Italiani brutta gente. Ritrovato a Rodi l’archivio segreto realizzato dai Carabinieri durante la dominazione coloniale nel Dodecaneso. 90 mila dossier per 130 mila abitanti

Dalla Cirenaica a Nassiriya le proiezioni italiane all’estero sono state sempre accompagnate dalla litania degli «italiani brava gente». La scoperta di un archivio dei Carabinieri Reali – Ufficio speciale (una sorta di Ros attuale) di stanza a Rodi durante la dominazione italiana dell’arcipelago del Dodecaneso, rimasto segreto fino ad oggi, porta l’ennesimo colpo a questa retorica del “colonialismo buono”. Un controllo capillare e oppressivo, un abitante su quattro schedato: erano queste le basi del consenso e le forme di civiltà che la “grande proletaria”, evocata da Pascoli, dispensava nelle sue colonie. Lo storico Marco Clementi, che ha contribuito a riportare alla luce queste carte segrete, ci racconta quel che ha potuto leggere fino ad ora

Marco Clementi
L’Huffington Post
  8 dicembre 2013

archivio dodecaneso italianoRodi, Gruppo Carabinieri Reali – Ufficio Centrale Speciale. Dietro questa sigla si nascose per più di dieci anni, dal 1932 fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’ufficio politico italiano di pubblica sicurezza, che riuscì a mettere sotto controllo praticamente l’intero Dodecaneso.
Su una popolazione di 130.000 abitanti furono raccolti circa 90.000 dossier, conservati oggi in un archivio unico e per il momento non accessibile agli studiosi, ma che si spera in un paio d’anni potrà fornire materiale in grado di aiutare a rileggere la presenza italiana nel Dodecaneso (1912-1947) e offrire nuovi spunti per la comprensione del fascismo.
Eirini Toliou, la direttrice del locale Archivio di Stato che ha acquisito i fascicoli, sostiene che fu Mussolini a volere questo stretto controllo. Probabilmente, nonostante un governo non disprezzabile, l’Italia non era stata in grado di ottenere la piena fiducia dei dodecanesini. Il luogo, inoltre, meta turistica di prestigio, si prestava allo spionaggio di stranieri residenti o di passaggio, provenienti dal Levante o dall’Europa, alleati o possibili nemici.
Scheda del nominato: così era chiamata la cartella contenente cognome e nome della persona controllata, paternità e maternità, data e luogo di nascita e residenza. In basso il numero di pratica, ossia il dossier, con l’indicazione dell’anno in cui era stato creato. Da quel momento, tutte le successive informazioni venivano allegate nella cartella originale. Persone normali si è detto, come Nichitas Zavolas, nato a Pigadia il 15 marzo 1897, o Teorodo Costantinidi fu Costantino, medico condotto, sul quale il 17 febbraio 1939 i carabinieri scrivono: “In passato fu un fervente irredentista ed era tenuto in molta considerazione dalla popolazione per l’opera che svolgeva a favore dell’unione di queste Isole alla Grecia”. Da diversi anni però (siamo nel 1939) “si disinteressa di politica ed affianca le autorità italiane dando a vedere di essere un leale collaboratore […]. Non è di razza ebraica”.
Cambiano i tempi. Siamo dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia. A Rodi è governatore Cesare Maria de Vecchi conte di Val Cismon, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Moderato verso gli ebrei, mantiene il Collegio rabbinico ma deve comunque gestire il formale controllo razziale. Ai cittadini viene fornito un questionario dove specificare, cancellando con un tratto di penna le indicazioni che non interessano, se si appartiene alla razza ebraica (padre o madre), se si è iscritti alla comunità israelitica o se ne professi la religione.
Gli ebrei e gli irredentisti sono tenuti sotto controllo. Si capisce. Ma anche gli amici, come il maggiore della polizia tedesca Rodolfo Kaufmann, numero di protocollo 1229 categoria 2=10=15=1938, o il presidente della compagnia di bandiera “Ala Littoria”, Umberto Klinger, l’onorevole Klinger, che partecipò all’impresa di Fiume e durante la seconda guerra mondiale diresse il 114º Gruppo Autonomo di Bombardamento, protocollo 4950 categoria 2.11.1698-1937. Con lui, i passeggeri dei voli per Rodi, tutti regolarmente segnalati.
Poi i nemici, certo, come Kermeth Arthur Noel Anderson, maggiore comandante le truppe inglesi in Palestina, protocollo 6880 categ. 2.10.41=1933, o il deputato “irakiano” Yassin Taymore (167:1.1-102:1939) e la certissima “agente servizio informazioni cecoslovacco” Margaret Kis, agganciata nel 1936.
Scoppia la guerra e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, la cui giurisdizione non era stata estesa alle Isole Egee, diventa a Rodi il “Tribunale speciale per la difesa del Possedimento”, e condanna all’ergastolo Giorgio Chirmicali per aver “portato armi contro lo Stato italiano”. Prigioniero a Taranto, non può neanche ricevere un pacco dal padre Elias. Sono i Carabinieri dell’Ufficio Centrale Speciale a sconsigliarlo il 29 gennaio 1943, considerando il detenuto “non meritevole di alcuna agevolazione” a causa della gravità del crimine commesso.
L’epoca è complessa. Migliaia di ebrei fuggono dall’Europa, ma milioni restano. Alcuni vanno in Francia, altri negli Stati Uniti. Quelli cosiddetti “revisionisti”, convinti che la terra promessa sia la Palestina, si imbarcano come possono diretti verso Haifa. Le navi inglesi bloccano le rotte, affondano navi e carrette del mare entrano nelle acque del Dodecaneso, fanno naufragio. Il Possedimento accoglie i naufraghi. Alcuni ripartono subito, ma altri restano più a lungo, in improvvisati campi profughi. E sono messi sotto controllo. Nel frattempo l’Italia ha occupato la Grecia. I carabinieri collaborano con l’ufficio informazioni del Comando superiore delle Forze Armate dell’Egeo, si passano notizie e dati. Rosa Spiegel, di Bratislava, così come Eugene Reimann, non riceveranno mai alcune lettere inviate dalla loro città natale. Interviene la censura militare, blocca la corrispondenza, traduce e gira ai carabinieri, che aprono nuovi fascicoli. Sono decisi, fermi, ma alla fine trattano bene i profughi. Che nel 1942 vengono trasferiti in Italia, a Ferramonti, in Calabria, e il 16 settembre 1943 saranno i primi ebrei europei ad essere liberati dagli Alleati.
Qualche settimana fa lavoravo al “Titolario”, il vecchio indice dell’archivio amministrativo che fecero gli italiani nel 1942. Tra le tante voci, mi restava come sospesa la classe G del titolo IV: “tipografia, macchine tipografiche, gestione”. Una classe per la tipografia? Che senso ha, quando cose apparentemente più importanti come la costruzione di acquedotti o caserme sono una sottoclasse? Solo osservando le “schede del nominato”, ho capito l’importanza e la necessità di una voce separata dalle altre spese. La tipografia stampava le schede, a Rodi, in segreto. Gestire il potere, allora, osservare senza essere visti, significava avere anche il controllo totale di quelle macchine.

Dal blog dell’autore
Ansa med nel Dodecaneso
U
ntold story italian regime spied
Il Corriere della sera e cefalonia

Rom: lo chiamano “rimpatrio” ma è deportazione

Vaticano e Onu intervengono contro le espulsioni di massa decise dal governo di Parigi

Paolo Persichetti
Liberazione 28 agosto 2010


«Basta con le espulsioni dei Rom già vittime di un olocausto», lo dice monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti, di fronte alle deportazioni di intere comunità Rom messe in atto dalle autorità francesi. I governi preferiscono definirli rimpatri, dimenticando l’aggettivo “forzato”, concedono al massimo il termine “espulsioni”. Ma le espulsioni di massa su base etnica hanno precedenti storici che rimandano ai momenti più bui della storia europea, alla politica condotta dal Terzo Reich, al collaborazionismo della Francia di Vichy, alle leggi razziali del regime mussoliniano. Le parole dell’alto prelato non sono fuori misura bensì commisurate ad una realtà che diviene ogni giorno più torva. Il nostro governo, per bocca del ministro degli Interni Roberto Maroni, ha applaudito il nuovo impulso impresso alla politica sicuritaria dal presidente francese Nicolas Sarkozy. In una intervista apparsa sul Corriere della sera del 10 agosto scorso, il responsabile del Viminale si è guadagnato i galloni di nuovo ministro della xenofobia. Oltre a rallegrarsi del fatto che la Francia si è allineata alla politica delle espulsioni già avviata da tempo in Italia, ha annunciato l’adozione di misure ulteriori, come «l’espulsione di cittadini comunitari che non abbiano un reddito minimo, una dimora adeguata e siano a carico del sistema sociale del Paese che li ospita». Se ne discuterà il 6 settembre prossimo a Parigi durante una riunione dei ministri dell’Interno dei Paesi europei. L’obiettivo è quello di aggirare con uno stratagemma formale gli ostacoli normativi che impediscono il ricorso a politiche discriminatorie. I Nomadi, Rom e Sinti, provengono da Paesi comunitari. Rendendo generale il potere di espulsione, senza più riferimenti alle origini etniche ma delineando in altro modo l’identikit dei futuri perseguitati, in questo caso su base censitaria ed amministrativa, sarà possibile procedere con grande disinvoltura, e un raggio d’azione ancora più largo, ad espulsioni a catena. Eppure questa radicalizzazione della politica sicuritaria, questa invenzione dell’insicurezza programmatica trasformata in progetto elettorale e politico, in linea ideologica di rottura, in faglia permanente costruita pescando nei classici del pensiero razzista, fascista e segregazionista, non sembra raccogliere il pieno dei consensi sperati. Crisi economica e inchieste sui finanziamenti occulti ricevuti dai grandi padroni di Francia, hanno tolto splendore alla stella di Sarkozy, in forte calo nei sondaggi al punto da temere per la propria ricandidatura. La scelta di rilanciare sul terreno della xenofobia e della repressione sociale nelle periferie risponde dunque a un progetto politico-ideologico attentamente ponderato che, secondo alcuni osservatori, prevede l’abbandono dell’apertura a gauche e lo sdoganamento del Fronte nazionale. Come? C’è chi pensa ad operazioni simboliche come fu il viaggio in Israele di Gianfranco Fini. Un bagno rigenerante che si liberi degli orrori del passato per meglio mettere in campo le politiche xenofobe della modernità. Sarkozy guarda al modello italiano e forse pensa ad una Fiuggi del post-lepenismo. Intanto però i sondaggi, quelli seri, non manipolati con domande orientate che suggeriscono parte della risposta, dicono che la deportazione dei Rom non piace ai Francesi. Solo il 48% restano favorevoli. Un crollo di oltre il 20% in poche settimane. Mentre il New York Times gli ricorda di essere figlio di un profugo ungherese e sposo di una cittadina italiana naturalizzata francese. La legge dovrebbe essere uguale per tutti, non solo per i suoi familiari. Lo stesso discorso vale per la nazionalità che non è questione di classe o di status. Perché toglierla a «qualunque persona di origine straniera che abbia volontariamente attentato» alla vita di un poliziotto, un gendarme o altro depositario della pubblica autorità – come recita una misura legislativa che verrà varata nel prossimo Consiglio dei ministri – trascurando invece quella di chi, depositario della pubblica autorità, deputato della Repubblica, sindaco, amministratore locale, Comis d’Etat, ministro dello Stato, manager d’impresa, abbia raccolto fondi neri, evaso le tasse, corrotto o intascato tangenti?

Link
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Leone Jacovacci, il nero che prese a pugni il fascismo

Libri – Mauro Valeri, Nero di Roma, Storia di Leone Jacovacci l’invincibile mulatto bianco, Palombi editori

Paolo Persichetti
Liberazione,  4 luglio 2009

Mulatto, figlio di un ingegnere italiano e una madre africana di etnia babuendi, Leone Jacovacci non aveva «la pelle giusta» per essere riconosciuto a tutti gli effetti italiano, nonostante nel 1928 fosse diventato campione nazionale ed europeo di esterne161921181603195150_bigpugilato per la categoria dei pesi medi. La sua vita raccontata nel libro di Mauro Valeri, Nero di Roma, Storia di Leone Jacovacci l’invincibile mulatto bianco, Palombi editori, è un’odissea del pregiudizio, un viaggio nei mari del razzismo prima  ideologico, poi codificato negli statuti coloniali e nelle leggi razziali. Come per i più grandi pugili del Novecento la via del ring è stata per lui un modo di farsi strada nella vita. I pugni incassati fuori Leone li restituiva nel quadrato. All’anagrafe risulta iscritto nel 1902, ma è solo l’anno in cui il padre realizzò l’atto amministrativo. In realtà era nato in Congo tempo prima, dove l’ingegnere Umberto Jacovacci era arrivato in cerca di fortuna con un contratto d’agronomo in tasca. Qui aveva conosciuto Zibu, figlia di un capo tribù locale. Dalla loro relazione erano nati Leone e Aristide che il padre decise di portare con sé al suo rientro a Roma. I piccoli furono cresciuti dai nonni paterni nel viterbese e presto scoprirono il prezzo del pregiudizio raziale negli anni dell’Italia giolittiana, quando la «giovane proletaria» declamata da Pascoli cercava il suo posto al sole occupando Tripolitania e Cirenaica a suon di cannonate. Anni in cui la propaganda colonialista struttura le correnti ideologiche razziste e nazionaliste che spingeranno l’Italia verso il baratro della prima guerra mondiale e del fascismo. Allora per l’anagrafe Leone Jacovacci aveva nove anni. A 16 anni, anima inquieta e già ribelle, s’imbarca probabilmente a Napoli come mozzo su un mercantile inglese che però fa naufragio. Insieme agli altri membri dell’equipaggio viene salvato da un’altro mercantile inglese, il Queen.
«Non mandatemi/ in paesi stranieri/ perché la mia pelle è diversa», scriveva Antonio Campobasso nel suo Nero di Puglia.  Sbarcato a Londra Leone ha un nuovo nome, John Douglas Walker, nato nel 1900, con il quale il 7 agosto 1918 si arruola nel 53° battaglione del Bedfordshire Regiment dell’esercito inglese. La vita di mozzo e cuciniere sulle navi e la permanenza nell’esercito l’introducono nel pugilato, disciplina che veniva praticata tra i marinai. Esordisce nella boxe a Londra. Le cronache dei primi incontri raccontano di un pugile tecnicamente ancora molto acerbo ma molto potente. Sono gli anni di un pugilato popolare con riunioni settimanali che si tenevano nei quartieri. Gli incontri potevano durare anche venti riprese, e il macth poteva prendere facilmente l’aspetto di una vera battaglia tra gladiatori con il pubblico che lanciava alla fine monetine sul ring. Il periodo londinese termina col la sfida a Roland Todd, uno dei migliori medi britannici, imbattuto da tempo e abituato a mettere ko i suo avversari. A confronto il diciannovenne Jacovacci era un debuttante, eppure mise Todd al tappeto quattro volte, ma rimase sbigottito nel vedere l’inglese rialzarsi ogni volta. Confidava troppo nella sua «castagna», così col passar delle riprese e il sopravvenire della stanchezza fu l’esperienza di Todd a decidere il match. Dopo la sconfitta si trasferì a Parigi, dove infilò una serie di 25 vittorie consecutive. Sulla scorta di questi successi nel 1922 torna in Italia sotto le vesti dell’afro-americano Walker per affrontare il campione italiano dei pesi medi, Bruno Frattini, al Teatro Carcano di Milano. esterne161921221603195142_big
Jacovacci non è il primo “nero” a combattere in italia, era stato preceduto dal ligure Pietro Boine che nel 1910 aveva conquistato il primo titolo italiano dei pesi massimi. L’incontro con Frattini finisce con una sconfitta ai punti nonostante la netta superiorità mostrata sul ring. Leone Jacovacci non si arrende, sà di avere pagato il prezzo del colore della sua pelle, e decide così di farsi riconoscere la nazionalità. Considerato da tutti un zio Tom americano, alcune testimonianze raccontano lo stupore nello scoprire il suo slang trasteverino. Durante un combattimento, dimenticando di rivolgersi in inglese al suo secondo, l’apostrofò con uno, «sbrighete, damme l’acqua». La gaffe si ripeté nel corso di una riunione pugilistica alla quella era stato invitato come ospite. Enorme fu lo stupore di chi chiamandolo ancora Jack, gli senti gridare verso un pugile, «c’ai er coraggio de ’na pecora». Nel frattempo Leone torna a Parigi e prosegue la sua carriera inanellando un’impressionante serie di vittorie mentre comincia a circolare la voce, ripresa dalla stampa, che Jacovacci-Walker avesse del sangue italiano. Ma l’avvento del fascismo non facilita per nulla il riconoscimento della sua cittadinanza, apertamente ostacolata dal Pnf che vede in lui la sconfitta delle tesi razzialiste. Uno scontro si apre all’interno della federazione pugilistica italiana tra il consiglio direttivo che estromette Edoardo Mazzia, membro del comitato centro-meridionale che gli aveva consegnato la tessera della federazione. Intanto Jacovacci-Walker è costretto a proseguire la sua carriera all’estero, tra Francia e Argentina. Sconfigge così il neo campione d’Europa Louis Clement, senza per questo poter essere incoronato lui stesso al vertice del pugilato europeo perché privo del riconoscimento della nazionalità italiana. Ormai all’apice del pugilato internazionale viene riportato in italia da uno degli impresari più importanti, Pietro Petroselli. Il «mulatto» sbaraglia tutti e così il 24 giugno del 1928 può sfidare il campione in carica nazionale ed europeo, Mario Bosisio, ritornando al suo nome di battesimo. L’incontro entra nella storia per la sua intensa drammaticità. Jacovacci vince ma da quel momento subisce l’ostracismo di un regime che ha ridicolizzato. La bianca razza fascista non poteva sopportare di prenderle di santa ragione da un «meticcio», considerato alla stregua di una piaga, un esempio di degenerazione e corruzione della purezza della razza. E quando al contrario le sue doti venivano apprezzate, diventava la «belva», il «selvaggio» dalla velocità «belluina».
Leone Jacovacci è morto nel 1983 a Milano, faceva il portiere in un immobile. Nel 1940 era tornato in Francia, per sopravvivere aveva fatto persino il catch.

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ciao Abba

Razzismo
Negro di merda? «Generica antipatia»

di Alessandro Portelli

Il Manifesto 19 settembre 2008

Hanno proprio ragione i magistrati e i politici milanesi secondo cui massacrare una persona chiamandolo «negro di merda» non è un atto di razzismo. Infatti hanno dalla loro la più autorevole giurisprudenza del nostro paese: un paio di anni or sono, la Corte di Cassazione sentenziò, infatti, che «l’espressione ‘sporco negro’» – pronunciata da un italiano mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca serie lesioni – non denota, di per sé, l’intento discriminatorio e razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere una manifestazione di ‘generica antipatia, insofferenza o rifiuto’ per chi appartiene a una razza diversa».
Immagino che la suddetta preclara giurisprudenza possa applicarsi anche a espressioni affini come «negro di merda». Quindi, «nessuna aggravante». In effetti, i due assassini di Milano hanno fatto sapere che avrebbero fatto lo stesso anche se il loro bersaglio fosse stato bianco e questo, secondo loro, dovrebbe rassicurarci (mi viene in mente la signora con bambina che allo stadio faceva «buuu» ai giocatori di colore e, alle mie rimostranze, rispose che lo faceva pure ai bianchi. Come se una schifezza ne scusasse un’altra). Ma loro almeno lo fanno per proteggersi – e comunque, per fortuna, manca la conferma empirica. Quelli che davvero non hanno vergogna sono quelli che nelle istituzioni e nei media gli tengono bordone. Io infatti ero convinto che «generica antipatia, insofferenza o rifiuto per chi appartiene a una razza diversa» fosse appunto una perfetta definizione del razzismo: un atteggiamento mentale e culturale, che può o meno produrre altri effetti criminosi ma è già un orrore in sé. Per aver definito «negro di merda» un giocatore avversario, il commissario tecnico della nazionale spagnola si beccò una meritata bufera di accuse di razzismo. Si vede che certe espressioni smettono di essere razziste quando alle parole si accompagnano le mazzate. La strategia discorsiva è la stessa seguita dal tribunale californiano nel caso Rodney King (quello che scatenò la rivolta di Los Angeles): suddividere un evento unitario in frammenti distinti in modo da separarne causa ed effetto e renderlo incomprensibile. In questo caso, le botte e le parole non fanno più parte di un medesimo processo, ma sono due cose separate e senza relazione fra loro: non danno le botte perché la vittima è comunque ai loro occhi uno «sporco negro», ma da una parte hanno verso di lui una «generica antipatia» e dall’altra lo ammazzano, però l’una cosa con l’altra non c’entra. Se vogliamo, su tragica piccola scala, questa è la logica che presiede la separazione fra le leggi razziali e il fascismo rivendicata dal sindaco di Roma e dai suoi seguaci: il regime cacciava i bambini dalle scuole e aiutava i nazisti a sterminarli, ma non perché era fascista e quindi razzista, ma per una mera aberrazione. Staccato dalle sue conseguenze materiali, insomma, il razzismo diventa una cosa nebulosa e astratta, che uno può negare e persino condannare, continuando a praticarlo. Questa mi pare anche la debolezza dell’« antifascismo» dichiarato da Fini: se davvero ci riconosciamo nei valori della Resistenza e della Costituzione, allora sarà il caso di metterli in pratica, e di smettere di discriminare e schedare i rom, cacciare gli immigrati, considerare aggravante la clandestinità, praticare politiche che colpiscono sistematicamente i più deboli e più marginali. Cioè: ricomponiamo parole e fatti, ricomponiamo i proclami di antirazzismo con pratiche antirazziste, egualitarie, civili – il contrario di quelle per le quali la commissione europea ha appena ribadito la condanna al nostro governo (contro quello che avevano proclamato Maroni e i tg). Invece facciamo esattamente il contrario: separiamo le parole dai fatti che ne conseguono, e ci serviamo di questa scissione per attenuare la gravità di un assassinio, o per prendersi patenti di democraticità senza bisogno di fare una politica democratica. La parola chiave del razzismo nostrano è «ma»: «io non sono razzista ma…». Io non sono razzista, ma quelli i biscotti li avevano presi. Io non sono razzista, ma i rom rubano. Il documento degli «scienziati» fascisti sulla razza, almeno, proclamava che era l’ora che gli italiani si proclamassero «francamente» razzisti. Adesso, noi italiani brava gente ci vergogniamo del nostro razzismo al punto da negarlo in faccia all’evidenza – e proprio questa negazione ci permette di continuare a praticarlo in forme sempre più violente.

Migranti: i dannati della nostra terra

Libri – I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti tra ossessione del diritto e razzismo culturale, Renato Curcio, sensibili alle foglie pp. 136, euro 14

Paolo Persichetti
Liberazione 3 luglio 2008

Parole semplici che raccontano storie terribili sono quelle raccolte da Renato Curcio nella sua ultima ricerca sociale sul lavoro migrante. I «dannati della terra», espressione impiegata da Frantz Fanon in un testo del 1961 per indicare la moltitudine degli esclusi, sono diventati oggi quei dannati del lavoro che danno titolo al volume edito da Sensibili alle foglie ( I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti tra ossessione del diritto e razzismo culturale , pp. 136, euro 14).
 Donne e uomini, persone con valigie cariche di storie e non reati ambulanti. «Imprenditori dei sogni», come dovremmo in realtà chiamarli se fossimo in grado di frantumare gli occhiali deformanti dell’opposizione regolari/irregolari. Una scena imponente di milioni di umani che da città e villaggi di ogni continente si mettono in viaggio animati dall’immaginazione di un futuro diverso da quello disegnato per tutti noi dai consigli di amministrazione delle aziende globali. «Umani non ancora infettati dalla “codificazione feticistica” che come un virus epidemico sta spegnendo il pensiero della discontinuità negli autoctoni del Vecchio continente». Umanità ancora umana che non sa che farsene dei piccoli sogni a “prezzi mai visti” smerciati da Carrefour. C’è altro e di meglio in ciascuno di loro, scrive Curcio: «l’energia di chi pensa ancora la crescita non soltanto come una variabile economica[…] di chi rivendica per sé il diritto primordiale a esistere, prima di ogni legge degli uomini, prima del capitale, prima del mercato, prima delle carnivore ambizioni delle imprese globali». 
Loro, i migranti, sanno di non essere più radice ma vento. Sopravvissuti a viaggi spaventosi, le loro radici sono ormai gambe che spostano il mondo, scirocco e grecale, libeccio e levante. Solcano autostrade, passano valichi e navigano mari, s’ingegnano a trovare sempre nuovi cammini, molti muoiono lungo strade di stenti, sui sentieri del deserto oppure naufraghi nel cimitero liquido dei mari. Approdano sulle rive ridotti a scorie di mareggiate, pasti avanzati dei pesci impigliati alle reti. Dal 1998 sono già diecimila gli annegati nel Mediterraneo e nell’oceano Atlantico, tremila i dispersi. Trecento, quelli schiacciati, soffocati o congelati negli interstizi più assurdi ricavati nei camion della speranza.
L’avventura del lavoro migrante, la scelta del viaggio “intemerato” non nasce in luoghi lontani ma inizia da noi. Sono le aree più obese del mondo, quelle in cui operano i grandi centri capitalistici che creano quella sorta di vuoto d’aria che attira gli sciami migranti delle aree più spolpate del pianeta. L’impossibilità d’accedere alla via regolare, dovuta ai costi esorbitanti della corruzione e della speculazione che presiede i circuiti dei consolati, un sottobosco d’agenzie ufficiose, di piccoli faccendieri, mediatori e furbastri d’ogni genere pronto a lucrare su ogni passaggio burocratico, spiega la scelta della via “irregolare”, quella delle barche che giustamente Curcio rinuncia a definire «illegale» per non farsi complice della discriminazione che poi andrà a estendersi sull’intera vita di chi ne diverrà il bersaglio.
 Sono le nuove modalità del capitalismo attuale, delle grandi aziende che progettano se stesse a misura del mondo, insieme alla centralità produttiva assunta da paesi privi di normative sul lavoro che spiegano il fenomeno migratorio. Questo processo, che vede aziende extraterritoriali organizzare il movimento di merci, capitale e persone, serba nel suo seno una grande contraddizione: mentre la libera circolazione delle merci non trova ostacoli soltanto il movimento umano suscita rigetto. Tutto si sposta, ma solo le persone in movimento impauriscono. Tuttavia una soluzione andava trovata perché i limiti posti alla circolazione delle persone compromettono le capacità di consumo interno. Così il trattato di Schengen, entrato in vigore nel 1995, ha introdotto un doppio binario, un’area di privilegio comunitaria che ha però il suo rovescio nell’emergere immediato di una zona parallela, quella degli “illegali”, dei “clandestini”.

Cambia in questo modo la nozione di frontiera. Il confine visibile scompare ma al suo posto nasce la fortezza. Una fortezza Europa armata di banche dati integrate sempre più specializzate, come il sistema informatico Schengen (Sis) che include informazioni su cose e persone.
 L’antico presupposto della fortezza medievale era il ponte levatoio, la presenza comunque d’un passaggio all’esterno. Al contrario l’Europa fortezza si costruisce come una rocca senza aperture. La rete di centri di permanenza temporanea (Cpta, Cpa, Cid), destinati a divenire dopo l’ultimo “pacchetto sicurezza” varato dal governo Berlusconi “Centri di identificazione ed espulsione”, più che materializzare i confini interni interrompono la tradizionale continuità territoriale sulla quale posava la vigenza del diritto nazionale, sancito dal combinato disposto degli articoli 3 e 5 della costituzione. Un diritto a macchia di leopardo, dei territori di sospensione delle garanzie costituzionali emergono dando luogo a uno stato di diritto stratificato. Al tempo stesso, come in un gioco di prestigio, la nozione di “sicurezza” è sovrapposta a quella di “regolarità”. In questo modo “l’irregolarità amministrativa” diventa una forma di clandestinità presto sanzionata come un reato.
Tecnicamente l’internamento amministrativo, la carcerazione senza reato, che contraddistingue la rete dei centri di permanenza, appartiene alla tradizione del sistema dei campi di concentramento. Ma la vera caratteristica di questi nuovi luoghi d’internamento temporaneo è il fatto d’essere divenuti dei centri di raccolta per rastrellamenti di forza-lavoro semischiavizzata. Il sistema dei centri di permanenza appare dunque funzionale alla formazione di una nuova «sottoclasse di lavoratori», figlia della nuova e perversa relazione che si è stabilita tra stratificazione del diritto e forme estreme (extralegali) di flessibilità e precarietà del mercato del lavoro. Nasce in questo modo una classe di lavoratori completamente priva di diritti, sospinta alla «clausura di un trattamento quasi-schiavistico», una forma di mercificazione selvaggia e di alienazione totale delle esistenze umane eccedenti, posta ben al di là delle stesse condizioni che caratterizzano il “lavoro nero”. Messi nella situazione di non poter trattare alcunché, queste forme neoschiavistiche di lavoro segnalano la «caduta dal piano del diritto a quello del patto. Tra il datore di lavoro e il lavoratore si stipula, in altre parole, un contratto privato, molto simile a un “patto d’omertà”, in cui ciò che viene dichiarato (l’apparenza, appunto) è pura menzogna mentre ciò che viene taciuto è una sostanziale violazione delle leggi». Una condizione umana radicalmente esclusa e continuamente esposta a rotolare nell’abisso dell’internamento. Oltre a garantire la massima valorizzazione del capitale, questo «lavoro dannato» condiziona anche l’intero mercato del lavoro e diventa una minaccia permanente verso le altre fasce precarie e flessibili ancora dotate di un minimo di diritti e capaci di opporre forme di resistenza. È la vecchia storia, sempre attuale, dell’esercito proletario di riserva. L’Italia, poi, ha conosciuto la minaccia della precarietà fin dall’operaio massa meridionale dei primi anni 60.
 Al pari della precarietà, anche il razzismo è un conto mai chiuso. “Indesiderabili” è la parola chiave degli attuali Cpt, come lo fu per il legislatore fascista dopo l’introduzione delle leggi razziali del 1938 e che due anni più tardi provocarono l’apertura di oltre 200 campi di concentramento. In una circolare inviata dal ministero degli Interni si poteva leggere: «Detti elementi indesiderabili apportatori di odio contro i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione deleteria, per difesa dello Stato et ordine pubblico vanno tolti dalla circolazione». 
Nel frattempo però il razzismo ha mutato aspetto. A quello biologico si è sostituito un «razzismo culturale» fondato su un preteso differenziale tra civiltà. Questo razzismo, spiega Curcio, ha una intrinseca valenza politica legata alla “costruzione della paura”. La percezione dell’insicurezza viene impiegata per orientare la rabbia verso bersagli di comodo, senza diritti e totalmente deboli, come è il caso dei Rom. Ma questo “sentimento” nasce da un moto reale di consapevolezza dei lavoratori di fronte a un destino precariamente sospeso. Trasformare questa domanda di sicurezza in razzismo è l’operazione politica in corso, quella da ribaltare completamente. Il paradigma reazionario, oggi egemone, è riuscito modificare il modo di produzione dell’immaginario facendo apparire lo sfruttamento più brutale come una forma di diversità, uno stigma, quando nella realtà è proprio lo sfruttamento che ci rende stranieri. 
Rimettere al centro dell’attenzione culturale e politica la critica del lavoro, a partire dai suoi aspetti più bestiali, è una delle strade obbligate che la sinistra deve ritrovare se vuole tornare a esistere.

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