nella raccolta di larga parte dei dati presentati in questo lavoro. Un sentito grazie va al Prof. Luigi Manconi dal quale, nelle vesti di sottosegretario al Ministero della Giustizia del governo Prodi è nato l’impulso e lo stimolo allo svolgimento di un monitoraggio sulla recidiva dei beneficiari della legge di indulto.
[2] Al riguardo, è significativo ricordare come la popolazione detenuta nelle carceri italiane sia passata, in 15 anni, dalle 31053 unità del giugno 1991 alle 61264 unità del giugno 2006 a fronte di una capienza regolamentare di 42952 persone.
[3] Ci si riferisce, in particolare, agli ultimi osservatori dell’associazione Antigone (2004, 2006, 2008) ed al rapporto redatto dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (2006) dopo l’ultima visita in Italia avvenuta nel periodo fra il 21 novembre ed il 3 dicembre 2004.
[4] Per una prima analisi sulla rappresentazione mediatica dell’indulto mi permetto di rimandare a Blengino, Torrente (2006).
[5] Un estratto della ricerca è presentato in Antigone (2007). L’intero rapporto di ricerca è invece consultabile sul sito dell’associazione Antigone http://www.associazioneantigone.it
[6] I risultati della ricerca sono in questo caso presentati nell’ultimo rapporto sulle condizioni detentive dell’associazione Antigone (2008).
[7] Si tratta prevalentemente di soggetti caratterizzati da problemi di tossicodipendenza e/o alcolismo i quali hanno usufruito delle possibilità di accesso alla misura alternativa alla detenzione prevista dalla normativa in materia.
[8] Il campione rappresenta quindi meno della metà del totale dei beneficiari dell’indulto provenienti dalla misura alternativa e mostra come attualmente la percentuale di soggetti che accedono a tali misure senza passare dal carcere sia divenuta maggioritaria.
[9] Occorre tuttavia ricordare come i dati ministeriali relativi al campione all’interno del quale è stata effettuata la rilevazione non considerano il tipo di misura alternativa applicata al soggetto. In questo senso, il dato relativo all’universo dei beneficiari è puramente indicativo in quanto nulla prova che rispecchi la composizione del campione oggetto di rilevazione.
[10] Santoro e Tucci (2006), invece, rilevano un tasso di recidiva superiore fra il campione di soggetti affidati in prova dalla libertà rispetto al campione di affidati in prova dopo un periodo di carcerazione. Tuttavia, l’esiguità del campione ed il materiale empirico raccolto attraverso le interviste fanno propendere gli stessi ricercatori per una problematizzazione del dato, piuttosto che per un’interpretazione che voglia attribuire un maggiore effetto deterrente alla misura alternativa applicata dopo un periodo di carcerazione.
[11] La cifra fra parentesi indica l’incremento medio mensile del periodo.
[12] Come si vedrà fra breve (4) tale dato pare essere confermato anche dal caso dell’indulto.
[13] Purtroppo tale ipotesi non è verificabile attraverso l’incrocio delle variabili in quanto le cifre fornite dal ministero in questa occasione non prevedono la possibilità di disaggregare il dato.
[14] Dati aggiornati al 31 dicembre 2007.
[15] Basti pensare al fatto che il procedimento che porta all’applicazione di una misura alternativa ad una persona in stato di detenzione passa attraverso procedure che prevedono, fra l’altro, l’esame della personalità dell’individuo e l’emissione di una prognosi sul futuro comportamento del soggetto la cui natura ed esiti non sono valutabili attraverso i dati statistici.
[16] Dati aggiornati al 31 dicembre 2007.
[17] Dati aggiornati al 31 dicembre 2007.
[18] Occorre ricordare come in questo caso i dati forniti dal DAP non distinguano la provenienza dal carcere dalla provenienza dalla misura alternativa.
[19] Occorre ricordare come proprio nei mesi successivi all’entrata in vigore della legge scoppiò all’interno del territorio di Napoli una faida fra le organizzazioni camorristiche che spopolano all’interno del territorio campano. Tra l’altro, proprio tale recrudescenza del crimine violento nella città di Napoli è stato uno dei fattori che hanno scatenato le più vivaci critiche nei confronti dell’indulto.
[20] La tesi, tra l’altro, appare riaffermata da alcune ricerche empiriche di M. Barbagli (1998, 2002).
[21] Tali tesi sono contenute nelle ricerche che affrontano il tema dell’amministrazione della giustizia penale da una prospettiva costruttivista. Si rimanda in tal senso a Mosconi, Padovan (2005, 2006), Quassoli (1999, 2002), Cottino e Sarzotti (1995) e Sarzotti (2007).
[22] La percentuale di stranieri in carcere al 31/12/2005 era del 33,32% mentre la percentuale di stranieri scarcerati è del 38,41%. Tale differenza di circa cinque punti percentuali rappresenta il minor coinvolgimento della popolazione penitenziaria straniera nei reati non rientranti nell’ambito di applicazione del provvedimento di clemenza.
[23] Tale dato potrebbe essere interpretato come una maggiore facilità da parte dello straniero extracomunitario nell’accedere alle misure alternative rispetto ad uno comunitario. A nostro parere, al contrario, tale dato rispecchia più chiaramente il fatto che i soggetti stranieri extracomunitari sono coinvolti con minore frequenza in reati per i quali è preclusa l’applicazione di una misura alternativa al carcere.
[24] Tale tendenza, purtroppo, appare confermata dalle frequenti proposte avanzate da esponenti del governo attraverso i vari “pacchetti sicurezza” dove, a turno, è prevista l’introduzione del reato di immigrazione clandestina o, in alternativa, l’aggravante della clandestinità per lo straniero che commette reati. Oltre ad un utilizzo sempre più “disinvolto” dello strumento dei Centri di Permanenza Temporanea.
[25] I dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria mostrano come, dal 2005 al 2007, si sia passati da una percentuale di stranieri sulla popolazione detenuta pari al 33,32% ad una del 37,48%.
[26] La Repubblica, 8 Settembre 2008, p. 3.
[27] La Repubblica, 27 Agosto 2008, p. 14.
[28] La Stampa, 13 Settembre 2007, p. 18.
[29] Corriere della Sera, 27 Agosto 2008, pp. 12-13.
[30] Inoltre, non occorre trascurare il fatto che una costante reiterazione dei provvedimenti clemenziali, così come avvenuto nel nostro paese sino alla fine degli anni ’80, possa in qualche modo far perdere il carattere di eccezionalità al provvedimento rendendolo in qualche modo “prevedibile” fra la popolazione detenuta.
[31] Emblematico in tal senso il Disegno di Legge “Berselli”, secondo il nome del parlamentare primo firmatario, là dove propone una netta limitazione nell’accesso alla misure alternative da parte dei soggetti recidivi e la cancellazione dell’istituto della libertà anticipata.
[32] La Stampa, 3 agosto 2006, p. 12.
L’indulto da sicurezza, il carcere solo insicurezza
I dati sulla recidiva per chi ha usufruito dell’indulto resi noti dall’associazione a Buon diritto. Non servono nuove carceri ma ridurre l’incarcerazione. Amnistia, indulto e abolizione delle leggi criminogene come la Bossi-Fini, Fini-Giovannardi, ex Cirielli e pacchetto sicurezza Maroni
Paolo Persichetti
Liberazione 15 luglio 2009
Dopo tre anni i dati sull’indulto parlano chiaro e smentiscono la gigantesca campagna di disinformazione e deformazione della realtà costruita dai media e da buona parte di quel mondo politico (di destra come di sinistra) che votò in parlamento il provvedimento di clemenza per poi subito dopo nascondere la mano, fatta eccezione per le diverse anime di Rifondazione, che pure dovette pagare pegno con molti suoi sostenitori (Liberazione venne sepolta dalle proteste di molti lettori accecati dal giustizialismo dipietrista) e i Radicali. L’associazione A buon diritto, finanziatrice della ricerca, ha diffuso ieri nel corso di una conferenza stampa le ultime cifre aggiornate al 30 giugno 2009.

L'infame campagna goebbelsiana contro l'indulto
Il dato che emerge è eloquente. Dietro ogni fatto di cronaca nera, d’episodio efferato o allarme sociale, la menzogna dice che c’è un indultato. La realtà, invece, racconta cose molto diverse: per chi ha usufruito dello sconto di pena di tre anni il tasso di recidiva, ovvero la reiterazione del reato, è solo del 28,45%. Tra quelli che invece hanno scontato la pena per intero, il tasso di recidiva s’impenna e raggiunge il 68%. Gli indultati che tornano a delinquere sono meno della metà di quelli che non hanno avuto sconti. Non solo, ma la propensione a delinquere cala ancora di più tra i cittadini stranieri, solo il 21,36% rispetto al 31,9% degli italiani. A confermare questa tendenza c’è un ulteriore dato: la reiterazione del reato precipita (appena il 21,78%) tra chi accede a misure restrittive diverse dalla detenzione, sia che si tratti della fase antecedente al processo che durante l’esecuzione pena. Queste cifre, che andrebbero quotidianamente sbattute in faccia a gente come Di Pietro, Gasparri, La Russa, Cofferati e Calderoli ogni volta che aprono bocca, dicono una cosa molto semplice: il carcere è un fallimento e la certezza della pena equivale a una matematica reiterazione del reato. Altrimenti detto: più carcere e pene severe incrementano la propensione al crimine e rendono la società più insicura. Non si tratta di buonismo spicciolo, ma del fatto che provvedimenti di clemenza come l’indulto, o la tanto demonizzata amnistia, quando vengono varati sono sempre accompagnati da misure dissuasive. Clausole che vincolano il beneficiario al rispetto della legge, per un periodo in genere non minore ai cinque anni, pena la perdita dello sconto ottenuto e l’immediato ritorno in carcere. Questo tipo di dissuasione “non costrittiva” assume una valenza sociale molto più proficua delle mura del carcere, e facilita anche quel legame sociale che la reclusione distrugge, riducendo la carica di frustrazione, risentimento e rivalsa sociale che spesso stanno dietro la recidiva dopo anni di vita carceraria. Senza l’indulto di tre anni fa oggi la situazione sarebbe ancora più catastrofica. Nelle carceri si troverebbero già oltre 70 mila rinchiusi. L’effetto deflattivo della clemenza è stato ridotto dal mancato varo parallelo di un’amnistia che avrebbe anche alleviato il lavoro dei tribunali. Nonostante l’evidenza di queste cifre, il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha ribadito, nel corso di un convegno dal titolo più che significativo, “Più carcere, più sicurezza”, di aver «escluso ulteriori provvedimenti d’indulto e di amnistia» ma di aver scelto al loro posto «di costruire nuove carceri che saranno pronte nel 2012». Una bufala, come ricorda Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, «Avevano promesso 17 mila posti letto in più ma ancora non si è visto nulla. Per costruire un carcere servono in media 8 anni, ma con questa progressione nel 2012 saremo a 100 mila detenuti e le carceri progettate saranno già insufficienti».
Il governo gioca con il fuoco. C’è un solo modo per trovare una soluzione al problema: oltre al varo di un nuovo indulto e di un’amnistia, abolire quelle leggi che producono carcere, come la Bossi-Fini, la Fini-Giovannardi, l’ex-Cirielli e l’ultimo pacchetto sicurezza.
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Sgom… sgommiamo Oliviero Diliberto dalla scena politica
Sgommiamo Oliviero Diliberto. Cacciamolo dalle piazze dove prenderà la parola. Impediamogli di tenere ancora in ostaggio la parola comunismo
Oliviero Diliberto è candidato come capolista per la circoscrizione centro della lista “comunista e anticapitalista” che raccoglie i candidati del Prc, del Pcd’I, Socialismo 200 e Consumatori uniti.
Attuale segretario nazionale del Pdc’I, in passato è stato braccio destro di Armando Cossutta prima di pugnalarlo alle spalle come Bruto.
Ha diretto dal 1994 al 1995 Liberazione, allora settimanale del Prc, dove si guadagnò il soprannome di Diliberia. Quando nel 1998 fu tra gli artefici della scissione interna a Rifondazione, perché in disaccordo con la decisione di sfiduciare il primo governo Prodi, ricopriva il ruolo di capo gruppo alla Camera. Fondato con Cossutta il Pcd’I prese parte nel 1999 al governo D’Alema con l’importante incarico di Guardasigilli.

Da che parte sta Oliviero Diliberto? La risposta è una sola: con i Gom
Rispolverata dai ripostigli la scrivania che fu di Togliatti in via Arenula, prendendo a pretesto alcuni mancati rientri di detenuti dai permessi, mise immediatamente fine alla timida stagione “riformista” avviata da Sandro Margara, presidente del Dap nominato dal precedente ministro della Giustizia prodiano Flick.
Dopo aver posto ai vertici dell’amministrazione penitenziaria il giudice Giancarlo Caselli in sostituzione dello stesso Margara (figura storica della magistratura di sorveglianza più illuminista), cacciato in malo modo, perché ritenuto poco incline ad una concezione unicamente sicuritaria della funzione penitenziaria, fece nascere l’Ugap (Ufficio garanzie penitenziarie, ovvero i servizi segreti penitenziari) che attualmente dirigono l’attività dei Gom.
A capo dell’Ugap nominò il generale Enrico Ragosa, già a capo degli Scop (Servizio coordinamento operativo polizia penitenziaria) e appartenente al Sisde, che guiderà anche la spedizione di funzionari del ministero di giustizia italiano in Kossovo per procedere alla ricostruzione e riorganizzazione post-bellica del sistema penitenziario kosovaro.
I Gom (Gruppo operativo mobile) sono nati nel maggio 1997 su iniziativa dell’allora direttore del Dap Michele Coiro, nel momento in cui il servizio traduzioni dei detenuti tornava in mano alla polizia penitenziaria, dopo la lunga parentesi emergenziale voluta dal generale Dalla Chiesa che l’aveva data in gestione all’Arma dei Carabinieri.
Ma è solo nel febbraio 1999 che i Gom assumono le funzioni del soppresso Scop, grazie a un decreto firmato da Oliviero Diliberto che ne regolamentava l’istituzione e ne stabiliva le funzioni, il personale, i mezzi e le attrezzature tecnico – logistiche di cui sarebbe stato dotato.
Appena creati i Gom si sono trovati al centro di pesanti polemiche e denunce per la scia di pestaggi lasciati all’interno delle carceri dopo il loro passaggio, come quello nel carcere San Sebastiano di Sassari dell’aprile 2000, e per le brutali perquisizioni nel carcere milanese di Opera (l’ex presidente della commissione Giustizia della Camera, l’avvocato Giuliano Pisapia, aveva denunciato senza mezzi termini gli “episodi di brutalità” avvenuti, parlando del passaggio di “un vero e proprio uragano che ha distrutto ogni cosa”), fino alla gestione del lager di Bolzaneto, con relative torture, durante il G8 di Genova 2001.
Non sono mancate nemmeno feroci critiche da parte dei penalisti perché personale del Gom in più di un’occasione aveva agito come una sorta di servizio segreto, ascoltando e registrando le conversazioni tra i legali ed i loro clienti detenuti, malgrado la legge lo vieti espressamente.
Nel 2006 si è astenuto in parlamento al momento del voto sull’indulto. A Confronto Antonio Di Pietro assomiglia a santa Maria Goretti.
Sgommiamo Oliviero Diliberto, cacciamolo dalle piazze dove prenderà la parola
Impediamogli di tenere ancora in ostaggio la parola comunismo
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a cura dello SGOM
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Da gennaio 98 detenuti morti
Paolo Persichetti
Liberazione 22 ottobre 2008
Dall’inizio del 2008 sono morte nelle carceri italiane 98 persone. L’ultimo censimento risale al 15 ottobre scorso (fonte Ristretti orizzonti). Nei casi di morte recensiti sotto la voce «malattia», il dato non è in grado di dettaglaire ulteriormente i decorsi e le caratteristiche delle malattie che hanno portato alla morte e dunque non dicono tutto sulla carenza di cure che spesso accelerano irrimediabilmente gli stati patologici dei reclusi. Un episodio eclatante è stato quello di Franco Paglioni, affetto da sindrome Aids e deceduto in condizioni ignominiose lo scorso settembre nel carcere di Forlì. In realtà i dati raccolti nel dossier non riescono a dirci l’intera verità poiché si tratta d’informazioni (tutte verificate) raccolte in modo autonomo, sulla base di notizie di stampa o fornite da altri detenuti o familiari. Esiste un sommerso che il Dap tiene opportunamente sotto silenzio o dissimula all’interno di statistiche poco decifrabili. Almeno 37 sono i morti per «suicidio», una dicitura spesso di comodo sotto la quale si celano altre terribili circostanze come la vicenda di Stefano Brunetti, denunciata dall’ufficio del garante dei detenuti del Lazio. Arrestato ad Anzio l’8 settembre scorso, morì in ospedale il giorno successivo a causa delle percosse subite. Ora la famiglia ha presentato querela contro ignoti per omicidio colposo. Dall’autopsia sarebbe emerso, secondo quanto riportato dal legale Carlo Serra, che Brunetti «è morto per un’emorragia interna dovuta ad un grave danno alla milza. Risultano fratturate anche due costole». Manifestamente è stato pestato. Anche per il caso di Marcello Lonzi, morto nel 2003 nel carcere di Livorno, la procura dopo anni di denunce da parte della madre ha finalmente deciso di riaprire un’inchiesta troppo sbrigativamente archiviata. Due agenti e l’ex compagno di cella risultano indagati. Per le molteplici morti violente in carcere e nelle questure, l’Italia è sotto accusa daparte di alcuni organismo internazionali e dalla commissione europea sulla prevenzione della tortura.
Materassi sul pavimento, pulizia da pollaio, densità da carri merci 57.030 detenuti per 43mila posti: il sistema carcerario è fuorilegge
Paolo Persichetti
Liberazione 24 ottobre 2008
Il sistema carcerario italiano è fuorilegge. La capienza regolare, cioè il numero di posti disponibili sulla base delle strutture architettoniche realmente esistenti è stato superato da tempo. Siano ormai oltre il tutto esaurito, 57.030 detenuti (censimento del 16 ottobre scorso) contro i 43.262 posti-cella previsti (quelli che nel regolamento penitenziario del 2000 vengono definiti «camere di pernottamento», intendendo con ciò che durante la giornata i reclusi non dovrebbero sostare nelle celle, come in realtà avviene, ma restare aperti). Per questo motivo un grande numero di istituti penitenziari operano di fatto al di fuori della legalità, cioè non sono in grado di ottemperare alle norme che ne presiedono il quotidiano funzionamento. Superfluo sottolineare che in questo modo si pongono al di fuori dello stesso articolo 27 della costituzione. Posizione abbastanza scomoda e paradossale per una istituzione dello Stato che incarna il luogo dove la Giustizia si traduce nei suoi termini più concreti e materiali, l’esecuzione della sanzione, e perciò stesso rivendica (vedendone affievolita la legittimità) una missione correttiva.
Negli anni passati si è pensato di risolvere il sovraffollamento strutturale con una semplice circolare amministrativa che introduceva la nozione di «capienza tollerabile». Un trucco contabile, una truffa vera e propria, una specie di gioco di prestigio che riducendo i parametri minimi vigenti all’interno dell’Unione europea, ovvero la soglia di vivibilità stabilita in base ai metri quadri disponibili per detenuto, ha aumentato la capienza. Così il numero dei posti è salito a 63.568; una soglia esplosiva, un punto di collasso del sistema che secondo le proiezioni stesse del Dap verrà raggiunto entro la fine dell’anno, se non decresce – e non decrescerà affatto con i ddl Berselli e Carfagna già in discussione – il numero degli ingressi che viaggia ormai al ritmo di 800-1000 al mese. La capienza regolamentare è già abbondantemente superata in tutte le regioni, ad eccezione della Valle D’Aosta. In 4 regioni i penitenziari hanno addirittura superato la stessa soglia di capienza tollerabile. In Campania a fronte di una ricevibilità regolamentare di 5.306 posti, tollerati 6.966, si è arrivati a 7.125 detenuti. In Emilia Romagna si è giunti a 3.919 sui 2.270 previsti e 3.761 tollerati. In Veneto a 2.924 sui 1.917 previsti e 2.902 tollerati. Anche in Trentino tetto regolamentare e di tolleranza abbondantemente oltrepassati. In Friuli, Liguria, Lombardia, Marche e Sicilia la soglia di tolleranza è prossima allo sforamento (ancora un 10% di posti virtuali disponibili) e poi sarà il crack.
La situazione è talmente grave che il neopresidente del tribunale di sorveglianza di Milano – come racconta il Corriere della sera di ieri –, Pasquale Nobile De Santis, ha scritto al ministro Angelino Alfano per denunciare le condizioni delle carceri di Busto Arsizio, Varese, Monza e Milano san Vittore, dove il numero dei detenuti ha toccato le 1424 unità contro le 900 disponibili. Celle di 3 metri per 2 con letti a castello a tre piani che raggiungono il soffitto, materassi sul pavimento, scarafaggi, infiltrazioni d’acqua, docce col contagocce. Densità da carro bestiame, pulizia da pollaio.
In affanno il governo conferma le sue politiche sicuritarie alimentate da quell’industria dell’incarceramento sociale, vera guerra dall’alto contro immigrati, tossicodipendenti, giovani delle periferie (legge Bossi-Fini sull’immigrazione, Fini-Giovanardi sulle droghe, ex Cirielli sulla recidiva) che l’indulto ha solo momentaneamente tamponato. Annuncia l’ampliamento dei padiglioni esistenti e la costruzione di nuove carceri. Ma ci vorranno anni. Intanto la popolazione reclusa si gonfia e gli studenti sono scesi in piazza. Ma non era già successo?
Giustizia o giustizialismo? Dilemma nella Sinistra
Il giustizialismo è ormai diventato un potere come gli altri, con un suo preciso ordine del discorso teso ad aizzare le masse contro un sovrano per creare consenso verso un altro sovrano
Anna Simone
Liberazione – Queer 19 ottobre 2008
Tra gli effetti perversi di ciò che alcuni denominano come crisi dello stato di diritto e altri come fine del medesimo vi sono almeno due fenomeni degni di una seria riflessione: da una parte il rafforzamento dei poteri esecutivi e amministrativi tesi a criminalizzare la cosiddetta “marginalità sociale” a colpi di decreti e ordinanze amministrative (contro accattoni, lavavetri, prostitute, trans etc.); dall’altra un processo di trasformazione delle cosiddette teorie della giustizia in giustizialismo. Ovverosia in quell’ideologia politica post-garantista che tende a vedere nel legalismo e nel contenimento del rafforzamento del potere esecutivo l’unica forma di politica possibile. Ci riferiamo, evidentemente, al successo del dipietrismo-travaglismo e al buon esito di consenso mediatico e non che essi riescono ad avere. L’ossessione giustizialista, però, spesso declinata come anti-berlusconismo, non sempre, per non dire mai, riesce ad attraversare anche gli ambiti del garantismo “per tutti” e quindi si traduce in un potere che non distingue i soggetti coinvolti nella dinamica. Non distingue cioè l’ingiustizia sociale, trasformatasi ormai in politica penale contro gli ultimi, dallo scontro ormai titanico tra potere esecutivo e potere giudiziario. Di conseguenza passano quasi inosservati i “pentitismi” sull’indulto, i no secchi all’amnistia, il totale silenzio sulla persecuzione nei confronti di migranti, prostitute e quant’altro, l’avallo incondizionato dato nei confronti di qualsiasi processo di criminalizzazione preventiva. In poche parole è ovvio e ragionevole che qualsiasi tentativo di rafforzamento, di potenziamento dell’esecutivo debba preoccupare tutti, ma non è altrettanto ovvio che ciò avvenga attraverso l’innalzamento virile del vessillo giustizialista. La cosiddetta teoria del bilanciamento dei poteri, sancita anche dalla costituzione, che a giusto titolo prevede oltre alla funzione legislativa ed esecutiva anche quella giudiziaria, appare in realtà sempre più sbilanciata verso un giustizialismo sommario, sino ad essere divenuta il “grande tema” della politica contemporanea di cui discutere nei vari salotti televisivi, a dispetto di chi ne paga le conseguenze reali sulla propria pelle (precari senza possibilità di accedere ad uno straccio di diritto, tossicodipendenti a cui vengono negate le misure alternative, trans rinchiusi nei cpt etc.). Prima della nascita dello stato moderno non si ha memoria di sistemi politici che differenziavano i poteri per poter giustiziare gli stessi diritti e lo stesso potere esecutivo, qualora fossero colti in flagranza di abuso, dal momento che la pubblica messa a gogna del capro espiatorio di turno riusciva a soddisfare il sadico piacere della vendetta di massa. I molti si sfogavano sull’uno ma non sul sistema accentratore e assolutistico che produceva il capro espiatorio. Poi ci sono state le rivoluzioni, a seguire è nata la democrazia nonché il potere giudiziario il quale fu posto, seppure tra mille contraddizioni e conflitti, a svolgere il ruolo terzo di controllo sul potere esecutivo e legislativo in modo tale da poter garantire una forma di giustizia attraverso l’assoggettamento alla legge financo dell’autorità politica di turno. Nacque, cioè, lo stato di diritto. Ma se da una parte la giustiziabilità del potere esecutivo avrebbe dovuto garantire il famoso principio della “legge uguale per tutti”, dall’altra i sistemi di welfare avrebbero dovuto consentire lo sviluppo di una giustizia parallela, quella sociale. Oggi, venuta a mancare quest’ultima, ci ritroviamo dinanzi ad un potere giudiziario tradotto troppo spesso in giustizialismo e in un reale abuso del potere esecutivo, ma entrambi i poteri distorti si muovono sullo stesso crinale pur essendo contrapposti: la legge non è uguale per tutti sia per gli uni che per gli altri. Perché Di Pietro è ossessionato dal lodo Alfano ma non spende parola alcuna sulle migliaia di migranti che popolano i centri di detenzione costruiti ad hoc per contenere la miseria e la disperazione del mondo? Perché i cosiddetti giustizialisti, tra cui senz’altro mettiamo anche Travaglio non aprono bocca dinanzi al decreto sulla sicurezza voluto da Maroni e poi convertito in legge che consente la carcerizzazione di massa e l’espulsione facile di migliaia di persone? Perché nessuno apre bocca sull’ipocrisia perbenista e falsamente morale del ddl Carfagna sulla prostituzione? Perché tutti oggi negano l’efficacia dell’indulto sui maggiori quotidiani italiani nonostante vi siano saggi scientifici che dimostrano il contrario (si veda a tal proposito il lavoro fatto da Antigone)? Eppure questi ultimi fenomeni ci pongono dinanzi alla crisi dello stato di diritto nel medesimo modo del lodo Alfano. Qualsiasi persona ragionevole, infatti, vedrebbe il fenomeno nel suo duplice volto se avesse un minimo di coscienza di quanto possa essere fuorviante trasformare la dea della giustizia, la bellissima Minerva, in un giustiziere monomaniaco che trasforma l’idea democratica del bilanciamento dei pubblici poteri in un meccanismo che fa di due pesi, due misure. Il giustizialismo, infatti, e non la giustizia è ormai diventato un potere come gli altri, con un suo preciso ordine del discorso teso ad aizzare le masse contro un sovrano per creare consenso verso un altro sovrano, per costruire nuove ed inedite forme di populismo difficilmente collocabili sia a destra che a sinistra. D’altronde non è un’operazione politica così difficile dati i tempi che corrono, ma non è neppure un’operazione sana perché in fin dei conti spara nel mucchio, nella mucillaggine in cui tutti siamo immersi, senza distinguere più tra i sommersi e i salvati. Nel famoso film di Nanni Moretti, Il Caimano, il sipario si chiudeva con l’immagine di un Tribunale che avrebbe salvato l’Italia. Il dipietrismo, con il supporto della lingua biforcuta e scaltra di Travaglio, cerca di trasformare questa immagine in una forma della politica contemporanea, ma sia anche chiaro a tutti che il rovescio di questo fenomeno non risiede nel ripristino di un diritto per tutti. Tutt’altro. Risiede nella tendenza contemporanea dei poteri di trasformare tutto ciò che toccano in politica penale, come se tutti ormai stessimo in una nuova e gigantesca gogna mediatica. Sarà per questo che Di Pietro “tira”, come si dice in gergo?
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