Roma di piombo “diario di una lotta” (Sky TV)

Recensione – Un documentario di cinque puntate trasmesso da Sky ricostruisce l’attività di contrasto condotta dal giugno 1978 fino al 1989 da parte della Sezione speciale dei carabinieri della Capitale contro la colonna romana delle Brigate rosse

Davide Steccanella

Documentario in 5 puntate (ideato da Paolo Colangeli, scritto da Michele Cassiani con Egilde Verì e regia di Francesco Di Giorgio), tratto dal libro “Il lungo assedio” (Melampo editore) scritto dall’ex colonnello dei carabinieri Domenico Di Petrillo per ricostruire con interviste e immagini d’epoca come il Nucleo speciale, istituito dopo il sequestro Moro su indicazione del Generale Dalla Chiesa, riuscì ad arrestare la gran parte dei brigatisti rossi della colonna romana in un periodo che va dal 1980 al 1989.
Si apprende così, dalla viva voce dei protagonisti diretti di quella storia, che tutto partì a seguito dell’omicidio genovese di Guido Rossa del 24 gennaio 1979 allorché l’allora PCI di Berlinguer decise di collaborare attivamente con le forze dell’ordine per combattere più efficacemente quella che, visti i numeri e il senno di poi, può essere definita una vera e propria guerra in corso e che infatti ci vorranno altri dieci anni per poterla dichiarare storicamente chiusa con l’arresto (o la fuga all’estero) di tutte le migliaia di militanti armati di quegli anni.
Fu il Colonnello Bonaventura del Nucleo di Milano a fornire ai colleghi romani, che ai tempi – va detto – brancolavano nel buio più totale, una sorta di “infiltrato” sui generis, che verrà soprannominato “Fontanone”, il quale aveva contatti con alcuni militanti del movimento romano, e che venne fotografato da un furgone camuffato in vari incontri con diversi soggetti dell’estrema sinistra capitolina, fino a quello con un tizio corpulento che nella primavera del 1980 il noto pentito Patrizio Peci individuò come “un judoka della colonna romana”.
Ricercando negli elenchi delle varie palestre romane si arrivò ad identificarlo in Francesco Piccioni, seguendo il quale venne fotografato un incontro in un ristorante periferico con altri tre militanti importanti della colonna (Laura Braghetti, Salvatore Ricciardi e Renato Arreni). Nel maggio del 1980 scattò dunque un blitz in cui il 27 venero arrestati Braghetti e Ricciardi in un Bar nel centro di Roma (insieme a Gianantonio Zanetti, ex militante delle Formazioni Comuniste combattenti di Corrado Alunni) e il 10 giugno Piccioni nella base di via Silvani 7. Fra pedinamenti falliti e interventi talvolta intempestivi alternati ad arresti significativi che si protrarranno per poco meno di 10 anni – mentre nel frattempo l’intero Paese metteva da parte un periodo storico ventennale socialmente, prima ancora che politicamente, concluso ancora agli inizi degli Ottanta “da bere” – il documentario si sofferma in particolare su quattro importanti operazioni di polizia ripartite nel tempo. 1) l’arresto nel 1987 (fotografando Paolo Persichetti vicino a una cabina telefonica) di tutti i militanti che nel 1984/85 avevano formato un nuovo gruppo armato (Unione Comunisti Combattenti) che si era reso responsabile il 21 febbraio 1986 dell’attentato a Antonio Da Empoli – nel corso del quale era stata uccisa la militante Wilma Monaco -, nato in dissenso dalle BR del Partito Comunista combattente (a sua volta divisosi dal Partito Guerriglia fondato nel 1981 da Giovanni Senzani e che era stato interamente sgominato nel 1982), 2) l’arresto il 19 giugno del 1985 a Ostia di Barbara Balzerani (fotografata mentre si incontrava con il pedinato Gianni Pelosi), 3) l’arresto il 25 gennaio 1988 di Antonino Fosso, ritenuto uno dei principali dirigenti della colonna che aveva compiuto gli omicidi Tarantelli, Conti e la sanguinosa rapina del 14 febbraio 1987 in via Prati di papa in cui erano morti due agenti e infine 4) il blitz del 7 settembre del 1988 contro i militanti ritenuti responsabili dell’ultimo omicidio targato BR, quello del senatore democristiano Ruffilli a Forli del 12 maggio 1988, che determinerà una pubblica dichiarazione del 23 ottobre dei brigatisti in carcere in un documento a più firme (tra cui quelle di Gallinari, Piccioni e Seghetti), dove si afferma che le Brigate Rosse coincidono con i prigionieri politici delle Brigate Rosse, perché spiega nel documentario Piccioni: “Non potevamo lasciare, in un Paese abituato ai complotti e ai misteri, che altri che non c’entravano con la nostra storia usassero quel ‘marchio’”, anche se l’anno dopo verrà effettuata, il 5 settembre 1989, un’ultima operazione in Francia coordinata con la locale gendarmeria con l’arresto dei brigatisti residui.

I principali membri di quel nucleo speciale raccontano a distanza di 40 anni quel periodo vissuto, dicono, in clandestinità come i loro obiettivi, e i disagi familiari che tutto ciò ha comportato anche attraverso il ricordo delle loro mogli, e a mitigare la ricostruzione palesemente fatta da una parte sola delle due in contesa, il documentario offre lunghe interviste anche a due ex brigatisti, Francesco Piccioni e Paolo Persichetti, che hanno modo così di raccontare anche la loro storia dall’altra parte. La scelta dei due, probabilmente dettata anche dal fatto che altri si sono rifiutati di partecipare, si rivela azzeccata e in certo senso spiazzante, immagino, per chi dovesse vedere il documentario senza una adeguata preparazione storica su quel periodo oppure condizionato dalla “vulgata” che ce lo ha raccontato, perché i due ex sbaragliano ogni ritratto tipo che fino ad oggi ci era stato tramandato sul “terrorista, feroce assassino”. Piccioni è un interlocutore di rara empatia e arguzia romana che tutto sembra tranne che un mostro impunito e Persichetti ha una pacatezza da intellettuale e storico nel raccontare, e soprattutto spiegare, i fatti, che è impossibile non riflettere su quanto dice anche se non necessariamente condividerlo. Anche il finale è un po’ spiazzante, perché dopo avere decantato per 5 puntate i meriti di quei carabinieri oggi in pensione, comprensibilmente orgogliosi di quanto a suo tempo fatto “per servire il proprio paese”, si coglie in loro una certa amarezza di fondo nelle dichiarazioni conclusive su quanto poi è accaduto nei successivi 40 anni in Italia “Un Paese che oggi non mi rappresenta molto”, dice uno di loro e persino i coniugi Di Petrillo si lasciano andare a riflessioni tipo “era uno scontro generazionale anche noi avevamo la loro età ed eravamo come loro pieni di ideali”, dice lui, e “molti dei loro ideali li condividevo anche io”, dice lei.
Insomma, l’onore delle armi riconosciuto agli sconfitti al termine di una guerra vinta e questo credo sia il messaggio più importante di questo lavoro perché, come dice Piccioni “quando c’è una guerra il nemico o lo uccidi durante il conflitto o dopo che si è conclusa trovi una soluzione per i tanti prigionieri per dichiarare chiusa una fase di Storia”, e invece, come si è potuto vedere anche in casi recenti di assurde polemiche sul regime di cella di detenuti anziani per fatti commessi oltre 40 anni fa, l’Italia quella guerra non l’ha mai voluta chiudere, preferendo semplicemente negare che ci fosse stata.

I rami verdi del generale Dalla Chiesa e l’uccisione di Tobagi

Nessuna macchinazione ma una sottovalutazione investigativa causata dall’esigenza di tutelare una importante fonte confidenziale utilizzata per tentare di arrivare alla colonna milanese delle Br. In questo articolo, di cui proponiamo la parte finale (l’integrale potete leggerlo su Contropiano, qui), Sandro Padula espone una diversa lettura della morte del giornalista Walter Tobagi, ucciso a Milano il 28 maggio 1980 da un gruppo proveniente dalle Fcc e da Rosso, denominato Brigata XVIII marzo

di Sandro Padula

Tobagi

Il manifesto che attribuiva erroneamente l’uccisione di Tobagi alle Brigate rosse

[…] Sul piano storico, volendo solo parlare di fatti acclarati e non di polemiche trite e ritrite, abbiamo le prove inconfutabili dell’esistenza di un tentato sequestro di Tobagi nel 1978, del fidanzamento fra Marco Barbone e Caterina Rosenzweig, già conosciuta dalle forze di polizia e dalla magistratura, e della loro passata esperienza nelle Formazioni Comuniste combattenti. Cioè di elementi cognitivi sufficienti alle forze di polizia per controllare meglio Barbone almeno dal 13 dicembre 1979 e soprattutto in seguito al ferimento compiuto il 7 maggio 1980, ai danni del giornalista Passalacqua e rivendicato dalla Brigata 28 marzo. Di conseguenza, pure al di là  di quali siano state eventualmente le singole responsabilità dei carabinieri e dei loro vertici, la domanda fondamentale a questo punto è: che uso si fece di tutte quelle ampie informazioni possedute su Marco Barbone e dell’infiltrato Rocco Ricciardi?

Arrestare Barbone e il suo gruppo non venne ritenuto prioritario
Una risposta precisa e logica è venuta da alcuni giornalisti addetti a seguire le udienze del processo Rosso-Tobagi. In particolare da Guido Vegani che nel 1985 scriveva: «Se si sta alla verità di Ricciardi, è legittimo pensare che i carabinieri abbiano, sbagliando, evitato di analizzare quell’abortito sequestro. Se lo avessero fatto, avrebbero automaticamente puntato gli occhi su Marco Barbone che era stato partecipe, e non come comparsa, di quel progetto e che, insieme a Mario Marano, avrebbe, nel maggio del 1980, sparato su Tobagi. Ma la realtà più logica potrebbe essere un’ altra. L’errore dei carabinieri (lo è, anche se ci si pone nell’ottica di quegli anni di piombo, in cui mille erano i possibili “obbiettivi” del terrorismo e tante le “soffiate” basate su deduzioni) può essere stato dettato anche dalla volontà di non bruciare quel confidente su piste considerate minori, mentre lo si stava usando per tentare di accerchiare la “Brigata Walter Alasia”, la punta milanese delle Br.» (Milano, depone al processo d’appello Rocco Ricciardi, confidente dei carabinieri. «Tobagi? Dovevamo rapirlo», La Repubblica, 18 giugno 1985).
Si può quindi leggere con una nuova e più chiara ottica cosa intendesse il generale Dalla Chiesa quando, nella intervista a Panorama del 22 settembre 1980, parlava della tecnica di «massima riservatezza, conoscenza anche culturale dell’avversario, infiltrazione».
La «massima riservatezza» era tale che il tentato sequestro di Tobagi del 1978 rimase sconosciuto persino al diretto interessato e, per diversi anni, almeno a livello ufficiale, alla stessa magistratura. L’infiltrazione era quella di Rocco Ricciardi.
La «conoscenza anche culturale dell’avversario» significava invece che da tempo i carabinieri avevano molte informazioni a proposito di Barbone. D’altra parte fecero degli errori proprio di carattere culturale. Essendo concentrati nel portare l’attacco alle Brigate Rosse, sottovalutarono il rischio che Barbone potesse realizzare un’azione omicida. Il cono d’ombra che ancora oggi opacizza la verità sulla morte di Walter Tobagi e sulle dinamiche del processo “Rosso-Tobagi” trova quindi la propria origine fondamentale nella strategia antiguerriglia condotta dai carabinieri, avente come obiettivo principale l’accerchiamento e la distruzione delle Brigate Rosse, e nella connessa “legislazione dell’emergenza”, entrambe avallate e sostenute soprattutto dalla Dc e dal Pci.

Alle Br Tobagi non interessava
Se poi qualcuno pensò di controllare e usare personaggi come Marco Barbone allo scopo di giungere alla colonna milanese delle Br, fece male i conti rispetto alla cultura politica dei brigatisti rossi di quel tempo. Agli occhi delle Br, almeno dal 1976 al 1981, radicali e socialisti, il cosiddetto “partito della trattativa”, apparivano come le forze istituzionali in grado di proporre dignitose soluzioni politiche, ad esempio nel 1978 durante il sequestro Moro e, tra la fine del 1980 e l’inizio del 1981, nel corso del sequestro D´Urso. Nella primavera del 1978 lo stesso Walter Tobagi aveva collaborato strettamente con Giannino Guiso, avvocato a quel tempo di alcuni brigatisti rossi detenuti, e fu una delle poche persone che in Italia fece pubblicare tutte le notizie utili per una soluzione politica rispetto al sequestro di Aldo Moro. Di conseguenza, era del tutto improbabile che le Br potessero aprire spazi o varchi ad esperienze come quelle vissute da Marco Barbone.

Il confidente Ricciardi doveva portare alla Walter Alasia
Rocco Ricciardi continuò nel frattempo a dare informazioni all’antiguerriglia. Ad esempio, come ha riferito l’ex carabiniere Covolo in una udienza del 11 luglio 2007 presso il Tribunale di Monza, Rocco Ricciardi «ci fece pedinare il Serafini Roberto con il Pezzoli Walter, che poi purtroppo furono oggetto di conflitto a fuoco.» Questa affermazione, mai smentita dai carabinieri e dallo stesso Rocco Ricciardi, era senza dubbio vera e come tale bisogna considerarla anche oggi. Serafini e Pezzoli erano i due brigatisti rossi che furono uccisi dai carabinieri la sera dell’11 dicembre 1980, in via Varesina, a Milano. Ricciardi aveva detto che Serafini, ex militante delle Formazioni Comuniste Combattenti e suo ex amico, era un buon tiratore e per questo motivo non ci fu alcun tentativo di arresto ma una mattanza nella quale, oltre ai due brigatisti, morì pure un cane.
In pratica, la lotta dello Stato contro il sovversivismo e il brigatismo rosso a Milano e in Lombardia, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, fu condotta attraverso infiltrati come Rocco Ricciardi e il controllo di gruppetti come quelli di cui fece parte Marco Barbone dalla primavera del 1979 in poi. L’antiguerriglia si avvalse anche delle “leggi dell’emergenza” a favore dei “pentiti”, ma se Marco Barbone ebbe un altissimo “potere di contrattazione” fu perché, come ben sapevano i vertici dei carabinieri, il “pentito” avrebbe potuto accusare subito Rocco Ricciardi, ma quest’ultimo doveva ancora dare il proprio contributo per giungere alla colonna milanese delle Br. Fatto che avvenne nella sanguinosa giornata dell’11 dicembre del 1980.