Italia-Libia, quando l’immigrazione è un affare di Stato

Campi di respingimento italiani in territorio libico

Paolo Persichetti
Liberazione
11 giugno 2009

Se da un decennio a questa parte gli sbarchi d’immigrati sulle nostre isole sono diventati il maggiore strumento di politica estera impiegato dalla Libia nei rapporti con Italia e comunità europea, da parte italiana si è assistito a un singolare slittamento di competenze. Il ruolo preponderante nella cooperazione con l’altra sponda del Mediterraneo è ormai da alcuni anni nelle mani del ministero degli Interni. È quanto emerge da un’analisi dei rapporti di cooperazione italo-libica riattivati ufficialmente nel 1998, dopo lo stop imposto dall’isolamento internazionale (che tuttavia non aveva mai interrotto le immi2relazioni economiche soprattutto nel settore dell’energia). Si tratta degli anni in cui l’Italia fa ammenda, anche se in modo superficiale, del proprio passato coloniale e tenta di reinserire la Libia nella comunità internazionale, riconoscendole un ruolo di ponte tra Africa ed Europa. È in questo contesto che comincia a divenire centrale nei rapporti bilaterali il tema dell’immigrazione, nodo che assume nel tempo un aspetto del tutto sproporzionato rispetto alla sua dimensione reale. Il grosso dell’immigrazione, infatti, non passa per Lampedusa, anche se la via del mare è una vera emergenza umanitaria che ha trasformato il mediterraneo in un cimitero liquido. Nel dicembre 2000 viene firmato un primo accordo che stipula una collaborazione globale nelle politiche di lotta contro terrorismo, criminalità organizzata, traffico di stupefacenti e immigrazione clandestina. Il fatto che un fenomeno a carattere multidimensionale come l’immigrazione, che investe clima, agricoltura, geopolitica, economia mondiale, processi socioculturali, sia apparentato a fenomeni di natura criminale o di violenza politica (nella fattispecie internazionale), confina da subito la questione all’interno di rigidi binari sicuritari che investono l’ordine pubblico, la difesa del territorio e la sicurezza dello Stato. A questo punto, se la politica estera è sempre più legata al tema dell’immigrazione e, questa, essendo gestita unicamente secondo un’ottica sicuritaria attiene alle competenze delle forze di polizia, diventa inevitabile che le relazioni mediterranee finiscano in misura crescente nelle mani del ministero degli Interni piuttosto che in quello degli Esteri. A occuparsene saranno nuove burocrazie, come la Direzione generale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere (istituita dalla Bossi-Fini), portatrice di una cultura d’apparato poco incline a una comprensione multidimensionale del problema e delle soluzioni, con l’effetto di ingenerare preoccupanti stravolgimenti in IMG_0216materia di funzionamento dello Stato e di equilibrio dei poteri, oltre a ledere le convenzioni internazionali sui diritti umani e i principi costituzionali. Spostare le tensioni di là delle frontiere non significa essere immuni dalle conseguenze, ma solo ampliare l’area e l’intensità dell’impatto che ne deriva. Tutti i successivi patti bilaterali stipulati tra Italia e Libia sono figli di questa impostazione iniziale. Accordi di polizia e di gestione delle frontiere che rivoluzionano la stessa nozione di confine. La filosofia contenuta in questi trattati, caratterizzati per altro da una sistematica segretezza sui loro contenuti, senza che il Parlamento sia mai stato chiamato a pronunciarsi, è quella di delocalizzare oltrefrontiera i nostri originari Cpt. Tra il 2004 e il 2005, il governo italiano finanzia la costruzione di tre campi di «trattenimento» in territorio libico. Si tratta di un vero e proprio outsourcing. L’informazione trapela dal rendiconto annuale della corte dei conti del 2004. Quella dell’anno successivo dettaglia ulteriormente la voce: si tratta probabilmente della costruzione di un centro di accoglienza in località Gharyan (Tripoli), del costo di 6,6 milioni di euro, dell’appalto per un secondo centro a Kufra e di un terzo campo previsto nella zona di Sebha, principale punto d’arrivo dei flussi transahariani in provenienza dal Niger. Campi costruiti ricorrendo a capitoli di spesa del ministero dell’Interno previsti per l’edificazione di Cpt in territorio nazionale. Da parte libica emerge, invece, l’abile e cinico utilizzo dei flussi migratori, aperti e chiusi come un rubinetto, trasformati così in uno strumento di pressione e ricatto diplomatico da mettere sul tavolo delle trattative bilaterali. Uno degli obiettivi principali della Jamahiriya è la fine dell’embargo sulle armi. L’interventismo estero del nostro ministero degli Interni ha come risvolto inevitabile quello di rendere un fatto di politica interna le scelte della politica estera libica. L’ipercentralità assunta dalla questione della migranza nella politica italiana ha modificato anche l’approccio libico, fino a indurlo al clamoroso tradimento degli originari ideali panafricani che avevano mosso la rivoluzione verde del colonnello Gheddafi.

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Cronache migranti
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Sans papiers impiegati per costruire Cpt
Le figure del paria indizio e sintomo delle promesse incompiute dall’universalità dei diritti
Elogio della miscredenza

Rom: lo chiamano “rimpatrio” ma è deportazione

Vaticano e Onu intervengono contro le espulsioni di massa decise dal governo di Parigi

Paolo Persichetti
Liberazione 28 agosto 2010


«Basta con le espulsioni dei Rom già vittime di un olocausto», lo dice monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti, di fronte alle deportazioni di intere comunità Rom messe in atto dalle autorità francesi. I governi preferiscono definirli rimpatri, dimenticando l’aggettivo “forzato”, concedono al massimo il termine “espulsioni”. Ma le espulsioni di massa su base etnica hanno precedenti storici che rimandano ai momenti più bui della storia europea, alla politica condotta dal Terzo Reich, al collaborazionismo della Francia di Vichy, alle leggi razziali del regime mussoliniano. Le parole dell’alto prelato non sono fuori misura bensì commisurate ad una realtà che diviene ogni giorno più torva. Il nostro governo, per bocca del ministro degli Interni Roberto Maroni, ha applaudito il nuovo impulso impresso alla politica sicuritaria dal presidente francese Nicolas Sarkozy. In una intervista apparsa sul Corriere della sera del 10 agosto scorso, il responsabile del Viminale si è guadagnato i galloni di nuovo ministro della xenofobia. Oltre a rallegrarsi del fatto che la Francia si è allineata alla politica delle espulsioni già avviata da tempo in Italia, ha annunciato l’adozione di misure ulteriori, come «l’espulsione di cittadini comunitari che non abbiano un reddito minimo, una dimora adeguata e siano a carico del sistema sociale del Paese che li ospita». Se ne discuterà il 6 settembre prossimo a Parigi durante una riunione dei ministri dell’Interno dei Paesi europei. L’obiettivo è quello di aggirare con uno stratagemma formale gli ostacoli normativi che impediscono il ricorso a politiche discriminatorie. I Nomadi, Rom e Sinti, provengono da Paesi comunitari. Rendendo generale il potere di espulsione, senza più riferimenti alle origini etniche ma delineando in altro modo l’identikit dei futuri perseguitati, in questo caso su base censitaria ed amministrativa, sarà possibile procedere con grande disinvoltura, e un raggio d’azione ancora più largo, ad espulsioni a catena. Eppure questa radicalizzazione della politica sicuritaria, questa invenzione dell’insicurezza programmatica trasformata in progetto elettorale e politico, in linea ideologica di rottura, in faglia permanente costruita pescando nei classici del pensiero razzista, fascista e segregazionista, non sembra raccogliere il pieno dei consensi sperati. Crisi economica e inchieste sui finanziamenti occulti ricevuti dai grandi padroni di Francia, hanno tolto splendore alla stella di Sarkozy, in forte calo nei sondaggi al punto da temere per la propria ricandidatura. La scelta di rilanciare sul terreno della xenofobia e della repressione sociale nelle periferie risponde dunque a un progetto politico-ideologico attentamente ponderato che, secondo alcuni osservatori, prevede l’abbandono dell’apertura a gauche e lo sdoganamento del Fronte nazionale. Come? C’è chi pensa ad operazioni simboliche come fu il viaggio in Israele di Gianfranco Fini. Un bagno rigenerante che si liberi degli orrori del passato per meglio mettere in campo le politiche xenofobe della modernità. Sarkozy guarda al modello italiano e forse pensa ad una Fiuggi del post-lepenismo. Intanto però i sondaggi, quelli seri, non manipolati con domande orientate che suggeriscono parte della risposta, dicono che la deportazione dei Rom non piace ai Francesi. Solo il 48% restano favorevoli. Un crollo di oltre il 20% in poche settimane. Mentre il New York Times gli ricorda di essere figlio di un profugo ungherese e sposo di una cittadina italiana naturalizzata francese. La legge dovrebbe essere uguale per tutti, non solo per i suoi familiari. Lo stesso discorso vale per la nazionalità che non è questione di classe o di status. Perché toglierla a «qualunque persona di origine straniera che abbia volontariamente attentato» alla vita di un poliziotto, un gendarme o altro depositario della pubblica autorità – come recita una misura legislativa che verrà varata nel prossimo Consiglio dei ministri – trascurando invece quella di chi, depositario della pubblica autorità, deputato della Repubblica, sindaco, amministratore locale, Comis d’Etat, ministro dello Stato, manager d’impresa, abbia raccolto fondi neri, evaso le tasse, corrotto o intascato tangenti?

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