“Delazioni industriali”, la nuova filosofia aziendale di Marchione

Giovanni Barozzino, operaio, delegato Fiom della Sata-Fiat di Melfi, licenziato e poi reintegrato dalla magistratura del lavoro risponde alle accuse anonime pubblicate da Panorama: «“Panorama” scrive il falso. Antisindacale è la Fiat»

Paolo Persichetti
Liberazione 5 settembre 20120


Sergio Marchionne ha l’ambizione di passare alla storia come un grande innovatore. Ma non sarà certo il freeweare, l’abbigliamento informale sui luoghi di lavoro, il maglioncino al posto della cravatta, roba per chi pensa che il ’68 sia stato una moda vestimentaria che ha mandato in soffitta colletti inamidati e cravatte, che marcherà la memoria dei posteri. Il manager che parla di filosofia, il grande guru della «qualità totale», verrà ricordato come l’inventore di un nuovo modello di relazioni in fabbrica: le delazioni industriali. Il settimanale Panorama pubblica questa settimana, con tanto di foto in prima pagina e titolo “Gli eroi bugiardi”, un servizio a firma di Antonio Rossitto che copovolge totalmente la ricostruzione dei fatti sancita dalla magistratura del lavoro e che ha portato al reintegro nello stabilimento dei tre operai della Fiat-Sata di Melfi, licenziati dall’azienda dopo uno sciopero e un corteo interno perché accusati di aver sabotato le linee di produzione ostacolando lo scorrimento dei carrelli.
Ma lo fa sulla base di tre testimonianze rigorosamente anonime. Un fatto giustamente percepito dai lavoratori come una intimidazione mafiosa, un messaggio obliquo, roba da padroni che fanno i padrini. Alcuni degli “anonimi” si presentano come delegati sindacali concorrenti della Fiom. Ed è tutto dire. Che sia la dimostrazione di quella «complicità» sindacale auspicata dal nuovo modello delatorio di relazioni industriali?
L’anonimato, prova a raccontare il settimanale, sarebbe giustificato dal «pesante clima d’intimidazione e violenza» che si vivrebbe in fabbrica ad opera dei lavoratori aderenti alla Fiom per poi subito doversi smentire riconoscendo che «la gente pensa che dobbiamo schierarci con i tre [licenziati] a prescindere», «stanno tutti con la Fiom», «All’interno dello stabilimento, dopo che il giudice ha dato ragione alla Fiom, tutti sono schierati con gli operai licenziati». Sempre secondo i tre anonimi, persino nei paesi dove risiedono la popolazione è schierata con gli operai licenziati.
Certo l’anonimato non è un bel modello di trasparenza e quanto a valenza probatoria è pari a zero. Lo dovrebbe sapere molto bene il settimanale di casa Berlusconi che di processi se ne intende. Che cosa direbbe mai l’attuale inquilino di palazzo Chigi di fronte ad un eventuale tentativo di portarlo in giudizio sulla base di denunce anonime?
Nel corso di una conferenza stampa, tenuta ieri mattina a Rionero in Vulture (Potenza), la Fiom e i tre operai hanno annunciato querela in sede penale e civile contro la pubblicazione di «notizie dal contenuto altamente diffamatorio e che travisano la realtà dei fatti già accertata dal giudice del lavoro che ha condannato la Fiat per comportamento antisindacale». Giovanni Barozzino, uno dei tre licenziati e poi reintegrati, «il delegato più votato in fabbrica», come dice uno dei tre delatori, è abituato a parlare a viso aperto e ribadisce al telefono che «la sera dello sciopero interno, prim’ancora che si sapesse delle sospensioni cautelative dal lavoro di noi tre, tutti i delegati Rsu presenti, cioè Fim, Fiom, Uilm, Ugl, firmarono una lettera in cui si spiegava che lo sciopero e il corteo si erano svolti nel pieno rispetto delle regole».

Allora da dove sono usciti fuori questi tre testimoni anonimi che dicono di essere anche sindacalisti, addirittura presenti quella sera?
Non lo so. Quelli presenti dopo l’atteggiamento provocatorio del preposto aziendale che aggredì verbalmente uno dei lavoratori, non solo hanno tutti sottoscritto un documento in cui si rigettavano le sue accuse, consegnato all’azienda appena mezz’ora dopo l’episodio, ma l’intera Rsu compatta si è poi recata sulle linee per rassicurare il lavoratore aggredito.

Cosa era accaduto esattamente?
Ad un certo punto del corteo ho sentito il preposto aziendale inveire in modo violento e autoritario contro uno dei lavoratori, poi licenziato. Sono intervenuto dicendogli che non aveva alcuna autorità per rivolgersi contro di lui in quel modo, minacciandolo addirittura di licenziamento. Per altro Marco è un ragazzo molto sensibile, più giovane di noi, sta soffrendo molto questa esperienza. In questi giorni ha anche avuto un malore per lo stress.

Ma allora questi testimoni sono dei fantasmi?
Il giornalista di Panorama descrive un quadro aziendale, il terzo anonimo dell’intervista, che avrebbe incontrato sempre in maniera furtiva a fine turno di lavoro, come uno che «odora ancora di sudore e di lamiera». Scrive proprio così, sudore e lamiera. Ora, con tutto il rispetto per i diversi ruoli che si hanno nel lavoro, a puzzare di sudore e di lamiera sono gli operai non i quadri.

Dunque la vostra impressione è che si tratti di una montatura?
Non penso che sia solo la nostra. Noi comunque non vogliamo prestarci a questo gioco. E’ una trappola dentro la quale vogliono farci cadere. Non abbiamo fatto alcun sabotaggio. Chi ha avuto un comportamento antisindacale è stata la Fiat. Lo ha detto una sentenza ed a quella ci atteniamo.

Link
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operai e azienda, la contrapposizione di interessi ci sarà sempre”
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Cronache operaie
Delazioni industriali: la nuova filosofia aziendale di Marchione
Disobbedienza e lavoro in fabbrica, la questione etica degli operai Fiat a Melfi
1970, come la Fiat schedava gli operai

La Sinistra giudiziaria

La deriva penale e carceraria della sinistra italiana

Paolo Persichetti
Liberazione
giovedì 27 gennaio 2005

A meno di una settimana dagli appuntamenti del 15 e 16 gennaio, dopo che sui diversi quotidiani delle Sinistre hanno preso la parola un po’ tutti, manette cercando di iscrivere nel «temario» suggerito da Asor Rosa i più disparati argomenti, colpisce un’assenza, un vuoto che col passar dei giorni diventa sempre più una voragine. Alcuni, partendo da una riflessione che si protrae da tempo, hanno riproposto uno spietato bilancio del Novecento che troverebbe nella scelta della nonviolenza e nella sperimentazione di una «politica dolce» il suo approdo naturale. Altri pensano invece ad una sinistra mummificata, fedele sacerdote del tempio, votata alla conservazione della costituzione del 1948, ancella della legalità. Su lidi diversi c’è chi sovverte questo schema ritenendo innanzitutto superate le vecchie forme della rappresentanza. Seguono inviti ad approfondire la critica radicale al neoliberismo, ma anche qui gli esiti non sono univoci: se da una parte l’obiettivo è reinventare il welfare, dall’altra si ritiene che ciò condurrebbe nuovamente sotto la maledizione del sovranismo statalista. C’è poi il tradizionale contrasto tra chi antepone il conflitto capitale e natura alla contraddizione tra capitale e lavoro, poiché quest’ultima sarebbe incapace di rompere con la cultura economica sviluppista. Ad entrambi si oppone il pensiero della differenza sessuale che accomuna tutti i paradigmi appena citati sotto una medesima condizione patriarcale. Non mancano coloro che antepongono la nuova realtà del mondo delle associazioni e del volontariato ai vecchi modelli fondati sul sistema dei partiti o al cesarismo mediatico attuale. In fine, ci sono i fans del treppiede, una sorta d’inconsapevoli quanto ridicoli promotori di un nuovo tirannicidio virtuale. Teorie, pensieri e pratiche avanzano in ordine sparso, rigorosamente al di fuori di una sintesi comune, oramai aborrita sempre ammesso che fosse ancora possibile.
Tra le molteplici diversità sin qui espresse, un dato sembra però mettere tutti d’accordo: la difficoltà a ripensare il decennio novanta. Eppure l’intera fisionomia della sinistra attuale nasce da lì. Merita di esser indagata meglio questa strana rimozione. Forse una ragione c’è: gli anni novanta hanno forgiato in buona misura l’identità della sinistra attuale, sia nella versione riformista che in quella radicale, alternativa o antagonista. Il decennio trascorso sembra pensabile unicamente attraverso la categoria dell’anomalia. Anomalia berlusconiana s’intende. Ennesimo capitolo di quella «democrazia incompiuta» di cui ha favoleggiato il Pci durante tutto il dopoguerra, fino alla sua fine. Un atteggiamento che ricorda molto l’insipiente cultura liberale che vedeva nel fascismo una «parentesi», un deprecabile accidente della storia venuto ad interrompere l’inarrestabile cammino verso la libertà. Insomma un fenomeno senza radici né cause, piovuto dal cielo. Un impazzimento momentaneo che un giorno sarebbe scomparso come era venuto. Lettura sfacciatamente autoassolutoria della responsabilità che la società liberale ebbe nel generare il regime dal seno della sua crisi.
In tempi più recenti, l’illusione giustizialista ha cullato la sinistra nell’idea che il fenomeno berlusconiano fosse sorto dal mancato compimento della missione purificatrice di tangentopoli e non sia stato invece una sua diretta conseguenza. Lo tsunami giudiziario, che ha investito il sistema politico-istituzionale nel corso della prima metà degli anni novanta, non ha lavato la politica e ancora meno moralizzato la cosa pubblica. In realtà, travolgendo le figure tradizionali della mediazione istituzionale fuoriuscite dal dopoguerra, ha semplificato le linee di comando, ridotto le zone intermedie, portando a compimento l’instaurazione del meccanismo maggioritario, favorendo così l’accesso diretto alla politica dei nuovi quadri direttamente espressi dal mercato e dalla società commerciale. La massimiliano_tribunale3336_resize rivoluzione conservatrice avviata negli anni ottanta ha raggiunto tutti i suoi obiettivi e il partito impresa ha trovato la strada spianata verso la sua ascesa al governo. A questo risultato hanno contribuito l’ideologia della repressione emancipatrice, il mito dell’azione penale, la teoria dell’interferenza, divenuta patrimonio di larghi settori della magistratura spalleggiati dalla piazza. Alla fine però Mani pulite si è rivelata solo una sorta di Termidoro senza presa della Bastiglia. Liquidazione per via giudiziaria di un ceto politico la cui attività regolatrice costituiva oramai un intralcio troppo costoso rispetto ai nuovi parametri della competitività internazionale. Così il giudiziario, da strumento di tutela reciproca tra classi dominanti, si è trasformato per un certo periodo in luogo di conflitto anche tra élites, ricorrendo a pratiche tradizionalmente riservate alle sole classi pericolose o ai nemici interni. L’oppio giudiziario ha contaminato buona parte delle culture presenti nella sinistra, mutando profondamente l’universo simbolico dei movimenti, i vari repertori che giustificavano l’azione collettiva.
Certo, tutto ciò è sembrato essere una diretta conseguenza della crisi delle grandi narrazioni che descrivevano cammini di liberazione. L’ambizioso progetto, che un tempo animava i propositi di cambiare il mondo, è reclinato verso la modesta pretesa di giudicarlo. Alla costruzione d’ideali carichi di prospettive e speranze, si è opposto il culto della vendetta e la furiosa libidine del processo. L’ideologia giudiziaria è apparsa come una risposta al disincanto di un mondo ormai percepito come decaduto e corrotto. La politica ha mutato attori, tecniche, e inevitabilmente contenuto. Cacciata dai posti di lavoro, emarginata dalle piazze, sottratta agli stessi emicicli, è passata prima nelle corbeilles e poi nelle procure, mentre chi un tempo occupava le strade ha cominciato a sedersi sui banchi della parte civile. Il ricorso sfrenato alle scorciatoie processuali ha cristallizzato umori forcaioli e reazionari. L’abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche ha portato unicamente pregiudizio alle classi più deboli che da sempre hanno minori mezzi e strumenti di difesa, riempiendo le carceri e contribuendo ad edificare una legislazione sempre più minacciosa. La fonte della legittimità deriva dalla legalità o dal suffragio? Sono arrivati a domandare alcuni pasdaran della soluzione penale. Il risultato è stato il lungo decennio Berlusconiano. Sarà mai possibile venirne fuori? A cosa potrà mai servire un’eventuale vittoria elettorale senza un radicale mutamento di paradigma che sottragga tutti noi dall’egemonia berlusconiana?

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