Il pene della Repubblica, il sequestro Dozier e altre storie 

Ancora un articolo di Pino Narducci (il precedente lo potete leggere qui), magistrato e ricercatore, sull’impiego della tortura nell’azione di contrasto ai gruppi armati dell’estrema sinistra nei primissimi anni 80, ospitato sulla rivista di Magistratura democratica. Ho già scritto molto anche se non a sufficienza su questo tema (su questo blog potrete trovare molto materiale). Aggiungo solo una cosa prima di lasciarvi alla lettura di questo articolo: Cesare Di Lenardo, una delle persone di cui si parla in questo testo, miltante delle Brigate rosse arrestato nel blitz che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, selvaggiamente torturato (la foto qui sotto è presa dalla perizia medica che venne svolta durante le indagini), è ancora in carcere nonostante i 43 anni trascorsi.

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

«Dovevamo arrestarci l’un con l’altro», www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024

Nell’appartamento veronese entrano in quattro, travestiti da idraulici. Tengono la donna sotto il tiro di una pistola, la immobilizzano ed escono con l’ostaggio nascosto in un baule, caricandolo su un pulmino che è rimasto in attesa in strada. Poi, via, di gran corsa, verso Padova dove è stata allestita la base in cui il prigioniero resterà per più di 40 giorni[1].

È il 17 dicembre 1981 e, con il sequestro di James Lee Dozier, generale statunitense NATO[2], le Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente realizzano l’azione più spettacolare di una storia iniziata appena pochi mesi prima, dopo la cattura di Mario Moretti[3].

Durante la fase del rapimento uno dei sequestratori parlava uno “slang” americano, così scrivono i giornali dell’epoca, e quindi, lo scenario è quello di una operazione in cui gli attori non possono essere soltanto i brigatisti italiani. Anzi, la foto del sequestrato diffusa dalle BR-PCC è un fotomontaggio e questo vuol dire che Dozier già si trova all’estero, forse dopo aver viaggiato su uno dei tanti TIR che vanno e vengono dall’Austria. I cronisti sono pronti a scommettere che il rapimento è opera di una centrale europea del terrorismo che comprende le BR, la RAF tedesca, l’ETA basca e l’IRA, organizzazioni che si sono incontrate in riunioni sul lago di Garda e in Svizzera. Insomma, un turbinio di improbabili ipotesi e di vere e proprie bufale.

È vero invece che, a Roma, arrivano alcuni agenti CIA e che il Ministero dell’Interno, guidato dal democristiano Virginio Rognoni, seleziona il nucleo di funzionari che dovrà coordinare le indagini nel Veneto: Umberto Improta, Oscar Fioriolli, Salvatore Genova e Luciano De Gregori. 

Nella Questura di Verona, Gaspare De Francisci, il capo dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), convoca la squadra messa in piedi dal Viminale. L’Italia non può perdere la faccia e, quindi, secondo ordini che vengono dall’alto, per trovare Dozier si potrà usare qualsiasi mezzo, anche le maniere forti. Nessun timore, rassicura De Francisci, perché, se qualcuno resterà invischiato in una storia di violenza, godrà di una sicura copertura, politica ed istituzionale.

Finalmente può partire la caccia ai rapitori del generale e, questa volta, è consentito ogni metodo per estorcere informazioni.

Il giorno dopo arriva a Verona il funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia (il professor De Tormentis secondo la definizione che gli è stata affibbiata da Improta), lo specialista, con la sua squadra dei “cinque dell’Ave Maria”, delle sevizie che servono a far parlare. Ha già torturato, nel maggio ’78, Enrico Triaca, il tipografo brigatista di via Pio Foà a Roma[4] e questa volta, finalmente, può agire senza adottare particolari precauzioni perché la sorte di coloro che saranno arrestati, veri o presunti brigatisti che siano, è stata decisa dall’alto: se non parlano subito, magari dopo schiaffi e pugni, saranno torturati.

Ciocia resta in Veneto solo qualche giorno. Poi corre a Roma dove sono stati arrestati, il 3 gennaio ’82, Stefano Petrella ed Ennio Di Rocco, membri delle BR-Partito Guerriglia, per fare loro quello che ha già fatto a Triaca.

Dozier è tenuto al sicuro in un appartamento, in via Ippolito Pindemonte, all’interno del quale è stata collocata una tenda in cui vive il prigioniero. 

Ma gli uomini del Viminale non hanno alcuna idea del luogo in cui possa trovarsi né della identità dei brigatisti. E le centinaia di telefoni messi sotto controllo non possono certo condurre alla prigione del generale. Non resta che prelevare le persone, interrogarle e, soprattutto, affidarsi, come già faceva l’inquisizione, alle sedute di tortura.

Alla fine di gennaio accade a Nazareno Mantovani che viene interrogato e picchiato per prepararlo alla vera e propria seduta di tortura che è affidata a Ciocia ed alla sua squadra. I poliziotti hanno un luogo appartato per infliggere tormenti. È un villino che è stato preso in affitto dalla questura veronese. Mantovani ci arriva bendato. Ciocia ed i suoi uomini “trattano” Mantovani con acqua e il sale, ma esagerano, tanto che De Francisci interrompe la seduta dopo lo svenimento del prigioniero. 

Paolo Galati mette i poliziotti sulle tracce di una militante. Oscar Fioriolli dirige la perquisizione a casa di Elisabetta Arcangeli senza sapere che dentro ci troverà anche Ruggero Volinia, nome di battaglia “Federico”. È lui che ha guidato il pulmino con dentro Dozier da Verona a Padova.

Separati da un muro, Volinia e Arcangeli si trovano all’ultimo piano della Questura veronese. Ciascuno può sentire l’altro mentre Fioriolli li interroga ed Improta segue la scena. La brigatista, nuda, è legata mentre i poliziotti le tirano i capezzoli con una pinza e le infilano un manganello nella vagina. Dall’altra parte del muro, percuotono Volinia. Lo caricano su una macchina, lo conducono in una chiesa sconsacrata e, sottoposto ad acqua e sale dal gruppo di Ciocia, rivela il luogo in cui si trova Dozier[5].

Il 28 gennaio 1982, verso le 11:00, sette uomini del NOCS (Nucleo Operativo Centrale Sicurezza), le “teste di cuoio” della Polizia italiana, irrompono nell’appartamento di via Pindemonte. Senza difficoltà, immobilizzano i carcerieri di Dozier: Antonio Savasta, Giovanni Ciucci, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella ed Emilia Libéra. 

I brigatisti vengono messi pancia a terra sul pianerottolo mentre arrivano Genova ed Improta. Sono bendati ed hanno le mani legate dietro la schiena. Rifiutano di rivelare la propria identità ed i nomi di battaglia ed allora giù calci e botte. Qualche poliziotto ritiene sia ancor più efficace camminare sopra i loro corpi. 

Alle due militanti («Sei una mignotta?» urlano i polizotti, «No!», ed allora giù calci e pugni) va ancor peggio. Abbassano la gonna ed i collant di Libéra e Frascella, sferrano calci sul pube e sul sedere, alzano la maglietta delle due donne e tirano i capezzoli del seno.

Su quel pianerottolo gli arrestati restano una infinità di tempo (sicuramente, dietro le porte dei vari piani del grande edificio, tanti ascoltano quello che sta accadendo, ma nessuno ha il coraggio di mettere la testa fuori). Poi, gli agenti NOCS portano i brigatisti nella palazzina del II reparto celere di Padova.

Il senso di impunità è talmente smisurato che il comandante del reparto scrive un ordine di servizio e non esita a mettere nero su bianco le disposizioni che dovranno essere seguite per custodire i sequestratori di Dozier, un documento che prova, prima ancora di qualsiasi testimonianza, quali metodi illegali saranno usati contro gli arrestati.

I cinque detenuti dovranno «essere costantemente legati e bendati», dovranno essere usati tutti gli accorgimenti per «non far avere loro la percezione del luogo in cui si trovano», il personale «non dovrà assolutamente rivolgere loro parola o rispondere a loro domande, tantomeno pronunciare nomi, luoghi e gradi che possano dar luogo ad eventuali identificazioni», i detenuti potranno «essere accompagnati eccezionalmente» in bagno, «non dovrà essere esaudita nessun’altra richiesta se non previa superiore opportuna autorizzazione» e «si dovrà accertare da parte del personale preposto che i legacci e i bendaggi siano sempre ben messi». 

L’estensore del piccolo manuale di istruzioni per annichilire e spezzare il detenuto non dimentica di raccomandare che «il servizio ovviamente riveste natura di massima riservatezza»[6]

La giornata del 28 gennaio è frenetica e la tortura inizia a produrre i suoi risultati. 

«Quando sei entrata nelle BR? Chi ha partecipato al sequestro? Chi è Sara?». Frascella non risponde alle domande, così chi la interroga le alza la gonna, le cala le mutande e le strappa i peli del pube. La brigatista inizia a cedere e fornisce qualche informazione. 

Escono i “cattivi” e nella stanza entrano i “buoni”. «Dai collabora, ti conviene», continuano a ripeterle. Tornano i “cattivi” e riprendono a strapparle i peli del pube ed a stringergli i capezzoli. La fanno appoggiare a un tavolo e le dicono che le infileranno una gamba della sedia nella vagina. Frascella cede e parla di “Federico”. Bendata e legata su una sedia, la militante non può dormire perché appena si appisola qualcuno corre a svegliarla. È notte fonda quando tornano i “buoni” e Frascella, che ha sentito chiaramente le grida di Savasta e Di Lenardo, vuota il sacco. 

In un’altra stanza, Emilia Libéra è costretta a restare in ginocchio, sul pavimento, per alcune ore. Un “premuroso” poliziotto che la sorveglia le dice che i suoi colleghi, nella stanza accanto, stanno violentando la Frascella. Poi, bendata, viene messa su una sedia. Arriva il “cattivo” e le chiede dove possono trovare Sara, il nome di battaglia di Barbara Balzerani. 

Libéra non apre bocca e allora giù pugni e schiaffi, capezzoli schiacciati e calci sul pube. Le tolgono pantaloni e mutande e la fanno chinare su un tavolo. Il “cattivo” annuncia che le metterà un bastone nella vagina e, aggiunge, lei deve crederci perché lui ha già “trattato” Di Rocco e Petrella. Libéra sa che con i due brigatisti hanno usato l’acqua e il sale e teme che, da un momento all’altro, tocchi a lei la stessa sorte.

Anche Savasta, bendato e legato su una sedia, viene colpito su tutto il corpo ed i seviziatori si divertono a spegnergli sigarette sulle mani. Sente le grida di Libéra e Frascella, ma non la voce di Ciucci che, dicono i poliziotti, è già morto. Poi arrivano i «giustizieri» (così si presentano a Savasta) che puntano la pistola alla tempia del brigatista e minacciano di ucciderlo. Savasta cerca di fermarli: «Io sto già parlando». Ma a loro non interessa, sono giustizieri[7].

I “cattivi” vanno via ed i “buoni” lo portano in un’altra stanza e, dopo avergli chiesto se vuole nominare un avvocato, gli fanno firmare un verbale.

Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci (lui è veramente malridotto perché non riesce a camminare e gira seduto su una sedia da ufficio) vengono messi insieme in una stanza. Discutono e decidono tutti insieme di saltare il fosso e collaborare.  

E così, già quella notte, forniscono le prime informazioni. Quelle di Savasta sono molto importanti perché lui conosce la base di via Verga, a Milano, dove più volte si è riunita la Direzione strategica. 

Di Lenardo non cede ed è l’unico che non si piega alla tortura. Non si può dire che con lui non siano stati chiari: «Nessuno sa del tuo arresto, sei solo un sequestrato e possiamo fare di te quello che vogliamo». Ma il brigatista si ostina a non parlare, si dichiara prigioniero politico ed allora occorre ricorrere a tormenti più sofisticati. 

I poliziotti si danno il cambio per colpirlo sulla pianta dei piedi, ma non disdegnano di sbattergli la testa contro il muro. Lo fanno distendere per terra, nudo, per ricevere scariche elettriche sul pene e sui testicoli, mentre altri gli danno calci ai fianchi e gli comprimono la testa. Poi pugni e schiaffi al volto, colpi sul naso, compressione delle pupille, schiacciamento della testa con i piedi, bruciatura delle mani, tagli al polpaccio. Con i calci, gli rompono il timpano dell’orecchio sinistro. 

A Di Lenardo non viene risparmiato nulla, ma, se i suoi compagni, nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, già firmano i verbali di dichiarazioni spontanee, il brigatista è irremovibile. Ed allora bisogna fare in fretta perché tra qualche ora si presenterà in caserma il sostituto procuratore veronese per gli interrogatori. I poliziotti sono delusi. Nella base milanese di via Verga, quella indicata da Savasta, non hanno trovato nessuno. Forse, Di Lenardo può fornire altre notizie. Magari, può far arrestare la Balzerani. «Di Lenardo deve parlare». 

Gli tolgono le manette dai polsi e le mettono ai piedi, gli legano le mani con pezzi di stoffa, gli stringono la benda sugli occhi, chiudono la bocca con un’altra benda e lo mettono nel bagagliaio di un’auto si mette in movimento seguita da un altro veicolo. Dopo un giro di mezz’ora le auto si fermano e due poliziotti trascinano il brigatista tenendolo per le ascelle. Di Lenardo comprende che si trova su un prato, sicuramente in una una campagna nei dintorni di Padova. 

Lo fanno inginocchiare e lo pestano. Solito copione: il “cattivo” arrabbiato si alterna al “buono” che modera gli eccessi. Poi una voce, più forte delle altre: «Adesso ti spariamo». Parte un colpo di pistola. Non è morto!!! Nemmeno la finta esecuzione (el simulacro de fusilamiento, tanto in voga in America latina) fa crollare il detenuto[8]

Di nuovo botte. Lo riportano in caserma. Nudo, steso su un tavolo con la testa penzoloni, braccia e gambe legate. Gli riempiono la bocca di sale, gli tappano il naso e giù acqua in grande quantità. Una pausa e poi si riprende. Altra pausa e si riprende. Di Lenardo non respira, sta soffocando, il corpo trema, grida. Si fermano. Mentre viene torturato il brigatista sente qualcuno dire «Genova». Pensa a un poliziotto, ad uno di quelli che, nei giorni precedenti, gli hanno parlato delle operazioni anti BR che hanno fatto nel capoluogo ligure. Si sbaglia. Alcuni giorni dopo, un funzionario cerca di convincerlo a collaborare. Entra nella stanza un poliziotto e dice «dottor Genova, al telefono». Di Lenardo allora comprende: nella stanza, mentre veniva torturato, c’era il commissario Salvatore Genova[9].

I brigatisti non vengono portati in carcere ed il sostituto procuratore veronese li interroga, il 1° e il 2 febbraio, negli uffici della celere. Savasta riempie pagine e pagine di verbale. Così fanno anche Libéra, Ciucci e Frascella. Buon ultimo, nel pomeriggio del 2 febbraio, Cesare Di Lenardo si siede davanti al magistrato. Lui non ha nulla da dire, vuole solo denunciare le sevizie che ha subito. Lo farà di nuovo, il 28 febbraio, con un dettagliato memoriale spedito alla Procura ed al Presidente del Tribunale di Verona.  

Il sistema generalizzato delle violenze sugli arrestati per fatti di terrorismo è cresciuto così a dismisura che, proprio nel febbraio-marzo ’82, diventa incontrollabile e non è più possibile tenerlo segreto.

Pier Vittorio Buffa, de “L’Espresso”, e Luca Villoresi, di “La Repubblica”, pubblicano due articoli grazie a notizie fornite da fonti interne alla Polizia che non vogliono assecondare la linea oltranzista dettata dal Viminale. Le pratiche della tortura sono diffuse e vanno oltre i confini delle province di Padova e Verona. A Mestre, nel II distretto di Polizia, hanno usato gli stessi mezzi. La stessa cosa è avvenuta anche a Roma e Viterbo. A Villoresi, un anonimo investigatore veneto sostanzialmente ammette che la tortura, in alcuni casi, è stata usata e rivendica il risultato di aver «ripulito il Veneto»[10].  

Si moltiplicano le denunce, ma Virginio Rognoni risponde seccamente: «…sulle pretese violenze cui sarebbero stati sottoposti i terroristi recentemente arrestati a Padova e nel Veneto posso dire che sono totalmente false».

Al Ministro dell’Interno risponde anche Magistratura Democratica, l’unico gruppo di giudici che affronta, senza reticenze, il tema dei metodi con i quali viene praticato il contrasto al terrorismo. MD giudica «non sufficienti e definitive le risposte date dal governo», vede distintamente «il pericolo di cedimenti e tolleranze per simili degenerazioni», chiede di «rispettare i termini di legge per presentare l’arrestato al magistrato» e sollecita i magistrati a «fare indagini ed accertamenti medico-legali sulle violenze denunciate». 

Intanto, il processo veronese al gruppo dirigente e ai militanti delle BR-PCC va avanti senza particolari sussulti. Sfilano davanti ai giudici tutti i brigatisti che hanno fatto la scelta di collaborare ed i funzionari di Polizia che li hanno arrestati. Quando arriva il suo turno, Umberto Improta racconta che Ruggero Volinia “Federico”, appena arrestato, subito ha detto di voler collaborare, ha condotto i poliziotti ad un covo a Mestre e poi ha fornito tutte le informazioni sul covo di via Pindemonte. E giunti qui, continua Improta, l’inarrestabile onda del pentitismo ha prodotto altri risultati. Pensate che, aggiunge il funzionario UCIGOS, terminata l’irruzione alle 11:20, Antonio Savasta, appena 15 minuti dopo, già esclamava: «Vi dirò tutto!».

Le uniche voci dissonanti sono quelle di Cesare Di Lenardo e di Alberta Biliato che, presentandosi come prigioniera politica, sostiene che le dichiarazioni che lei ha fatto al magistrato, dopo l’arresto a Treviso, sono solo il frutto delle torture che ha subito.  

Poi un colpo di scena, l’unico del processo. Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci – che sino a quel momento hanno fatto ogni sorta di rivelazione, ma nulla hanno detto sulle violenze – consegnano un memoriale al Tribunale. Non fanno marcia indietro rispetto alla scelta del “pentimento”, ma assicurano di non aver avuto favori perché «il trattamento riservatoci dopo l’arresto è stato per noi tutti identico a quello che altri compagni hanno denunciato». E proseguono: «Quattro lunghissimi giorni che non ti fanno restare dentro neanche la dignità di disprezzare chi ti ha torturato, che hanno un fine ben più ambizioso delle informazioni immediatamente estorte, poiché perseguono l’annientamento della tua identità politica». Così, mentre il processo veronese si avvia alle batture finali, per la prima volta anche i brigatisti “pentiti” denunciano le torture[11].   

A Giovanni Palombarini, segretario di Magistratura democratica, che sostiene che la risposta di Rognoni «non è certo stata tranquillizzante ed esaustiva, non dissipa i sospetti, né quieta le voci»[12], ed ai tanti che denunciano la barbarie che si sta consumando sembra quasi indirettamente rispondere il sostituto procuratore che, al termine del processo veronese ai brigatisti, durante la requisitoria, rivolge «un grazie motivato alla polizia che ha lavorato nella più stretta legalità» perché «..mai ho ricevuto lamentele, non dico denunce, di comportamenti scorretti, non dico di abusi…» sino alla scoperta del covo padovano a cui si è arrivati nella “più piena legalità”, grazie esclusivamente alle «indagini sagaci della polizia giudiziaria».

Proprio mentre il magistrato pronuncia queste parole alla Camera dei deputati si svolge un dibattito dai contenuti molto meno rassicuranti. Il Ministro dell’Interno, per la seconda volta, risponde alle tante interrogazioni sul tema delle violenze. I parlamentari citano decine casi accaduti in tutta Italia, ma, soprattutto, le denunce delineano i profili di un sistema diffuso che ha travolto le regole dello stato di diritto ed ha generato una involuzione autoritaria e repressiva[13].  

E’ il sistema nel quale maturano le torture: diventa prassi comune mettere un cappuccio all’arrestato oppure bendarlo; gli interrogatori dei sospettati avvengono in luoghi diversi dagli uffici delle forze di polizia per creare un effetto di “disorientamento”; i familiari, per giorni, ignorano la sorte della persona fermata ed invano, al pari degli avvocati, la cercano nelle carceri; si esercitano pressioni indebite sulle famiglie affinché convincano gli arrestati a collaborare; ai detenuti si chiede, insistentemente, di rinunciare a nominare un difensore di fiducia e di affidarsi al difensore di ufficio; gli arrestati non vengono portati in carcere, ma sono trattenuti presso commissariati, questure, caserme; gli interrogatori del pubblico ministero avvengono molto oltre i termini stabiliti dalla legge, in alcuni casi anche 9/10 giorni dopo l’arresto; vengono denunciati anche casi di illegale “patteggiamento” nei quali si chiede all’interrogato di non denunciare le violenze subite in cambio di favori che riceverà.

Ma il governo non fa nessuna apertura e Virginio Rognoni, anzi, alza il tiro e sostiene che i terroristi, non riuscendo ad arginare il fenomeno dilagante del pentitismo, hanno messo in piedi una vera e propria campagna diffamatoria per colpire la credibilità delle forze di polizia.

I poliziotti democratici di Venezia organizzati nel SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) intervengono a gamba tesa nella polemica politica e, con un comunicato diffuso il 10 marzo ’82, sostengono, sulle violenze, che «tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese».  

Anche le Brigate Rosse fanno i conti con un fenomeno, inedito per dimensioni e radicalità, che sta sconvolgendo la vita della organizzazione. Il 18 marzo 1982 diffondono un lunghissimo comunicato nel quale lanciano la parola d’ordine della «ritirata strategica» sviluppando una articolata analisi della pratica della tortura («la tortura misura un nuovo livello di scontro») e degli effetti che sta producendo.  

Il gruppo di Magistratura Democratica nel Consiglio Superiore della Magistratura chiede che l’organo di autogoverno dei giudici metta all’ordine del giorno del plenum la discussione su quella che si sta profilando come una vera e propria emergenza democratica[14]

Il magistrato inquirente di Verona trasmette gli atti alla procura padovana, competente per le violenze accadute in via Pindemonte e nella caserma della celere. 

Vittorio Borraccetti, sostituto procuratore padovano, ascolta tutti i brigatisti, scova testimoni anche tra i poliziotti e, attraverso altri accertamenti medici, dimostra che le violenze non sono una invenzione.   

Nel giugno ’82, il giudice istruttore Mario Fabiani firma i mandati di cattura contro alcuni tra i responsabili di quei fatti, tra i quali Salvatore Genova, vicedirigente la Digos genovese. Le accuse sono di concorso in sequestro di persona, violenza privata e lesioni personali.

Scatta istantanea la solidarietà agli arrestati e monta la rabbia contro i magistrati.

Virginio Rognoni esprime «perplessità ed amarezza» per i provvedimenti, mentre il Questore di Genova telegrafa al Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, manifestando fiducia nella condotta tenuta del commissario arrestato. Nei locali della Questura di Roma si tiene una assemblea permanente dei poliziotti che non escludono di organizzare altre clamorose iniziative. «Se volevano portarci all’esasperazione, ci sono riusciti…nemmeno ad alcuni accusati per banda armata è stato riservato lo stesso trattamento», tuona un anonimo dirigente UCIGOS al giornalista de “l’Unità” che lo avvicina.

Il 5 luglio ’83, in un clima apertamente ostile ai magistrati, si apre il processo padovano mentre un gruppo di poliziotti, solidali con i colleghi imputati, presidia l’ingresso del Tribunale. Salvatore Genova non può essere giudicato perché è stato appena eletto, nella fila del PSDI, nelle elezioni politiche generali del 26 giugno ed occorre attendere l’autorizzazione a procedere della Camera dei deputati che, tre anni più tardi, nel 1986, rifiuta di concederla. Nella udienza dell’8 giugno, il Capitano Lucio De Santis viene arrestato in aula per falsa testimonianza e condannato. Depongono tutti i brigatisti che descrivono le violenze patite, i medici che hanno osservato i segni lasciati dalle torture e i testimoni che confermano l’utilizzo di metodi illegali. 

Un quadro impressionante, alternativo a quello offerto dal testimone Umberto Improta che, in udienza, racconta una storia diversa, cioè di come nacque, nella palazzina della celere, un rapporto cameratesco tra poliziotti carcerieri e brigatisti carcerati: «…il rapporto tra personale UCIGOS, i NOCS e gli arrestati era un rapporto ottimo, di piena collaborazione, addirittura affettuoso…»[15].

Ma i giudici non credono ai poliziotti ed ai funzionari dell’UCIGOS e il 15 luglio 1983, il Presidente del collegio, Francesco Aliprandi, legge il dispositivo della sentenza con la quale gli imputati vengono condannati per il reato di abuso di autorità contro arrestati[16]

I brigatisti e i militanti di altre formazioni picchiati e torturati, durante e dopo il sequestro Dozier, furono moltissimi e, dissoltosi il fumo della retorica che accompagna il plauso ed i riconoscimenti ai liberatori del generale statunitense, emergono i fatti crudi di una operazione nella quale si consumarono violenze che servirono a carpire informazioni senza le quali, come ha francamente riconosciuto Salvatore Genova, quel risultato non sarebbe mai stato raggiunto. Anzi, molte di queste violenze, in realtà, non sortirono nemmeno questo effetto visto che tanti episodi avvennero quando Dozier era già libero e rappresentarono, così, una delle cause scatenanti la scelta di collaborazione assunta dai brigatisti mentre erano in balia dei torturatori. 

Quella padovana è l’unica sentenza degli anni ‘80 che riconosce la responsabilità di pubblici ufficiali per fatti di violenza commessi contro arrestati per vicende di terrorismo. Le decine di denunce fatte da altri inquisiti non producono altro che archiviazioni perché sono ignoti gli autori delle violenze[17].

Tra il 2007 e il 2012, il commissario Salvatore “Rino” Genova decide di raccontare ai giornalisti Matteo Indice e Pier Vittorio Buffa cosa è realmente accaduto durante la stagione di lotta al terrorismo. Descrive le torture, confessa il suo ruolo e quello dei suoi colleghi (De Francisci, Improta, Fioriolli, Ciocia) nell’uso dei metodi illegali e conferma che furono i vertici del Viminale ad impartire la linea della tortura[18]. A Buffa, laconicamente dice: «…Non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Questo dovevamo fare…»[19].

Le parole del commissario non scatenano la reazione veemente dei vertici istituzionali. Certo, quelli tirati direttamente in causa replicano che si tratta di fantasie, ma anche nel fronte di quelli che sostengono che mai ci furono violenze sui brigatisti si aprono alcune crepe, con ammissioni, a volte, sorprendenti. È il caso di Giordano Fainelli, ex ispettore capo della Digos veronese, che sostiene che, in realtà, Ruggero Volinia trattò la sua confessione in cambio della immunità per Elisabetta Arcangeli e di una sostanziosa somma di denaro, superiore a quella consegnata a Paolo Galati che parlò dopo aver ricevuto circa 40 milioni e la promessa di un trattamento favorevole per il fratello Michele, brigatista che già si trovava in carcere[20].

Ma Fainelli, che nega che Volinia sia stato torturato, ammette poi che la notte del 26 gennaio ’82, insieme ad Umberto Improta e altri colleghi, condusse Ruggero Volinia in un villino in un residence in cui c’era anche Nicola Ciocia. Non assistette a torture, ma non esclude che «l’euforia collettiva portò qualcuno ad andare oltre le righe»[21].      

A queste vicende fa riferimento Giuliano Amato intervenendo, a sorpresa, sul tema. E non usa un linguaggio paludato: la classe politica «aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità…quando non extralegali…vi fu il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti che, nel caso dei primi, sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura». La magistratura non è senza colpe perché «se pochissimi magistrati seppero del water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati, diverso è il caso dei trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni Ottanta»[22].  

Nemmeno le inusuali rivelazioni di Giuliano Amato sgretolano il muro del silenzio eretto 40 anni fa. Tace la classe politica della prima Repubblica, tacciono i vertici del Viminale e della Polizia di stato, resta silenziosa la magistratura non meno dei giornalisti che quelle inchieste seguirono, celebrando i fasti di uno Stato democratico che prevaleva sulle formazioni eversive sempre rispettando le regole del diritto.

Insomma, un’Italia reticente (reticente proprio nel senso strettamente giuridico «di chi tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti») che non ha ancora trovato il coraggio di discutere, senza infingimenti, dei metodi che vennero impiegati per sconfiggere le organizzazioni della lotta armata, anche di quelli usati durante le indagini in cui raffinati investigatori «cercavano Dozier dentro la vagina di una brigatista».     

[1] Il nucleo che, con vari ruoli, sequestrò e trasportò Dozier a Padova era composto da Antonio Savasta, Pietro Vanzi, Marcello Capuano, Cesare Di Lenardo, Emilia Libéra e Alberta Biliato. Una avvincente ricostruzione della vicenda Dozier e delle torture inflitte nella fase della investigazione è contenuta nella docu-serie Sky Original Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, 2022. 

[2] Dozier, al momento del sequestro, era sottocapo di stato maggiore addetto al Comando delle forze terrestri NATO nell’Europa meridionale.

[3] Alla fine del 1980, nella organizzazione BR matura la rottura definitiva con la colonna milanese “Walter Alasia” che viene espulsa nel dicembre di quell’anno. Mario Moretti viene arrestato a Milano il 4 aprile 1981. Nello stesso anno, il Fronte carceri e la colonna napoletana danno vita alle BR-Partito Guerriglia, organizzazione che fa capo a Giovanni Senzani. Infine, nell’autunno 1981, si costituiscono le BR-Partito Comunista Combattente, fortemente radicate nella colonna romana, in quella genovese ed in quella veneta (la colonna Annamaria Ludmann-Cecilia) che realizza il sequestro Dozier. 

[4] Enrico Triaca è il protagonista del documentario di Stefano Pasetto Il Tipografo, 2022, vincitore del premio quale miglior lungometraggio all’8° Festival internazionale del documentario Visioni dal Mondo. Sulla vicenda Triaca, vedi dell’autore I tormenti e la calunnia” pubblicato su www.questionegiustizia.it, 12 luglio 2023.

[5] La dettagliata descrizione delle torture inflitte a Nazareno Mantovani, Ruggero Volinia ed Elisabetta Arcangeli è contenuta nella testimonianza resa da Salvatore Genova al giornalista Pier Vittorio Buffa e ad altri organi di informazione. 

[6] L’ordine di servizio del comandante del II reparto celere disciplinava esso stesso una forma di tortura sui prigionieri o, quantomeno, una pratica di trattamento inumano e degradante: bendati, legati, tenuti costantemente al buio e senza avere la possibilità, per diversi giorni, di avere la percezione del luogo in cui si trovavano e della identità di coloro che li interrogavano, i brigatisti furono sottoposti alla “deprivazione sensoriale”. Inoltre, nel processo padovano, venne provato che i poliziotti usarono costantemente anche il metodo della privazione del sonno. A questi mezzi aveva fatto ampio ricorso l’esercito inglese in Irlanda, nei primi anni ’70, contro i detenuti appartenenti all’IRA (Irish Republican Army). Già bollato dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo come pratica di tortura, in seguito la Corte europea dei diritti dell’uomo sostenne che il metodo della “deprivazione sensoriale” costituiva una pratica di trattamento inumano e degradante. 

[7] Quasi certamente si tratta dello stesso gruppo di poliziotti della celere padovana che, secondo le successive rivelazioni di Salvatore Genova, si autodefiniva “Guerrieri della notte”. 

[8] Intervistati per la docu-serie Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, gli ex poliziotti Danilo Amore e Carmelo Di Janni hanno riconosciuto che il racconto di Cesare Di Lenardo sulla finta fucilazione era vero. 

[9] I racconti di Savasta, Di Lenardo, Frascella, Libéra sulle violenze subite sono riportati, integralmente, nella sentenza del Tribunale di Padova del 15 luglio 1983. 

[10] L’articolo di Pier Vittorio Buffa dal titolo Il rullo confessore venne pubblicato su L’Espresso del 28 febbraio 1982. Quello di Luca Villoresi intitolato Ma le torture ci sono state? comparve sull’edizione di La Repubblica del 18 marzo 1982. I due giornalisti vennero arrestati per ordine della magistratura veneziana perché rifiutarono di rivelare l’identità delle loro fonti. L’articolo di Buffa contiene anche una elencazione di altre vicende di violenza su arrestati per fatti di terrorismo: Massimiliano Corsi, Stefano Petrella, Ennio Di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai e Gianfranco Fornoni. 

[11] I giudici veronesi, con la sentenza emessa il 25 marzo 1982, condannarono gli ideatori ed esecutori del sequestro Dozier: Francesco Lo Bianco, Barbara Balzerani, Umberto Catabiani, Vittorio Antonini, Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marcello Capuano, Pietro Vanzi, Cesare Di Lenardo, Alberta Biliato, Ruggero Volinia, Antonio Savasta, Emilia Libéra, Giovanni Ciucci, Emanuela Frascella, Armando Lanza e Roberto Zanca. 

[12] Intervista di Giovanni Palombarini a Il Manifesto dell’11 marzo 1982. 

[13] Nella seduta del 22 marzo 1982 della Camera dei deputati, diversi parlamentari fecero riferimento ad una miriade di fatti di violenza praticati su arrestati e detenuti. I casi citati, oltre ovviamente quelli veneti, riguardavano gli arresti di Pietro Mutti, Anna Rita Marino, Giuseppe De Biase, Gianni Tonello, Giorgio Benfenati e Paola Maturi.

[14] La richiesta venne rivolta al Vicepresidente Giancarlo De Carolis da Salvatore Senese, Franco Ippolito ed Edmondo Bruti Liberati, rappresentanti di Magistratura Democratica nel CSM. 

[15] Sulle testimonianze di De Francisci e Improta, i giudici padovani scrissero: «con le loro risposte evasive e con il loro comportamento omissivo circa l’obbligo di indagare…hanno dimostrato il loro preciso intento di difendere gli imputati e il loro operato».

[16] La sentenza del Tribunale di Padova, Pres. Aliprandi, emessa il 15 luglio 1983, è pubblicata su Il Foro Italiano, maggio 1984, vol. 107, No. 5, con commento di Domenico Pulitanò. La condanna venne inflitta agli agenti NOCS Danilo Amore, Carmelo Di Janni, Fabio Laurenzi e al tenente del II reparto celere Giancarlo Aralla solo per l’episodio del trasporto illegale in campagna e della finta fucilazione del brigatista Di Lenardo. Inoltre, Amore venne riconosciuto responsabile anche di violenza privata contro Emilia Libéra. L’amnistia promulgata nel 1990 cancellò la condanna.

[17] Nel 2013, i giudici della Corte di Appello di Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della sentenza irrevocabile di condanna per il reato di calunnia, hanno riconosciuto che, nel 1978, Enrico Triaca venne torturato. 

[18] Secondo il ricercatore Paolo Persichetti («8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura» in Insorgenze, 30 marzo 2012) il governo diede il via libera all’uso della tortura nel corso di una riservatissima seduta del Comitato Interministeriale per l’informazione e la sicurezza (CIIS) a cui parteciparono il Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, ed i ministri Rognoni, Lagorio, Marchiora, La Malfa, Di Giesi e Altissimo. 

[19] L’articolo del giornalista Matteo Indice che contiene l’intervista a Salvatore Genova, dal titolo E la CIA si stupì dei nostri metodi venne pubblicato su Il Secolo XIX del 24 giugno 2007. Quello di Pier Vittorio Buffa, dal titolo Così torturavamo i brigatisti comparve su L’Espresso del 5 aprile 2012. 

[20] Michele Galati, componente della colonna veneta delle Brigate Rosse, venne arrestato nel dicembre 1980. Il 4 febbraio ’82, al PM di Venezia, fece le sue prime rivelazioni. Galati sostenne che, da un po’ di tempo, stava già collaborando segretamente con il generale Dalla Chiesa ed altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri con i quali parlava in occasione delle traduzioni dal carcere. Rivelò anche che, nell’ottobre ’81, aveva informato Dalla Chiesa che le BR intendevano rapire un alto ufficiale statunitense in forza alla NATO e di stanza a Verona o Vicenza.

[21] Intervista di Giordano Fainelli al quotidiano L’Adige del 12 febbraio 2012. Anche Salvatore Genova raccontò che ad alcuni brigatisti “pentiti” venne elargita una somma complessiva di 100 milioni di lire, denaro prelevato da un fondo riservato del Viminale. 

[22] Le considerazioni sono contenute nel libro di Giuliano Amato e Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, il Mulino, 2013.    

8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura

Come documentano i dispacci dell’agenzia Ansa riportati qui sotto, l’8 gennaio 1982 si tenne una riunione del Ciis, il Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, organo del servizio segreto italiano oggi sostituito dal Comitato interministeriale per la sicurezza della repubblica.
Il comitato era presieduto e convocato dal Primo ministro, che all’epoca era il repubblicano Giovanni Spadolini, ed era composto dal ministro degli Affari Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, Economia e Finanze e Attività produttive.

Da 22 giorni era in corso il sequestro del generale americano e vice-comandande delle forze terrestri della Nato nel Sud Europa, James Lee Dozier, rapito Il 17 dicembre 1981 nella sua casa di Verona da un nucleo delle Brigate rosse – partito comunista combattente, una delle tre branche in cui si era scissa l’organizzazione nel 1980. Azione rivendicata dalla colonna veneta Annamaria Ludman.

Era la prima volta che un’organizazzione marxista rivoluzionaria riusciva a rapire un membro del comando Nato in Europa, una novità per un militare statunitense così alto in grado. L’operazione, pensata all’interno di quella che era la tradizionale azione di contrasto contro l’aggressiva politica delle forze imperialiste, mirava a riaprire la battaglia in favore dell’uscita dell’Italia dalla logica dei blocchi, contro la presenza delle basi Nato e americane. Un’azione volta a denunciare i patti segreti che legavano la Penisola a una sorta di sudditanza, che molti storici e analisti non esitavano a definire senza mezzi termini “sovranità limitata”, e intervenire all’interno del movimento contro il riarmo e la presenza di testate nucleari, mobilitatosi per impedire l’istallazione in Europa di nuovi sistemi d’arma come i missili nucleari Pershing e Cruise, questi ultimi previsti nella base di Comiso e Sigonella in Sicilia.

Il rapimento del generale americano sfatava di fatto tutte le dietrologie sulla natura eterodiretta delle Brigate rosse da parte di ambienti atlantici. Interpretazione complottistica fatta circolare in primis dagli ambienti del Partito comunista ma poi ripresa su larga scala e divenuta uno dei più inossidabili luoghi comuni capaci solo di mutare di segno (i servizi dell’Est al posto di quelli dell’Ovest) ma non di eclissarsi.


RIUNIONE
CIIS: MISURE TERRORISMO

Primo dispaccio

1982-1-8  POLITICA      

RIUNIONE CIIS: MISURE TERRORISMO
19820108 00850
ZCZC047/01
U POL 01 QBXB

(ANSA) – ROMA, 8 GEN – IL COMITATO INTERMINISTERIALE PER L’INFORMAZIONE E LA SICUREZZA (CIIS), NEL CORSO DI UNA LUNGA RIUNIONE TENUTA STAMANE A PALAZZO CHIGI, HA ADOTTATO UNA SERIE DI MISURE E DIRETTIVE AD EFFETTO IMMEDIATO RIGUARDANTI LA LOTTA AL TERRORISMO E LA SICUREZZA NELLE CARCERI. SECONDO QUANTO SI E’ APPRESO SUL CONTENUTO DELLE MISURE PRESE, CHE RIENTRANO NELL’ AMBITO DELLA COMPETENZA DEL CIIS, C’E’ IL VINCOLO DEL PIU’ STRETTO RISERBO. SI TRATTA NATURALMENTE DI MISURE DI CARATTERE AMMINISTRATIVO. HANNO PARTECIPATO ALLA
RIUNIONE I MINISTRI DELL’INTERNO ROGNONI, DELLA DIFESA LAGORIO, DELLA GIUSTIZIA DARIDA, DELL’ INDUSTRIA MARCORA, CHE FANNO PARTE DELL’ORGANISMO, E I MINISTRI LA MALFA, DI GIESI E ALTISSIMO IN RAPPRESENTANZA DELLE FORZE POLITICHE DELLA
COALIZIONE DI GOVERNO. I MINISTRI SONO STATI D’ACCORDO UNANIMEMENTE, SEMPRE SECONDO QUANTO SI E’ APPRESO, SULL’URGENZA E LA NECESSITA’ DELLE MISURE CHE SONO STATE DEFINITE DAL CIIS.
MR/SOR
8-GEN-82 12:45 NNNN

Secondo dispaccio

ZCZC196/01
U CRO 01 QBXB
RIUNIONE CIIS: MISURE TERRORISMO (2)

(ANSA) – ROMA, 8 GEN – LE DICISIONI ADOTTATE DAL CIIS,
NELLA RIUNIONE DI QUESTA MATTINA, IN MATERIA DI SICUREZZA NELLE CARCERI SONO COPERTE DAL PIU’ STRETTO RISERBO. AL MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA NESSUN COMMENTO E NESSUNA INFORMAZIONE E’ FILTRATA AL PROPOSITO, SI SMENTISCE SOLTANTO L’IPOTESI CHE TRA ESSE SIA COMPRESO IL PROGETTO DI RIAPRIRE IL CARCERE DELL’ASINARA. TENENDO COMUNQUE CONTO DELLE MISURE CHE NEI MESI SCORSI ERANO ALLO STUDIO DEGLI ESPERTI SI POSSONO AVANZARE DELLE IPOTESI: SEMBRA PROBABILE CHE (COME DEL RESTO E’ GIA’ AVVENUTO IN OCCASIONE DI ALTRI MOMENTI DI TENSIONE  NELLE CARCERI) VENGANO CONTROLLATI CON MAGGIOR RIGORE TUTTI I CONTATTI CON L’ESTERNO DEI DETENUTI DELLE SEZIONI SPECIALI. QUESTO VORRA’ DIRE, PROBABILMENTE, CHE IN QUESTE SEZIONI VERRANNO ABOLITI I COLLOQUI STRAORDINARI; CHE NON SARANNO PIU’ CONSENTITI COLLOQUI CON I FAMILIARI SENZA IL VETRO DIVISORIO; CHE SARANNO INTENSIFICATI I CONTROLLI SUI PACCHI CHE GIUNGONO AI DETENUTI E SULLA CORRISPONDENZA; VERRA’ INTENSIFICATA LA SORVEGLIANZA ESTERNA PER NON VESSARE INUTILMENTE DETENUTI CHE NON SONO CONSIDERATI PERICOLOSI MA IN ALCUNI CASI SI TROVANO A STRETTO CONTATTO CON  ”GLI SPECIALI”, PROBABILMENTE VERRA’ ACCELERATO IL PIANO ALLO STUDIO DA TEMPO CHE TENDE A MIGLIORARE LA SITUAZIONE DEI COSIDDETTI ” DETENUTI DEFINITIVI TRATTABILI” (COLORO CIOE’ CHE DEVONO SCONTARE LUNGHE PENE MA NON SONO CONSIDERATI PERICOLOSI). QUESTI, SECONDO IL PROGETTO ALLO STUDIO, DOVREBBERO VENIR CONCENTRATI IN CARCERI SITUATE NELLE RISPETTIVE REGIONI DI PROVENIENZA E DOVE SARANNO VIGENTI TUTTI I BENEFICI INTRODOTTI DALLA RIFORMA.
CZ BM
8-GEN-82 21:11 NNNN

Questo secondo dispaccio annuncia le prime avvisaglie di quella che sarà l’introduzione dell’articolo 90, ovvero l’instaurazione di uno stato di eccezione dentro le carceri e l’avvio di circuiti differenziati che approderà successivamente alla nascita delle aree omogenee, dove venivano concentrati i detenuti dissociati, formalizzato con decreto ministeriale il 22 dicembre 1982. In una intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica, il 25 agosto 1983, il direttore della Direzione Amministrativa Penitenziaria, Nicolò Amato, dichiarava che l’applicazione dell’art. 90 O.P. riguardava 18 istituti e poco meno di un migliaio di persone.

L’attenzione tuttavia va incentrata soprattutto sul primo dispaccio nel quale si riferisce che le misure prese sono di «carattere amministrativo», ovvero decisioni che emanano dalla diretta competenza dell’esecutivo e dei singoli ministri. Decisioni rivolte su due materie presentate in modo distinto: la «lotta al terrorismo» e la «sicurezza nelle carceri». Misure, infine, vincolate dal «più stretto riserbo».

E’ subito dopo questo vertice, la cui importanza strategica è dimostrata dal coinvolgimento inusuale di altri ministri (La Malfa, Di Giesi e Altissimo in rappresentanza delle altre forze politiche della coalizione di governo) che cominciano a circolare sui giornali le prime voci su un via libera concesso dall’esecutivo all’impiego della tortura per acquisire informazioni durante gli interrogatori.

In realtà il vertice del Ciis è solo il punto terminale di un processo decisionale avviato nei giorni precedenti, come dimostra la creazione di un gruppo operativo avente l’incarico di provvedere al coordinamento nazionale delle indagini sul sequestro, istituito con un decreto del ministro dell’Interno Rognoni il 28 dicembre precedente. E’ attorno alla nascita di questa struttura speciale e delle sue competenze e modalità di azione che prende forma la decisione di ricorrere in modo sistematico alla tortura impiegando gli esperti (il professor De Tormentis e la sua squadra, ma non solo) di cui disponeva la polizia.

Ciò spiega perché la sera del 4 gennaio 1982 Umberto Improta chiama d’urgenza Nicola Ciocia, alias De Tormentis, affinché sottoponga al «trattamento» Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, arrestati  appena 24 ore prima in via della Vite a Roma. I due erano militanti del Partito guerriglia, denominazione assunta dal Fronte carceri e dalla Colonna napoletana delle Brigate rosse dopo la scissione. Non c’entravano nulla con il sequestro Dozier ma gli inquirenti speravano in ogni caso di rompere il muro del silenzio, aprire le prime crepe nella struttura organizzativa.

Le feroci torture inferte avranno successo. Le dichiarazioni estorte permettono alla polizia di arrivare all’arresto di Govanni Senzani che imprudentemente era rimasto nell’abitazione conosciuta dai due militanti. Un arresto chiavi in mano: gli agenti della Digos entrarono e incappucciarono nel sonno il fondatore del Partito guerriglia.

Enrico Deaglio su Lotta continua dell’8 febbraio 1982 rompe il muro del silenzio e denuncia l’impiego della tortura, «deciso in varie riunioni di altissimo livello nei giorni tra lunedì 11 e mercoledì 13 gennaio; giorni in cui il Consiglio dei ministri decise importantissime quanto tuttora misteriose misure d’emergenza contro il terrorismo; giorni in cui vi furono riunioni tra il presidente del Consiglio e i massimi responsabili dell’Arma dei carabinieri, della polizia e dei servizi di sicurezza. Si dice, infine, che presa la decisione, i ministri si vincolarono al segreto e si impegnarono a coprire le decisioni che avevano preso in qualsiasi caso».

In un comunicato del 18 marzo 1982 (quello della ritirata strategica) le Brigate rosse Partito comunista combattente  si da notizia di una riunione del Ciis (informazione tratta come sempre dall’attenta lettura dei quotidiani delle settimane precedenti) in cui sarebbe stato dato l’avallo alla tortura. «Spadolini – scrivono – ha provveduto in riunioni separate a comunicarlo ed accordarsi con tutti i segretari dei partiti compreso il Pci, a quest’ultimo ha mostrato lo spettro di una inversione militare pilotata dagli americani. Così si sono garantiti l’assenso completo e il silenzio sulla tortura. Il Pci e il sindacato anche quando gli arresti li riguardavano da vicino, recitano con monotonia lo stesso ritornello: ribadiamo la nostra fermezza per la lotta contro il terrorismo. Sospensione cautelativa». (Potete trovare l’intero documento in Progetto memoria. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie pp. 166-170. Il passo citato è a pagina 169).

Dei ministri che parteciparono a quelle riunioni sono ancora in vita Virginio Rognoni e Renato Altissimo.

Numerosi casi di tortura affiorano nel corso del 1982. Le denuncie tuttavia restano limitate rispetto al fenomeno reale. I casi identificati si aggirano attorno ai 18-20. Le modalità spazio-temporali in cui questi eventi accadono lasciano trasparire chiaramente la non episodicità e la non occasionalità di queste pratiche. Uno specifico apparato di tortura era stato costituito con protocolli di arresto e interrogatori violenti ben rodati. Si tratta di pratiche che non si improvvisano ma che necessitano dei nullaosta da parte delle gerarchie e di una struttura predisposta oltre che di un addestramento predefinito.

Per apparato della tortura deve intendersi un sistema complesso di convergenza di alcuni poteri: Governo, ministri di riferimento come Interni, Giustizia e Difesa, organi di polizia (nel caso specifico Digos, Nocs e Ucigos) e infine il ruolo decisivo, di fiancheggiamento e copertura, fornito dalla magistratura.

Le tecniche messe in atto:
Waterboarding (annegamento simulato) con la specifica del sale
L’uso di scariche elettriche riprese dalla tradizionale gegène delle truppe francesi in Algeria
Sevizie di natura sessuale, con particolare accanimento sulle donne
Bruciature
Pestaggi
Tagliuzzamenti
Fucilazioni simulate
Sostanze chimiche (in alcuni casi… ma la circostanza non è stata accertata con sicurezza)
Tecniche classiche come quella di impedire il sonno e trattenere il prigioniero in posture dolorose

Le modalità d’arresto non seguono la prassi legale: incappucciamento al  momento della cattura (tant’è che spesso la popolazione crede di assistere a dei rapimenti. Gli arrestati vengono trattenuti per settimane o mesi nelle questure, caserme, sotterranei, oppure portati in luoghi sconosciuti, non ufficialmente adibiti a trattenere persone fermate).

Il ministero dell’Interno e le procure competenti non hanno mai avviato inchieste (salvo quella di Padova, caso Di Lenardo) per accertare i fatti.

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Torture contro i militanti della lotta armata

L’uso della tortura negli anni di piombo

Dopo il Corriere della sera anche sulle pagine di Repubblica, il quotidiano di tutte le emergenze e fermezze nazionali, del più feroce rigor mortis, sostenitore imperterrito di polizia e magistratura, grazie ad Adriano Sofri si parla delle torture impiegate per contratstare la lotta armata degli anni 70 e inizio 80, ma non solo. A differenza degli altri pezzi, questa volta l’intervento di Sofri non ha richiami in prima ma si trova confinato nella pagina delle lettere, nella tribuna dedicata alle opinioni marcatamente esterne, estemporanee, a sottolineare la presa di distanza da qusta vicenda della nave ammiraglia scalfariana. Nonostante ciò il muro del silenzio ogni giorno che passa mostra sempre nuove crepe

Adriano Sofri, la Repubblica 16 Febbraio 2012

A prima vista, la notizia è che negli anni ’70 e ’80 ci fu un ricorso non episodico a torture di polizia nei confronti di militanti della “lotta armata” – e non solo. È quello che riemerge da libri (Nicola Rao, Colpo al cuore), programmi televisivi (“Chi l’ha visto“), articoli (come l’intervista del Corriere a Nicola Ciocia, già “professor De Tormentis”, questore in pensione). Non è una notizia se non per chi sia stato del tutto distratto da simili inquietanti argomenti. Nei primi anni ’80 le denunce per torture raccolte da avvocati, da Amnesty e riferite in Parlamento furono dozzine.

A volte la cosa “scappava di mano”, come nella questura di Palermo, 1985. Oscar Luigi Scalfaro, che era allora ministro dell’Interno, dichiarò: “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia e ne è uscito morto”. Era un giovane mafioso, fu picchiato e torturato col metodo della “cassetta”: un tubo spinto in gola e riempito di acqua salata. Gli sfondò la trachea, il cadavere fu portato su una spiaggia per simularne l’annegamento in mare. Alla notte di tortura parteciparono o assistettero decine di agenti e funzionari. Avevano molte attenuanti: era stato appena assassinato un valoroso funzionario di polizia, Beppe Montana, “Serpico”. All’indomani della denuncia di Scalfaro, e delle destituzioni da lui decise, la mafia assassinò il commissario Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Una sequenza terribile, ma le attenuanti si addicono poco al ricorso alla tortura, il cui ripudio è per definizione incondizionato. Repubblica sta ricostruendo la tremenda vicissitudine di Giuseppe Gulotta, “reo confesso” nel 1976 dell’assassinio ad Alcamo di due carabinieri, condannato all’ergastolo e detenuto per 22 anni: finché uno dei torturatori, un sottufficiale dei carabinieri, ha voluto raccontare la verità.
L’elenco di brigatisti e affiliati di altri gruppi armati sottoposti a torture è fitto: va dal nappista Alberto Buonoconto, Napoli 1975 (si sarebbe impiccato nel 1981) a Enrico Triaca, Roma 1978, a Petrella e Di Rocco (ucciso poi in carcere a Trani da brigatisti), Roma 1982, ai cinque autori del sequestro Dozier, Padova 1982… In tutte queste circostanze operavano (è il verbo giusto: noi siamo come i chirurghi, dirà Ciocia, “una volta cominciato dobbiamo andare fino in fondo”) due squadre chiamate grottescamente “I cinque dell´Ave Maria” e “I vendicatori della notte”. Ha riferito Salvatore Genova, già capo dei Nocs, inquisito coi suoi per le torture padovane al tempo di Dozier e stralciato grazie all’immunità parlamentare, infine pensionato: “Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale”. Quel modo di tortura – accompagnato da sevizie molteplici, aghi sotto le unghie, ustioni ai genitali, percosse metodiche, esecuzioni simulate; ed efferatezze sessuali nei confronti di militanti donne – non si chiamava ancora waterboarding, e non era un genere di importazione. Lo si usava già coi briganti ottocenteschi. Fu una specialità algerina negli anni ’50. Addirittura, quando Rao chiede a Ciocia se davvero gli ufficiali della Cia che assistettero agli interrogatori per Dozier fossero rimasti stupefatti per quello che vedevano, lui risponde: “Non sono stati gli americani a insegnarci certe cose. Siamo i migliori… Lì, nell’attività di polizia ci vuole stomaco. E gli altri Paesi lo stomaco non ce l’hanno come ce l’abbiamo noi italiani. Siamo i migliori. I migliori!”.
Costui accetta di parlare con Rao, che non ne rivela ancora il nome. Solo quel soprannome, “professor De Tormentis”. Il 23 marzo 1982 Leonardo Sciascia prese la parola nel dibattito alla Camera sulle torture ai brigatisti del sequestro Dozier, replicando all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni. “Ieri sera ho ascoltato con molta attenzione il discorso del ministro e ne ho tratto il senso di una ammonizione, di una messa in guardia: badate che state convergendo oggettivamente sulle posizioni dei terroristi! Personalmente di questa accusa ne ho abbastanza! In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l’accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!”.

Successe allora che i giornalisti Vittorio Buffa e Luca Villoresi, che avevano riferito delle torture sull’Espresso e su Repubblica con ricchezza di dettagli, furono arrestati per essersi rifiutati di rivelare le loro fonti e liberati solo dopo che due coraggiosi funzionari di polizia dichiararono, a proprie spese, di aver passato loro le notizie. Certo Sciascia avrebbe meritato di conoscere la conclusione attuale della storia, che tocca quello che gli stava più a cuore, compreso il Manzoni della Colonna infame che citava il trattato duecentesco De tormentis. Da lì il prestigioso poliziotto Umberto Improta aveva ricavato il nomignolo per il suo subordinato. Il nome vero era da tempo noto agli esperti, a cominciare dalle vittime: appartiene a un poliziotto andato in pensione nel 2004 col grado di questore, dopo una carriera piena di successi contro malavita e terrorismo. Poi ha fatto l’avvocato, è stato commissario della Fiamma Nazionale a Napoli. Ora, alla vigilia degli ottant’anni e con la sua dose di malanni, dà interviste che un giorno rivendicano, un giorno smentiscono. Si definisce però “da sempre fascista mussoliniano”.
Ecco qual’è la notizia. Che quando lo Stato italiano e il suo Comitato interministeriale per la sicurezza decisero di sciogliere la lingua ai terroristi, ne incaricarono un signore che aveva già dato prova del proprio talento. Non è lui il problema: vive in pace la sua pensione, e promette di portarsi per quietanza nella tomba i suoi segreti di Pulcinella. Non importa che usassero il nome di tortura: non si fa così nelle ragioni di Stato, e del resto la Repubblica Italiana si guarda dal riconoscere l’esistenza di un reato di tortura. È superfluo, dicono. Bastava assicurare spalle coperte. La difesa della democrazia si affidò a un efficiente fascista mussoliniano. Siamo il paese di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, i migliori.

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Torture contro i militanti della lotta armata

«Che delusione professore!». Una lettera di Enrico Triaca a Nicola Ciocia-professor De Tormentis
Rai tre Chi l’ha visto? Le torture di Stato
Nicola Ciocia, Alias De Tormentis risponde al Corriere del Mezzogiorno 1
Torture, anche il Corriere della sera fa il nome di De Tormentis si tratta di Nicola Ciocia
Nicola Ciocia, alias De Tormentis, è venuto il momento di farti avanti
Cosa accomuna Marcello Basili, pentito della lotta armata e oggi docente universitario a Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, ex funzionario Ucigos torturatore di brigatisti
Triaca:“Dopo la tortura, l’inferno del carcere – 2
Enrico Triaca; “De Tormentis mi ha torturato così” – 1
1982 la magistratura arresta i giornalisti che fanno parlare i testimoni delle torture
Novembre 1982: Sandro Padula torturato con lo stesso modus operandi della squadretta diretta da “de tormentis”
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Caro professor De Tormentis, Enrico Triaca che hai torturato nel 1978 ti manda a dire
Le torture ai militanti Br arrivano in parlamento
Nicola Ciocia, alias “De Tormentis” è venuto il momento di farti avanti
Torture: Ennio Di Rocco, processo verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica 2,  2 gennaio 1982: il metodo de tormentis atto secondo
Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Acca Larentia: le Br non c’entrano. Il pentito Savasta parla senza sapere
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana
Il pene della Repubblica: risposta a Miguel Gotor 1/continua
Miguel Gotor diventa negazionista sulle torture e lo stato di eccezione giudiziario praticato dallo stato per fronteggiare la lotta armata
Miguel Gotor risponde alle critiche
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Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Tortura: quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati

Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture
Torture: l’arresto del giornalista PierVittorio Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia, Italia 1982
L’énnemi interieur: genealogia della tortura nella seconda metà del Novecento
Ancora torture
Torture nel bel Paese
Pianosa, l’isola carcere dei pestaggi, luogo di sadismo contro i detenuti

Le torture della Repubblica /2: Gennaio 1982 il metodo “De Tormentis” atto secondo

Il 3 gennaio 1982 vengono arrestati a Roma, in via della Vite, Ennio Di Rocco, 22 anni, e Stefano Petrella 26, entrambi militanti del Partito guerriglia, denominazione assunta dal Fronte carceri e dalla Colonna napoletana delle Brigate rosse dopo la scissione che aveva portato l’organizzazione a suddividersi in tre gruppi.

La Stampa del 13 gennaio 1982 con un articolo in prima pagina riporta le dichiarazioni rilasciate dal legale dei due militanti:
«Ieri mattina l’avvocato Eduardo di Giovanni, difensore dei due br dalla cui cattura l’operazione ha avuto inizio, ha tenuto una conferenza stampa a Palazzo di Giustizia. Stefano Petrella ed Ennio Di Rocco, i due terroristi arrestati l’altro lunedi in via della Vite — ha detto il legale — non si sono “pentiti”. Condotti davanti al magistrato, i due si sono dichiarati “prigionieri politici”, ed hanno rifiutato qualsiasi altra dichiarazione. Ma nell’ufficio del giudice, ha proseguito Di Giovanni, Petrella e Di Rocco sono arrivati solo cinque giorni dopo il loro arresto: nel frattempo, condotti non si sa bene dove, sono stati sottoposti a un trattamento “di tipo argentino”. Il legale ha parlato di “torture”. Arrestati la sera del quattro gennaio [in realtà i due sono stati catturati la mattina del 3. L’incertezza sulla data la dice lunga sulla trasparenza dei metodi impiegati dalla polizia all’epoca. Per 6 giorni i due milinati sono dei desaparecidos, degli scomparsi nelle mani di una squadretta speciale del ministero degli Interni guidata dal professor De Tormentis. Ndr], Petrella e Di Rocco avrebbero visto per la prima volta il giudice la mattina del nove. Nel frattempo i due avrebbero subito una lunghissima serie di vessazioni. Di Giovanni sostiene di aver notato sui corpi dei due ecchimosi, segni di punture, e di essersi sentito raccontare che la “persuasione” era stata condotta da persone incappucciate. “Questo episodio — sostiene Di Giovanni — può segnare un passagio decisivo: dai metodi della polizia di un Paese democratico, a quelli da nazione sudamericana”. In questura, ieri sera, alle domande dei cronisti su questo punto (Di Giovanni ha ottenuto che le condizioni dei due arrestati venissero registrate a verbale) un portavoce ha ribattuto con un secco “no comment”. Una sola aggiunta: la Digos conferma che i due hanno dimostrato, fin dall’inizio, ‘piena collaborazione’…».
Cosa si nascondeva dietro quel sibillino «no comment» della questura seguito da un’autocompiaciuta sottolineatura della Digos che ironizzava sulla «piena collaborazione» dimostrata dai due militanti?

Il racconto di quanto accaduto lo troviamo nel libro di Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer 2011, che ricostruisce i fatti dopo aver incontrato alcuni dei protagonisti di quei fatti.

Breve riepilogo del primo atto: dopo il “trattamento”, altrimenti detto le torture praticate ad Enrico Triaca, il tipografo delle Brigate rosse, il “professor De tormentis” per parecchio tempo non fu più chiamato. Inizialmente gli spiegarono che non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone perché «se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci». Quattro anni dopo il clima era cambiato. Al governo c’era dal giugno 1981 Giovanni Spadolini, laico, repubblicano, massone, storico illustre, atlantista sfrenato, uomo del grande capitale, un passato giovanile di fascista radicale che lo aveva portato a scrivere su una delle riviste più estremiste del regime (La Difesa della razza di Telesio Interlandi e Italia e civiltà)*, sospette persino a Mussolini per l’eccessivo filonazzismo. Il 2 gennaio 1982, subito dopo la cattura di Di Rocco e Petrella….

* «Tra Fascismo e antifascismo, sempre il Fascismo, tra il nemico e l’alleato tedesco, sempre l’alleato tedesco» (La Stampa 23/4/94)….. Giovanni Spadolini su Italia e Civiltà del 15 febbraio 1944 (cioè sei anni dopo le leggi razziali), si lamentava che il fascismo avesse perso «a poco a poco la sua agilità e il suo dinamismo rivoluzionario, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo».

«Prima di partecipare alle indagini per la liberazione del generale Dozier, io e i miei uomini interrogammo a Roma il brigatista Ennio Di Rocco (bloccato il 3 gennaio 1982), militante delle Brigate Rosse-Partito guerriglia. Grazie alle sue dichiarazioni individuammo, sei giorni dopo, il leader di quell’organizzazione, Giovanni Senzani, nella base romana di via Pesci».
De Tormentis a Matteo Indice, Il secolo XIX, 24 giugno 2007


[…]

Qualcun altro telefonò al «professor de tormentis», come lo chiamavano colleghi e amici. Un passato prossimo da capo della Mobile a Napoli, uno remoto da funzionario antimafia e un presente da funzionario dell’antiterrorismo, in forza all’Ucigos.
In piena notte i due brigatisti furono trasferiti dal Primo distretto alla caserma di Castro Pretorio, sede della Celere e dei reparti speciali della polizia. Poco dopo, le celle di sicurezza venivano spalancate da gente incappucciata. I brigatisti, bendati, furono portati fuori dalla caserma e caricati su due furgoni che si diressero verso una destinazione sconosciuta.
Dopo mezz’ora il viaggio era finito. Di Rocco e Petrella furono fatti scendere, sempre bendati e ammanettati, e condotti all’interno di una casa. Dove tutto cominciò e dove li aspettava il professore.
Nel racconto dei due brigatisti, prima furono calci, pugni e bastonate. Poi urla e minacce. Le voci che i due sentivano erano molte, come se gruppetti di tre o quattro persone si alternassero di tanto in tanto. Alcuni avevano un forte accento del Sud. «Ci devi dire dove cazzo stanno i compagni tuoi.» «Dicci dove si nasconde quella merda di Senzani o sei morto.» «Stanotte è arrivata la tua ora.» Ma i due non parlavano.
Allora si passò alla fase successiva. Uno alla volta, furono portati in un altro locale. Spogliati, distesi e legati mani e piedi ai quattro lati di un tavolo. Con la parte superiore del corpo che sporgeva dal tavolo. Poi cominciò il vero e proprio trattamento. Litri e litri di acqua e sale fatti bere a intermittenza attraverso canne e imbuti, mentre qualcuno tappava loro il naso. Il tempo di far prendere fiato alla vittima e poi si ricominciava. La sensazione di soffocamento e annegamento era reale e terribile. E la pancia si gonfiava a dismisura. Il sale, poi, causava una sete incontrollabile. Dopo un’ora di questo trattamento, la vittima cominciava a vomitare e pisciarsi addosso. La morte le sembrava una liberazione. Per chiunque sarebbe stato difficile resistere. E poi, cosa importante, il trattamento non lasciava segni. Complicato da dimostrare, insomma.
Quella dell’acqua e sale era una tecnica consolidata da molti anni. L’avevano usata qualche volta i carabinieri e la polizia ai primi del secolo per debellare il banditismo sardo e la mafia siciliana. E in tempi più recenti alcune squadre mobili di zone particolarmente calde, come Napoli o la Sicilia.
Ma a utilizzarla in maniera sistematica erano stati i parà francesi, per debellare la rivolta in Algeria alla fine degli anni Cinquanta. Tanto che nell’ambiente era una pratica comunemente conosciuta come «l’algerina».
Alla fine, Ennio Di Rocco disse basta. E cominciò a parlare. Raccontando di tutto e di più.

[…]

Quando l’11 gennaio furono interrogati dal magistrato, Domenico Sica, sia lui sia Petrella denunciarono le torture subite.
«Il giorno dopo», disse Di Rocco a Sica secondo il verbale, «c’è stata una nuova rotazione di percosse, fino a che non è arrivata una squadretta che ha continuato a battermi con i bastoni sulla pianta e sul dorso dei piedi e sulle caviglie. Preciso che in tutto questo tempo ero legato con mani e piedi a un letto. Sono stato picchiato anche sulle ginocchia, sul petto e in testa, alla fine di questo trattamento ho detto che stavamo in via di Propaganda per aspettare Romiti. In tutto questo periodo sentivo le urla dell’altro compagno che ritengo fosse Petrella, che però ovviamente non vedevo.»
E ancora: «Incappucciato dentro un furgone sono stato spostato in un altro edificio: dopo un viaggio di circa quarantacinque minuti […] nel nuovo luogo di detenzione sono stato costretto a bere tre bottiglie di caffé Borghetti, così mi dicevano. Mi sono addormentato […]. Può darsi che abbia avuto delle allucinazioni perché sognavo di gridare e poi mi sono svegliato dopo essermi orinato addosso […]. Dopo un intervallo abbastanza lungo […] mi hanno fatto mangiare. Subito dopo sono stato prelevato dal letto e portato in una cucina (che ho potuto intravedere attraverso le bende sugli occhi). Sono stato disteso lungo su un tavolo, mi è stato tolto il maglione e la camicia e messo con mezzo busto fuori dal tavolo. Ero a pancia all’aria e avevo le mani e i piedi legati alle gambe del tavolo. Una persona mi torceva gli alluci, mentre due mi tenevano gambe e braccia, un altro mi teneva il naso chiuso e mi reggeva la testa. Qualcun altro mi mandava acqua e sale in bocca, non facendomi respirare e tentando di soffocarmi […]. Ho tentato di uccidermi trattenendo il respiro ma non ci sono riuscito. Lo scopo ultimo di questo trattamento era quello di ottenere la mia collaborazione.
Ho trascorso un altro giorno in quel luogo e poi sono stato trasferito in questura. Ho visto un verbale, che non ho firmato, datato 8 gennaio 1982».
Insomma, Di Rocco denunciò le torture e il trattamento, ammettendo di aver «soltanto» detto che stava per rapire Romiti. Omettendo, invece, tutto il resto. Provando, insomma, a salvare il salvabile.

Anche Petrella lo stesso giorno denunciò a Sica cose simili: «[…] sono stato percosso sulle gambe, immagino con dei bastoni, in particolare sulle ginocchia, sulle tibie, sotto le piante dei piedi, e ciò sempre mentre ero legato e incappucciato e bendato […] sono stato legato, per le braccia e per le gambe, sempre incappucciato, ritengo su una superficie rigida, con la testa penzoloni all’indietro, mi è stato otturato il naso e c’è stato un tentativo di asfissia mentre mi è stata versata in continuazione acqua salata in bocca, quando tentavo di riprendere fiato mi veniva messo in bocca del sale […] la sera del 7 (suppongo), dopo il trattamento con l’acqua salata mi è stato detto di confermare alcuni elementi che mi venivano sottoposti e poi mi è stato detto di firmare i fogli che li contenevano. Se non avessi firmato confermando i fogli, sarebbe con­tinuata quella tortura e altre ancora peggiori: al fine di evitare di essere sottoposto a quanto mi veniva minacciato, ho confermato quanto mi veniva detto [probabilmente la confessione di Di Rocco, N.d.A.] e ho – mio malgrado – firmato quei fogli».

Le indagini della magistratura su questo trattamento denunciato dai due brigatisti non portarono a nulla. Dirigenti e gli agenti interrogati respinsero con forza le accuse. Il trattamento del «professor de tormentis» era stato efficace.

Link
Torture: Ennio Di Rocco, processo verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo
Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Acca Larentia: le Br non c’entrano. Il pentito Savasta parla senza sapere
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana
Il pene della Repubblica: risposta a Miguel Gotor
Miguel Gotor diventa negazionista sulle torture e lo stato di eccezione giudiziario praticato dallo stato per fronteggiare la lotta armata

Torture: Ennio Di Rocco, processo verbale, Roma 11 gennaio 1982 [Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica]

La denuncia di fronte al pubblico ministero Domenico Sica delle sevizie subite da Ennio Di Rocco

«La sera del mio arresto venni condotto prima al 1° Distretto di polizia ove ricevetti, nella cella, calci e schiaffi. Poi sono stato spostato alla caserma di Castro Pretorio. Dopo circa un’ora sono arrivati tre incappucciati che hanno incappucciato anche me, mi hanno caricato su un furgone e mi hanno condotto in un luogo che non so riconoscere perchè incappucciato, ma che ritengo essere una casa. In questo luogo per la notte e il giorno successivo (per quel che ho potuto capire) sono stato – a rotazione di squadrette di 3 o 4 persone- picchiato con calci, pugni e bastonate ed in pratica in ogni modo, con le manette strette ai polsi di dietro che venivano torte. Mi è stata poi praticata una puntura al braccio destro. Poi sono stato fatto sdraiare su di un letto e coperto con due coperte, chiaramente al fine di farmi sudare. Per un periodo di tempo che non so dire, dopo che avevo subito la puntura, si sono alternate domande suadenti e botte. Non credo di avere detto nulla sotto questo trattamento.
Il giorno dopo c’è stata una nuova rotazione di percosse, sino a che non è arrivata una squadretta che ha continuato a battermi con i bastoni sulla pianta e sul dorso dei piedi e sulle caviglie; preciso che in tutto questo tempo ero legato con mani e piedi ad un letto. Sono stato picchiato anche sulle ginocchia, sul petto ed in testa. In tutto questo periodo sentivo le urla dell’altro compagno, che ritengo fosse Stefano Petrella, che però ovviamente non vedevo. 
Può darsi che io dimentichi qualche altro particolare di questi tre giorni.
Incappucciato e dentro un furgone sono stato spostato in un altro edificio; dopo un viaggio di 45 minuti. Nel nuovo luogo di detenzione sono stato costretto a bere tre bottiglie di Caffè Borghetti, così mi dicevano. Mi sono addormentato e nel sonno mi facevano delle domande in relazione a cose che volevano sapere e alle quali ritengo, bene o male, di essere riuscito a non rispondere.
 Può darsi che poi io abbia avuto delle allucinazioni, perchè sognavo di gridare e poi mi sono svegliato dopo essermi orinato addosso. Allora qualcuno si è avvicinato.
Dopo un intervallo abbastanza lungo, durante il quale non mi è stato fatto niente, mi hanno fatto mangiare. 
Subito dopo sono stato prelevato dal letto e portato in una cucina (che ho potuto intravedere attraverso le bende agli occhi). Sono stato disteso lungo su un tavolo, mi è stato tolto il maglione e la camicia e messo con mezzo busto fuori dal tavolo. Ero a pancia all’aria e avevo le mani e i piedi legati alle gambe del tavolo. Una persona mi torceva gli alluci; altri due mi tenevano gambe e braccia; un altro mi teneva il naso chiuso e mi reggeva la testa. Qualcun altro mi mandava acqua e sale nella bocca, non facendomi respirare e tentando di soffocarmi. Non so quanto tempo ciò sia durato; ad un certo momento finì l’acqua salata e cominciò quella semplice. Ho tentato di uccidermi trattenendo il respiro ma non ci sono riuscito.Lo scopo ultimo di questo trattamento era quello di ottenere la mia collaborazione. Ho trascorso un altro giorno in quel luogo e poi sono stato trasferito in questura. Ho visto un verbale che non ho firmato, datato 8 gennaio 1982.
I difensori chiedono accertamenti medici urgenti e l’immediato trasferimento in carcere dell’imputato».

Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti: «I vertici di Polizia sapevano»

Parla l’ex capo dei Nocs Salvatore Genova: «Torture ai brigatisti ben prima della Diaz»

Matteo Indice
Il Secolo XIX, 17 giugno 2007

Il processo alle torture come in “Alice e il Paese delle meraviglie”: Cesare Di Lenardo, il torturato, è nella gabbia mentre i suoi torturatori seguono le udienze a piede libero

Lo sfogo del superpoliziotto Salvatore Genova è inarrestabile: «Ci sono stati errori incredibili e violenza gratuita al G8, ma dai vertici  della polizia non è mai stata presa in considerazione l’ipotesi di  un’inchiesta interna, figuriamoci di quella parlamentare, sebbene le  defaillance fossero state segnalate in modo circoscritto dai poliziotti  stessi. E ci furono torture e pestaggi inutili anche nel periodo della  lotta al terrorismo, nei confronti di alcuni brigatisti arrestati. Ma  allora, come oggi, nonostante ripetute sollecitazioni a fare chiarezza,  lettere protocollate e incontri riservatissimi, ci si è ben guardati  dall’avviare i doverosi accertamenti. Si è preferito, in base a logiche di  potere, lasciare che l’opinione pubblica rimanesse nell’incertezza, con il  risultato di delegittimare tutto il Corpo».
Sul tavolo della sua scrivania ci sono i carteggi degli ultimi quindici  anni con l’ex capo della polizia, Fernando Masone, e con l’attuale numero  uno, Gianni De Gennaro. Informative «personali», «strettamente riservate» nelle quali Salvatore Genova – che nel gennaio del 1982 liberò a Padova il  generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse – chiede l’istituzione di Commissioni, l’acquisizione di documenti e l’interrogazione di testimoni. Vuole che venga fatta luce su una delle pagine più oscure nella storia della lotta all’eversione. Ovvero: le torture alle quali almeno cinque brigatisti vennero sottoposti nella sede del Reparto mobile di Padova. Un episodio per il quale lo stesso Genova è stato indagato (mai processato, poiché nel frattempo era stato eletto alla Camera, ndr) e che in primo grado portò il tribunale della città veneta a profilare l’esistenza «d’una struttura gestita dalle più alte gerarchie che contemplava l’impiego di metodi violentissimi».


«L’irruzione alla scuola Diaz e l’oscurantismo di cui si è tornati a parlare negli ultimi giorni – dice ora Genova – hanno molti elementi in comune con i fatti di allora. Dimostrano che nella storia d’Italia, nei casi in cui più gravemente la polizia s’è macchiata di aggressioni “politiche” ad opera di gruppi molto ristretti, si è aggirata la strada più coerente, quella dell’inchiesta amministrativa. E il risultato è il malessere diffuso di cui leggiamo ogni giorno». Non arrivano a caso, le parole di Genova, ma sono legate a due procedimenti giudiziari che accomunano, non solo nella suggestione, gli anni ’80 al post G8. È cronaca recentissima la deposizione-choc di Michelangelo Fournier, uno dei funzionari (oggi imputato) che guidò il blitz alla Diaz la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001: «Ho visto scene da macelleria messicana – ha ribadito ai giudici – la situazione era completamente fuori controllo».
Salvatore Genova di quella storia è stato testimone indiretto, in questi giorni ha avuto contatti con i magistrati che sostengono l’accusa. Poco dopo la conclusione del vertice, scrisse una dettagliata relazione a Roma sulla disastrosa gestione dell’ordine pubblico, chiedendo di approfondire la materia ma senza mai ricevere risposta.
Di pari passo agli “squarci” sul G8, la segnalazione del responsabile del Sisde, Franco Gabrielli, nell’analisi presentata al comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Il capo degli 007, nel paventare una saldatura fra vecchie e nuove leve dell’estremismo, s’è detto preoccupato per l’imminente scarcerazione di Cesare Di Lenardo (1), “irriducibile” arrestato per il sequestro Dozier e che con la sua denuncia fece alzare il velo sulle torture. «La coincidenza – spiega il superpoliziotto Genova – mi ha spinto a espormi. Sono alla soglia della pensione, posso permettermi dopo trent’anni di servizio di svelare alcuni dei mali profondi della polizia, quelli che a volte hanno inciso profondamente sull’opinione pubblica, delegittimando la dedizione di migliaia di operatori che ogni giorno sono sulla strada».
Il racconto inizia dal G8, dalle ore che hanno preceduto il blitz alla Diaz. «Con poche centinaia di uomini – ricorda Genova – dovevamo fronteggiare in stazione il deflusso di oltre ventimila manifestanti. Improvvisamente il supporto del Reparto Mobile, fondamentale, venne meno perché furono dirottati altrove, in vista dell’irruzione. Siamo rimasti praticamente “nudi”. Potevano massacrarci. Eppure il confronto è stato gestito senza drammi, dialogando con i dimostranti. Nel frattempo, ascoltavamo via radio quello che si stava preparando altrove e veniva da rabbrividire, con funzionari arrivati da fuori che non conoscevano minimamente la città e dovevano gestire situazioni delicatissime. Abbiamo telefonato decine di volte alla centrale operativa della questura – continua il poliziotto – dicendo che Brignole poteva trasformarsi in una mattanza. Abbiamo dovuto spegnere le televisioni che facevano rimbalzare le immagini dei pestaggi nella scuola, per non infiammare gli animi. Ebbene, in quel contesto, i superiori ci hanno lasciato in cinquanta, davanti a ventimila.
E io mi sono chiesto chi fossero realmente i “nemici”, gli avversari, se forse non stessero dalla nostra stessa parte».
Le stesse considerazioni, in un dettagliato resoconto scritto, sono sul tavolo di almeno tre altissimi funzionari romani, che si sono ben guardati dall’approfondire la vicenda. Come mai nessuno, nonostante le ultime lettere risalgano al 2005, ha voluto indagare sulle torture? «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – ricorda Genova – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». E denuncia: «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, che stiamo collaborando?” (La sua “dissociazione” permise centinaia di arresti, ndr). Le violenze avvenivano di notte, naturalmente, e poi è stato facile confondere le acque mandando sotto processo le persone sbagliate. Le stesse che ancora oggi, pur assolte, continuano a ricevere minacce. E allora: perché per quasi vent’anni, a dispetto delle reiterate sollecitazioni, non si è mai voluta affrontare sul serio quella pagina?».
Il discorso è più ampio e inquietante quando entrano in gioco “I cinque dell’Ave Maria”. Rievoca Genova: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi. Ecco, il rimpallo di responsabilità, le “amnesie” che caratterizzano le deposizioni sul G8 e la scuola Diaz dimostrano che purtroppo il metodo, per alcuni gruppi ristretti ma potenti, non è cambiato».

(1) Contrariamente a quanto affermato dal capo del Sisde Cesare Di Lenardo non è mai stato scarcerato. Ha ormai raggiunto il suo trentesimo anno di detenzione.

Link
Parla Nicola Ciocia, alias De Tormentis, il capo dei cinque dell’Ave Maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Le torture contro i militanti della lotta armata

1982: Torture contro i militanti della lotta armata arrestati

Il 1982 è uno degli anni dove la pratica della tortura diventa sistematica. Organizzata centralmente viene realizzata attraverso l’azione di alcune squadre della polizia di Stato specificamente addestrate. La decisione era stata presa in una riunione del comitato interministeriale per la sicurezza, sotto l’impulso diretto del presidente del consiglio Giovanni Spadolini mini_torture_affiorate1

12 Gennaio 1982: Gli avvocati Edoardo di Giovanni e Giovanna Lombardi, nel corso di una conferenza stampa, denunciano le torture cui sono stati sottoposti due loro assistiti: Stefano Petrella e Ennio Di Rocco.

22 Gennaio 1982: Durante una caccia all’uomo nella zona di Tuscania, viene catturato Gianfranco Fornoni. La sua denuncua sulle torture subite troverà spazio solo su Lotta Continua e Il Manifesto. Intanto proseguono gli arresti di massa; nel mese di marzo il sottosegretario agli Interni Francesco Spinelli dichiarerà che in circa 2 mesi sono state arrestate 385 persone, con l’accusa di banda armata. Lo stesso Spinelli, riferendosi alle denuncie di tortura, con cinica arroganza afferma: “Non mi risulta che sia mai morto nessuno. Diciamo che nei confronti degli arrestati ci sono stati trattamenti piuttosto duri, ma sono cose che capitano in tutte le polizie del mondo.

Marzo 1982: Amnesty International dichiara di aver raccolto in 3 mesi una “mole impressionante” di denunce di torture in Italia. “…Tra le nostre fonti non ci sono solo le dichiarazioni delle vittime. Esistono anche lettere di agenti di polizia che lamentano la frequenza con cui la tortura verrebbe applicata a persone arrestate per terrorismo (Espresso 21-3-82)

29 Marzo 1982: Luca Villoresi, giornalista di Repubblica viene arrestato per reticenza. Aveva pubblicato un articolo, il 18 marzo, in cui venivano riportate le testimonianze anonime di due agenti che avevano visto torturare una ragazza. Questo racconto coincideva con quello di Alberta Biliato, che ha denunciato di essere stata torturata nella sede del III distretto di polizia di Mestre.

Dalla perizia del medico legale Mario Marigo, 3 febbraio 1982 Padova. Tracce di tortura compiuta con elettrodi sui genitali di Cesare Di Lenardo, militante dell Brigate rosse in carcere da 29 anni. “Qualcuno prese in mano il mio pene dalla parte anteriore e vi avvicinò qualcosa, forse un filo, attraverso il quale ricevetti una scarica elettrica. La stessa cosa fu ripetuta ai testicoli e all'inguine”.

Torture praticate agli imputati del sequestro Dozier

Sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti del 17 marzo 1983:

1) Genova Salvatore
2) Amore Danilo
3) Di Janni Carmelo
4) Laurenzi Fabio
5) Aralla Giancarlo
6) D’Onofrio Nicandro
7) Carabalona Massimo
8 ) Ignoti

IMPUTATI:

A) del reato di cui agli art. 110, 112 nn.1 e 2, 605/1° e 2° C.P. e 61 n. C.P. per aver illecitamente privato Di Lenardo Cesare della libertà personale, perchè in concorso fra loro prelevavano il Di Lenardo dai locali dell’ispettorato di zona del 2° Reparto Celere, dove era legittimamente detenuto in seguito all’arresto avvenuto il 28/02/82, sottraendolo a coloro che erano investiti della custodia, lo caricavano con mani e piedi legati e con gli occhi bendati nel bagagliaio di un’autovettura e lo trasportavano in una località sconosciuta, dove il Di Lenardo veniva fatto scendere e sottoposto alle percosse e minacce descritte nel capo seguente; indi lo trasportavano nuovamente (sempre nel bagagliaio) nell’area 2° del Reparto Celere e lo conducevano in un sotterraneo, nel quale il Di Lenardo era sottoposto alle percosse e alla violenza descritte nel capo seguente, al termine delle quali veniva riportato nei locali di legittima detenzione; con le aggravanti di aver commesso il fatto abusando dei poteri inerenti alle funzioni di pubblico ufficiale proprie di ciascuno, in numero non inferiore a 5 persone ed al fine di commettere il reato di cui al capo seguente; per Genova inoltre di aver promosso e organizzato la cooperazione nel reato, nonchè di aver diretto l’attività delle persone che vi sono concorse; in Padova tra le 21 e le 24 del 31.03.1982;

B) del reato di cui agli art. 56, 81 cpv., 110, 112 nn.1 e 2, 605/1° e 2° C.P in relazione all’art. 339 C.P., per aver in concorso tra loro e con altri con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo, e minaccia, consistita nell’esplosione di un colpo d’arma da fuoco e successivamente mediante violenza, consistita nel legarlo su di un tavolo, sul quale era stato steso, facendo inghiottire del sale grosso, di cui gli era stata riempita la bocca,e , permanendo lo stato di costrizione sul tavolo, venendogli inoltre impedito di respirare con il naso, facendogli ingoiare una grande quantità d’acqua che veniva continuamente versata nella sua bocca, compiuti atti idonei in modo univoco a costringere Di Lenardo Cesare a rendere dichiarazioni sui reati da lui commessi, senza però che tale evento si verificasse; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione da ciascuno svolta; per Genova, inoltre, di aver promosso e organizzato la cooperazione di più persone nel reato;

C) del reato di cui agli art. 110, 61 n.9, 112 nn. 1 e 2, 582 C.P per aver in concorso tra loro e con altri, volontariamente cagionato a Di Lenardo Cesare, mediante le percosse e la violenza descritte al capo B, lesioni personali in diverse parti del corpo e in particolare all’orecchio sinistro; con le aggravanti di aver commesso il fatto con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione da ciascuno svolta, in numero non inferiore a 5 persone; per Genova, inoltre, di aver promosso e organizzato la cooperazione di più persone nel reato;

Segni delle violenze subite dopo l'arresto nella caserma del II° reparto celere di Padova, 28 febbraio 1982

Amore, Di Janni e Laurenzi del capo
D) del reato di cui agli art. 110, 81 cpv, 61 n.9, 56 e 610 1°e 2° con. C.P. in relazione all’art. 339, per aver in concorso tra loro e con altre persone non identificate, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, con violenza consistita in percosse, nonchè nella provocazione di ustioni alle mani e in altre parti del corpo, nonché una serie di ferite provocate al polpaccio della gamba sinistra con strumenti taglienti od acuminati e nella somministrazione di scariche elettriche, mediante applicazione di strumenti idonei agli organi genitali e nella zona addominale, posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere Di Lenardo Cesare a rendere dichiarazioni sui reati da lui commessi nonchè sulla struttura ed organizzazione della banda armata di cui faceva parte; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alle qualità di pubblico ufficiale;

E) del reato di cui agli art. 110, 81 cpv., 61 n.9, 582 e 585 C.P. per avere con le modalità indicate nel capo precedente cagionato a Di Lenardo Cesare lesioni personali guarite in 20 giorni: con le aggravanti di aver commesso il fatto con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale;

Amore inoltre del capo

F) del reato di cui agli art. 110, 610/1° e 2° co. in relazione all’art. 339, 61 n.9 C.P., perchè in concorso con altre persone non identificate, mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo e minaccia, consistita nel preannunciarle ulteriori e più gravi atti di violenza, costretto Libera Emilia a rendere dichiarazioni sui reati da lei commessi; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale

Ignoti del capo
G) del reato di cui agli art. 81 cpv., 61 n.9 e 610/1° e 2° co. C.P. in relazione all’art. 339, per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, mediante violenza consistita in percosse in diverse parti del corpo, e mediante minaccia consistita nel preannunciare nuovi e più gravi atti di violenza, costretto Savasta Antonio, Libera Emilia, Frascella Emanuela, Ciucci Giovanni a rendere dichiarazioni sui reati da loro commessi; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale:

Segni di elettrodi sul petto di Cesare di Lenardo riscontrati dalla perizia medico-legale

ENNIO DI ROCCO, PROCESSO VERBALE, ROMA 11 GENNAIO 1982
[Interrogatorio avanti al P.M. Domeni Sica]
“La sera del mio arresto venni condotto prima al 1° Distretto di polizia ove ricevetti, nella cella, calci e schiaffi. Poi sono stato spostato alla caserma di Castro Pretorio. Dopo circa un’ora sono arrivati tre incappucciati che hanno incappucciato anche me, mi hanno caricato su un furgone e mi hanno condotto in un luogo che non so riconoscere perchè incappucciato, ma che ritengo essere una casa. In questo luogo per la notte e il giorno successivo (per quel che ho potuto capire) sono stato – a rotazione di squadrette di 3 o 4 persone- picchiato con calci, pugni e bastonate ed in pratica in ogni modo, con le manette strette ai polsi di dietro che venivano torte. Mi è stata poi praticata una puntura al braccio destro. Poi sono stato fatto sdraiare su di un letto e coperto con due coperte, chiaramente al fine di farmi sudare. Per un periodo di tempo che non so dire, dopo che avevo subito la puntura, si sono alternate domande suadenti e botte. Non credo di avere detto nulla sotto questo trattamento.
Il giorno dopo c’è stata una nuova rotazione di percosse, sino a che non è arrivata una squadretta che ha continuato a battermi con i bastoni sulla pianta e sul dorso dei piedi e sulle caviglie; preciso che in tutto questo tempo ero legato con mani e piedi ad un letto. Sono stato picchiato anche sulle ginocchia, sul petto ed in testa. In tutto questo periodo sentivo le urla dell’altro compagno, che ritengo fosse Stefano Petrella, che però ovviamente non vedevo.
Può darsi che io dimentichi qualche altro particolare di questi tre giorni. Incappucciato e dentro a un furgone sono stato spostato in un altro edificio; dopo un viaggio di 45 minuti. Nel nuovo luogo di detenzione sono stato costretto a bere tre bottiglie di Caffè Borghetti, così mi dicevano. Mi sono addormentato e nel sonno mi facevano delle domande in relazione a cose che volevano sapere e alle quali ritengo, bene o male, di essere riuscito a non rispondere.
Può darsi che poi io abbia avuto delle allucinazioni, perchè sognavo di gridare e poi mi sono svegliato dopo essermi orinato addosso. Allora qualcuno si è avvicinato. Dopo un intervallo abbastanza lungo, durante il quale non mi è stato fatto niente, mi hanno fatto mangiare.
Subito dopo sono stato prelevato dal letto e portato in una cucina (che ho potuto intravedere attraverso le bende agli occhi). Sono stato disteso lungo su un tavolo, mi è stato tolto il maglione e la camicia e messo con mezzo busto fuori dal tavolo. Ero a pancia all’aria e avevo le mani e i piedi legati alle gambe del tavolo. Una persona mi torceva gli alluci; altri due mi tenevano gambe e braccia; un altro mi teneva il naso chiuso e mi reggeva la testa. Qualcun altro mi mandava acqua e sale nella bocca, non facendomi respirare e tentando di soffocarmi. Non so quanto tempo ciò sia durato; ad un certo momento finì l’acqua salata e cominciò quella semplice. Ho tentato di uccidermi trattenendo il respiro ma non ci sono riuscito”.

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Il giornalista Buffa arrestato per aver raccontato le torture affiorate
Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture

Le torture nell’Italia 1982: l’arresto del giornalista Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia

Materiali tratti da “Le Torture Affiorate”, Sensibili alle foglie 1998
Fonte: baruda.net/della-tortura/

Pier Vittorio Buffa: “Il rullo confessore” in L’Espresso 28 febbraio 1982

Dalla perizia del medico legale Mario Marigo, 3 febbraio 1982 Padova. Tracce di tortura compiuta con elettrodi sui genitali di Cesare Di Lenardo, militante dell Brigate rosse in carcere da 29 anni. “Qualcuno prese in mano il mio pene dalla parte anteriore e vi avvicinò qualcosa, forse un filo, attraverso il quale ricevetti una scarica elettrica. La stessa cosa fu ripetuta ai testicoli e all'inguine”.


“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ’spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.].
Quest’ultimo piano era infatti diventato -secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo- il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona.
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto ( molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio.
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri. Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le

Il Ministro degli Interni Rognoni

Il Ministro degli Interni Rognoni

minacce di morte (”Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani).
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro ( Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo.
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]

NOTA INFORMATIVA: A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]

SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982
“Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
giornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante siulp_logo_colori_copygli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche, esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.

NOTA INFORMATIVA. L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”

Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè ‘la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale’.
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Saplogo-sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): ” Non ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […]
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche
.”

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1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati
Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture