Quelle zone d’eccezione dove la vita perde valore

L’ultima vittima arriva dal manicomio criminale di Aversa, ma nell’elenco anche Cie e camere di sicurezza

Paolo Persichetti
Liberazione
31 dicembre 2009

L’anno carcerario si chiude con la notizia di un’altra morte. Pierpaolo Prandato, 45 anni, internato nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è morto «soffocato da un rigurgito». Il decesso risale al 21 dicembre scorso, ma solo ieri è stato reso noto per volontà della famiglia. Lo riferisce, in un comunicato, l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, messo in piedi dai Radicali Italiani e da alcune associazioni (Antigone, il Detenuto ignoto, A buon diritto), insieme alle redazioni di Radio Carcere e Ristretti orizzonti.
Con la morte di Prandato salgono a 175 i detenuti del cui decesso si è avuta notizia dall’inizio dell’anno, di cui 72 suicidi. Questo episodio ricorda quello di Francesco Mastrogiovanni , il maestro salentino morto la scorsa estate in un letto di contenzione dell’ospedale di Vallo della Lucania. La frequenza impressionante di questi decessi, o dei maltrattamenti certificati che avvengono in situazioni di privazione o limitazione della libertà personale, non solo all’interno del sistema penitenziario, sollevano un allarme grave sulla cultura degli apparati repressivi e di contenimento. La morte di Stefano Cucchi è per la sua dinamica la più emblematica. Riassume tutte le altre accadute nel corso del 2009 e negli anni precedenti. Cucchi ha attraversato nel corso del suo rapido e terribile calvario tutti i luoghi e le amministrazioni che si occupano della “presa” e della “cura” dei corpi. Per sua sfortuna all’inizio è finito in mano ai carabinieri, ha pernottato nel corso di una notte in due diverse camere di sicurezza, visitato inutilmente dal personale del 118. Il giorno successivo ha conosciuto, sventura ancora più grande, i sotterranei del tribunale. E’ salito per un po’ in superficie, dove pare si amministri la giustizia, ma nessuno si è accorto di come era ridotto. E’ finito in carcere, dove ha soggiornato in infermeria. E’ passato per due ospedali, il Fatebenefratelli e il Pertini.
Diverse amministrazioni dello Stato hanno avuto in consegna il suo corpo, non si può dire che si siano occupate della sua persona, al punto che si può affermare senza remore: «Cucchi è morto di Stato». Come Alì Juburi, il detenuto iracheno quarantaduenne deceduto nell’agosto 2008 a causa di uno sciopero della fame intrapreso per protesta contro una condanna che considerava ingiusta. «Abbandono terapeutico» che ha causato anche il decesso di Franco Paglioni in una cella del carcere di Forlì. Cinismo, indifferenza, sprezzo della vita umana, hanno precipitato la morte di questo uomo di 44 anni profondamente debilitato da una malattia che il senso comune fa fatica a pronunciare, l’Aids. Stefano Brunetti, sempre nel 2008 morì in ospedale il giorno successivo al suo arresto a causa delle percosse subite. Dall’autopsia sarebbe emersa, secondo quanto riportato dal legale, la presenza di «un’emorragia interna dovuta a un grave danno alla milza. Risultano fratturate anche due costole». Nell’estate 2009 un detenuto straniero, di nome Mohammed, moriva suicida nella «cella di punizione» del carcere di santa Maria Maggiore, a Venezia. Il luogo, descritto da testimoni e da chi aveva potuto verificarne l’esistenza, come «stretto, buio, dall’odore nauseabondo», assomigliava più a una segreta medievale che a una moderna camera di sicurezza. Potremmo continuare ricordando il suicidio di Diana Blefari Melazzi, la cui sofferenza psichiatrica non fu mai presa sul serio. Citare la morte del testimone scomodo del carcere di Teramo, il «negro» Uzoma Emeka che aveva assistito al pestaggio di un altro detenuto. Per quell’episodio, il comandante degli agenti di custodia, Giovanni Luzi, venne preso in castagna da una registrazione audio mentre in un concitato colloquio rimproverava un assistente di polizia penitenziaria per aver pestato un detenuto in sezione, davanti agli altri reclusi, invece di averlo portato “sotto”, cioè nel reparto di isolamento, dove abitualmente al riparo da sguardi indiscreti avvengono i pestaggi, le “punizioni”. Questo tipo di vicende, oltre a porre un problema di tutela dei corpi, dei diritti e delle libertà calpestate, suggeriscono una riflessione meno episodica è più attenta alla natura sistemica del fenomeno.
Negli ultimi decenni l’Italia ha conosciuto diversi tipi di eccezione. Sul finire degli anni 70 s’impose un «stato d’eccezione giuridico» contro la lotta armata, procastinata successivamente contro la mafia. Forma subdola e insidiosa che stravolgeva l’eccezione classica della modernità, quella di matrice giacobina codificata nelle costituzioni liberali, che attribuisce pieni poteri all’esecutivo e sospende le garanzie giuridiche per un periodo limitato nel tempo e nello spazio. Da noi, al contrario, il ricorso all’eccezione è stato gestito dalla magistratura per delega politica. Circostanza che ha dato forma a un sistema penale ibrido, dove norma regolare e regola speciale convivono, si integrano e si sostengono reciprocamente. Tanto che non è più possibile pensare di poter ripristinare la normalità giuridica poiché non vi è mai stata sospensione, ma unicamente ibridazione di più registri giuridici e penali, legislativi e procedurali, fino a determinare un groviglio inestricabile che non consente più alcun riassorbimento o fuoriuscita. Negli anni 90 si è andato diffondendo un nuovo modello emergenziale flessibile, modulabile, a macchia di leopardo, caratterizzato dalla presenza di «zone grigie», buchi neri in cui il confine tra legalità e illegalità resta incerto. «Ambiti riservati davanti ai quali lo stato di diritto arretra», come ha scritto una volta sul Corriere della sera il professor Panebianco. Una sorta di doppio binario: legalità e diritti riconosciuti solo per una parte della popolazione e trattamenti differenziati per la restante. Le camere di sicurezza delle questure e dei carabinieri, i reparti d’ospedale dove si somministrano trattamenti sanitari obbligatori, sono spazi di diritto attenuato facilitato dall’opacità dei luoghi. I Cie, le frontiere, le zone costiere, gli aeroporti, appartengono alle «zone d’eccezione» che pongono limiti allo spazio giuridico, espellono lo stato di diritto. Definiti da alcuni anche «Non luoghi», spazi di arresto della mobilità di persone che non hanno commesso alcun crimine, caratterizzano la democrazia reale.

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Cronache carcerarie
Nasce l’osservatorio sulle morti e le violenze nei Cie, questure, stazioni dei carabinieri e i reparti per Tso

Cronache dai Cie, altri pestaggi a Gradisca e Ponte Galeria

Nel centro friulano violenze della polizia contro un’intera camerata, a Roma trasferito chi era in sciopero della fame. Tentativi di fuga, proteste quotidiane nei lager dell’ultramodernità

Giorgio Ferri
Liberazione 4 ottobre 2009

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Ancora pestaggi, ancora violenze da parte delle forze di polizia dentro i centri d’identificazione ed espulsione. È difficile rincorrere la cronaca quotidiana in questi luoghi fatti d’orrore e abiezione, dove la burocratica banalità del male si accanisce contro esseri umani ridotti allo stato di non persone. È successo ieri per l’ennesima volta nel Cie di Gradisca d’Isonzo durante una perquisizione condotta con la solita tecnica provocatoria. Volano manganellate come niente fosse mentre agenti esagitati urlano e insultano. Un ragazzo è finito in infermeria perché colpito alla testa. La notizia è stata diffusa dal sito http://www.autistici.org/macerie/ che registra quotidianamente ciò che accade in questi lager dell’ultramodernità. Si è saputo anche che almeno una delle camerate era in sciopero della fame e ha rifiutato l’acqua. Un presidio antirazzista è stato indetto nel pomeriggio. A Brindisi, nel Cie di Restinco, è giunta notizia che otto internati sono in sciopero della fame e della sete da almeno sei giorni. Arrivati più di un mese fa a Lampedusa, trasferiti a Porto Empedocle e da lì a Brindisi, non sanno ancora nulla della sorte che li attende. Giovedì sera, invece, i reclusi di Ponte Galeria, il Cie a ridosso di Roma, hanno sospeso lo sciopero del vitto iniziato lunedì scorso. Dodici di loro, ritenuti dalla direzione gli animatori della protesta, sono stati chiamati in matricola con la scusa della scarcerazione. Una volta usciti dai reparti sono stati immobilizzati uno alla volta e preparati per il trasferimento in altri Centri. Chi li ha visti passare ha testimoniato che avevano i polsi legati col nastro isolante. Trasferimento che ha tutte le sembianze di un’azione di rappresaglia contro la protesta inscenata nei giorni precedenti. Nella notte successiva ci sono state urla dalle due fino alle cinque e trenta del mattino perché un internato si sentiva male e la Croce rossa non interveniva. La cronaca della giornata è proseguita con il suo calvario di brutalità: un altro dei protagonisti dello sciopero è stato trasferito verso una destinazione ignota mentre arrivava un gruppo d’internati algerini proveniente da Bari-Palese. Dopo un po’ si è scoperto che almeno due dei reclusi trasferiti la mattina erano finiti proprio a Bari. Un incrocio che ricalca perfettamente le pratiche punitive in uso nei penitenziari quando gli istituti sfollano i reclusi indesiderati. Intanto un altro degli internati che si era tagliato le vene martedì ha ripreso a camminare. Nella serata di venerdì quattro immigrati decidono il tutto per tutto e riescono a montare sui tetti. Da lì provano a scavalcare le reti e fuggire. Tre vengono bloccati subito, del quarto non si sa nulla. Nel campo c’è apprensione e speranza. Tutti si augurano che ce l’abbia fatta. La fuga anche di uno solo di loro sarebbe una vittoria simbolica per tutti. Purtroppo intorno alle dodici di ieri si diffonde la notizia della sua cattura. L’evaso è stato ripreso. Saltando dal tetto si è rotto una gamba e non è riuscito ad allontanarsi. Cosa che invece è riuscita a Torino nella notte tra domenica e lunedì, quando alcuni internati si sono dati alla fuga una volta passati all’esterno del Cie. Potremmo continuare a lungo. Le mura di questi luoghi dove regna lo stato di eccezione, le reti e le gabbie che trattengono questi individui assistono a una quotidiana battaglia tra oppressione e resistenza umana. Fuori gruppi di attivisti antirazzisti si mobilitano, presidiano l’esterno dei Centri, raccolgono le testimonianze degli internati. Giovedì scorso, all’ora di pranzo, una decina di militanti antirazzisti è entrata nella mensa del Politecnico di Torino esponendo uno striscione con la scritta “La Sodexho s’ingrassa sui lager” per poi distribuire volantini ai presenti. Studenti, cassiere e cuochi sono così stati informati che la grande multinazionale del catering Sodexho, oltre a gestire la mensa universitaria, ha anche l’appalto per la fornitura dei pasti agli internati dei Centri d’identificazione ed espulsione di via Corelli a Milano e di Roma Ponte Galeria. Spesso si tratta di cibo scadente come lamentano da sempre le persone rinchiuse nei Centri. Nel pomeriggio di ieri, invece, si è svolto a Firenze un corteo contro la presenza della Croce rossa all’interno dei Cie, e soprattutto contro la preannunciata costruzione di uno di questi centri in Toscana. Secondo le forze dell’ordine avrebbero partecipato circa 150 persone, almeno il doppio secondo gli organizzatori della manifestazione a cui hanno preso parte organizzazioni della sinistra radicale e dell’area antagonista, rappresentanti dei collettivi universitari, del movimento lotta per la casa e del gruppo “Perunaltracittà” presente in consiglio comunale.

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