8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura

Come documentano i dispacci dell’agenzia Ansa riportati qui sotto, l’8 gennaio 1982 si tenne una riunione del Ciis, il Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, organo del servizio segreto italiano oggi sostituito dal Comitato interministeriale per la sicurezza della repubblica.
Il comitato era presieduto e convocato dal Primo ministro, che all’epoca era il repubblicano Giovanni Spadolini, ed era composto dal ministro degli Affari Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, Economia e Finanze e Attività produttive.

Da 22 giorni era in corso il sequestro del generale americano e vice-comandande delle forze terrestri della Nato nel Sud Europa, James Lee Dozier, rapito Il 17 dicembre 1981 nella sua casa di Verona da un nucleo delle Brigate rosse – partito comunista combattente, una delle tre branche in cui si era scissa l’organizzazione nel 1980. Azione rivendicata dalla colonna veneta Annamaria Ludman.

Era la prima volta che un’organizazzione marxista rivoluzionaria riusciva a rapire un membro del comando Nato in Europa, una novità per un militare statunitense così alto in grado. L’operazione, pensata all’interno di quella che era la tradizionale azione di contrasto contro l’aggressiva politica delle forze imperialiste, mirava a riaprire la battaglia in favore dell’uscita dell’Italia dalla logica dei blocchi, contro la presenza delle basi Nato e americane. Un’azione volta a denunciare i patti segreti che legavano la Penisola a una sorta di sudditanza, che molti storici e analisti non esitavano a definire senza mezzi termini “sovranità limitata”, e intervenire all’interno del movimento contro il riarmo e la presenza di testate nucleari, mobilitatosi per impedire l’istallazione in Europa di nuovi sistemi d’arma come i missili nucleari Pershing e Cruise, questi ultimi previsti nella base di Comiso e Sigonella in Sicilia.

Il rapimento del generale americano sfatava di fatto tutte le dietrologie sulla natura eterodiretta delle Brigate rosse da parte di ambienti atlantici. Interpretazione complottistica fatta circolare in primis dagli ambienti del Partito comunista ma poi ripresa su larga scala e divenuta uno dei più inossidabili luoghi comuni capaci solo di mutare di segno (i servizi dell’Est al posto di quelli dell’Ovest) ma non di eclissarsi.


RIUNIONE
CIIS: MISURE TERRORISMO

Primo dispaccio

1982-1-8  POLITICA      

RIUNIONE CIIS: MISURE TERRORISMO
19820108 00850
ZCZC047/01
U POL 01 QBXB

(ANSA) – ROMA, 8 GEN – IL COMITATO INTERMINISTERIALE PER L’INFORMAZIONE E LA SICUREZZA (CIIS), NEL CORSO DI UNA LUNGA RIUNIONE TENUTA STAMANE A PALAZZO CHIGI, HA ADOTTATO UNA SERIE DI MISURE E DIRETTIVE AD EFFETTO IMMEDIATO RIGUARDANTI LA LOTTA AL TERRORISMO E LA SICUREZZA NELLE CARCERI. SECONDO QUANTO SI E’ APPRESO SUL CONTENUTO DELLE MISURE PRESE, CHE RIENTRANO NELL’ AMBITO DELLA COMPETENZA DEL CIIS, C’E’ IL VINCOLO DEL PIU’ STRETTO RISERBO. SI TRATTA NATURALMENTE DI MISURE DI CARATTERE AMMINISTRATIVO. HANNO PARTECIPATO ALLA
RIUNIONE I MINISTRI DELL’INTERNO ROGNONI, DELLA DIFESA LAGORIO, DELLA GIUSTIZIA DARIDA, DELL’ INDUSTRIA MARCORA, CHE FANNO PARTE DELL’ORGANISMO, E I MINISTRI LA MALFA, DI GIESI E ALTISSIMO IN RAPPRESENTANZA DELLE FORZE POLITICHE DELLA
COALIZIONE DI GOVERNO. I MINISTRI SONO STATI D’ACCORDO UNANIMEMENTE, SEMPRE SECONDO QUANTO SI E’ APPRESO, SULL’URGENZA E LA NECESSITA’ DELLE MISURE CHE SONO STATE DEFINITE DAL CIIS.
MR/SOR
8-GEN-82 12:45 NNNN

Secondo dispaccio

ZCZC196/01
U CRO 01 QBXB
RIUNIONE CIIS: MISURE TERRORISMO (2)

(ANSA) – ROMA, 8 GEN – LE DICISIONI ADOTTATE DAL CIIS,
NELLA RIUNIONE DI QUESTA MATTINA, IN MATERIA DI SICUREZZA NELLE CARCERI SONO COPERTE DAL PIU’ STRETTO RISERBO. AL MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA NESSUN COMMENTO E NESSUNA INFORMAZIONE E’ FILTRATA AL PROPOSITO, SI SMENTISCE SOLTANTO L’IPOTESI CHE TRA ESSE SIA COMPRESO IL PROGETTO DI RIAPRIRE IL CARCERE DELL’ASINARA. TENENDO COMUNQUE CONTO DELLE MISURE CHE NEI MESI SCORSI ERANO ALLO STUDIO DEGLI ESPERTI SI POSSONO AVANZARE DELLE IPOTESI: SEMBRA PROBABILE CHE (COME DEL RESTO E’ GIA’ AVVENUTO IN OCCASIONE DI ALTRI MOMENTI DI TENSIONE  NELLE CARCERI) VENGANO CONTROLLATI CON MAGGIOR RIGORE TUTTI I CONTATTI CON L’ESTERNO DEI DETENUTI DELLE SEZIONI SPECIALI. QUESTO VORRA’ DIRE, PROBABILMENTE, CHE IN QUESTE SEZIONI VERRANNO ABOLITI I COLLOQUI STRAORDINARI; CHE NON SARANNO PIU’ CONSENTITI COLLOQUI CON I FAMILIARI SENZA IL VETRO DIVISORIO; CHE SARANNO INTENSIFICATI I CONTROLLI SUI PACCHI CHE GIUNGONO AI DETENUTI E SULLA CORRISPONDENZA; VERRA’ INTENSIFICATA LA SORVEGLIANZA ESTERNA PER NON VESSARE INUTILMENTE DETENUTI CHE NON SONO CONSIDERATI PERICOLOSI MA IN ALCUNI CASI SI TROVANO A STRETTO CONTATTO CON  ”GLI SPECIALI”, PROBABILMENTE VERRA’ ACCELERATO IL PIANO ALLO STUDIO DA TEMPO CHE TENDE A MIGLIORARE LA SITUAZIONE DEI COSIDDETTI ” DETENUTI DEFINITIVI TRATTABILI” (COLORO CIOE’ CHE DEVONO SCONTARE LUNGHE PENE MA NON SONO CONSIDERATI PERICOLOSI). QUESTI, SECONDO IL PROGETTO ALLO STUDIO, DOVREBBERO VENIR CONCENTRATI IN CARCERI SITUATE NELLE RISPETTIVE REGIONI DI PROVENIENZA E DOVE SARANNO VIGENTI TUTTI I BENEFICI INTRODOTTI DALLA RIFORMA.
CZ BM
8-GEN-82 21:11 NNNN

Questo secondo dispaccio annuncia le prime avvisaglie di quella che sarà l’introduzione dell’articolo 90, ovvero l’instaurazione di uno stato di eccezione dentro le carceri e l’avvio di circuiti differenziati che approderà successivamente alla nascita delle aree omogenee, dove venivano concentrati i detenuti dissociati, formalizzato con decreto ministeriale il 22 dicembre 1982. In una intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica, il 25 agosto 1983, il direttore della Direzione Amministrativa Penitenziaria, Nicolò Amato, dichiarava che l’applicazione dell’art. 90 O.P. riguardava 18 istituti e poco meno di un migliaio di persone.

L’attenzione tuttavia va incentrata soprattutto sul primo dispaccio nel quale si riferisce che le misure prese sono di «carattere amministrativo», ovvero decisioni che emanano dalla diretta competenza dell’esecutivo e dei singoli ministri. Decisioni rivolte su due materie presentate in modo distinto: la «lotta al terrorismo» e la «sicurezza nelle carceri». Misure, infine, vincolate dal «più stretto riserbo».

E’ subito dopo questo vertice, la cui importanza strategica è dimostrata dal coinvolgimento inusuale di altri ministri (La Malfa, Di Giesi e Altissimo in rappresentanza delle altre forze politiche della coalizione di governo) che cominciano a circolare sui giornali le prime voci su un via libera concesso dall’esecutivo all’impiego della tortura per acquisire informazioni durante gli interrogatori.

In realtà il vertice del Ciis è solo il punto terminale di un processo decisionale avviato nei giorni precedenti, come dimostra la creazione di un gruppo operativo avente l’incarico di provvedere al coordinamento nazionale delle indagini sul sequestro, istituito con un decreto del ministro dell’Interno Rognoni il 28 dicembre precedente. E’ attorno alla nascita di questa struttura speciale e delle sue competenze e modalità di azione che prende forma la decisione di ricorrere in modo sistematico alla tortura impiegando gli esperti (il professor De Tormentis e la sua squadra, ma non solo) di cui disponeva la polizia.

Ciò spiega perché la sera del 4 gennaio 1982 Umberto Improta chiama d’urgenza Nicola Ciocia, alias De Tormentis, affinché sottoponga al «trattamento» Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, arrestati  appena 24 ore prima in via della Vite a Roma. I due erano militanti del Partito guerriglia, denominazione assunta dal Fronte carceri e dalla Colonna napoletana delle Brigate rosse dopo la scissione. Non c’entravano nulla con il sequestro Dozier ma gli inquirenti speravano in ogni caso di rompere il muro del silenzio, aprire le prime crepe nella struttura organizzativa.

Le feroci torture inferte avranno successo. Le dichiarazioni estorte permettono alla polizia di arrivare all’arresto di Govanni Senzani che imprudentemente era rimasto nell’abitazione conosciuta dai due militanti. Un arresto chiavi in mano: gli agenti della Digos entrarono e incappucciarono nel sonno il fondatore del Partito guerriglia.

Enrico Deaglio su Lotta continua dell’8 febbraio 1982 rompe il muro del silenzio e denuncia l’impiego della tortura, «deciso in varie riunioni di altissimo livello nei giorni tra lunedì 11 e mercoledì 13 gennaio; giorni in cui il Consiglio dei ministri decise importantissime quanto tuttora misteriose misure d’emergenza contro il terrorismo; giorni in cui vi furono riunioni tra il presidente del Consiglio e i massimi responsabili dell’Arma dei carabinieri, della polizia e dei servizi di sicurezza. Si dice, infine, che presa la decisione, i ministri si vincolarono al segreto e si impegnarono a coprire le decisioni che avevano preso in qualsiasi caso».

In un comunicato del 18 marzo 1982 (quello della ritirata strategica) le Brigate rosse Partito comunista combattente  si da notizia di una riunione del Ciis (informazione tratta come sempre dall’attenta lettura dei quotidiani delle settimane precedenti) in cui sarebbe stato dato l’avallo alla tortura. «Spadolini – scrivono – ha provveduto in riunioni separate a comunicarlo ed accordarsi con tutti i segretari dei partiti compreso il Pci, a quest’ultimo ha mostrato lo spettro di una inversione militare pilotata dagli americani. Così si sono garantiti l’assenso completo e il silenzio sulla tortura. Il Pci e il sindacato anche quando gli arresti li riguardavano da vicino, recitano con monotonia lo stesso ritornello: ribadiamo la nostra fermezza per la lotta contro il terrorismo. Sospensione cautelativa». (Potete trovare l’intero documento in Progetto memoria. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie pp. 166-170. Il passo citato è a pagina 169).

Dei ministri che parteciparono a quelle riunioni sono ancora in vita Virginio Rognoni e Renato Altissimo.

Numerosi casi di tortura affiorano nel corso del 1982. Le denuncie tuttavia restano limitate rispetto al fenomeno reale. I casi identificati si aggirano attorno ai 18-20. Le modalità spazio-temporali in cui questi eventi accadono lasciano trasparire chiaramente la non episodicità e la non occasionalità di queste pratiche. Uno specifico apparato di tortura era stato costituito con protocolli di arresto e interrogatori violenti ben rodati. Si tratta di pratiche che non si improvvisano ma che necessitano dei nullaosta da parte delle gerarchie e di una struttura predisposta oltre che di un addestramento predefinito.

Per apparato della tortura deve intendersi un sistema complesso di convergenza di alcuni poteri: Governo, ministri di riferimento come Interni, Giustizia e Difesa, organi di polizia (nel caso specifico Digos, Nocs e Ucigos) e infine il ruolo decisivo, di fiancheggiamento e copertura, fornito dalla magistratura.

Le tecniche messe in atto:
Waterboarding (annegamento simulato) con la specifica del sale
L’uso di scariche elettriche riprese dalla tradizionale gegène delle truppe francesi in Algeria
Sevizie di natura sessuale, con particolare accanimento sulle donne
Bruciature
Pestaggi
Tagliuzzamenti
Fucilazioni simulate
Sostanze chimiche (in alcuni casi… ma la circostanza non è stata accertata con sicurezza)
Tecniche classiche come quella di impedire il sonno e trattenere il prigioniero in posture dolorose

Le modalità d’arresto non seguono la prassi legale: incappucciamento al  momento della cattura (tant’è che spesso la popolazione crede di assistere a dei rapimenti. Gli arrestati vengono trattenuti per settimane o mesi nelle questure, caserme, sotterranei, oppure portati in luoghi sconosciuti, non ufficialmente adibiti a trattenere persone fermate).

Il ministero dell’Interno e le procure competenti non hanno mai avviato inchieste (salvo quella di Padova, caso Di Lenardo) per accertare i fatti.

Link
Torture contro i militanti della lotta armata

1982, la magistratura arresta i giornalisti che fanno parlare i testimoni delle torture

PierVittorio Buffa e Luca Villoresi, giornalisti dell’Espresso e di Repubblica, finiscono in carcere tra il febbraio e il marzo 1982  per aver ficcato il naso nella vicenda delle torture. Hanno indagato troppo, raccolto testimonianze inopportune, trovato scomodi riscontri. E’ questo un’altro aspetto dimenticato di questa storia: l’attacco alla libertà di stampa, il bavaglio messo sulla bocca di chiunque provava a denunciare quello che stava accadendo. Bisognerebbe tornare a leggere quello che scriveva Luciano Violante in quei giorni, sfogliare le pagine dell’Unità per conoscere le posizioni portate avanti dal fronte più oltranzista dell’emergenzialismo.
La scelta di ricorrere alle torture era stata avallata a livello centrale dal Cis, il comitato interministeriale per la sicurezza del governo: dal primo ministro Spadolini, al ministro dell’Interno Rognoni, al capo della polizia Coronas, a quello Dell’Ugigos De Francisci. Decisione messa in pratica dagli altri dirigenti centrali del ministero dell’Interno, come Improta, De Gregorio, Fioriolli, e poi “De Tormentis”, per arrivare agli operativi come Salvatore Genova. Una vera storia di questa vicenda dovrà prima o poi fissare l’esatto e completo organigramma delle torture.

Nell’intervista che segue PierVittorio Buffa ripercorre quei giorni. La sua inchiesta seguiva una pista che l’aveva portato a scoprire cosa accadeva nel distretto di polizia di Mestre. Ma nelle stesse ore si torturava anche a Padova, dove in una chiesa sconsacrata De Tormentis insieme alla sua squadra, i cinque dell’Ave Maria, metteva in pratica il suo trattamento.
Leggi speciali, corti di giustizia “specializzate”, giudici popolari avvicinati da partiti politici in accordo con i magistrati, come nel caso del processo di Torino al nucleo storico delle Br, torture, carceri speciali, sono i risvolti di quella particolare forma di stato di eccezione che ha affrontato la guerra, perché guerra è stata anche se opportunamente negata, eufemizzata, ad una compagine sociale che attarverso la lotta armata mirava ad innescare un processo rivoluzionario in Italia

di Valentina Perniciaro e Paolo Persichetti

Il 28 febbraio 1982, sulle pagine dell’Espresso esce un tuo articolo intitolato «Il rullo confessore», nel quale riporti le testimonianze di agenti della Polizia di Stato del distretto di Mestre sui casi di tortura avvenuti ai danni di persone arrestate durante le operazioni anti-terrorismo del mese precedente, nell’ambito delle indagini sul sequestro del generale Usa Dozier. Come sei arrivato ad ottenere queste testimonianze e cosa successe subito dopo?
Fu il direttore, Livio Zanetti,  ad affidarmi il servizio e così iniziai a cercare Franco Fedeli, il direttore di Nuova polizia, [giornale che all’epoca sosteneva la necessità di un rinnovamento democratico delle forze di polizia anche attraverso la sindacalizzazione del corpo, Ndr] che mi mise in contatto con un poliziotto del distretto di Mestre, Gianni Trifirò. Difficile dimenticare il nostro incontro: abbiamo preso un appuntamento clandestino, come succede nei film, alle sette e trenta del mattino. Fu lui a raccontarmi quello che aveva visto, tutto quello che poi scrissi nell’articolo. Cercando conferme nei giorni successivi parto per Venezia e arrivo a Riccardo Ambrosini, capitano di polizia alla caserma Santa Chiara di Mestre: lui mi conferma tutto e decido di scrivere.

E’ stata una scelta difficile?
Per me fu un momento molto complicato sul piano professionale e personale. Non mi era assolutamente facile denunciare polizia e carabinieri, anche perché sono figlio di un ufficiale dei carabinieri. L’alto problema che affrontai era quello di essere identificato come un fiancheggiatore. Passai una notte sveglio, poi decisi che non mi interessava: la polizia nel mio paese non deve fare queste cose e decisi che dovevo farlo.
Dovevo farlo perché era stato superato un limite: nella normale attività di polizia ci può essere una colluttazione, un cazzotto in più o un calcio nelle palle, diciamo che può malamente far parte delle regole del gioco. Ma in quell’occasione, e mi vengono ancora i brividi a raccontarlo, dalle testimonianze che avevo raccolto era accaduta una cosa fatta a freddo. La cosa mi diede una sensazione bruttissima e capii che non potevo tacere.

Infatti fu una scelta coraggiosa alla luce di quel che accadde subito dopo l’uscita dell’articolo…
L’articolo esce il 28 febbraio. Il 9 marzo mi chiama a deporre il sostituto procuratore di Venezia Cesare Albanello. Mi interroga e io gli confermo tutto quello che avevo scritto. Quando mi chiede chi mi aveva dato quelle informazioni ovviamente mi rifiuto di rispondere appellandomi al vincolo del segreto professionale e lui mi arresta.
Il giorno dopo Riccardo Ambrosini, Gianni Trifirò e il maresciallo Augusto Fabbri (segretario veneto del Siulp) vanno da Albanello e gli dicono di esser stati loro a parlare. L’11 marzo vengo tradotto in pretura, con tanto di schiavettoni ai polsi, assolto e immediatamente scarcerato. Dopo circa 15 giorni fu arrestato anche Luca Villoresi. Da lì poi partì un dibattito pubblico sul segreto professionale e ci fu il processo da parte di Violante…

Un giovane giornalista che finisce in schiavettoni dentro un carcere. Avevi mai pensato di poter correre un rischio del genere?
No, non mi sarei mai aspettato di finire in carcere e la cosa mi riempì di quelle paure intrise di luoghi comuni.

Come hai vissuto quei giorni da recluso?
Fui messo in una cella da solo e temevo il contatto con gli altri detenuti. Quando da dentro la cella sentii la notizia: “Arrestato il giornalista Buffa, rischia da 6 mesi a 3 anni”, malgrado sapessi dentro di me che non sarebbe durata più di qualche giorno e malgrado sapessi che forse sarebbe stata anche una cosa positiva per la mia immagine professionale, mi si ghiacciarono letteralmente le vene. Ebbi una sorta di attacco di panico. Il giorno dopo uscii all’aria e l’accoglienza dei detenuti mi rilassò e stupì allo stesso tempo: ero un giornalista che aveva raccontato torture compiute dalla polizia e non aveva parlato, quasi un eroe.

Quella esperienza cosa ti ha lasciato?
Quello che trovai lì dentro mi portò ad occuparmi del carcere per molti anni. Ho ho fatto La Grande promessa, il giornale degli ergastolani di Porto azzurro. Ero amico di Cavallero, Rovoletto, Bozzano e c’era anche 
Virgilio Floris, quello che era evaso a nuoto da Pianosa con Messina e poi arrestato a Bolzano un anno e mezzo dopo. D’altronde se ci si occupa del carcere è quasi sempre perché in qualche modo ci si è passati: il resto del mondo lo considera estraneo alla propria realtà.

Cosa accadde a Gianni Trifirò e Riccardo Ambrosini dopo la loro testimonianza?
Quelli erano i mesi della nascita del sindacato di Polizia e possiamo dire che nacque col piede sbagliato. Il sindacato non li appoggiò minimamente, anzi si pronunciò contro di loro. C’era chi ammetteva: “si è vero le torture sono sbagliate ma queste cose preferisco dirle tra qualche anno, nel futuro…”. Furono abbandonati e isolati. Ad Ambrosini bruciarono la porta di casa all’interno della caserma Santa Chiara mentre a Trifirò fecero una trappola dentro un nightclub con due ballerine. E questo perché erano poliziotti che non volevano vedere la polizia che ammazzava o che torturava: credevano nella loro divisa e non potevano accettare quei fatti.
La storia di Trifirò poi è particolare e voglio ricordarla: nel 1986 divenne sovrintendente e si fece assegnare proprio a Mestre. Durante un inseguimento con un ragazzo immigrato accadde un incidente: lo seguiva a piedi pistola alla mano e gli partì un colpo mentre correva. Quando si accorse che la pallottola aveva colpito il ragazzo, per di più uccidendolo, si sparò un colpo in testa. Fu agghiacciante.

Enrico Deaglio, in un articolo comparso su Lotta Continua dell’8 febbraio 1982, scriveva di voci sempre più insistenti sull’uso di nuovi metodi di tortura e l’introduzione di sostanze chimiche (il Penthotal, si diceva, per “far parlare”). Aggiungeva inoltre che in una serie di riunioni governative del Cis (Comitato interministeriale per la sicurezza), avvenute tra l’11 e il 13 gennaio precedente, era stata decisa l’introduzione di nuove misure d’emergenza contro il terrorismo. Tra queste, il ricorso alle torture. In base alle testimonianze che hai sentito, credi che in quelle giornate si sia deciso di costituire una struttura predisposta alla tortura?
Questo non lo so e non posso dirlo. Certo la sensazione che non fosse un caso episodico, isolato fu netta. E che alcuni capi avessero deciso l’uso di metodi non ortodossi mi sembra sia diventata una certezza storica. Che poi questo sia stato pianificato sino al punto di costituire un’apposita struttura, nel 1982 non emerse.

L’articolo sulle torture che portò in carcere PierVittorio Buffa

Il rullo confessore

Pier Vittorio Buffa
L’Espresso 28 febbraio 1982

“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ‘spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.]. 
Quest’ultimo piano era infatti diventato – secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo – il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona. 
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto (molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio. 
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri. Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
 Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le minacce di morte (”Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani). 
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro (Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
 Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo. 
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]

NOTA INFORMATIVA – A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]

SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982
, “Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
 giornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante gli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche, esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
 Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
 Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.

NOTA INFORMATIVA- L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”
Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè “la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale”. 
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): “Non ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […] 
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche”.

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Torture contro i militanti della lotta armata
Novembre 1982: Sandro Padula torturato con lo stesso modus operandi della squadretta diretta da “de tormentis”
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Caro professor De Tormentis, Enrico Triaca che hai torturato nel 1978 ti manda a dire
Le torture ai militanti Br arrivano in parlamento
“De Tormentis” è venuto il momento di farsi avanti