Oggi l’ideologia della società civile è il nuovo embrione dello Stato etico

Non può esserci teoria e prassi critica senza una serrato regolamento di conti con le ideologie che si richiamano alla società civile, al cittadinismo, alla teoria de valori, a concezioni penali e legalitarie della politica

Da circa tre decenni a questa parte l’impiego nel dibattito pubblico del termine «società civile» è divenuto sempre più insistente. Tuttavia il richiamo a questo concetto non appare sempre in sintonia con le definizioni che di esso hanno dato filosofi e teorici della politica. Sempre meno strumento concettuale d’analisi e sempre più tema mobilizzatore iscritto a pieno titolo nel repertorio dei nuovi riferimenti ideologici legittimi dell’azione collettiva.

All’inizio degli anni Ottanta con l’affermarsi dell’ideologia della fine delle ideologie la società civile è stata proposta come il luogo dove emergevano opzioni innovative, non ideologizzate e depoliticizzate, rispetto al tradizionale sistema dei partiti che avevano accompagnato la nascita della Repubblica e delle correnti ideologiche del Novecento. Erano le prime avvisaglie di quelle forme di populismo che prenderanno l’avvento nel decennio successivo, quando assisteremo al crollo della Prima Repubblica ed alla fine di quel sistema dei partiti che difronte ai primi segni di crisi, apparsi nel crogiolo degli anni 70, avevano cercato un argine nei patti consociativi.

L’emergere della nozione di società civile è un processo della modernità che descrive, anzi sarebbe più corretto dire riempie, popola, la sfera dello spazio pubblico formatosi con il recedere progressivo della sfera totalitaria del potere monarchico-feudale venuto a occupare per intero lo spazio sociale che oltrepassava la sfera privata (Habermas).

Il Leviatano era la societas civitas che Hobbes opponeva al primordiale stato di natura; la burgerliche gesellshaft, dove burgerliche sta per borghese nel senso di civile, è la definizione kantiana che riassume società politica e Stato contrapposti allo stato di natura o alla società religiosa.

Dobbiamo ad Hegel, invece, la radicale separazione tra società civile, luogo dell’immediatezza degli interessi di ogni individuo e dell’organizzazione dei bisogni e della vita familiare, e lo Stato momento separato e autonomo. Una contrapposizione insufficiente secondo Marx, che riteneva necessaria anche l’anatomia della società civile per individuarvi quelle relazioni sociali e quei rapporti economici che animano i molteplici conflitti tra gruppi e classi con finalità per nulla armoniche. Questo perché la società civile non è un organismo compatto ma un conglomerato d’interessi contrapposti, in alcuni casi inconciliabili.

Non deve stupire dunque se la natura antinomica di questo concetto, che nel pensiero filosofico-politico – come abbiamo visto – si è dato per contrapposizione, ne ha fatto da sempre una categoria utilizzata a scopi polemici per affermare, ad esempio – come spiegava Norberto Bobbio in una celebre definizione – «che la società civile si muove più rapidamente dello Stato, che lo Stato non è in grado di cogliere tutti i fermenti che provengono dalla società civile, che nella società civile si forma continuamente un processo di delegittimazione che lo Stato non sempre è in grado di arrestare», al punto che «nei momenti di rottura si predica il ritorno alla società civile, come i giusnaturalisti predicavano il ritorno allo stato di natura».

La novità che abbiamo visto emergere a partire dagli anni Novanta non è dunque l’apparire di nuovi movimenti dall’interno della società civile (caratteristica perfettamente sistemica): dal popolo delle partite iva, alle rivolte antifiscali del nord leghista, ai family day, al ceto medio riflessivo di volta in volta raccoltosi nei Girotondi, nei raduni del Palascharp o nel popolo viola, fino al fenomeno dei Cinque stelle; quanto la volontà, espressa con sfumature e forza diverse da ognuna di queste realtà, di parlare a nome di una società civile compatta, anzi di essere la società civile tout court. Una circostanza che permette di dire che con alcuni di questi movimenti nasce un’ideologia propria della società civile.

In passato i movimenti politici, ideologici, economici, sociali o categoriali, pur se interpretati come espressione di settori consistenti della società civile non si muovevano in nome di questa. In uno dei momenti in cui è stata più alta la mobilitazione dei gruppi sociali, “movimenti e soggetti” come si definivano negli anni Settanta, quei gruppi avevano ben chiara quale era la geografia delle relazioni sociali, l’asimmetria dei rapporti economici e di dominazione. Ciò gli impediva di parlare a nome di un’ipocrita interclassismo, di una trasversalità che non c’era e non poteva esserci. Per questo rivendicavano percorsi di liberazione, nuovi diritti e conquiste sociali e politiche, in taluni casi la stessa presa del potere politico.

Chi oggi agita l’ideologia della società civile come richiamo ad una fonte pura e incontaminata, lo fa schermando conflitti e rapporti di dominazione in nome di un interesse comune che non esiste. Questa tendenza, che in genere ha la pretesa di presentarsi come a-ideologica, ha avuto nel tempo declinazioni diverse: nel decennio 90, per esempio, era d’uso corrente il riferimento al “gentismo”, inteso come “la gente”. Oggi invece prevale una sorta di “cittadinismo”, imbevuto di un’ideologia normativa che somma in modo confuso tematiche diverse e di segno opposto: tutela dei territori, in taluni casi accenno ai beni comuni, insieme a posizioni xenofobe e fobiche contro le economie criminali. Il tutto condito da un’“ideologia dell’indignazione” verso il cinismo diffuso e il minimalismo etico messo in mostra dal ceto politico (vedi la polemica “anticasta” che tende ad addossare ad un ceto politico, ormai spoliato di sovranità reale dalle dinamiche del capitalismo finanziario, tutte le colpe. Un diversivo che non intacca minimamente i gestori del potere reale: imprenditori, banche, corporation, il sistema della finanza globale). Una pulsione ideologica che spinge verso concezioni disciplinari della società animate dalla tirannia dei valori, da forme di Stato etico e legalitarismo claustrofobico che non a caso individuano nella magistratura, ovvero in una delle componenti essenziali dell’apparato statale, una sorta di portavoce, di rappresentante delle proprie istanze purificatrici. Operazione che muove nei due sensi e trova nella compagine giudiziaria settori che teorizzano apertamente questa funzione guida. In questo modo la società civile si fa Stato, una milizia dello Stato.

Se è vero, come spiegava il già citato Bobbio, che la società civile dovrebbe essere «anche tutto ciò su cui non si esercita il potere statale: non-statale come pre-statale (associazioni), anti-statale (nel significato assiologico di gruppi per l’emancipazione del potere politico, contropoteri), post-statale (nel significato insieme assiologico e cronologico di ideale che sorge dalla dissoluzione dello Stato)», il fatto che oggi ogni forma di critica antisistema non sia più percepita da questi nuovi teorici della società civile come una fisiologica produzione interna alla società ma esterna ad essa, non solo quindi extralegem, ma al di fuori addirittura della stessa umanità, per questo bandita fin da subito come terrorista, il richiamo alla società civile in chi lo esercita assume connotati normativi molto chiari e paradossali, in totale contrasto con il significato originario del termine.

In questo modo la società civile viene a coincidere con una sorta di Stato dei cittadini in azione, un embrione dello Stato etico.

L’abolizionismo penale è possibile, ora e qui

Una corrente di pensiero radicata nella cultura occidentale convenzionale

Vincenzo Ruggiero
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Carcere e castigo


L’abolizionismo è stato paragonato a un vascello carico di esplosivo che naviga nei mari della giustizia penale. Non sono d’accordo. In maniera molto semplice l’abolizionismo, direi piuttosto, è una corrente di pensiero che considera il sistema della giustizia criminale, nel suo complesso, come uno dei maggiori problemi sociali. Rassicuriamoci, quindi, e lasciamo in disparte, per altre occasioni, le immagini di deflagrazione. Forme di abolizionismo penale sono già in funzione, ad esempio, tutte le volte che alcuni segmenti dell’amministrazione centralizzata della giustizia vengono sostituiti da modalità decentrate, autonome, di regolazione dei conflitti. E va chiarito immediatamente che gli autori più noti comunemente associati con questa scuola di pensiero non hanno mai propugnato la chiusura di tutte le carceri domani o dopodomani. L’abolizionismo non è un semplice programma di smantellamento dell’esistente sistema punitivo, un programma che del resto troverebbe non pochi alleati tra chi prova vergogna di fronte alla stragrande maggioranza degli istituti di pena nel mondo.
L’abolizionismo consiste in un approccio, una prospettiva, una metodologia, insomma in un modo diverso di guardare al crimine, alla legge e alla punizione. Osservando i presupposti e studiando le matrici culturali dalle quali prende vita, si può rimanere addirittura imbarazzati nello scoprire che una simile ‘esplosiva’ corrente di pensiero si colloca comodamente nella cultura occidentale convenzionale, che guida i comportamenti di ognuno e che ognuno potrebbe mobilitare a giustificazione della propria condotta. Cominciamo da un modo ‘diverso’ di guardare al crimine. Gli abolizionisti sono consapevoli che alcuni atti generano danno, ma che non tutti gli atti dannosi vengono ritenuti criminali. A loro modo di vedere, lo sviluppo delle società porta con sé delle forme di patologia e i sistemi non possono fiorire se alcuni settori che ne sono parte mostrano evidenti segni di fallimento. E’ questa una nozione aristotelica, che ribadisce un’idea condivisa da molti, vale a dire che l’ineguaglianza crescente crea ostacoli alla realizzazione del bene comune. Non sento deflagrazioni in questa idea. Sento piuttosto una critica alle elaborazioni platoniane secondo cui il bene e il male si distinguono in quanto chi pratica il primo dimostra di ‘ignorare’ i precetti della ‘vita buona’, chi persegue il secondo rivela di conoscerne i principi fondamentali. Gli abolizionisti, al contrario, suggeriscono che l’ignoranza caratterizza le istituzioni della giustizia criminale, nel senso che i professionisti che la popolano non conoscono le circostanze, le interazioni e le dinamiche che producono le situazioni problematiche definite in fretta come crimini. Vedo anche molto Rousseau in questo suggerimento, segnatamente il Rousseau critico della concorrenza che genera ‘inganni violenti’, e che al declino della moralità pubblica fa corrispondere la crescita degli strumenti artificiali del controllo delle condotte.
Nel discorso abolizionista c’è posto addirittura per Hegel, il quale vede gli individui, isolati e competitivi, allontanarsi dalla sfera pubblica e smarrire ogni sentimento di obbligo verso gli altri. La patologia che ne risulta porta ognuno a delimitare la propria area intima e a delegare alle autorità la soluzione dei problemi sociali. Una volta designati i guardiani della moralità, gli individui possono curarsi dei propri interessi e permettere nell’indifferenza che il successo venga premiato e il fallimento severamente castigato. Veniamo all’universo sacro della legge. L’equità giuridica può essere definita come il diritto di ognuno a mobilitare le istituzioni statali per la protezione e la salvaguardia del proprio benessere. In altri termini, la legge potrebbe essere interpretata come diritto alla mutua coercizione. Chi non rispetta la libertà degli altri nega a costoro lo statuto di persone libere. La legge, in simili casi, interverrebbe per negare questo diniego e per restaurare la situazione iniziale. Gli abolizionisti rispondono che una simile astrazione potrebbe soltanto applicarsi in società nelle quali eguale accesso alla legge viene accompagnato da eguale accesso alle risorse. Nelle società che conosciamo, al contrario, la legge non fa altro che negare la libertà a coloro che ne posseggono veramente poca, i quali vengono così doppiamente colpiti. Leggo in questa argomentazione un pensiero consolidato nella cultura occidentale, vale a dire un’idea di conflitto e una nozione distributiva della giustizia che attraversano tutta la filosofia e il pensiero sociologico che conosco, da Weber a  Durkheim, da Marx a Galbraith, da Simmel a Bauman.
Abbiamo, insomma, numerose coordinate entro le quali collocare il pensiero abolizionista, e se esaminiamo l’analisi abolizionista della punizione le coordinate si affollano, si sovrappongono, al punto che ognuno può scegliere quelle più vicine alla propria sensibilità. Abbiamo in Louk Hulsman un abolizionismo che riflette il suo Cristianesimo sociale, che si ispira all’ecumenismo di San Francesco, ma anche alle sacre scritture, al Vangelo di Luca e Marco, e particolarmente al rivoluzionario Paolo, il quale nega ogni validità alla legge umana, quella divina essendo sufficiente a farci discernere il bene collettivo dal benessere dei pochi. In Hulsman troviamo l’eco della teologia radicale e della teologia della liberazione, ma anche dell’anarchismo di Bakunin, secondo il quale la realizzazione della libertà richiede azione condotta religiosamente. Tolstoy e Hugo fanno capolino nelle sue argomentazioni, specialmente quando vengono riferite ai temi della redenzione e del castigo, dell’autogoverno, la misericordia e la pietà. Questo sincretismo caratterizza anche il pensiero di Thomas Mathiesen, il quale si schiera a favore di una sociologia del diritto pluralista e interdisciplinare. Allora, i suoi referenti sono Marx e Engels, ma i suoi compagni di strada sono i detenuti e gli emarginati, che il marxismo ortodosso escluderebbe dai processi di emancipazione e mutamento sociale. Da eretico, Mathiesen crede che la ricerca sociale debba coinvolgere i soggetti che la ispirano, quegli attori coinvolti nel conflitto che, attraverso la conoscenza acquisita, sono in grado di perpetuare la conflittualità collettiva.
Pensiamo infine a Nils Christie, che  raccomanda a chiunque si accinga a comporre un testo scritto di avere in mente la propria zia preferita. Ebbene, Kropotkin raccomandava altrettanto, chiedendo ai militanti politici di tenere sempre in mente a chi erano destinati i loro opuscoli. La critica mossa da Christie verso i professionisti della legge e della pena ricorda le invettive anarchiche contro la proliferazione delle leggi, che abituano gli individui alla delega e ne atrofizzano la capacità di giudizio etico e politico. Il suo apprezzamento del conflitto come ‘risorsa da tenere a cuore’ rimanda all’idea secondo cui i problemi possono essere risolti solo se chi vi è coinvolto possiede risorse autonome sufficienti a risolverli. Dobbiamo solo rallegrarci se troviamo difficoltà nel collocare l’abolizionismo in un quadro di riferimento unico e coerente in termini politici, sociologici o filosofici. I suoi tratti sono inclusivi, non esclusivi, permettendo a chiunque sia dotato di spirito critico di individuarvi almeno un aspetto del proprio pensiero.

Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra. Il suo prossimo libro, Penal Abolitionism: A Celebration, verrà pubblicato quest’anno da Oxford University Press.


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L’abolizionismo penale è possibile ora e qui

Tienanmen 1989, socialismo di mercato contro comunismo

L’uomo e il carrarmato

Oreste Scalzone
l’Altro
5 giugno 2009

Un uomo, solo, camicia bianca su calzoni neri, ripreso di spalle. Dritto, fragile e possente, armato di niente, niente di concreto ma molto di più, come transumano si erige contro una colonna di carrarmati. Non sappiamo chi sia, come la pensi e cosa voglia. Rispetto all’essenziale, questo è relativamente un dettaglio – la scena lo trascende. Un esemplare di specie umana, specie di esseri parlanti e perciostesso “pericolosa”. Nel fondo del fondo comune, di specie, potremmo dire paroletari. Un uomo, astratto-eguale e al contempo singolare, unico, è il segno forte di chissà quante migliaia. Uno, tiennamen1centomila, nessuno. Lui può essere tutto, e tutt’altro. Questo, nella nostra percezione indélébile, viene dopo, specificazione ulteriore. Un carrarmato è cosa complicatissima. Si può adattare ad esso la definizione marxiana della merce, plesso di relazioni invisibili eppur materialmente costituenti il suo ontos. Carrarmato ha un fondo eguale ad altro, ogni altro carrarmato, come merce con ogn’altra, in ultima analisi. Implica, traduce, incarna reca in sé – condizione d’esistenza, essere, qualità, natura e funzione – una complessità énorme di relazioni, traduce rapporto sociale, un’intera sistemica. Abbiamo visto che innanzitutto è una merce. Come un flacone di penicillina che può salvare. Cambia il valore d’uso, ma sul piano del Valore, ovverossia valore-di-scambio, questa è la primordiale qualità. In quanto merce, sottende, implica denaro, accumulazione, lavoro, mercato del lavoro (della forza-lavoro), estrazione di plusvalore, profitto. Eppoi, un carrarmato ha altri caratteri essenziali sul piano di altre economie politiche. È mezzo di distruzione, di riproduzione allargata di essa. È dispositivo e funzione dello Stato. Un padrone, uno statista, un colonialista, un monarca, un tiranno, un gerarca, un rappresentante, un “democratòcrate”, sono tutti compatibili con la forma-carrarmato. Un comunista, nel senso etimologico del termine, coniato e/o ripescato all’altezza dei tempi del diluvio rivoluzionario – come diceva Marx – dilagato in Europa attorno al 1848, un comunista, nel senso che questa parola aveva nell’Associazione internazionale dei lavoratori, quella che i suoi becchini avevano poi etichettato come Prima internazionale ; un comunista, nel senso che il termine aveva all’epoca della Comune di Parigi, «la forma finalmente scoperta che mostra come il proletariato non possa che liberarsi da sé » – cioé un comunardo, un comun’autonomo (autonomia e comunanza essendo consustanziali, reciprocamente costitutivi), non potrebbe che essere incompatibile con la forma-carrarmato. La forma-carrarmato è infatti intrinsecamente statale. E comunismo statale è perfetta contraddizione in termini, come comunismo capitalistico, padronale, nazionale, ideologico, governante, governativo, politico, identitario – cioè proprietario –, razzistico, moralista – penale. Comunismo critico è agli antipodi di comunismo cratico. A meno del verificarsi di una situazione per cui un’insurrezione si trovasse ad aver requisito carrarmati per rivolgerli contro le forze armate dell’oppressione, come i cannoni presi dalla Guardia repubblicana all’Armée nei giorni della Comune, i carrarmati, come gli aerei o le portaerei… non possono essere – come non può mai esserlo un Libertador, soggetto individuale o corporazione, casta, gerarchia che pretende autonomizzarti in tuo nome e per tuo conto – un mezzo, una forma, un’arma liberatrice. Se la semantica non fosse stata violentata, se i fatti e le cose, la loro interpretazione, la loro costruzione, non fossero stati distorti da malinteso e concatenamenti di vere e proprie alienazioni, contraffatti, resi mutanti mutageni mostruosi, questo non potrebbe che essere il nòcciolo primordiale, semplice e chiaro. Si discute tanto di mezzi e fini, di violenza, di terrorismo… Non avremo mai abbastanza disprezzo – stavolta sì– per tutti quegli ipocriti o, peggio, sfrontati che mostrano di considerare mostruosa una sassaiola, impensabile ogni rivolta e qualsivoglia spunto di violenza se non come, addirittura, provocazione, frutto di manipolazione, mossa da marionettisti e pupari, ma ritengono più che compatibile comunismo e violenza statale.
Un thank è un thank è un thank… Non può esserci un carrarmato “Compagno”. Se questo accade, se una colonna di carrarmati – contro uno solo o contro una folla di operai scioperanti in tumulto, come a Berlino ’53, come a Budapest ’56, come a Tienanmen nell’’89 – si avanza inalberando la bandiera rossa, lo stesso colore di quella de la Sociale che, accanto a quelle nere degli anarchici – nere come i grembiuli dei tessitori Canuts delle rivolte degli anni ’30 dell’Ottocento alla Croix rousse di Lione – è stata un vessillo degli insorti comunardi, vuol dire che è avvenuta una sorta di catastrofica e mostruosa mutazione di ogni parametro e termine della questione. Che il termine comunismo è stato sottoposto ad una serie di stupri semantici a catena. Se una vertigine identitaria, cioè la peggior forma della patrimonialità, della proprietarietà, fa pensare a tanti rivoltosi, a tanti antagonisti, che il colore e i simboli facciano la differenza e contino più della natura, della natura dei rapporti sociali, inter-umani che fatti e cose rivelano, questo è segno che c’è qualcosa di profondamente insensato e malato sotto tutto questo, che dura da più di un secolo, e che rischia di esser mortale.
Ha scritto su queste colonne Piero Sansonetti che «noi sessantottini avevamo fatto della Cina un’icona, e avevamo visto nel maoismo non un’orrenda variante dello stalinismo e del comunismo di Stato oppressivo, ma al contrario una forma di rinnovamento del cupo socialismo sovietico, un modo per restituire potere al popolo il potere espropriato dalla nomenclatura di partito […] Avevamo visto nel maoismo, e nella Cina, una forma libertaria di comunismo. I carrarmati di Deng hanno sotterrato definitivamente questa speranza».
Vorrei segnalare a Piero, e a chi legge, alcune obiezioni cominciando col dire che il Sessantotto non è certo stato tutto dominato dall’ideologia maoista o da altre varianti consimili di un’idea comunque statalista, post-giacobina e lassalliana più che, certo non solo anarchica, ma anche marxiana. Dovrei ricordare tutta una cartografia dei comunismi “altri”, che non sono piccole élites, ma – per esempio negli anni ‘20 – hanno condotto una durissima guerra su due fronti, due fronti della controrivoluzione, quello statal-padronale diretto, classico, e quello del socialismo reale staliniano, conseguenza estrema di quello che qualcuno ha chiamato il “kautsko-bolscevismo”. Il discorso diverrebbe, qui e ora, lunghissimo. Si può dire piuttosto che i Viet-cong, sì, sono stati un mito sessantottesco largamente condiviso. Ma, chi avrebbe potuto aver una pre-scienza, allora, per capire come sarebbe andata a finire? Non conoscevamo le pagine straordinarie dell’operaio rivoluzionario Ngo Van, Vietnam 1920-45, rivoluzione e contro-rivoluzione sotto la dominazione coloniale. Mi limito dunque a dire che, per tanti come me, il comunismo come non ha una data e luogo di nascita per questo non può avere un certificato di morte. Comunismo non è un’invenzione, o un regime da instaurare. Come istanza, come figura della potenza nel senso spinoziano, cioè dell’etica, esso è sempre vissuto nelle pieghe del reale, venendo a tratti allo scoperto. Vale quello che vale per la facoltà della parola, l’amore, la rivolta. Forse che possono avere una territorializzazione, una forma di Stato, un luogo e certificazione di nascita e dunque di morte? Quello che è morto (e voglio dire: sempre troppo tardi!) è una radicale contraffazione – derivante da malinteso, da omologia – del comunismo come movimento, movimento della critica radicale, teorico/pratica. Nel mio piccolo, vorrei ricordare il poster che nell’89 – dopo la caduta del Muro e prima di Tienanmen – chiedemmo a Mario Schifano di illustrare (e lo fece, con una bellissima faccia di Marx che era confusa con la cartografia di un globo terracqueo). Lo slogan stampigliato sopra era: Marx 1989, finalmente libero! Certo che la previsione era sognante e quella riapertura che ci sembrava di intravedere e speravamo non si è prodotta. Ma come arrivare a dire che la partita sia chiusa? Non è forse idea da “fine della Storia” alla Fukujama? Il comunismo non l’ha inventato nessuno, è una virtualità, che c’è, come la potenza di vita. Non è un articolo di fede, una giaculatoria. Ma, forse, il comunismo potrà riemergere solo quando, e se, il suo “doppio” mostruosamente contraffatto avrà finito di esser dimenticato per sempre.

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Muro di Berlino, i guardiani delle macerie
Un futuro anticapitalista è fuori dalla storia del Pci
Il secolo che viene

«Rabbia populista» o «nuova lotta di classe»?

Francia, fabbriche in rivolta: bloccati i premi per i manager. Si apre la discussione di fronte alla crisi economica

Paolo Persichetti
Liberazione 27 marzo 2009

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«Rabbia populista» o nuova «lotta di classe»? Ieri sulle pagine dei più grandi quotidiani nazionali campeggiava questa domanda: un nuovo spettro si sta aggirando per il globo?
Commenti preoccupati e cronache inquiete s’interrogavano sul reale significato delle notizie provenienti dagli Stati uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. A New York, dopo l’arresto del magnate della speculazione finanziaria Maddof e la minaccia del Congresso di tassare con un’aliquota del 90% i bonus padronali, i dieci manager più pagati del colosso delle assicurazioni mondiali Aig, tra i più coinvolti nel crack delle Borse, hanno restituito i bonus milionari ricevuti come premi per i loro disastri. Per farli rinunciare a un po’ della loro famelica ingordigia è bastato un fine settima di picchetti organizzati da manifestanti davanti alle loro megaville blindate e con l’immancabile piscina.
A Edinburgo, in piena notte, il villone di Sir Fred Goodwin, l’amministratore delegato che ha portato al collasso la Royal bank of Scotland, per poi andarsene serenamente in pensione con un bonus di 16,9 milioni di sterline, alla faccia di migliaia correntisti ridotti al lastrico per aver creduto nei portafogli azionari offerti dai servizi finanziari dell’istituto di credito, è stato assalito da un gruppo di attivisti che hanno rivendicato l’azione con la sigla Bank bosses are criminals, «I banchieri sono dei criminali». Motto che riecheggia quello delle curve da stadio di mezza Europa, All corps are bastards, «Tutte le guardie sono bastarde».
Nel centro della Francia, a Pithiviers, Luc Rousselet, amministratore delegato della 3M, società farmaceutica americana in procinto di licenziare 110 dei suoi 235 dipendenti, è stato “trattenuto” negli uffici dell’azienda per oltre 30 ore dagli operai che era venuto ad incontrare. I lavoratori esigevano dei negoziati con l’azienda sulle modalità del piano di crisi che dovrà accompagnare la brusca riduzione di personale.
Ovviamente per gli operai non si è trattato di un «sequestro», com’è stato scritto sposando il punto di vista “padronale”, ma di un imprevisto prolungamento d’orario della giornata di lavoro del loro capo. Uno straordinario giustificato dall’eccezionalità della situazione venuta a crearsi. I 2700 lavoratori della 3M France, società ripartita su 11 siti, conosciuta per la produzione di “post-it” e del nastro adesivo “Scotch”, sono in sciopero illimitato dal 20 marzo. Un episodio analogo era già accaduto il 12 marzo scorso, quando il presidente-direttore generale di Sony France, Serge Foucher, era stato anche lui costretto a uno “straordinario notturno” in compagnia delle sue maestranze in lotta. Lo stabilimento di Pontonx-sur-l’Adour, nelle Lande, impiega 311 persone e la sua chiusura è fissata per il 17 aprile prossimo. Al direttore della Continental, invece, è toccato in sorte un fitto lancio di uova da parte dei 1120 addetti dell’impianto di Claroix, che proprio ieri sono stati ricevuti in delegazione da un consigliere di Sarkozy all’Eliseo.
Questa volta gli operai non sono isolati, hanno alle spalle il sostegno dell’opinione pubblica indignata di fronte alla notizia dei mega compensi attribuiti ai manager d’imprese che licenziano o di banche in deficit dopo aver sperperato il denaro dei clienti.
La rabbia è montata di fronte alle parole di Laurence Parisot, presidente della confindustria francese, che si era detta indisponibile di fronte alla richiesta del presidente della repubblica d’intervenire sui consigli d’amministrazione affinché i manager rinunciassero ai premi elargiti sotto varie forme (stock options, ovvero azioni con remunerazioni privilegiate, liquidazioni d’oro o pensioni stratosferiche). Il primo ministro ha dovuto annunciare il varo di un decreto per vietare l’attribuzione di questi bonus e stock options per le aziende che ricevono aiuti dallo Stato. A questo punto, dopo le resistenze iniziali, Gerard Mastellet e Jean-Francois Cirelli, presidente e vice presidente di Gdf-Suez, il gigante francese dell’energia, hanno dovuto rinunciare ai loro compensi supplementari piegandosi – hanno detto con malcelata ipocrisia – al «senso di responsabilità».
I titoli tossici immessi nei circuiti finanziari stanno forse scatenando la reazione di sani anticorpi sociali? All’estero, certo non in Italia, l’ira popolare sta cambiando bersaglio: dalla «Casta» alla «Borsa», dai «politici» ai «padroni»; che la barba di Marx stia di nuovo spuntando?
Quel che sta accadendo, in particolare al di là delle Alpi, dimostra quanto devastante sia stata da noi la prolungata stagione del giustizialismo, con il suo corollario d’ideologia penale e vittimismo seguiti alle ripetute emergenze giudiziarie. Il decennio 90 si è accanito contro i corrotti della politica assolvendo i corruttori dell’economia, aprendo la strada non solo alla vittoria politica del partito azienda ma alla sua egemonia politico-culturale sulla società.
Vedremo più in là se ha ragione L’Economist quando descrive, un po’ alla Ballard, l’albeggiare di una rivoluzione del ceto medio proletarizzato; o se invece ci sarà un’irruzione di protagonismo del nuovo precariato sociale. Una cosa è certa: oltreconfine hanno individuato la contraddizione da attaccare. È tutta la differenza che passa tra allearsi contro i padroni o fare le ronde contro i romeni. Ma quel che resta della sinistra italiana l’avrà capito?

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Lavorare con lentezza

Grenoble, vince il bossnapping. La Caterpillar cede e non chiude gli stabilimenti
Bossnapping, nuova arma sociale dei lavoratori

Bruxelles, managers Fiat trattenuti dagli operai in una filiale per 5 ore
Francia, altri managers sequestrati e poi liberati
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Francia, sciopero generale contro la crisi
Giovedi 29 gennaio la Francia si è fermata
Francia, tre milioni contro Sarko e padroni

Anni 70: L’odiosa rivoluzione

Libri – da Il Nemico inconfessabile, Paolo Persichetti e Oreste Scalzone, Odradek 1999


L’odiosa rivoluzione – Capitolo primo

Nuove generazioni in rivolta, figlie di epoche curiose, ritroveranno la traccia delle rivoluzioni sconfitte, dimenticate, estradate dalla storia. Ai loro occhi la potenza del passaggio rivoluzionario ritroverà il suo vigore, la sua energia, i suoi saperi. Quest’oblio è un destino migliore della sorte riservata a quelle rivoluzioni vittoriose, trasfigurate in icone di Stato, disseccate in vuoti simboli paradossali e derisorii del «movimento reale che trasforma le cose presenti».9788886973083g Nondimeno, le rivoluzioni sconfitte subiscono a lungo l’insulto della denigrazione e della criminalizzazione. Ogni strumento è utile per trascinarle nel fango e sottoporle al linciaggio. L’obiettivo è sempre lo stesso: minarne la potenza e stroncare non solo il diritto, ma l’idea stessa della possibilià della rivolta. La dimensione e la profondità sociale, l’estensione temporale e geografica, l’intensità politica della rivolta che ha traversato l’Italia nel corso degli anni Settanta, fino agli echi giunti ben oltre la metà degli anni Ottanta, ne hanno fatto l’episodio rivoluzionario più significativo dell’Europa occidentale dal ’45 a oggi. Ciò spiega anche le ragioni dell’implacabile offensiva denigratrice, potente e sistematica, cui è ancora sottoposta. Il Sessantotto fu «la bella rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che si erano manifestati non erano ancora sviluppati, si limitavano all’esistenza della frase, del verbo». Gli anni Settanta furono quelli della «rivoluzione odiosa e ripugnante» perché al posto della «frase subentrò la cosa»(1).  Il Segretario generale del Pci, Enrico Berlinguer, in risposta alla cacciata al grido di «via, via, la nuova polizia!» del Segretario generale della Cgil, Luciano Lama, e del suo servizio d’ordine dall’Università di Roma, definì «untorelli» i protagonisti di quel movimento(2). Fu quello il segnale dello scontro aperto, dichiarato, tra il sommovimento sociale e il partito della classe operaia dentro lo Stato, trasformatosi in partito dello Stato dentro la classe operaia, alla stregua dei suoi fratelli dell’est, al potere nei paesi del «socialismo reale». Allora il più grande Partito comunista d’Occidente dismise l’azione di recupero attraverso il sindacato delle forme di autorganizzazione autonoma delle lotte operaie dei primi anni Settanta, e ostentò l’intenzione di sedare la rivolta a tutti i costi e con ogni mezzo. La strategia del «compromesso storico» – presentato come alleanza tra le masse popolari d’ispirazione comunista, socialista e cattolica, e sul quale il Paese avrebbe dovuto risorgere dalla crisi economica – da mesi aveva partorito una funesta alleanza di governo con gli “avversari” della Democrazia cristiana, annunciandosi come «politica dei sacrifici e dell’austerità», cioè di sistematica concertazione subalterna al padronato. L’atteggiamento di apertura, di mediazione e recupero, verso la contestazione del Sessantotto politico e culturale era finito. Il nuovo ceto politico dei gruppi extraparlamentari era chiamato a entrare per la porta di servizio, nell’area istituzionale, confinato al ruolo di satellite del Pci, oppure sciogliersi o essere criminalizzato. Si apriva una competizione frontale che estendeva ora a ogni angolo della società la contesa che fino ad allora sembrava riguardare solo i luoghi alti del conflitto capitalistico, le fabbriche, dove la si voleva contenere. La «politica dei sacrifici» trovava ostacoli e nemici su tutto il territorio e vedeva di fronte a sé, incontenibile, una pluralità di movimenti sociali ammutinati, autorganizzati (disoccupati, precari, donne, studenti, senza casa, prigionieri) cresciuti attorno all’esempio delle lotte operaie.  Il compromesso storico – strategia che rispondeva al regime di «democrazia a sovranità limitata» attribuito all’Italia – con le sue politiche accomodanti e supine, di contenimento del protagonismo sociale di fronte alle compatibilità economiche, apparve inaccettabile. L’urto tra la situazione dinamica della realtà sociale e le soluzioni statiche messe in piedi dall’alto del sistema politico divenne inevitabile. La risposta alla rivolta sociale fu l’edificazione del sistema dell’emergenza. La nozione di «emergenza»3, concepita inizialmente come esigenza economica, divenne una categoria dello spirito, per poi estendersi al campo giuridico, sociale e politico. Si trasformò in uno strumento per governare il conflitto all’interno di una nuova concezione della democrazia come spazio blindato composto da territori recintati oltre i quali non era consentito fuoriuscire. La legalità era il nuovo filo spinato che designava in modo assolutamente rigido lo spazio dell’agire legittimo. Il conflitto veniva messo a nudo, spogliato di ogni rappresentanza che ne tentasse un recupero in termini di dialettica sociale e politica, per divenire una questione di ordine pubblico, di codice penale. Per avere legittimità i movimenti sociali dovevano rientrare nel recinto stabilito dalle rappresentanze istituzionali, oppure subire la criminalizzazione. Il Pci elaborò la linea di attacco ideologico contro il sommovimento sociale di opposizione facendosi propugnatore di uno «Stato democratico forte» e fu la punta di diamante della risposta statale cercando di costruire il consenso sociale attorno all’azione repressiva delle forze di polizia e magistratura. Una nuova disciplina, la «dietrologia»(4), designò nella figura dell’agente provocatore il profilo di un nemico – particolarmente criminale e pericoloso per la democrazia – attore di un «complotto di destabilizzazione»(5) del processo di ulteriore democratizzazione dell’Italia, cioè l’arrivo al potere del Pci(6). L’assalto sociale armato al cielo della politica, la «critica delle armi», divenne allora la forma espressiva progressivamente dominante della moltitudine del rifiuto e della rivolta, che non volle restare rinchiusa nel recinto della marginalità politica. Nel caso dell’Italia, la contro-insurrezione è andata ben oltre la congiuntura connessa alla necessità di delegittimare l’avversario, attraverso l’uso di menzogne, distorsioni e intossicazioni della realtà, per combatterlo con maggiore efficacia. Si è trattato di una offensiva “totale” che ha raggiunto una dimensione molto più inquietante fino a diventare una specie di “auto-illusione”, di “auto-accecamento”, una catastrofe del mentale, un indizio dell’alienazione del politico che ha colpito nel profondo il pensiero critico. L’ossessione di voler nascondere il carattere politico del nemico interno è uno degli aspetti maggiori delle politiche controrivoluzionarie moderne, recepito in modo unanime oramai in tutti i codici, accordi internazionali e convenzioni sulle estradizioni(7). L’Italia ha dato prova di notevole capacità nell’esercizio di questa ipocrisia. Una lunga serie di norme e leggi speciali, aggravanti e nuove figure di reato, reati associativi, modificazioni procedurali, uso speciale di leggi normali, procedure in deroga, introduzione di un diritto differenziato che premia comportamenti processuali favorevoli alle tesi accusatorie (pentimento e dissociazione), la moltiplicazione dei trattamenti differenziati su base tipologica, a livello penitenziario e giudiziario, hanno di fatto costituito l’edificio di una giustizia reale di eccezione contro i comportamenti di sovversione, e per estensione, di opposizione politica e sociale. Ciò che è definito il sistema delle garanzie – le libertà civili, alcune libertà costituzionali – ha subito molte limitazioni dando luogo a un vero stato d’eccezione opportunamente camuffato. Fin dall’inizio il movimento italiano degli anni Settanta è stato protagonista di una rivoluzione negata, una rivoluzione occultata, e le figure sociali che vi presero parte – gli operai, le donne, i giovani, i disoccupati – apparvero da subito come il nemico inconfessabile.

* * *

Nei capitoli che seguono verranno affrontate alcune matrici, sovradeterminazioni e macrocontesti che hanno caratterizzato lo spazio di azione e di espressione politica delle figure sociali che hanno costituito il nemico inconfessabile. Ne saranno descritte le molteplici originalità, la ricchezza e la potenza del discorso sovversivo, la modernità delle rivendicazioni, l’intuizione di tematiche e contraddizioni che s’imporranno nei decenni successivi. In modo particolare saranno tratteggiati quegli aspetti specifici che hanno contraddistinto i limiti cronici e al tempo stesso le capacità di sviluppo della società italiana, al punto da essere considerati da alcuni come una «anomalia» nel quadro europeo.

Ben al di là di ventimila furono le persone denunciate, oltre quattromila quelle condannate per una cifra globale dell’area sociale sovversiva che il ministero degli Interni stimava oltre le centomila. L’evidenza delle cifre della rivolta toglie sostanza a ogni tentativo di riduzionismo storico. Un’analisi veloce delle cartografie che descrivono la nascita e il rapido sviluppo delle formazioni politiche, classificate dalla giustizia come sovversive, mostra come la violenza politica fosse un elemento endogeno di questa rivolta in un contesto sociale, politico e statale, che già largamente ricorreva al suo impiego. Di fronte all’offensiva sociale, la società politica, in difficoltà, ha risposto severamente a ciò che le sembrava essere (non a torto) la premessa di una catastrofica destabilizzazione. La sua azione si Ë posta all’insegna di una emergenza nata sotto la forma di una eccezione mascherata. L’ipertrofia dell’azione giudiziaria sovraccaricata di compiti morali e politici, la rottura degli equilibri costituzionali tra poteri e contro-poteri, dovuta all’apparizione di un modello di democrazia giudiziaria, ha dato luogo a uno stato d’eccezione permanente. Vero paradigma inconfessato, esso si è imposto come un modello di governo della società, la cui esportazione ha aperto la strada al rischio di una deriva europea. La crescente giudiziarizzazione” della società solleva un dibattito che ormai oltrepassa i confini italiani e le stesse ragioni storiche della sua origine.

La sconfitta, il riflusso e la repressione dei movimenti sociali degli anni 70 hanno suscitato reazioni divergenti. La ricerca affannosa di differenziazioni, nell’intenzione di attenuare le proprie posizioni processuali, ha portato alcuni a esportare le proprie responsabilità politiche. Atteggiamento che sotto l’offensiva inesorabile della giustizia d’eccezione si è trasformato in uno slittamento della colpa giuridica verso altri. La “dissociazione politica dal terrorismo” ha avuto ripercussioni culturali, politiche e giudiziarie ben pi profonde del fenomeno dei “pentiti”. La capacità di critica e di autonomia rispetto all’ordine costituito sono state indebolite da questa stagione del rinnegamento. Il giudizio penale ha mutato natura non rivolgendosi pi all’identificazione delle responsabilità personali ma alla verifica e al sanzionamento delle opinioni della persona giudicata.

Prima di concludere affronteremo le ragioni talvolta sorprendenti, molteplici e complesse, che hanno ostacolato, finora, la realizzazione di una amnistia per tutte le condanne legate alla sovversione sociale e politica che ha attraversato l’Italia tra gli anni 70 e 80. Gli effetti perversi dell’emergenza hanno avuto un ruolo fondamentale nella strutturazione di un blocco sociale trasversale oggettivamente nemico della chiusura di questa epoca. Dagli apparati dello Stato, attori della macchina della giustizia d’eccezione, a certi settori integralisti dell’antagonismo sociale, dalle divisioni dei prigionieri politici all’inconsistenza del ceto politico-istituzionale, dal protagonismo di una magistratura travestita nei panni di cavalieri post-moderni garanti della morale e dell’etica, a certi gruppi editorial-finanziari che fabbricano il mentale e strutturano l’opinione pubblica; tutti da sinistra a destra, sulla base di motivazioni ideologiche e politiche diverse, convergono sulla stessa posizione di boicottagio o di timore dell’amnistia.


Note

1 Il riferimento è a Marx: “La rivoluzione di febbraio era stata la bella rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che erano scoppiati in essa contro la monarchia, sonnecchiavano tranquilli l’uno accanto all’altro, non ancora sviluppati; perché la lotta sociale che formava il loro sostrato aveva soltanto raggiunto una esistenza vaporosa, l’esistenza della frase, della parola. La rivoluzione di giugno è la rivoluzione brutta, la rivoluzione repugnante, perché al posto della frase è subentrata la cosa”, Karl Marx Lotte di classe in Francia dal1848 al 1850, Opere, vol. X, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 65.

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3 Il termine emergenza designa il ricorso a pratiche di eccezione in campo giuridico e politico che si differenziano dalla forma classica dello stato di eccezione. Il termine emergenza, inteso come “stato d’emergenza”, “modello” o “sistema dell’emergenza”, “politica dell’emergenza”, “giustizia dell’emergenza”, “post-emergenza” si è affermato in Italia all’interno del linguaggio politico e giuridico a partire dalla metà degli anni Settanta. Secondo alcuni autori la nozione di emergenza ha costituito una vera e propria ideologia di sostegno al processo di modernizzazione autoritaria della giustizia penale. L’intenzione di perseguire i movimenti armati ha accompagnato la volontà di normalizzare la conflittualità sociale. L’emergenza ha contribuito alla legittimazione degli equilibri politici e del sistema penale.

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5 Secondo questa logica, la storia d’Italia, dal dopoguerra fino alla vittoria elettorale, nel 1996, del Pds, oggi Ds ed ex Pci, è interpretata come la trama di un “doppio Stato”: l’uno corrotto e con propaggini occulte, che ha criminalmente detenuto il potere nella prima Repubblica; l’altro leale e legale che avrebbe fatto da baluardo al sovversivismo atavico delle classi dominanti. Inutile precisare che il Pci-Pds-Ds ne sarebbe sempre stato il pilastro essenziale. Sulla natura del complotto si sono confrontate due “dottrine”: la prima, anche in ordine di tempo, che ha ipotizzato il “ruolo consapevole e diretto” giocato dai movimenti sociali e in particolare dalla lotta armata, il “partito armato”, contro il Pci; la seconda che ha ipotizzato “l’eterodirezione”, la “complicità inconsapevole”, delle Brigate rosse in particolare, come se esse fossero state nient’altro che delle pedine manovrate da potenze occulte. Per chi voglia documentarsi sugli stati modificati della coscienza, suscitati dalla frequentazione eccessiva con queste flatulenze cerebrali, suggeriamo come testo esemplare, per comprendere gli effetti devastanti a cui possono condurre alcune forme irreparabili di psicopatologia della menzogna storica: Sergio Flamign, La tela del ragno. Il delitto Moro, Roma, Edizioni Associate, 1988. Sospinto da oscuri mandanti Sergio Flamigni replica dieci anni dopo in Convergenze parallele, Milano, Kaos edizioni, 1998. Un altro testo che testimonia dei risultati suscitati da queste turbe legate alla sindrome maniacale da ossessione del complotto e metacomplotto è quello di Guy Debord, Préface à la quatrièmme édition italienne de la Société du spectacle, in Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard folio, 1997, pp. 133-147; nonché Gianfranco Sanguinetti, Del terrorismo e dello Stato. La teoria e la pratica del terrorismo per la prima volta divulgate, Milano, 1979.

6 Berlinguer, riflettendo sui fatti del Cile, osservava che le sovradeterminazioni geopolitiche avrebbero impedito all’opposizione di governare anche se il Pci avesse da solo raggiunto il 50 % più uno dei suffragi. Lo scenario del golpe cileno, che aveva visto stroncato nel sangue il governo d’Unitad popular di Salvador Allende, era interpretato come l’anticipazione di un possibile scenario italiano che andava evitato. Il Pci, dunque, teorizzava autonomamente l’impossibilità di andare al governo, anche vincendo le elezioni, in assenza di un preventivo accordo con la Dc, di una alleanza con i ceti medi e di un patto col padronato. In realt?, appare evidente come l’ipotesi dello “scenario cileno” abbia favorito una lettura rovesciata (cioé, “mai più senza fucile”) di quella posta a fondamento del “compromesso storico”. Interpretazione che motivava ulteriormente la scelta della rottura rivoluzionaria di quel vuoto simulacro rappresentato da una democrazia a sovranit? limitata che era la Repubblica italiana. Per tutto questo si veda il famoso saggio berlingueriano: “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, in Rinascita, 28 settembre, 5 e 9 ottobre 1973.

7 Convenzione europea per la repressione del terrorismo, Strasburgo, 1977, ratificata dalla Francia solo nel dicembre 1987; “Convenzione per le estradizioni dell’Unione Europea”, Dublino, settembre 1996.

La haine de la démocratie/Il nuovo odio della democrazia

Libri – Jacques Rancière, La haine de la démocratie (l’odio per la democrazia), la Fabrique éditions, Paris septembre 2005, pp. 106

Paolo Persichetti
Liberazione
23 febbraio 2006

Quando il pianeta intero ha capito che la presenza delle armi di distruzione di massa, evocata per giustificare la guerra contro l’Irak, altro non era che una menzogna, i comunicatori politici dell’amministrazione Bush hanno dovuto correre ai ripari estraendo dal cilindro un nuovo argomento capace di rivestire il loro intervento militare d’importanti orizzonti 414kvk33a5l_ss500_morali. L’esportazione della democrazia nel mondo si è trasformata così in una nuova ideologia di sostituzione impiegata per legittimare la strategia della guerra preventiva. Corollario degli interventi e della presenza militare occidentale in varie parti del pianeta è diventata, allora, la promozione di posticce cerimonie elettorali. Anche nell’ex cintura sovietica, le ex democrazie popolari si sottraggono all’influenza dell’attuale “gassocrazia” russa riconvertendosi in cleptocrazie, grazie all’azione congiunta di vere e proprie organizzazioni politiche camuffate da Ong e interamente finanziate e formate in Occidente, alla pressione politico-economica statunitense ed europea, alla promessa di eldorado commerciali e arricchimenti fulminei per le lobby emergenti.
«Nessuno ama i missionari armati[…] il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di considerarli nemici», diceva Robespierre nel suo lungimirante discorso contro la guerra (recentemente ripubblicato proprio da Liberazione). Nessuna industria delle bandierine a stelle e strisce, come quelle distribuite dal Pentagono per far credere davanti alle tv che delle truppe di occupazione sono accolte come dei liberatori, è mai riuscita a cancellare questa verità. Ma se è indiscutibile che i nuovi «valori democratici» agitati come feticci celano altri interessi, il ricorso all’argomento della democrazia segnala anche la presenza di un nuovo tipo di vincolo dal quale Bush non può esimersi per costruire la propria legittimazione. Oggi gli Usa non possono più permettersi il lusso di esportare o foraggiare dittature, appoggiando sanguinosi colpi di Stato e insediando feroci regimi. Ma a questo punto la posta in gioco diventa il significato stesso della parola democrazia. Quale senso e quale uso viene fatto di questo concetto? Una delle possibili forme di governo, come l’aveva rappresentata Aristotele? Un dispositivo procedurale, come alla fine si era limitato a riassumere Bobbio? Possiamo tranquillamente acquietarci di fronte all’interpretazione consensuale che sembra dominare l’attuale campo semantico e fare della democrazia un semplice labello legittimante?
Jacques Rancière, professore emerito presso l’università di Parigi 8, contesta queste letture addomesticate e ritiene invece che alla parola democrazia vada riconosciuta ancora la potenza di scandalo contenuta alle sue origini. Nell’antica Grecia «democrazia» fu innanzitutto un insulto, uno stigma associato all’idea di tumulto e nei confronti del quale si esprimeva odio. Un’ostilità vomitata soprattutto da quelli che vedevano nel governo delle «classi pericolose», nella presa di parola della plebe, nella trasformazione in soggetto politico della «canaglia», la rovina di ogni ordine legittimo. Un abominio per tutti coloro che ritenevano l’esercizio del potere non un attributo condivisibile da chiunque, ma detenuto unicamente da chi ne aveva titolo perché interprete della legittimità divina, oppure degno sulla base del censo, della proprietà o della conoscenza. Ma insieme all’odio, la democrazia ha conosciuto nel corso della sua storia anche numerose
copj13asp forme di critica. Più che dal rigetto contro se stessa, la democrazia moderna ha preso forma proprio dalla capacità della critica antidemocratica a comporre con una realtà oramai non più contenibile, per ricavarne con la costruzione dell’ideale repubblicano – come testimonia la costituzione americana – la salvaguardia dei due princìpi a cui teneva di più: il governo oligarchico e la difesa dell’ordine proprietario. In effetti, riassume Rancière, non esiste da nessuna parte al mondo un governo che possa dirsi interamente democratico. «I governi sono sempre un esercizio dell’attività di una minoranza su una maggioranza», il governo dei competenti sugli incompetenti. Questo perché l’irrisolto democratico ruota attorno all’ambiguità costitutiva del concetto di popolo, termine che indica al tempo stesso la realtà sociologica della massa degli esclusi, dei diseredati, delle classi lavoratrici, ma anche il soggetto costitutivo della politica democratica, un’astrazione che ne fa il luogo dell’unità del corpo politico, dove popolo è la nazione intera, il fondamento della sovranità nel quale si fondono e scompaiono le distinzioni sociali, addirittura con accenti etnici e razziali per quelle tradizioni che identificano popolo e stirpe, sangue e nazione, o teocratico, lì dove popolo diventa chi detiene la rivelazione della fede o è l’eletto di un Dio.
Non è un caso, dunque, se la forma che prende la democrazia moderna è quella che introduce una separazione costitutiva tra il popolo reale, la massa sociale di ceti e classi, e l’astrazione del popolo politico che fonda la sovranità degli eletti. Ed è proprio contro questa separatezza che si è sempre scagliata la critica iper-democratica filiata da Rousseau e Marx. Facendo leva sulla denuncia della «finzione democratica», ne disvela l’inganno proprietario celato dietro l’eguaglianza formale dei diritti, fino a ritenere una vera e propria alienazione politica il furto della volontà posto a fondamento della rappresentanza. Interpretazione ripresa anche dalla tradizione realista, che con Schumpeter definisce la democrazia: l’elezione periodica di un governo oligarchico.
Democrazia altro non è dunque che una forma di «governo rappresentativo» sorretto dal «principio di distinzione», l’unico reale fondamento della sovranità che ispira la dottrina parlamentare liberale ontologicamente censitaria. Una tradizione corretta solo dalle lotte del movimento operaio che hanno imposto il riconoscimento, quantomeno formale, del principio d’uguaglianza nell’esercizio della rappresentanza. Ciò non toglie che, secondo le parole di Rancière, le democrazie contemporanee restano l’espressione di una contraddizione tra «Stati oligarchici di diritto», governati dai chierici di una nuova teologia delle compatibilità economiche, e quella sovranità popolare che sprigiona l’eccedenza democratica e per questo viene dipinta come irragionevole, bulimica, egoista, corporativa, eversiva.
Oggi, però, la democrazia è posta di fronte ad un rinnovato odio che non ne critica più le carenze sostanziali, ma al contrario ne denuncia l’eccesso di vitalità democratica, alimentando una nuova ideologia reazionaria fondata su un doppio linguaggio: l’esportazione demagogica delle virtù democratiche all’estero e la riduzione di democrazia all’interno, attraverso politiche di controllo e riduzione dell’intensità democratica. Dietro la nuova apologetica della democrazia mondiale, si cela in realtà una critica della società democratica, vista come corruttrice del buon funzionamento dei governi. Le istituzioni democratiche sarebbero insidiate dal demos, dal protagonismo del popolo reale. Se il totalitarismo era descritto come lo Stato che divorava la società, il protagonismo democratico attuale è visto come il segno di una società che vorrebbe divorare lo Stato. Allora, come in una sorta d’ingiunzione paradossale, l’unica democrazia buona diventa quella senza popolo.
Ma chi sono questi nuovi reazionari? Rancière ne rintraccia la genealogia partendo dall’operazione ideologica che 56613ricollocò, sul finire degli anni 80, il terrore nel cuore della rivoluzione democratica. Gli orfani dell’anticomunismo, infatti, hanno trasferito le radici del totalitarismo nel cuore della democrazia rivoluzionaria, ma in fondo l’oggetto del loro odio è rimasto immutato: se prima era il proletariato che incarnava la sua emancipazione nel progetto comunista, oggi lo è la vitalità debordante di una moltitudine sociale ebbra d’impazienza e voglia di partecipazione. Nell’uno come nell’altro caso, il nemico resta sempre lo stesso e prende forma in quella realtà composita che sono le «classi pericolose»: avide, insaziabili e ingrate, quando bocciano la costituzione europea; sediziose e terroriste quando non si limitano ad essere spettatrici ma invadono le piazze, si radunano sotto i palazzi del potere, scioperano, picchettano, boicottano, occupano case, praticano le autoriduzioni, rivendicano reddito e salario, pretendono potere di decisione.
Nel suo saggio Rancière attacca alcuni intellettuali francesi ascrivibili all’interno di una nuova corrente ideologica neorepubblicana, una nuova destra che già nel 2002 Daniel Lindenberg aveva qualificato come i «nuovi reazionari». Ma i nomi contano poco, ogni paese ha i suoi. L’importante, invece, è sapere che quel nemico di cui parlano siamo noi.

Il Secolo che viene

Libri – La politica perduta, Marco Revelli, Einaudi 2004

Paolo Persichetti
Hortus Musicus
n° 20 anno V – ottobre-dicembre 2004 – pp. 224

http://www.hortusmusicus.com/schede/scheda.php?numero_hm=20&art=609

 

copj13aspIl Millenovecento è un secolo che continua a far discutere con il suo bilancio  in rosso segnalato come  il più sanguinario della storia: due guerre mondiali, innumerevoli conflitti coloniali e post-coloniali, decenni di guerra fredda, guerriglie insorgenti e repressioni contro-rivoluzionarie. Marcato dal tragico connubio tra tecnologia e sterminio che ha permesso il genocidio fordista del Terzo Reich, il Novecento è stato il secolo dei “Campi” ad Est come ad Ovest e dell’atomica. Un’esperienza che ha mutato la natura del politico mettendo al centro sempre più l’aggressione della “nuda vita”. La sua eredità sembra gravare sulle fragili spalle di un nuovo millennio orfano delle grandi narrazioni della storia, reso gracile da etiche rachitiche. Il capitalismo alla fine è scampato ai ripetuti assalti al cielo, si è fortificato portando a termine audaci «rivoluzioni conservatrici», tanto da non incontrare più validi antagonisti capaci d’anteporre solidi modelli alternativi e poter vantare così una consolidata egemonia. La rinuncia ai pensieri forti sembra aver lasciato aperta la via solo a piccoli sentieri percorsi da culture divise tra catastrofismi apocalittici, moralismi velleitari e regolazionismi senza ambizione.
Le macerie del muro di Berlino hanno lasciato da tempo il posto agli speculatori immobiliari, eppure la densa nube di polvere sollevata dal loro crollo continua ad offuscare la percezione degli approdi di un secolo che non ha visto solo ombre e tragedie. Le forze produttive hanno avuto uno sviluppo senza precedenti, la speranza di vita in larghe zone del pianeta si è accresciuta, la popolazione mondiale è più che raddoppiata. Per alcuni decenni l’egemonia capitalista è stata spezzata, modelli di società alternativa sono stati sperimentati, il movimento operaio e contadino ha acquisito in particolari momenti una forza contrattuale e decisionale mai conosciuta nel passato che ha consentito una reale e diversa redistribuzione sociale della ricchezza prodotta. Il fatalismo degli umili, la naturalizzazione della loro condizione di ultimi e di oppressi è stata smentita. Momenti fin troppo dimenticati nella contabilità di un secolo che ha dimostrato come fosse possibile liberarsi da schiavitù e dipendenze ataviche.
Secondo un’opinione molto alla moda nella sinistra attuale, il controverso bagaglio culturale del Novecento peserebbe ancora troppo sulle nuove domande che il secolo che viene porta con se. Come sia possibile riassumere in modo tanto univoco un periodo così ambivalente, resta un mistero. Per questo il rischio, anzi la realtà, è quella di una discussione che si dispieghi ancora una volta per metafore, dove il Novecento riassume una concezione della politica dominata dal paradigma della tecnica e della forza. In esso dunque si racchiuderebbe un “irrisolto culturale”, denunciato come una vera e propria tara ereditaria della tradizione comunista sui movimenti sociali. Un limite che impedirebbe tuttora di comprendere il «carattere eticamente e storicamente inaccettabile» della violenza. Una riflessione sulla politica che a ben vedere precipita molto più indietro, fino a toccare nodi teorici centrali non solo della tradizione culturale del movimento operaio. Un modello di pensiero che riguarda almeno l’intera «politica dei moderni», da Machiavelli passando per Hobbes fino a Lenin e oltre, come ha ricordato recentemente Marco Revelli in, La Politica perduta, Einaudi 2004.
La modernità filosofica ha coniato dei concetti che tuttora informano i nostri sistemi politici, le relazioni internazionali e i rapporti sociali; ma non per questo le epoche precedenti sono rimaste esenti dalla presenza della forza e da una sua concettualizzazione, anche quando prevaleva un’idea di giustizia dedotta semplicemente dall’ordine naturale delle cose. Per questo è bene rimettere l’uomo sui suoi piedi e non ridurre la storia del mondo ad una storia delle idee sul mondo. La coincidenza tra ordine umano e ordine naturale, la politica come giusto mezzo, affermata dalla teoria aristotelica e che l’interpretazione scolastica, leggendo nella natura un disegno divino, ha trasformato in un elogio della tradizione e della conservazione, fino a sancire l’immodificabilità dell’ordine esistente, non è meno artificiale delle visioni politiche dei moderni che quella natura intendevano correggere o cambiare. L’introduzione della tecné nella politica, chiave di volta che avrebbe permesso di sostituire il problema della giustizia con quello della ricerca dei mezzi capaci di modificare artificialmente lo stato di natura, non è solo una scoperta avvenuta durante il Rinascimento.

coverhm20grande Nella sua analisi, Revelli concede troppo all’interpretazione arendtiana, influenzata da una visione idilliaca della società greca, dove la politica come arte del bene comune sarebbe prevalsa sulla pura tecnica di comando. La riflessione della Arendt è minata da un enorme malinteso che porta a sottovalutare, quasi a disprezzare aristocraticamente, il peso dei rapporti economici ed ignorare la questione sociale. Temi ritenuti estranei alla sfera pubblica e relegati ad una dimensione privata, incapace di produrre legame sociale, comunicazione, partecipazione, ingredienti essenziali della creazione politica. Concezione che arriva ad escludere uno degli aspetti centrali delle società umane. Espungere il peso dei rapporti economici, taglia alla radice la possibilità di una comprensione piena della politica e dunque impedisce di cogliere le asimmetrie, le disparità ed anche i conflitti che la traversano. Lo stesso affiorare dello spazio pubblico moltiplica il ricorso alla tecnica politica che deve integrare sempre più sofisticati mezzi necessari alla fabbricazione del consenso. Già ai tempi di Machiavelli la religione appariva una fondamentale macchina del consenso, un formidabile instrumentum regni.
Il pensiero politico è cresciuto attorno al problema posto dalla “forza” nelle vicende umane. Il filosofo cattolico Paul Ricoeur, non certo sospettabile d’estremismo, individuando nel rapporto tra violenza e storia un nesso fondamentale con le patologie della memoria, spiega: «non esiste alcuna comunità storica che non sia nata da un rapporto assimilabile senza esitazione alla guerra: noi celebriamo con il titolo di eventi fondatori sostanzialmente atti violenti, legittimati a posteriori da uno Stato di diritto precario» . Parole in cui echeggiano Hegel e quel passato descritto come una valle di scheletri, Marx e quella violenza che in alcune epoche si è fatta «levatrice della storia», Pareto e il «cimitero d’aristocrazie» di cui sarebbe piena la storia. Un “realismo analitico” messo sotto accusa in una epoca in cui la parola che racconta il fatto diventa causa del fatto stesso. Così la furia dell’eticismo non violento mette il burka alla realtà.
Più che una critica della politica come espressione della forza, ci troviamo di fronte ad una rimozione della presenza della forza nella politica. Non stupisce dunque se questo approccio soffre di un particolare strabismo che lo porta a non vedere come la forza sia innanzitutto una delle proprietà salienti del monopolio statale, che ne fa un uso statisticamente ben più dispiegato e permanente di chi quel monopolio viola o ha violato. Il ricorso a guerre, o più eufemisticamente, ad operazioni internazionali di polizia e all’uso della coercizione, è statisticamente più diffuso della violenza proveniente dal basso. In questo caso, l’assenza d’eufemismi, l’impiego della parola nuda, senza infingimenti che la camuffino, è di per se un segno della potenza simbolica che avvolge la forza reale dello Stato e che può così manifestarsi senza essere percepita come violenza perché rivestita di legittimità, a prescindere dallo stesso consenso.
Secondo Revelli, la modernità sarebbe traversata da un paradigma tragico che avrebbe incorporato il male per raggiungere il bene. Dal male delle origini percepito come mistero, la modernità avrebbe consentito il salto al male utilizzato come strumento. Gli antichi avevano una posizione di vantaggio sui moderni poiché consideravano il male un fenomeno che esorbita dalle responsabilità umane. Esso era considerato parte del mistero divino e rispondeva ad un disegno imperscrutabile e ingiudicabile. La modernità, liberando l’uomo dai vincoli soffocanti della religione rivelata, riconduce il male alla dimensione umana, sottraendo la responsabilità al cielo per trasferirla in terra. Dalla teologia all’antropologia. Un prodigioso cammino di liberazione che è anche caduta nel precipizio della ragione strumentale, della tecnica come delirio di potenza dell’uomo sul mondo. Il passaggio dalla semplice accettazione del mondo circostante all’ambizione di volerlo trasformare, dando vita alla civiltà della tecnica, non è affatto una salvezza secondo Revelli, ma decadimento e perdizione, smarrimento dell’umanità. La soluzione verrebbe dunque da una rivalutazione dell’etica, attraverso l’assunzione di una sorta di fondamentalismo valoriale. Una concessione, seppur in versione laica, all’egemonia degli integralismi contemporanei, dopo la crisi delle grandi narrazioni del materialismo rivoluzionario.
Il racconto del mito delle origini fatto da Hobbes conferisce alla terrificante potenza del potere sovrano il monopolio del male, ovvero l’uso necessario della forza e della violenza a fin di bene. Leviatano, il mostro freddo che si erge dai mari maestoso e incontestabile, si scaglia contro Behèmoth, simbolo della violenza irragionevole diffusa tra gli uomini: la guerra civile. Al male strumento necessario del bene, o, secondo Hobbes, per sconfiggere il ben più pericoloso male originario dello stato di natura, risponde il mito roussoiano che denuncia la proprietà come malefico egoismo venuto a disgregare l’idilliaca comunità umana delle origini, dove omnia sunt comunia, ogni cosa è di tutti. Se il male antico ripercuoteva la sua maledizione su generazioni ignare del peccato originale, il male moderno dietro l’emancipazione dalla superstizione divina cela l’ennesima perdita dell’innocenza. La conquista della libertà e del libero arbitrio pagano un duro tributo al governo del male imbrigliato dalla ragione e ridotto a tecnica per raggiungere un fine. La responsabilità, tornata finalmente nel seno degli uomini, consente la nascita della storia e della politica, mentre la questione del male diventa «interamente spiegabile». A questo punto il controllo politico della violenza e della forza si afferma come condizione fondatrice della critica moderna, mentre la sua eredità si abbatte pesantemente sulla storia del movimento operaio.
Si perviene così alla drammatica illusione del Novecento, secolo estremo travolto dall’insana idea che i mezzi potessero mantenere un carattere neutrale, fossero pura tecnica disgiunta dalla convergenza sui fini: «buoni se messi al servizio di una giusta causa, cattivi nel caso contrario». Per trovare finalmente una risposta al dilemma mezzi-fini, Revelli suggerisce di guardare alla tradizione non violenta per cogliere dal suo seno quello che sembra essere l’aspetto più interessante della sua riflessione, ovvero il radicale rifiuto della osmosi con l’avversario, il rigetto di ogni simmetria, non solo dei contenuti ma anche di mezzi e pratiche. Nella tradizione agonica, infatti, il conflitto vede anteposti due poli irriducibilmente contrari ma indissolubilmente legati da un nesso simmetrico: l’uso della forza e l’obiettivo del potere che racchiude in una trappola mimetica ogni differenza, semmai questa venisse ricercata. L’esempio più chiaro viene dai conflitti di matrice religiosa o nazionalistica. L’arcano di questa maledizione sarebbe riposto nella logica del mezzo, che separato dal fine eserciterebbe un’insidia sottile capace di stravolgere l’obiettivo prefisso, rendendolo identico alla natura dello strumento usato. Questo perché non si sarebbe mai sufficientemente riflettuto sulla retroazione che i mezzi impiegati, e nella fattispecie la violenza, operano su chi la pratica, suscitando una «metamorfosi antropologica» sul soggetto che ne fa uso.
Le obiezioni che queste conclusioni suggeriscono sono innumerevoli. Ci è già capitato di sollevarne alcune su queste stesse pagine (cfr. Hortus Musicus n° 12-13 ottobre-dicembre 2002 e gennaio-marzo 2003, Le Aporie della Non violenza (I) e (2), con particolare riguardo a quella contaminazione antropologica che non ha risparmiato neanche l’unico modello non violento pervenuto sinora alla vittoria: l’esperienza ghandiana risoltasi in uno strabiliante paradosso che ha visto, dopo la conquista del potere, il mantenimento di tutti quegli attributi che fanno dello Stato il detentore del monopolio legale della forza, senza nemmeno porre fine alla medievale ingiustizia della società castale ed ai sanguinosi conflitti di religione. In realtà, il dilemma mezzi-fini resta per intero senza soluzione. Ma come è già stato osservato, se è possibile evocare un rischio d’omologia di fronte all’uso offensivo della violenza, poiché esso conduce lungo un crinale sottilissimo dove i confini con le pratiche dell’avversario possono confondersi pericolosamente, diverso è il problema posto dal ricorso alla violenza difensiva, impiegata secondo il criterio della risposta proporzionata. Come è possibile affermare che, di fronte ad un intervento realizzato per neutralizzare un torturatore che infierisce sulla vittima o all’interruzione con mezzi adeguati di una violenza sessuale, vi sia una omologia con la forma dell’aggressione o dell’aggressore? La simmetria sarebbe tale solo se il torturatore venisse a sua volta torturato e il violentatore violentato. Non intervenire, oppure farlo con mezzi inadeguati, che non riuscissero ad impedire la consumazione della violenza, non sarebbe forse eguale se non peggiore di un qualsiasi rischio d’omologia? Spesso chi evoca questo pericolo è più preoccupato della propria integrità morale che dell’incolumità altrui. Dietro i nobili intenti si cela la vertigine narcisistica, l’egoismo purista di chi guarda il mondo dal proprio ombelico. L’acquiescenza o il velleitarismo impotente non assolve, anzi sul piano morale è peggiore delle eventuali colpe di chi si è speso per agire, a rischio di sporcarsi le mani in situazioni dove «non c’erano lacrime per le rose».
La tecnica, poi, benché non possa ritenersi in assoluto neutra, resta in ogni caso una formidabile scommessa, una opportunità decisiva per l’esercizio dell’autonomia umana. Privandosi della tecné si smarrisce quell’indispensabile grammatica che consente di decifrare la politica, requisito essenziale senza il quale non può esistere nessuna critica della politica stessa come dominio e separatezza. L’irenismo etico lascia la tecnica al monopolio dei professionisti della politica, preferendo l’elogio dell’ignoranza alla condivisione sociale del suo sapere. In questo modo i sottoposti, i sottomessi, coloro che vedono il mondo dal basso, il popolo dei bassifondi, delle cantine e dei sottoscala, perde ogni controllo del proprio destino e viene relegato ad oggetto passivo delle politiche altrui. Lungi dall’essere una passerella per l’inferno, la tecnica resta una delle chiavi per accedere all’autonomia e all’indipendenza della propria azione. A ben vedere, anche la critica della tecnica ricorre a quegli argomenti fobici e igienisti che nutrono la “politica dell’antipolitica”, attraverso artificiali rappresentazioni incontaminate di settori di società anteposti alla corruzione e al decadimento del sistema politico. Se analizzassimo da vicino questa ideologia della purezza, scopriremmo che anch’essa non è per nulla immune dall’uso di quella stessa tecné altrove denunciata.
La soluzione andrebbe ricercata – spiega Revelli – nella nuova «produzione di relazionalità» (Manifesto, 18 gennaio 2004), anteposta al tradizionale schema della conquista del potere. Un rapporto di potere, però, la cui lettura ci viene proposta unicamente come «confronto muscolare», accumulo di potenza tipico della forma politica statale, corredata in seguito da forme di legittimità che ne fondano il consenso. Di fronte a questa «macchina», la semplice idea di contropotere susciterebbe un inutile gioco frontale a somma zero, dove il confronto si terrebbe sullo stesso terreno, sulla base di identiche unità di misura che inevitabilmente riprodurrebbero una indistricabile omologia, una perfetta simmetria. Insomma si verrebbe risucchiati e vinti, inesorabilmente conquistati dalla stessa logica che si voleva superare all’origine. Ma questo discorso ha il suo limite proprio nell’analisi dei rapporti di potere, che oramai esulano di gran lunga la semplice dimensione fisica. Per questo anche l’uso «della parola e del racconto, l’apertura di spazi in cui elaborare la propria socialità altra» non sono esenti dalla produzione di forme «microfisiche» di potere. L’inevitabile processo di scambio e d’incontro che la «logica lenticolare disseminata» produce, non rimane estraneo al rischio di condizionamenti sublimali, forme di potere simbolico, potere carismatico, tipologie di legittimazione che captano la volontà grazie alla dissimetria delle competenze, dei saperi e delle risorse economiche e sociali, che stabiliscono differenze e gerarchie minando la trasversalità e l’orizzontalità delle relazioni.
Ancora una volta non viene sciolta l’ambiguità di fondo che ha contraddistinto le posizioni della cultura non violenta negli ultimi decenni, in modo particolare dopo le vicende degli anni Settanta. Quando figure come Danilo Dolci e Aldo Capitini riflettevano sul valore della non violenza, avevano di fronte l’orrore della violenza smisurata scatenatasi nel secolo delle guerre mondiali, dove le popolazioni civili erano state coinvolte direttamente nei conflitti. Ma lo facevano volgendo lo sguardo al campo dei vincitori di cui loro stessi erano parte. La condanna senza mezzi termini dei vinti passa attraverso l’autocritica dei vincitori. Si tratta di una posizione che pone immediatamente una distanza critica dai vincenti, aborrendo l’idea che questi riproducano le stesse logiche degli sconfitti. Dopo gli anni Settanta, invece, viene chiamata non violenza una cultura politica costruita essenzialmente sulla stigmatizzazione delle condotte violente dei movimenti sociali che in quegli anni furono protagonisti. Il rigetto unilaterale della violenza proveniente dal basso ed esercitata contro il potere ha accreditato l’idea che questa fosse unicamente patrimonio delle ribellioni, se non addirittura l’essenza delle rivolte. Ciò ha inevitabilmente provocato uno sbilanciamento culturale verso atteggiamenti di compiacenza, di connivenza o indifferenza verso la violenza delle istituzioni. Si è radicato così un malinteso ideologico chiamato da alcuni non violenza che assomiglia molto ad un pensiero della sconfitta, un’ideologia consolatoria, interamente prigioniera dei confini angusti della disfatta, incapace per questo di pensare rotture e trasformazioni di fondo. L’attenzione ossessiva che oggi viene riposta sui mezzi sembra così voler riempire unicamente il vuoto di contenuti e prospettive sui fini, senza tralasciare l’ipotesi di uno strumentale ricorso ad etichette legittimanti rispetto ai poteri costituiti. Tradotto in termini più concreti, questo dibattito ripropone in termini nuovi il confronto tra l’opzione sociocentrica, la tradizione mutualistica e cooperativa,

41kq6dt3r4l_ss500_il federalismo sociale, anteposta a quella che vedeva nello Stato, una volta conquistato, uno strumento di garanzia per i lavoratori. Disputa che traversa i primi decenni della storia del movimento operaio. Alla fine prevale lo statalismo di Lassalle, malgrado le dure critiche del vecchio Marx. Attraverso la seconda Internazionale, l’opzione statocentrica struttura saldamente la cultura dominante all’interno del movimento socialista. Nemmeno la rottura bolscevica riesce a rimetterla in discussione; mette solo fine al gradualismo riformista. A questo punto un lord inglese s’innamora della formula riuscendo a riprodurla come antidoto per il sistema capitalista in crisi. Nel frattempo il movimento cooperativo non ha avuto migliore fortuna. Nel corso del suo divenire, quando ha cominciato ad occupare parti consistenti di mercato e di società, non ha retto alla logica inclusiva del capitalismo, alla sua potente capacità d’assorbimento. Dovrebbero riflettere meglio i teorici dell’esodo, i sostenitori delle varie economie, finanze e risparmi etici, solidali e alternativi. La teoria dell’isola che diventa arcipelago ed infine continente, sottraendo continuamente terra al mare, rischia di risolversi in un naufragio nell’oceano in tempesta del capitalismo. Questo sistema economico-sociale si è dimostrato nel corso dei suoi secoli di vita un formidabile mutante, capace di recepire e introiettare le critiche per rafforzarsi e produrre nuove etiche della valorizzazione che accompagnano, a volte confliggono ed infine sostituiscono le precedenti. Luc Boltansky e Éve Chiappello (Le Nouvel ésprit du capitalisme, Gallimard 2000), hanno descritto questo continuo processo di rinnovamento e di adattamento alla critica da parte del capitalismo, capace sempre di aprire orizzonti di mercato ancora vergini, fortificando e ammodernando le basi della sua legittimazione.

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