Oggi l’ideologia della società civile è il nuovo embrione dello Stato etico

Non può esserci teoria e prassi critica senza una serrato regolamento di conti con le ideologie che si richiamano alla società civile, al cittadinismo, alla teoria de valori, a concezioni penali e legalitarie della politica

Da circa tre decenni a questa parte l’impiego nel dibattito pubblico del termine «società civile» è divenuto sempre più insistente. Tuttavia il richiamo a questo concetto non appare sempre in sintonia con le definizioni che di esso hanno dato filosofi e teorici della politica. Sempre meno strumento concettuale d’analisi e sempre più tema mobilizzatore iscritto a pieno titolo nel repertorio dei nuovi riferimenti ideologici legittimi dell’azione collettiva.

All’inizio degli anni Ottanta con l’affermarsi dell’ideologia della fine delle ideologie la società civile è stata proposta come il luogo dove emergevano opzioni innovative, non ideologizzate e depoliticizzate, rispetto al tradizionale sistema dei partiti che avevano accompagnato la nascita della Repubblica e delle correnti ideologiche del Novecento. Erano le prime avvisaglie di quelle forme di populismo che prenderanno l’avvento nel decennio successivo, quando assisteremo al crollo della Prima Repubblica ed alla fine di quel sistema dei partiti che difronte ai primi segni di crisi, apparsi nel crogiolo degli anni 70, avevano cercato un argine nei patti consociativi.

L’emergere della nozione di società civile è un processo della modernità che descrive, anzi sarebbe più corretto dire riempie, popola, la sfera dello spazio pubblico formatosi con il recedere progressivo della sfera totalitaria del potere monarchico-feudale venuto a occupare per intero lo spazio sociale che oltrepassava la sfera privata (Habermas).

Il Leviatano era la societas civitas che Hobbes opponeva al primordiale stato di natura; la burgerliche gesellshaft, dove burgerliche sta per borghese nel senso di civile, è la definizione kantiana che riassume società politica e Stato contrapposti allo stato di natura o alla società religiosa.

Dobbiamo ad Hegel, invece, la radicale separazione tra società civile, luogo dell’immediatezza degli interessi di ogni individuo e dell’organizzazione dei bisogni e della vita familiare, e lo Stato momento separato e autonomo. Una contrapposizione insufficiente secondo Marx, che riteneva necessaria anche l’anatomia della società civile per individuarvi quelle relazioni sociali e quei rapporti economici che animano i molteplici conflitti tra gruppi e classi con finalità per nulla armoniche. Questo perché la società civile non è un organismo compatto ma un conglomerato d’interessi contrapposti, in alcuni casi inconciliabili.

Non deve stupire dunque se la natura antinomica di questo concetto, che nel pensiero filosofico-politico – come abbiamo visto – si è dato per contrapposizione, ne ha fatto da sempre una categoria utilizzata a scopi polemici per affermare, ad esempio – come spiegava Norberto Bobbio in una celebre definizione – «che la società civile si muove più rapidamente dello Stato, che lo Stato non è in grado di cogliere tutti i fermenti che provengono dalla società civile, che nella società civile si forma continuamente un processo di delegittimazione che lo Stato non sempre è in grado di arrestare», al punto che «nei momenti di rottura si predica il ritorno alla società civile, come i giusnaturalisti predicavano il ritorno allo stato di natura».

La novità che abbiamo visto emergere a partire dagli anni Novanta non è dunque l’apparire di nuovi movimenti dall’interno della società civile (caratteristica perfettamente sistemica): dal popolo delle partite iva, alle rivolte antifiscali del nord leghista, ai family day, al ceto medio riflessivo di volta in volta raccoltosi nei Girotondi, nei raduni del Palascharp o nel popolo viola, fino al fenomeno dei Cinque stelle; quanto la volontà, espressa con sfumature e forza diverse da ognuna di queste realtà, di parlare a nome di una società civile compatta, anzi di essere la società civile tout court. Una circostanza che permette di dire che con alcuni di questi movimenti nasce un’ideologia propria della società civile.

In passato i movimenti politici, ideologici, economici, sociali o categoriali, pur se interpretati come espressione di settori consistenti della società civile non si muovevano in nome di questa. In uno dei momenti in cui è stata più alta la mobilitazione dei gruppi sociali, “movimenti e soggetti” come si definivano negli anni Settanta, quei gruppi avevano ben chiara quale era la geografia delle relazioni sociali, l’asimmetria dei rapporti economici e di dominazione. Ciò gli impediva di parlare a nome di un’ipocrita interclassismo, di una trasversalità che non c’era e non poteva esserci. Per questo rivendicavano percorsi di liberazione, nuovi diritti e conquiste sociali e politiche, in taluni casi la stessa presa del potere politico.

Chi oggi agita l’ideologia della società civile come richiamo ad una fonte pura e incontaminata, lo fa schermando conflitti e rapporti di dominazione in nome di un interesse comune che non esiste. Questa tendenza, che in genere ha la pretesa di presentarsi come a-ideologica, ha avuto nel tempo declinazioni diverse: nel decennio 90, per esempio, era d’uso corrente il riferimento al “gentismo”, inteso come “la gente”. Oggi invece prevale una sorta di “cittadinismo”, imbevuto di un’ideologia normativa che somma in modo confuso tematiche diverse e di segno opposto: tutela dei territori, in taluni casi accenno ai beni comuni, insieme a posizioni xenofobe e fobiche contro le economie criminali. Il tutto condito da un’“ideologia dell’indignazione” verso il cinismo diffuso e il minimalismo etico messo in mostra dal ceto politico (vedi la polemica “anticasta” che tende ad addossare ad un ceto politico, ormai spoliato di sovranità reale dalle dinamiche del capitalismo finanziario, tutte le colpe. Un diversivo che non intacca minimamente i gestori del potere reale: imprenditori, banche, corporation, il sistema della finanza globale). Una pulsione ideologica che spinge verso concezioni disciplinari della società animate dalla tirannia dei valori, da forme di Stato etico e legalitarismo claustrofobico che non a caso individuano nella magistratura, ovvero in una delle componenti essenziali dell’apparato statale, una sorta di portavoce, di rappresentante delle proprie istanze purificatrici. Operazione che muove nei due sensi e trova nella compagine giudiziaria settori che teorizzano apertamente questa funzione guida. In questo modo la società civile si fa Stato, una milizia dello Stato.

Se è vero, come spiegava il già citato Bobbio, che la società civile dovrebbe essere «anche tutto ciò su cui non si esercita il potere statale: non-statale come pre-statale (associazioni), anti-statale (nel significato assiologico di gruppi per l’emancipazione del potere politico, contropoteri), post-statale (nel significato insieme assiologico e cronologico di ideale che sorge dalla dissoluzione dello Stato)», il fatto che oggi ogni forma di critica antisistema non sia più percepita da questi nuovi teorici della società civile come una fisiologica produzione interna alla società ma esterna ad essa, non solo quindi extralegem, ma al di fuori addirittura della stessa umanità, per questo bandita fin da subito come terrorista, il richiamo alla società civile in chi lo esercita assume connotati normativi molto chiari e paradossali, in totale contrasto con il significato originario del termine.

In questo modo la società civile viene a coincidere con una sorta di Stato dei cittadini in azione, un embrione dello Stato etico.

La haine de la démocratie/Il nuovo odio della democrazia

Libri – Jacques Rancière, La haine de la démocratie (l’odio per la democrazia), la Fabrique éditions, Paris septembre 2005, pp. 106

Paolo Persichetti
Liberazione
23 febbraio 2006

Quando il pianeta intero ha capito che la presenza delle armi di distruzione di massa, evocata per giustificare la guerra contro l’Irak, altro non era che una menzogna, i comunicatori politici dell’amministrazione Bush hanno dovuto correre ai ripari estraendo dal cilindro un nuovo argomento capace di rivestire il loro intervento militare d’importanti orizzonti 414kvk33a5l_ss500_morali. L’esportazione della democrazia nel mondo si è trasformata così in una nuova ideologia di sostituzione impiegata per legittimare la strategia della guerra preventiva. Corollario degli interventi e della presenza militare occidentale in varie parti del pianeta è diventata, allora, la promozione di posticce cerimonie elettorali. Anche nell’ex cintura sovietica, le ex democrazie popolari si sottraggono all’influenza dell’attuale “gassocrazia” russa riconvertendosi in cleptocrazie, grazie all’azione congiunta di vere e proprie organizzazioni politiche camuffate da Ong e interamente finanziate e formate in Occidente, alla pressione politico-economica statunitense ed europea, alla promessa di eldorado commerciali e arricchimenti fulminei per le lobby emergenti.
«Nessuno ama i missionari armati[…] il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di considerarli nemici», diceva Robespierre nel suo lungimirante discorso contro la guerra (recentemente ripubblicato proprio da Liberazione). Nessuna industria delle bandierine a stelle e strisce, come quelle distribuite dal Pentagono per far credere davanti alle tv che delle truppe di occupazione sono accolte come dei liberatori, è mai riuscita a cancellare questa verità. Ma se è indiscutibile che i nuovi «valori democratici» agitati come feticci celano altri interessi, il ricorso all’argomento della democrazia segnala anche la presenza di un nuovo tipo di vincolo dal quale Bush non può esimersi per costruire la propria legittimazione. Oggi gli Usa non possono più permettersi il lusso di esportare o foraggiare dittature, appoggiando sanguinosi colpi di Stato e insediando feroci regimi. Ma a questo punto la posta in gioco diventa il significato stesso della parola democrazia. Quale senso e quale uso viene fatto di questo concetto? Una delle possibili forme di governo, come l’aveva rappresentata Aristotele? Un dispositivo procedurale, come alla fine si era limitato a riassumere Bobbio? Possiamo tranquillamente acquietarci di fronte all’interpretazione consensuale che sembra dominare l’attuale campo semantico e fare della democrazia un semplice labello legittimante?
Jacques Rancière, professore emerito presso l’università di Parigi 8, contesta queste letture addomesticate e ritiene invece che alla parola democrazia vada riconosciuta ancora la potenza di scandalo contenuta alle sue origini. Nell’antica Grecia «democrazia» fu innanzitutto un insulto, uno stigma associato all’idea di tumulto e nei confronti del quale si esprimeva odio. Un’ostilità vomitata soprattutto da quelli che vedevano nel governo delle «classi pericolose», nella presa di parola della plebe, nella trasformazione in soggetto politico della «canaglia», la rovina di ogni ordine legittimo. Un abominio per tutti coloro che ritenevano l’esercizio del potere non un attributo condivisibile da chiunque, ma detenuto unicamente da chi ne aveva titolo perché interprete della legittimità divina, oppure degno sulla base del censo, della proprietà o della conoscenza. Ma insieme all’odio, la democrazia ha conosciuto nel corso della sua storia anche numerose
copj13asp forme di critica. Più che dal rigetto contro se stessa, la democrazia moderna ha preso forma proprio dalla capacità della critica antidemocratica a comporre con una realtà oramai non più contenibile, per ricavarne con la costruzione dell’ideale repubblicano – come testimonia la costituzione americana – la salvaguardia dei due princìpi a cui teneva di più: il governo oligarchico e la difesa dell’ordine proprietario. In effetti, riassume Rancière, non esiste da nessuna parte al mondo un governo che possa dirsi interamente democratico. «I governi sono sempre un esercizio dell’attività di una minoranza su una maggioranza», il governo dei competenti sugli incompetenti. Questo perché l’irrisolto democratico ruota attorno all’ambiguità costitutiva del concetto di popolo, termine che indica al tempo stesso la realtà sociologica della massa degli esclusi, dei diseredati, delle classi lavoratrici, ma anche il soggetto costitutivo della politica democratica, un’astrazione che ne fa il luogo dell’unità del corpo politico, dove popolo è la nazione intera, il fondamento della sovranità nel quale si fondono e scompaiono le distinzioni sociali, addirittura con accenti etnici e razziali per quelle tradizioni che identificano popolo e stirpe, sangue e nazione, o teocratico, lì dove popolo diventa chi detiene la rivelazione della fede o è l’eletto di un Dio.
Non è un caso, dunque, se la forma che prende la democrazia moderna è quella che introduce una separazione costitutiva tra il popolo reale, la massa sociale di ceti e classi, e l’astrazione del popolo politico che fonda la sovranità degli eletti. Ed è proprio contro questa separatezza che si è sempre scagliata la critica iper-democratica filiata da Rousseau e Marx. Facendo leva sulla denuncia della «finzione democratica», ne disvela l’inganno proprietario celato dietro l’eguaglianza formale dei diritti, fino a ritenere una vera e propria alienazione politica il furto della volontà posto a fondamento della rappresentanza. Interpretazione ripresa anche dalla tradizione realista, che con Schumpeter definisce la democrazia: l’elezione periodica di un governo oligarchico.
Democrazia altro non è dunque che una forma di «governo rappresentativo» sorretto dal «principio di distinzione», l’unico reale fondamento della sovranità che ispira la dottrina parlamentare liberale ontologicamente censitaria. Una tradizione corretta solo dalle lotte del movimento operaio che hanno imposto il riconoscimento, quantomeno formale, del principio d’uguaglianza nell’esercizio della rappresentanza. Ciò non toglie che, secondo le parole di Rancière, le democrazie contemporanee restano l’espressione di una contraddizione tra «Stati oligarchici di diritto», governati dai chierici di una nuova teologia delle compatibilità economiche, e quella sovranità popolare che sprigiona l’eccedenza democratica e per questo viene dipinta come irragionevole, bulimica, egoista, corporativa, eversiva.
Oggi, però, la democrazia è posta di fronte ad un rinnovato odio che non ne critica più le carenze sostanziali, ma al contrario ne denuncia l’eccesso di vitalità democratica, alimentando una nuova ideologia reazionaria fondata su un doppio linguaggio: l’esportazione demagogica delle virtù democratiche all’estero e la riduzione di democrazia all’interno, attraverso politiche di controllo e riduzione dell’intensità democratica. Dietro la nuova apologetica della democrazia mondiale, si cela in realtà una critica della società democratica, vista come corruttrice del buon funzionamento dei governi. Le istituzioni democratiche sarebbero insidiate dal demos, dal protagonismo del popolo reale. Se il totalitarismo era descritto come lo Stato che divorava la società, il protagonismo democratico attuale è visto come il segno di una società che vorrebbe divorare lo Stato. Allora, come in una sorta d’ingiunzione paradossale, l’unica democrazia buona diventa quella senza popolo.
Ma chi sono questi nuovi reazionari? Rancière ne rintraccia la genealogia partendo dall’operazione ideologica che 56613ricollocò, sul finire degli anni 80, il terrore nel cuore della rivoluzione democratica. Gli orfani dell’anticomunismo, infatti, hanno trasferito le radici del totalitarismo nel cuore della democrazia rivoluzionaria, ma in fondo l’oggetto del loro odio è rimasto immutato: se prima era il proletariato che incarnava la sua emancipazione nel progetto comunista, oggi lo è la vitalità debordante di una moltitudine sociale ebbra d’impazienza e voglia di partecipazione. Nell’uno come nell’altro caso, il nemico resta sempre lo stesso e prende forma in quella realtà composita che sono le «classi pericolose»: avide, insaziabili e ingrate, quando bocciano la costituzione europea; sediziose e terroriste quando non si limitano ad essere spettatrici ma invadono le piazze, si radunano sotto i palazzi del potere, scioperano, picchettano, boicottano, occupano case, praticano le autoriduzioni, rivendicano reddito e salario, pretendono potere di decisione.
Nel suo saggio Rancière attacca alcuni intellettuali francesi ascrivibili all’interno di una nuova corrente ideologica neorepubblicana, una nuova destra che già nel 2002 Daniel Lindenberg aveva qualificato come i «nuovi reazionari». Ma i nomi contano poco, ogni paese ha i suoi. L’importante, invece, è sapere che quel nemico di cui parlano siamo noi.