Massimo Bordin e quel ricordo di un torturatore

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Ho conosciuto Massimo Bordin nel 2011. Stavo terminando l’inchiesta sul capo della squadretta del ministero dell’Interno responsabile delle torture praticate nel maggio 1978 a Enrico Triaca, conosciuto come il tipografo delle Br, e poi durante tutto il 1982 contro altri militanti accusati di appartenere alle Brigate rosse. Matteo Indice, sul Secolo XIX e poi Nicola Rao in un libro avevano avvicinato questo personaggio. Lo avevano intervistato senza tuttavia mai svelarne il nome, si erano limitati ad indicarlo col soprannome di «professor De Tormentis», affibbiatogli dal suo capo Umberto Improta. Soprannome che si era guadagnato sul campo per la sua abilità nel condurre interrogatori sotto tortura, in modo particolare con la tecnica della «cassetta», l’acqua e sale, divenuta nota a livello mondiale dopo Guantanamo con l’etichetta di waterboarding.
Il «professor De Tormentis», raggiunto il grado di questore aveva lasciato la polizia per entrare nel mondo dell’avvocatura (sic!). Era molto orgoglioso del suo passato e disseminava tracce ovunque. Si era candidato in una tornata elettorale con Fiamma Tricolore e aveva scritto persino degli articoli. Insomma l’avevo beccato. Sapevo chi era, dove aveva sede il suo studio legale. Ormai ero certo. Si chiamava Nicola Ciocia. All’epoca lavoravo a Liberazione ma soprattutto ero in semilibertà. Il mio avvocato era molto preoccupato per l’articolo che stavo preparando, temeva ripercussioni immediate, una querela e la mia chiusura in cella. Risultato che qualche tempo dopo cercò di ottenere Roberto Saviano per un’altra vicenda che riguardava le sue bugie sulla madre di Peppino Impastato. Anche in redazione erano preoccupati, alla fine cedetti. Avrei scritto l’articolo riempiendolo con una tale quantità di informazioni circostanziate che bastava fare un clic sul web per conoscere la sua identità (lo potete trovare qui). Non mi arresi, ovviamente, e feci di tutto perché quel nome uscisse comunque, come avvenne qualche tempo dopo sul Corriere della sera. La vicenda poi finì anche in mano alla magistratura, che grazie alla forza di Enrico Triaca e alla competenza dell’avvocato Francesco Romeo riconobbe l’esistenza (leggi qui) delle torture praticate da Ciocia e dalla sua squadra.
Mentre completavo l’inchiesta avevo letto che l’avvocato Nicola Ciocia aveva partecipato al processo Cirillo, del quale era stato durante l’inchiesta, grazie alle innumerevoli sedute di tortura praticate contri gli imputati, uno dei principali inquirenti. Siccome avevo bisogno di ulteriori conferme e dettagli per blindare il pezzo, avevo cercato le registrazioni delle udienze su radio radicale. Massimo Bordin aveva seguito per la radio quel processo. Fu quella la ragione che mi spinse a chiamarlo e prendere un appuntamento. Dopo aver inviato il solito fax al commissariato per comunicare che mi sarei recato nella redazione di radio radicale per motivi di lavoro, raggiunsi via Principe Amedeo. Salii le scale ripide fino all’ultimo piano, dove si trova la sede. Si accedeva all’ufficio di Bordin attraverso un piccolo corridoio. La stanza era piccola con un grande tavolo sommerso di libri e giornali. Un caos perfettamente organizzato. Stava lì con il suo toscano e il suo sorriso. Gli avevo accennato qualcosa per telefono e una volta davanti a lui si accese quella enorme banca dati che era la sua memoria: precisa, circostanziata, visiva, ricca di infiniti aneddoti. Mi disse subito che si ricordava di Ciocia che nel processo teneva la difesa di un poliziotto, suo subordinato quando era ancora in servizio. «Come si può dimenticare quel personaggio!» Esclamo. Mi raccontò immediatamente un episodio che diceva tutto di come Massimo sapeva riassumere le situazioni: Ciocia aveva iniziato il controinterrogatorio di un imputato che lui stesso aveva interrogato durante le indagini. Potete immagina come.
Con fare aggressivo lo incalzava dicendogli: – ma come, non ti ricordi quando con le lacrime agli occhi mi dicevi queste cose?
E l’imputato: – Avvoca’ ma quelle non erano lacrime, erano i suoi sputi!
E Massimo sorrise!

Mi mancherai davvero, ciao!

Per saperne di più su Nicola Ciocia e le torture
Le torture della Repubblica

Il prof. De Tormentis e la pratica della tortura in Italia

Diritto penale contLa rivista Diritto penale contemporaneo dedica un’articolo di commento alla sentenza della corte d’appello di Perugia che il 15 ottobre scorso ha riconosciuto, durante il giudizio di revisione della condanna per calunnia inflitta a Enrico Triaca per aver denunciato le torture subite dopo l’arresto nel maggio 1978, l’esistenza sul finire degli anni 70 e i primissimi anni 80 di un apparato statale della tortura messo in piedi per combattere le formazioni politiche rivoluzionarie che praticavano la lotta armata.
«Più che alla ricerca di verità giudiziarie – si spiega nel testo – questa sentenza deve piuttosto condurre ad essere meno perentori nel sostenere la tesi, così diffusa nel dibattito pubblico e storiografico, secondo cui il nostro ordinamento, a differenza di altri, ha sconfitto il terrorismo con le armi della democrazia e del diritto, senza rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali degli imputati e dei detenuti. In larga misura ciò è vero, ma è anche vero – e questa sentenza ce lo ricorda quasi brutalmente – che anche nel nostro Paese si è fatto non sporadicamente ricorso a strumenti indegni di un sistema democratico: è bene ricordarlo, per evitare giudizi troppo facilmente compiaciuti su un periodo così drammatico della nostra storia recente, e sentenze come quella di Perugia ci aiutano a non perdere la memoria».

Ipse dixit

Sandro Pertini, presidente della Repubblica ex partigiano (ma proprio ex) non eravamo il Cile di Pinochet:
«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi»

Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei carabinieri, al Clarin, giornale argentino:
«
L’Italia è un Paese democratico che poteva permettersi il lusso di perdere Moro non di introdurre la tortura»

Domenico Sica, magistrato pm, in una intervista apparsa su Repubblica del 15 marzo 1982:
«Le denunce contro le violenze subite dagli arrestati fanno parte di una campagna orchestrata dai terroristi per denigrare le forze dell’ordine dopo i recenti clamorosi successi ottenuti»

Armando Spataro, magistrato pm, su Paese sera del 19 marzo 1982 in polemica con il capitano di Ps Ambrosini e l’appuntato Trifirò che avevano denunciato le torture praticate nella caserma di Padova:
«Un conto è la concitazione di un arresto, un conto è la tortura. In una operazione di polizia non si possono usare metodi da salotto. La tortura invece è un’altra»

Giancarlo Caselli e Armando Spataro, magistrati e pm, nel libro degli anni di piombo, Rizzoli 2010:
«Nel pieno rispetto delle regole, i magistrati italiani fronteggiarono la criminalità terroristica, ricercando elevata specializzazione professionale e ideando il lavoro di gruppo tra gli uffici (il coordinamento dei 36) […] La polizia doveva, anche allora, mettere a disposizione della magistratura gli arrestati nella flagranza del reato o i fermati entro 48 ore e non poteva interrogarli a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti….»

 

www.penalecontemporaneo.it 4 Aprile 2014
Corte d’appello di Perugia, 15 ottobre 2013, Pres. Est. Ricciarelli [Luca Masera]

1.In un recente articolo di Andrea Pugiotto dedicato al tema della mancanza nel nostro ordinamento del reato di tortura (Repressione penale della tortura e Costituzione: anatomia di un reato che non c’è, in questa Rivista, 27 febbraio 2014), l’autore prende in esame gli argomenti utilizzati più di frequente da chi intenda negare rilevanza al problema, e nel paragrafo dedicato all’argomento per cui la questione “non ci riguarda”, elenca una serie di casi di tortura accertati in sede giudiziaria. La sentenza della Corte d’appello di Perugia qui disponibile in allegato aggiunge a questo terribile elenco un nuovo episodio, riconducibile peraltro al medesimo pubblico ufficiale già autore di un fatto di tortura citato nel lavoro di Pugiotto.2. In sintesi la vicenda oggetto della decisione.Nel maggio 1978 Enrico Triaca viene arrestato nell’ambito delle indagini per il sequestro e l’uccisione dell’on Moro, in quanto sospettato di essere un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Nel corso di un interrogatorio di polizia svoltosi il 17 maggio, il Triaca riferisce di aver aiutato un membro dell’organizzazione a trovare la sede per una tipografia clandestina, e di avere ricevuto dalla medesima persona la pistola, che era stata rinvenuta in sede di perquisizione; il giorno successivo, sempre interrogato dalla polizia, indica altresì il nominativo di alcuni appartenenti all’organizzazione. Le dichiarazioni rese all’autorità di polizia vengono poi confermate al Giudice istruttore durante un interrogatorio svoltosi alla presenza del difensore. Il 19 giugno, nel corso di un nuovo interrogatorio, il Triaca ritratta quanto affermato in precedenza, affermando “di essere stato torturato e precisando che verso le 23.30 del 17 maggio era stato fatto salire su un furgone in cui si trovavano due uomini con casco e giubbotto, era stato bendato e fatto scendere dopo avere percorso sul furgone un certo tratto, infine era stato denudato e legato su un tavolo: a questo punto mentre qualcuno gli tappava il naso qualcun altro gli aveva versato in bocca acqua in cui era stata gettata una polverina dal sapore indecifrabile; contestualmente era stato incitato a parlare”. In seguito a queste dichiarazioni, il Triaca viene rinviato a giudizio per il delitto di calunnia presso il Tribunale di Roma, che perviene alla condanna senza dare seguito ad alcuno degli approfondimenti istruttori indicati dalla difesa; la sentenza viene poi confermata in sede di appello e di legittimità.La Corte d’appello di Perugia viene investita della vicenda in seguito all’istanza di revisione depositata dal Triaca nel dicembre 2012. La Corte afferma in primo luogo che “il giudizio di colpevolezza si fondò su argomenti logici, in assenza di qualsivoglia preciso elemento probatorio tale da far apparire impossibile che l’episodio si fosse realmente verificato. Tale premessa è necessaria per comprendere il significato del presente giudizio di revisione, volto ad introdurre per contro testimonianze, aventi la funzione di accreditare specificamente l’episodio della sottoposizione del Triaca allo speciale trattamento denominato waterboarding”. Nel giudizio di revisione vengono dunque assunte le testimonianze di un ex Commissario di Polizia (Salvatore Genova) e di due giornalisti (Matteo Indice e Nicola Rao) che avevano svolto inchieste su alcuni episodi di violenze su detenuti avvenute dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Ottanta (la vicenda più nota è quella relativa alle violenze commesse nell’ambito dell’indagine sul sequestro del generale Dozier nel gennaio 1982: è l’episodio cui viene fatto cenno nel lavoro del prof. Pugiotto, citato sopra) ad opera di un gruppo di poliziotti noto tra le forze dell’ordine come “i cinque dell’Ave Maria”, agli ordini del dirigente dell’Ucigos Nicola Ciocia, soprannominato “prof. De Tormentis”. Il Genova (che aveva personalmente assistito agli episodi relativi al caso Dozier) aveva organizzato, in due distinte occasioni, un incontro tra i suddetti giornalisti ed il Ciocia, il quale ad entrambi aveva riferito delle violenze commesse dal gruppo da lui diretto sul Triaca, che era stato il primo indagato per reati di terrorismo ad essere sottoposto alla pratica del waterboarding, in precedenza “sperimentata” su criminali comuni. Sulla base di queste convergenti testimonianze, e ritenendo che “la mancata escussione della fonte diretta non comporta inutilizzabilità di quella indiretta, peraltro costituente fonte diretta del fatto di per sé rilevante della personale rilevazione da parte del Ciocia”, la Corte conclude che “la pluralità delle fonti consente di ritenere provato che un soggetto, rispondente al nome di Nicola Ciocia, confermò di avere, quale funzionario dell’Ucigos al tempo del terrorismo, utilizzato più volte la pratica del waterboarding (…) la stessa pluralità delle fonti, sia pur – sotto tale profilo – indirette, consente inoltre di ritenere suffragato l’assunto fondamentale che a tale pratica fu sottoposto anche Enrico Triaca”. La sentenza di condanna per calunnia a carico del Triaca viene quindi revocata, e viene disposta la trasmissione degli atti alla Procura di Roma per quanto di eventuale competenza a carico del Ciocia (la Corte ovviamente è consapevole del lunghissimo tempo trascorso dei fatti, ma reputa che “la prescrizione va comunque dichiarata e ad essa il Ciocia potrebbe anche rinunciare”).

3. La sentenza in allegato rappresenta solo l’ultima conferma di quanto la tortura sia stata una pratica tutt’altro che sconosciuta alle nostre forze di polizia durante il periodo del terrorismo. La squadra di agenti comandata dal Ciocia ed “esperta” in waterboarding non agiva nell’ombra o all’insaputa dei superiori: a quanto riferito dal Genova, della cui attendibilità la Corte non mostra di aver motivo di dubitare, i metodi dei “cinque dell’Ave Maria” erano ben noti a quanti, nelle forze dell’ordine, si occupavano di terrorismo, ed addirittura la sentenza riferisce come, in un’intervista rilasciata dallo stesso Ciocia, egli riferisca che l’epiteto di “prof. De Tormentis” gli fosse stato attribuito dal vice Questore dell’epoca, Umberto Improta. Quando poi una delle vittime, come il Triaca, trovava il coraggio per denunciare quanto subito, le conseguenze sono quelle riportate nella sentenza allegata: condanna per calunnia, senza che Il Tribunale svolga alcuna indagine per accertare la falsità di quanto riferito.

Il quadro che emerge dalla sentenza è insomma a tinte assai fosche. Negli anni Settanta-Ottanta, operava in Italia un gruppo di funzionari di polizia dedito a pratiche di tortura; e l’esistenza di questo gruppo era ben nota e tollerata all’interno delle forze dell’ordine, anche ai livelli più alti. La magistratura in alcuni casi ha saputo reagire a queste intollerabili forme di illegalità (esemplare è il processo, anch’esso citato nel lavoro di Pugiotto, celebrato presso il Tribunale di Padova nel 1983 in relazione proprio ai fatti relativi al caso Dozier), in altre occasioni, come quella oggetto della sentenza qui in esame, ha preferito voltarsi dall’altra parte, colpevolizzando le vittime della violenza per il fatto di avere voluto chiedere giustizia .

La sentenza non riferisce fatti nuovi: le fonti su cui si basa la decisione sono le testimonianze di due giornalisti, che avevano pubblicato in libri ed articoli le vicende e le confessioni poste a fondamento della revisione. Fa comunque impressione vedere scritto in un provvedimento giudiziario, e non in un reportage giornalistico, che nelle nostre Questure si praticava la tortura; e fa ancora più impressione se si pensa che la metodica utilizzata, il famigerato waterboarding, è la medesima che in anni più recenti è stata utilizzata dai servizi segreti americani per “interrogare” i sospetti terroristi di matrice islamista: passano gli anni, ma la tortura e le sue tecniche non passano di moda.

Ormai sono trascorsi decenni dalle condotte del prof. De Tormentis e della sua squadra, ed al di là del dato formale – posto in luce dalla Corte perugina – che la prescrizione è rinunciabile, davvero non ci pare abbia molto senso immaginare la riapertura di inchieste penali volte a concludersi invariabilmente con una dichiarazione di estinzione del reato, per prescrizione o per morte del reo, considerato il lunghissimo tempo trascorso dai fatti. Più che alla ricerca di verità giudiziarie, la sentenza qui allegata deve piuttosto condurre ad essere meno perentori nel sostenere la tesi, così diffusa nel dibattito pubblico e storiografico, secondo cui il nostro ordinamento, a differenza di altri, ha sconfitto il terrorismo con le armi della democrazia e del diritto, senza rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali degli imputati e dei detenuti. In larga misura ciò è vero, ma è anche vero – e questa sentenza ce lo ricorda quasi brutalmente – che anche nel nostro Paese si è fatto non sporadicamente ricorso a strumenti indegni di un sistema democratico: è bene ricordarlo, per evitare giudizi troppo facilmente compiaciuti su un periodo così drammatico della nostra storia recente, e sentenze come quella di Perugia ci aiutano a non perdere la memoria.

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Le torture contro i militanti della lotta armata
Gli anni spezzati dalla tortura di Stato

Gli anni spezzati dalla tortura di Stato. Per la seconda volta una sentenza della magistratura riconosce l’uso della tortura contro gli arrestati per fatti di lotta armata

Una sentenza importante. Va dato atto al collegio della corte di appello di Perugia, e all’estensore delle motivazioni, di aver redatto una sentenza coraggiosa e pulita che riscrive totalmente un pezzo della recente storia italiana. Una storia che non troverete certo nelle fiction della Rai. Questo blog ha lavorato sull’intera vicenda dall’inizio stanando chi si nascondeva sotto lo pseudonimo di De Tormentis. Torneremo su questi fatti nei prossimi giorni. Per ora leggete quanto scritto dalla corte di appello di Perugia. Nicola Ciocia, l’ex funzionario Ucigos a cui Improta e De Francisci ricorrevano su mandato del governo per le torture, è considerato dai magistrati “gravato da forti indizi di reità”, pertanto anche se i reati sono prescritti (la tortura non è prevista nel nostro codice penale), la prescrizione – scrivono i giudici – deve essere comunque dichiarata dall’autorità giudiziaria, anche perchè vista la gravità dei fatti imputati, Nicola Ciocia potrebbe rinunciarvi per potersi difendere.
Per questo motivo – concludono i magistrati – gli atti verranno inviati alla procura di Roma. Vedremo cosa accadrà e vedremo anche se Repubblica publicherà la sentenza.

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Per saperne di più
Le torture della repubblica

Il Processo alle torture si farà. La corte d’appello di Perugia accoglie la richiesta di Enrico Triaca, il tipografo delle Br sottoposto a waterboarding dal poliziotto dell’Ucigos Nicola Ciocia

La corte d’appello di Perugia ha accolto la richiesta di revisione del processo che portò alla condanna per calunnia di Enrico Triaca, dopo che questi aveva denunciato le torture subite durante gli interrogatori seguiti all’arresto avvenuto il 17 maggio 1978 nell’ambito delle indagini sul rapimento Moro.
IMG_0475La corte, letta l’istanza presentata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo, sentito il parere favorevole espresso dal procuratore generale, ha ammesso come nuovi testi Nicola Rao, giornalista e autore del libro Colpo al cuore. Dai Pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Spelling & Kupfer, nel quale si riportano le rivelazioni di Nicola Ciocia, ex funzionario dell’Ucigos, in merito alle torture praticate su Enrico Triaca; Salvatore Rino Genova, ex commissario della Digos che ha raccolto le confidenze di Ciocia sulle torture realizzate contro Triaca ed ha assistito alle altre sevizie e torture praticate da Ciocia negli anni successivi sul corpo di altre persone arrestate con l’accusa di appartenere alle Brigate rosse; e infine di Matteo Indice, giornalista del Secolo XIX che nel 2007 raccolse la testimonianza di Genova e le ammissioni di Ciocia che raccontò (a condizione di apparire soltanto con lo pseudonimo di “professor De Tormentis”, il nomignolo che gli era stato affibbiato durante una pausa delle torture da Umberto Improta) di essere stato a capo di una squadra speciale del ministero degli Interni, addetta agli interrogatori sotto tortura, creata nel 1978 durante il sequestro Moro ma che aveva sperimentato i suoi metodi già a metà degli anni 70 nell’inchiesta napoletana contro i Nap e contro la criminalità organizzata, e che ebbe mani libere durante tutto il 1982 dopo la decisione del governo Spadolini di ricorrere in modo sistematico all’uso della tortura per contrastare la lotta armata. La corte ha accolto per intero le prove documentali presentate, tra cui l’intervista di Fulvio Bufi, apparsa sul Corriere della sera del 10 febbraio 2012 (leggi qui), nella quale Ciocia ammette di essere il “professor De Tormentis”.
La corte si è riservata di valutare la posizione di Nicola Ciocia, l’altro teste indicato dalla difesa di Triaca per le sue dichiarazioni autoaccusatorie, rinviando la decisione a dopo l’esame degli altri testimoni. Le loro dichiarazioni infatti potrebbero risultare “indizianti”, modificando la posizione di Ciocia da teste a indiziato seppur per fatti oggi prescritti (ricordiamo che il reato di tortura non è previsto dal codice penale italiano, le sevizie commesse da funzionari dello Stato vengono equiparate a normali violenze e lesioni private i cui tempi di prescrizione sono molto rapidi), trasformandolo in “testimone assistito” dal proprio difensore che proprio perché non potendo più essere imputato o indagato, non potrebbe più avvalersi della facoltà di non rispondere o dichiarare il falso, pena il reato di falsa testimonianza o reticenza, reato che essendo commesso sul momento non sarebbe più cancellato dalla prescrizione.
Di seguito il dispositivo letto dal presidente Giancarlo Massei


Corte d’appello di Perugia

Presidente Giancarlo Massei
Relatore Massimo Ricciarelli
Procuratore generale Massimo Cosucci

La Corte d’appello di Perugia,
letta l’istanza di revisione presentata nell’interesse di Triaca Enrico, valutati gli elementi di prova addotti, letta la lista dei testi depositata nelle more,
rilevato che in relazione alle fonti e ai temi di prova indicati si impone l’ammissione in qualità di testi di Nicola Rao, Salvatore Rino Genova e Matteo Indice, dovendosi invece formulare una riserva con riguardo alla posizione di Nicola Ciocia da rivalutarsi alla luce delle dichiarazioni che saranno rese dagli altri testi potendosi allo stato profilare elementi indizianti tali da determinare incompatibilità alla testimonianza richiesta.
Ritenuto inoltre di ammettere tutte le prove documentali prodotte, per questi motivi ammette le prove documentali prodotte e ammette altresì in qualità di testi Nicola Rao, Salvatore Rino Genova, Matteo Indice, con la riserva in ordine della posizione di Nicola Ciocia.
Dispone che la citazione dei testi avvenga a cura della difesa e rinvia la causa per l’audizione dei testi all’udienza del 15 ottobre 2013 ore 9 invitando le parti a comparire senza ulteriori avvisi.

Perugia 18 giugno 2013

La registrazione audio dell’udienza (fonte www.radioradicale.it)

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Dalle torture a Bilderberg, l’ambigua posizione dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato
Processo alle torture, il professor De Tormentis chiamato a testimoniare. Il prossimo 18 giugno la decisione della magistratura

Processo alle torture, il “professor De Tormentis” chiamato a testimoniare. Il prossimo 18 giugno la decisione della magistratura

La richiesta di revisione della condanna per calunnia pronunciata contro Enrico Triaca dopo la denuncia delle torture subite nel 1978 è giunta ad un punto di svolta. Il prossimo martedì 18 giugno si terrà una prima udienza davanti alla corte d’appello di Perugia chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle nuove prove presentate. Se la corte dovesse accogliere l’istanza della difesa di Triaca si riaprirà il dibattimento. Forse vedremo per la prima volta il volto di Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, sapremo allora se l’ex funzionario dell’Ucigos avrà il coraggio di reggere lo sguardo dell’uomo che torturò con l’acqua e sale nel 1978.
Sarà chiamato a testimoniare anche Salvatore Genova, collega e compartecipe di Ciocia le cui rivelazioni hanno squarciato il muro di omertà durato decenni, insieme ad altri testi che hanno raccolto in questi anni rivelazioni e ammissioni

Libri – Dagli anni 70 a Bolzaneto, la continuità trentennale d’apparati, metodi e in certi casi anche di uomini nel ricorso alla tortura

th_1dd1d6fe940b0becc9a0299f6069644e_tortura_cop-1«Ciò che qualifica la tortura – scrive Patrizio Gonnella in, La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica, DeriveApprodi – non è la crudeltà oggettiva del torturatore, ma lo scopo della violenza». Una violenza che può avere due obiettivi: uno giudiziario ed uno politico-simbolico. Nel primo caso si tratta di estorcere informazioni da utilizzare per lo sviluppo successivo delle indagini o da impiegare in sede processuale come dichiarazioni accusatorie; nel secondo il fine è quello di esaltare il potere punitivo dello Stato. I due scopi spesso si sovrappongono: la tortura giudiziaria contiene sempre quella punitiva, mentre la tortura punitiva non sempre contiene la ricerca d’informazioni.
Le torture praticate contro i militanti rivoluzionari accusati di appartenere a gruppi armati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 erano un classico modello di tortura investigativa. Operate dalle forze di polizia, contenevano entrambi gli obiettivi: estorcere informazioni e disintegrare l’identità politico-personale del militante. La deprivazione sensoriale assoluta, introdotta negli anni 90 attraverso l’isolamento detentivo previsto con il regime carcerario del 41 bis, è invece la forma più avanzata di tortura giudiziaria. Congeniata per sostituire la tortura investigativa, ha rappresentato una ulteriore tappa del processo di maturazione dell’emergenza italiana che ha visto la progressiva giudiziarizzazione delle forme di stato di eccezione, non più controllate dall’esecutivo ma dalla magistratura.
I pestaggi che avvengono nelle carceri o nelle camere di sicurezza delle forze di polizia appartengono invece al genere della tortura punitiva, ispirata dal sopravanzare di visioni etico-morali dello Stato: correggere comportamenti ritenuti fuori norma riaffermando la gerarchia del comando. Così è avvenuto nel carcere di Asti tra il 2004 e il 2005, dove una sentenza della magistratura ha registrato le violenze imposte ai detenuti per ribadire e legittimare i rapporti di potere all’interno dell’istituto di pena.
Una situazione analoga si è verificata nella tragica vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi, anche se in questo caso sussistono fondati sospetti che la violenza punitiva ricevuta nelle camere di sicurezza del tribunale, gestite dalla polizia penitenziaria, sia stata preceduta da violenze subite nella fase investigativa prima dell’ingresso in carcere.
In linea generale le violenze poliziesche hanno un carattere «informe», non a caso Walter Benjamin ne coglieva l’aspetto «spettrale, inafferrabile e diffuso in ogni dove nella vita degli Stati civilizzati», al punto da costituire una delle tipicità proprie dell’antropologia statuale. Queste violenze variano d’intensità, d’episodicità ed estensione con il mutare dei rapporti sociali e il modificarsi della costituzione materiale di un Paese. Ci sono poi momenti storici in cui questa violenza si condensa, assumendo una forma sistematica che si avvale dell’azione d’apparati specializzati. Quella che è una caratteristica permanente degli Stati dittatoriali denota anche il funzionamento delle cosiddette democrazie quando entrano in situazioni d’eccezione. Nell’Italia repubblicana è avvenuto almeno due volte: nel 1982, quando il governo presieduto dal repubblicano Spadolini diede il via libera all’impiego della tortura per contrastare l’azione delle formazioni della sinistra armata e nel 2001, durante le giornate del G8 genovese.
Se nel primo caso si è fatto ampio ricorso alla tortura investigativa e ad un inasprimento del regime carcerario speciale, già in corso da tempo, con una estensione dell’articolo 90 e la sperimentazione di quel che sarà poi il regime del 41 bis, con i pestaggi dei manifestanti, il massacro all’interno della scuola Diaz e le sevizie praticate nella caserma di Bolzaneto durante il G8 genovese si è dato vita ad una gigantesca operazione di tortura punitiva e intimidatoria nei confronti di una intera generazione.
In entrambe le circostanze vi è stato un input centrale dell’esecutivo, la presenza di una decisione politica, la creazione di un apparato preposto alle torture e l’individuazione di luoghi appositi, di fatto extra jure, oltre all’atteggiamento connivente delle procure. Se nel 1982 – fatta eccezione per un solo caso – queste insabbiarono tutte le denunce, nel 2001 hanno facilitato la riuscita del dispositivo Bolzaneto, come dimostra il provvedimento fotocopia predisposto prima dei fermi in vista delle retate di massa. Adottato per ciascuna delle persone arrestate, prevedeva in palese contrasto con la legge il divieto di incontrare gli avvocati. Un modo per garantire l’impenetrabilità dei luoghi dove avvenivano le sevizie che restarono così protetti da occhi e orecchie indiscrete per diversi giorni.
Nonostante tanta familiarità con la storia del nostro Paese, la tortura non è un reato previsto dal codice penale e ciò in aperta violazione degli impegni internazionali assunti dall’Italia, l’ultimo nel 1984. Se la giuridicità ha un senso, il suo divieto andrebbe integrato nella costituzione al pari del rifiuto della pena di morte. La sua condanna, infatti, attiene alla sfera delle norme fondatrici, alla concezione dei rapporti sociali, ai limiti da imporre alla sfera statale. Non è una semplice questione di legalità, la cui asticella può essere innalzata o abbassata a seconda delle circostanze storiche.
In ogni caso introdurre questo capo d’imputazione ha senso solo se prefigurato come “reato proprio”. «La tortura – spiega Eligio Resta – è crimine di Stato, perpetrato odiosamente da funzionari pubblici: vive all’ombra dello Stato», come ha sancito la Convenzione Onu del 1984. Nella scorsa legislatura, invece, il Parlamento italiano aveva elaborato una bozza che qualificava la tortura come reato semplice, un espediente che lungi dal limitare l’uso abusivo della forza statale ne potenziava ulteriormente l’arsenale repressivo alimentando il senso d’impunità profondo dei suoi funzionari.
Ancora nel marzo del 2012, l’allora sottosegretario agli Interni, prefetto Carlo De Stefano, rispondendo ad una interpellanza parlamentare della deputata radicale Rita Bernardini era riuscito ad affermare che almeno fino al 1984 in alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia erano presenti «limitazioni» di «non di poco conto, (morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica)», al divieto di fare ricorso all’uso della tortura. Un modo per mettere le mani avanti e richiamare una inesistente protezione giuridica alle torture praticate in Italia fino a quel momento.
D’altronde fu lo stesso Presidente della Repubblica Sandro Pertini che nel 1982, per rimarcare la distanza che avrebbe separato l’Italia dalla feroce repressione che i generali golpisti stavano praticando in Argentina, affermò: «In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi». Di lui, ebbe a dire una volta lo storico dirigente della sinistra socialista Riccardo Lombardi, «ha un coraggio da leone e un cervello da gallina».
In Italia le torture c’erano, anche se in quei primi mesi del 1982 non vennero inferte negli spogliatoi degli stadi ma in un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al quotidiano L’Arena l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli e lo ha confermato anche Salvatore Genova, allora commissario Digos). Si torturava anche all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che rispondeva al ministro dell’Interno Virginio Rognoni.
Sulle gesta realizzate da questo apparato parallelo sono emersi negli ultimi tempi fatti nuovi, circostanze, testimonianze, ammissioni. Il prossimo 18 giugno la corte d’appello di Perugia si riunirà per decidere se riaprire uno dei pochi processi in cui l’imputato denunciò di avere subito torture. Il seviziatore di Enrico Triaca, conosciuto con lo pseudonimo di professor De Tormentis, ha ammesso in un libro di avergli praticato il waterboarding nel maggio del 1978, in quello che fu un assaggio di quanto avvenne quattro anni dopo. Il suo nome è Nicola Ciocia, oggi ex questore in pensione, ieri funzionario dell’Ucigos. Cosa farà la magistratura?
Vorrà ribadire ancora una volta che l’Italia ha sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi?

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Le torture della Repubblica

Le parole di un torturato bussano alle porte del Quirinale, Enrico Triaca scrive a Giorgio Napolitano

«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi», disse una volta Sandro Pertini, Presidente della Repubblica. Il vecchio Pertini, ormai un po’ troppo in avanti con gli anni (in un discorso di fine anno confuse la dittatura militare guatemalteca con il Nicaragua insorto; il giorno dopo la retata del 7 aprile 1979 inviò un telegramma al pm Calogero – alla faccia della separazione dei poteri – per complimentarsi della sua inchiesta-teorema su una fantomatica cupola insurrezionale e degli arresti del giorno prima, più o meno lo stesso stile del suo acerrimo nemico di un tempo, il Duce Benito Mussolini), era in buona fede quando pronunciò queste incaute parole. Non mentiva con se stesso, semplicemente non vedeva, non voleva vedere, non poteva più vedere, troppo lontana nel tempo era la sua cella sull’isola-carcere di santo Stefano e la condanna inferta dal Tribunale speciale.
La lotta armata e la sovversione sociale in Italia vennero sconfitti dai mutamenti produttivi, dalla rivoluzione neoconservatrice che lentamente prosciugarono le basi sociali della rivolta, ma è vero che nel corso di quella guerra civile vennero inferti duri colpi non «negli spogliatoi degli stadi», aveva ragione Pertini, ma in un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda di proprietà di un parente di un poliziotto (lo racconta l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli e lo conferma anche Salvatore Genova, commissario Digos), oppure all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta da Gaspare De Francisci, a cui partecipavano Salvatore Genova, Oscar Fioriolli, De Gregorio e Nicola Ciocia, o ancora in altre caserme d’Italia, quella della Celere di Padova (Cesare Di Lenardo parla di un locale dove c’erano delle docce). Anche Enrico Triaca, prelevato dalla caserma di Castro pretorio, accanto alla stazione Termini di Roma, arriva bendato in un posto dove c’era sicuramente un cancello metallico con apertura automatica. Probabilmente anche questa una caserma, situata forse in cima ad una salita, ancora in città o nelle immediate vicinanze.
Non erano stadi ma erano caserme, come la famigerata Esma argentina, la scuola meccanica della marina dove vennero torturati ed uccisi centinania di militanti di sinistra e oppositori della giunta militare.

Enrico Triaca ha deciso di bussare alle porte del Quirinale, inviando una lettera aperta al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «perché convinto che questa storia non è, e non può essere, solo, storia giudiziaria, se è vero, quel che ci dicono gli ex funzionari, questa volta non si può licenziare la cosa con frasi tipo: parti deviate dello Stato, mele marce o schegge impazzite. Questa volta è lo Stato tutto ad essere coinvolto, la Politica che ordinò le torture, i “bravi” tutori dell’ordine che le eseguirono, la magistratura che li assolse, i media che li coprirono».
Da oltre un anno sono emersi sui media e in un libro fatti nuovi, circostanze, testimonianze, amissioni, rivelazioni. Che farà Napolitano? Vorrà ribadire ancora una volta che «In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi»?


Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
di Enrico Triaca

jpg_2178052Esimio Presidente, scrivo a Lei in quanto Presidente della Repubblica, Capo della Magistratura e uomo politico che ha attraversato l’intera Storia, fino ad oggi, della Repubblica italiana.
E’ certamente per Lei una degna chiusura di carriera la presidenza quirinalizia, come immagino qualsiasi politico agogni per se stesso, anche se, lavoro faticoso, specie in questo inizio di Secolo, in cui decisioni forti sono state prese, come il dover imporre un Professore alla guida del Paese per risolvere i problemi che ci angustiano.
E a ben vedere non è la prima volta che l’Italia si affida a “Professori” per risolvere i propri problemi, già negli anni 70/80 lo Stato fece ricorso ad un “Professore”, in questo caso, al famigerato “Professor de Tormentis” ovvero un ex funzionario di Stato, dell’UCIGOS, così soprannominato dai suoi colleghi e amici. Tale “Professore” ha di recente dichiarato, ma in realtà ci sono anche le testimonianze dell’ex commissario Salvatore Genova, di aver praticato la tortura contro prigionieri politici di quegli anni. Si è vantato (dietro anonimato) di essere lui il torturatore di Stato, il professionista della Tortura, che veniva inviato nelle varie questure italiane quando si ritenevano necessari  i “servigi” suoi, e dei suoi collaboratori.
Da tali confessioni e testimonianze si evince che questo personaggio ha goduto della protezione e copertura della Politica, e non solo.
Tale personaggio, che oggi sappiamo chiamarsi Nicola Ciocia, ha confessato di avermi torturato;  torture che io denunciai di aver subito nel 1978 e per la cui denuncia fui, oltretutto, condannato per calunnia.
Oggi chiedo la revisione di quella condanna, perché la verità venga ristabilita, ma visto il silenzio, POLITICO, che sta accompagnato questa vicenda dopo che stampa e televisione ne hanno denunciato l’avvenimento, non nutro molta speranza nell’esito positivo di questa storia. Pur tuttavia, è una strada che sento di dover percorrere, anche perché ci sono personaggi, coinvolti, o che quanto meno sanno, che ancora oggi ricoprono ruoli Istituzionali, e per contro ci sono ancora prigionieri che sono in carcere dopo 30 anni, dopo aver subito torture dallo Stato che Lei, magnificamente, oggi  rappresenta.
Scrivo a Lei, Presidente, perché convinto che questa storia non è, e non può essere, solo, storia giudiziaria, se è vero, quel che ci dicono gli ex funzionari, questa volta non si può licenziare la cosa con frasi tipo: parti deviate dello Stato, mele marce o schegge impazzite. Questa volta è lo Stato tutto ad essere coinvolto, la politica che ordinò le torture, i “bravi” tutori dell’ordine che le eseguirono, la magistratura che li assolse, i media che li coprirono. E capisco anche le difficoltà alle quali dovete far fronte, per 30 anni avete raccontato al popolo di aver vinto usando, solo, i mezzi e gli strumenti che la legge e la Costituzione vi consentivano, ma è proprio in questi frangenti che si misura la DIGNITA’ e AUTOREVOLEZZA di una persona, di uno STATO.
Lei oltre ad essere l’attuale Presidente della Repubblica è stato, anche, un membro autorevole del Pci, Ministro dell’ Interno e Presidente della Camera, sarebbe quindi logico e coerente un suo intervento; trovo paradossale che in una Società civile, uno Stato di diritto, come si pretende l’Italia, la società civile si interroghi su questi fatti, di cui non serve sottolineare la gravità, mentre la politica e quindi Lei, che ne rappresenta la massima espressione, taccia; la gravità Presidente non risiede solo nel fatto che dei prigionieri 30 anni fa venivano torturati in questo paese, ma nel fatto che tali pratiche si sono succedute nel tempo; ancora oggi  ragazzi vengono massacrati e uccisi nelle caserme, questure, carceri e sui marciapiedi.
Lei poco tempo fa ebbe a dire che “i processi celebrati in quegli anni sono stati processi svolti in uno Stato di Diritto” sottintendendo, così almeno io l’ho letto, processi giusti, equi, ebbene io un dubbio ce lo avrei e credo che anche a Lei dovrebbe venirle leggendo queste righe, ed a maggior ragione, leggendo le confessioni di Nicola Ciocia e Salvatore Genova, ex funzionari di Stato e non “terroristi”.
Signor Presidente, le trascrivo un articolo, sul processo per calunnia ai miei danni, di quello che fu l’organo di informazione del suo partito, il Pci, L’Unità dell’8 novembre 1978: «L’avvocato Alfonso Cascone ha invece avanzato apertamente il sospetto che le accuse di Triaca alla polizia fossero false e che il suo assistito avesse mentito poiché – pensando di essere considerato dalle BR un delatore – temeva rappresaglie. Il reato di calunnia, ha detto quindi il legale, sarebbe stato compiuto in “stato di necessità”. Nonostante i dubbi suscitati dal comportamento della polizia durante il processo, dunque, uno scorcio di verità è arrivata inaspettatamente proprio da uno dei difensori del tipografo delle BR».
L’avvocato Alfonso Cascone presentò una denuncia contro il giornale che venne, immediatamente, archiviata.
Anche l’attuale Esecutivo è stato investito della questione con una interpellanza parlamentare, ma la risposta è stata elusiva e fuorviante, oltretutto affidata ad un personaggio, ironia della sorte,  il cui nome era già, comunque, apparso nella vicenda che mi riguarda.
Ogni volta che una vetrina viene danneggiata in un corteo, politici, magistrati, sindacalisti, opinionisti, intellettuali, si lanciano nella ricerca della frase più di condanna più brillante: fiumi di inchiostro invadono le colonne dei giornali per giorni, per contro solo trafiletti quando ad usare la violenza è un corpo o lo Stato tutto; e la differenza si nota Signor Presidente e rende risibile qualsiasi frase ad effetto pronunciata contro la violenza.
E di frasi “IMPEGNATIVE” ne sono state pronunciate tante, ne riporto solo due:

“Alcuna ragione di Stato può giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità, l’unica ragione di Stato è la verità” Mario Monti, Presidente del Consiglio (23 maggio 2012) Parole riprese e confermate da Anna Maria Cancellieri, Ministro degli Interni. Con riferimento all’attentato alla scuola di Brindisi.

“Non ci sono ragioni di dissenso politico e tensione sociale che possano giustificare ribellismi, illegalismi, forme di ricorso alla forza destinate a sfociare in atti di terrorismo”.
Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica (09 maggio 2012). In occasione della giornata della memoria delle vittime del terrorismo.
Restando a sua disposizione per ogni eventuale altro chiarimento le invio i miei più Cordiali Saluti.
Enrico Triaca

Per chi vuole approfondire
Torturartori che siedono ancora sulle poltrone del Viminale
L’ordine dall’alto: 8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura
Il brigatista torturato vuole sapere tutto sulla squadra speciale guidata da Nicola Ciocia che praticava il waterboarding
Ciocia-De Tormentis: “Torturavo per il bene dell’Italia”
Chi è “Tormentis”?
Condannato per calunnia dopo-aver-denunciato le torture, Triaca chiede la revisione del-processo
Enrico Triaca denunciò le torture ma fu condannato per calunnia. In un libro il torturatore Nicola Ciocia-alias De Tormentis rivela “Era tutto vero”. Parte la richiesta di revisione
Triaca: “De Tormentis mi ha torturato così
Triaca: dopo la tortura l’inferno del carcere/ seconda parte
Che delusione professore! Una lettera di Enrico Triaca a Nicola Ciocia-professor De Tormentis
Processo verso la revisione per il tipografo Br torturato

Condannato per calunnia dopo aver denunciato le torture subite, Enrico Triaca ha presentato istanza alla corte d’appello di Perugia e una lettera a Napolitano per chiedere la revisione del processo

Fonte www.tmnews.it

Roma, 12 dic. (TMNews) – Una istanza di revisione alla corte d’appello di Perugia e una lettera al presidente della Repubblica per denunciare che lui dopo l’arresto del 17 maggio 1978 fu torturato dalla polizia con la tecnica dell’acqua e sale oggi nota come waterboarding. E’ una richiesta che potrebbe riaprire una pagina di storia della lotta al terrorismo quella presentata ai magistrati umbri dai legali di Enrico Triaca, il cosiddetto “tipografo delle Brigate rosse”.

Dietro le sbarre, per il coinvolgimento nella banda armata, lui è rimasto oltre 15 anni. La pena che contesta, che non gli è mai andata giù, è quella ad un anno 1 anno e 4 mesi per il reato di calunnia a danno proprio di quello Stato che lo aveva torturato. Il riferimento nell’atto firmato dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo, è all’attività dei “cinque dell’ave maria” e del “professor de Tormentis”. E poi da febbraio del 2012 è notorio chi si nascondeva dietro quello pseudonimo, perché quell’ex funzionario di polizia è stato intervistato da un noto quotidiano ed ha dato la sua versione dei fatti.

L’avvocato Romeo aggiunge: “E’ molto facile indignarsi e criticare la tortura quando viene praticata in altri paesi; è molto facile zittire con una condanna per calunnia, chi ha denunciato di essere torturato; è difficile, anzi, impossibile, affrontare la propria cattiva coscienza anche se appartiene al passato. Ci auguriamo, inoltre, che possa contribuire a rompere l’assordante silenzio tenuto dalle istituzioni e dalla magistratura romana dopo che la notizia sulle torture praticate dal ‘professor De Tormentis’ è divenuta di dominio pubblico”.

In una lettera inviata al presidente della Repubblica, Triaca spiega: “Chiedo la revisione di quella condanna per calunnia, perché la verità venga ristabilita, ma visto il silenzio, politico, non nutro molta speranza nell’esito positivo di questa storia. Pur tuttavia, è una strada che sento di dover percorrere, anche perché ci sono personaggi, coinvolti, o che quanto meno sanno, che ancora oggi ricoprono ruoli istituzionali, e per contro ci sono ancora prigionieri che sono in carcere dopo 30 anni, dopo aver subito torture dallo Stato che lei, magnificamente, oggi rappresenta”.

Questa storia – argomenta Triaca – “non si può licenziare la cosa con frasi tipo: parti deviate dello Stato, mele marce o schegge impazzite”. Ora “è lo Stato tutto ad essere coinvolto, la politica che ordinò le torture, i ‘bravi’ tutori dell’ordine che le eseguirono, la magistratura che li assolse, i media che li coprirono. E capisco anche le difficoltà alle quali dovete far fronte, per 30 anni avete raccontato al popolo di aver vinto usando, solo, i mezzi e gli strumenti che la legge e la costituzione vi consentivano, ma é proprio in questi frangenti che si misura la dignità e autorevolezza di una persona, di uno Stato”.


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“De Tormentis” è venuto il momento di farsi avanti

Torturartori che siedono ancora sulle poltrone del Viminale. Chi ha coperto il massacro della Diaz è stato condannato e dimesso dagli incarichi, Oscar Fioriolli che ha torturato negli anni 80 è ancora al suo posto

Oscar Fioriolli, non dimenticate mai questo nome. Nella nota diffusa dopo la conferma definitiva delle condanne pronunciata dalla Cassazione contro i vertici investigativi del ministero dell’Interno, il capo della Polizia Antonio Manganelli dichiarava con parole che si volevano rassicuranti per i citadini :

«Ora, di fronte al giudicato penale, è chiaramente il momento delle scuse. Ai cittadini che hanno subito danni ed anche a quelli che, avendo fiducia nell’Istituzione-Polizia, l’hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza. Per migliorare il proprio operato, a tutela della collettività, nell’ambito di un percorso di revisione critica e di aperto confronto con altre istituzioni, da tempo avviato, la Polizia di Stato ha tra l’altro istituito la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico al fine di meglio preparare il personale alla gestione di questi difficili compiti. Il tutto per assicurare a questo Paese democrazia, serenità e trasparenza dell’operato delle forze dell’ordine, garantendo il principio del quieto vivere dei cittadini».

A dirigere questa scuola, nata con decreto del capo della Polizia il 24 ottobre 2008 e operativa dal 1° dicembre successivo «con l’obiettivo – come recita il comunicato del ministero degli Interni – di formare personale specializzato capace di intervenire con professionalità in caso di eventi che possono degenerare dal punto di vista dell’ordine pubblico, come manifestazioni, cortei ed eventi pubblici, per garantire ancor meglio la sicurezza di tutta la collettività», è stato chiamato il prefetto Oscar Fioriolli.

Chi è questo grande esperto a cui il capo della Polizia ha attribuito il compito di formare dirigenti, funzionari e agenti di Ps affinché ricorrano a condotte più “professionali” durante manifestazioni, cortei ed eventi pubblici per evitare quanto accaduto a Genova nel 2001?

Fioriolli è stato questore ad Agrigento, Modena, Palermo, Genova (subito dopo il G8) e poi a Napoli. Risulta anche indagato in una inchiesta sugli appalti Finmeccanica condotta dai pm della procura di Napoli e in una indagine portata avanti dalla procura genovese su una strana vicenda di consulenze per auto blindate richieste da un dittatore della Guinea Conakry e rapporti con un faccendiere siriano che gli avrebbe elargito una somma di 50 mila euro. Questi scarni cenni biografici tuttavia ci dicono ancora molto poco del ruolo avuto da un funzionario che è stato nel cuore del dispositivo antiterrorismo del ministero degli Interni in anni cruciali (dalla metà degli anni 70 in poi).

Per conoscere qualcosa di più del suo passato dobbiamo ricorrere alla testimonianza di un suo collega: l’ex commissario della Digos e poi questore Salvatore Genova, che lo descrive (cf. l’Espresso del 6 aprile 2012;vedi anche la testimonianza video) mentre all’ultimo piano della questura di Verona conduce l’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, una sospetta fiancheggiatrice delle Brigate rosse arrestata il 27 gennaio 1982.

«Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».

Era in corso il sequestro del generale americano James Lee Dozier, vicecomandante della Fatse (Comando delle Forze armate terrestri alleate per il sud Europa) con sede a Verona, da parte delle Brigate rosse-partito comunista combattente. Sempre secondo la testimonianza fornita da Salvatore Genova, nel corso di una riunione convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci presso la questura di Verona, presenti Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del gruppo di super investigatori, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova, si decise il ricorso alle torture. A svolgere il lavoro sporco venne chiamato insieme alla sua squadretta di esperti “acquaiuoli” (profesionisti del waterboarding, la tortura dell’acqua e sale) Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, funzionario proveniente dalla Digos di Napoli, già responsabile per la Campania dei nuclei antiterrorismo di Santillo, in forza all’Ucigos. De Francisci fece capire che l’ordine veniva dall’alto, ben sopra il capo della polizia Coronas. Il semaforo verde giungeva dal vertice politico, dal ministro degli Interni Virginio Rognoni. Via libera alle «maniere forti» che in cambio forniva anche chiare garanzie di copertura. Fu lì che lo Stato decise di cercare Dozier nella vagina di una sospetta brigastista.

Roma – Il giardino dei torturatori tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano

Giovanni Coronas e Umberto Improta sono morti nel frattempo. Un giardino in ricordo di Improta, capo della squadra di investigatori che praticarono le torture sistematiche impiegate da varie squadre di poliziotti in un arco di tempo che riveste almeno 11 mesi, è sorto non lontano da piazza san Giovanni, a Roma, tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano.
Salvatore Genova è in pensione ed è l’unico che ha deciso di raccontare la verità. Nicola Ciocia, il mago del waterboarding, vive nascosto in una casa del Vomero a Napoli. Non ha più il coraggio di uscire di casa, braccato dai fantasmi del suo passato di aguzzino. L’ex guardasigilli Virginio Rognoni mantiene profilo basso, mostra di ricordare con difficoltà sperando di non essere coinvolto nella riapertura del caso; Oscar Fioriolli è invece ancora al suo posto di dirigente della scuola di polizia. Una scelta davvero rasicurante: l’uomo giusto al posto giusto!

Sentito al telefono da Piervittorio Buffa, il giornalista che è riuscito a sfilare organigrammi e nomi degli autori delle torture dalla bocca di Salvatore Genova, che fino ad allora aveva solo denuciato i fatti senza mai indicare i corresponsabili (una prima volta nel 2007 davanti a Matteo Indice del Secolo XIX, poi nel libro di Nicola Rao, Colpo al cuore, Sperling & Kupfer 2011, infine in una puntata di Chi l’ha visto?), Oscar Fioriolli ha rifiutato qualsiasi incontro per chiarire il ruolo avuto in quelle vicende e negato le circostanze riferite da Genova.
Gratteri, Luperi, Calderozzi, Mortola, Ferri, ed altri funzionari sono stati dimessi dai loro incarichi per le loro responsabilità accertate nel tentativo di depistare e coprire il massacro perpetrato all’interno della scuola Diaz.
Oscar Fioriolli, chiamato in causa con una testimonianza dettagliata per il ruolo avuto nelle torture e in una violenza sessuale, praticate durante gli interrogatori contro persone accusate di appartenere alla Brigate rosse, è sempre al suo posto.


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Torture contro i militanti della lotta armata

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Qui sotto potete leggere l’articolo di Piervittorio Buffa, recentemente pubblicato sul Venerdì di Repubblica del 20 luglio 2012, che rievoca i passaggi più importanti su questa vicenda.

Quando in Italia si seviziavano i brigatisti. Nel 1982, per liberare il generale Usa James Lee Dozier, la polizia decise di passare alle maniere forti con i primi arrestati. Ma chi diede l’ordine? «venne dall’alto»

di Pier Vittorio Buffa
Il Venerdì di Repubblica, 20 luglio 2012

Roma. «La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe». Salvatore Genova racconta così quello che accadde nella questura di Verona, nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 1982. La ragazza è Elisabetta Arcangeli. Il suo compagno è Ruggero Volinia. Salvatore Genova è uno dei poliziotti che guidarono le indagini sul caso James Lee Dozier, il generale americano rapito dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981. Genova sarà arrestato insieme ad alcuni suoi uomini con l’accusa di aver usato violenza su dei terroristi catturati, ma quella notte, in questura, è solo un testimone: conduce l’interrogatorio il suo collega Oscar Fiorolli.
I poliziotti capiscono che Volinia sta per cedere. «Fu uno dei momenti più vergognosi di quei giorni» dice Genova, «avrei dovuto arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece, caricammo Volinia su una macchina e lo portammo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e, dopo pochi minuti, parla, ci dice dov’è il generale Dozier».
A coordinare il tutto e a eseguire il trattamento De Tormentis con acqua e sale, una tortura già usata dai francesi e la squadretta nella guerra di Algeria, è una squadretta speciale guidata da un alto funzionario di polizia, Nicola Ciocia e composta da quattro poliziotti chiamati i Quattro dell’Ave Maria. La tecnica è all’apparenza semplice, ma bisogna essere molto esperti per praticarla in modo sicuro ed efficace. D prigioniero è legato a un tavolo, con un tubo gli vengono fatte ingurgitare grandi quantità di acqua e sale che provocano, oltre alla nausea, un forte senso di soffocamento.
Ciocia è in via Caetani a Roma quando, il 9 maggio 1978, viene trovato il corpo di Aldo Moro nella Renault rossa Lo si distingue di spalle, nelle foto, dietro Francesco Cossiga. La sua squadra entra in azione pochi giorni dopo, già con i primi arresti del dopo Moro. All’«acqua e sale» è infatti sottoposto, lo racconta lui stesso nei dettagli, Enrico Triaca, il tipografo delle Br. Ma Ciocia, che Umberto Improta, capo degli investigatori durante il sequestro Dozier, soprannominò dottor De Tormentis, non agì certo di sua iniziativa. Lo si capì già allora, nel 1982, che c’era un piano preciso, venuto dall’alto. Se ne è avuta la conferma ora, a distanza di trent’anni. Ciocia, pur non ammettendo le torture con l’acqua e il sale, ha detto di essere lui il dottor De Tormentis. Salvatore Genova, a sua volta, è stato molto preciso. Ha raccontato della riunione che si tenne in questura a Verona all’indomani del sequestro di Dozier: un via libera all’uso delle maniere forti con terroristi e fiancheggiatori, il timbro ai metodi di Ciocia-De Tormentis.
La riunione fu convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci. Nella stanza c’erano anche Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del lavoro, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova. Ascoltarono De Francisci dire, così ricorda Genova, che l’indagine su quel sequestro era «delicata e importante» e che bisognava fare «bella figura». E dare il via libera all’uso delle maniere forti per risolvere il caso. «Ci guardò uno a uno e con la mano destra» rievoca Genova «indicò verso l’alto. Ordini che vengono dall’alto, spiegò: quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fece sì con la testa e disse che si poteva stare tranquilli, che per noi garantiva lui. Il messaggio era chiaro e, dopo la riunione, cercammo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti? Fu questo che ci dicemmo tra di noi funzionari. E di far male agli arrestati senza lasciare il segno».
Ciocia, con i quattro dell’Ave Maria, arrivò il giorno dopo quella riunione e poi tornò in Veneto negli ultimi giorni del sequestro, quando le indagini portarono ai primi arresti dei fiancheggiatori. E quindi alla necessità di farli parlare. Tutti gli uomini di Improta assistettero alla prima «acqua e sale» di Verona, quella praticata a Nazareno Mantovani, che svenne durante il trattamento.
L’adrenalina scatenata dal successo dell’operazione Dozier (il generale liberato, i brigatisti catturati senza sparare un colpo) e i risultati ottenuti con le tecniche di Ciocia scatenarono lo spirito di emulazione. Nella caserma della Celere di Padova, dove furono portati i terroristi, non si andò tanto per il sottile. Genova e i suoi, infatti, furono arrestati con l’accusa di aver organizzato, tra l’altro, la finta fucilazione del br Cesare Di Lenardo.
In quelle settimane, il ministro dell’Interno Virginio Rognoni disse: «Possiamo respingere, con assoluta fermezza e grande tranquillità di coscienza, l’accusa adombrata in alcune interrogazioni e sicuramente presente in certa campagna di stampa, di avere trasferito la lotta contro il terrorismo su un terreno diverso da quello dell’ordinamento giuridico mediante una pratica sistematica e violenta del rapporto fra Stato e cittadino al momento dell’arresto…».
I giornali ai quali faceva riferimento il ministro erano soprattutto L’Espresso e la Repubblica.

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Le torture ai militanti Br arrivano in parlamento
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Adriano Sofri, l’uso della tortura negli anni di piombo
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Enrico Triaca; “De Tormentis mi ha torturato così” – 1
1982 la magistratura arresta i giornalisti che fanno parlare i testimoni delle torture
Novembre 1982: Sandro Padula torturato con lo stesso modus operandi della squadretta diretta da “de tormentis”
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Caro professor De Tormentis, Enrico Triaca che hai torturato nel 1978 ti manda a dire
Nicola Ciocia, alias “De Tormentis” è venuto il momento di farti avanti
Torture: Ennio Di Rocco, processo verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica 2, 2 gennaio 1982: il metodo de tormentis atto secondo
Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”

Massimo Germani: «La tortura non serve solo ad estorcere informazioni, mira a distruggere l’identità e ridurre al silenzio»

L’intervista – Parla Massimo Germani, medico e terapeuta del centro di cure per i disturbi da stress post-traumatico dell’ospedale san Giovanni di Roma. Coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi


Paolo Persichetti

Gli Altri
27 aprile 2012

In Italia c’è stata e continua ad esseci la tortura. Non è una novità anche se recentemente sono emerse circostanze nuove che portano a rileggere in modo più compiuto quanto è accaduto. Per esempio nel 1982, quando il governo allora guidato da Giovanni Spadolini decise di ricorrervi per contrastare la lotta armata. Libri, inchieste giornalistiche e televisive, blog, le rivelazioni per la prima volta senza reticenze di Salvatore Genova (un funzionario di polizia in forza alla squadra speciale dell’Ucigos, creata nel dicembre 1981 dal ministro della Giustizia Virginio Rognoni per condurre le indagini sul sequestro Dozier) apparse sull’Espresso del 6 aprile, hanno aperto squarci importanti. Oggi conosciamo i nomi dei torturatori, di chi ha dato gli ordini e di chi li ha coperti. Un film, Diaz, ci reintroduce nell’atmosfera del massacro nella palestra della scuola di Genova e delle sevizie nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Tuttavia siamo portati sempre a soffermarci sugli aspetti politici e giuridici che il ricorso alla tortura implica all’interno della società. Una riflessione che non deve cessare ma anzi va ancora di più approfondita. Questa volta però vogliamo proporvi uno sguardo diverso, quello di un medico-terapeuta che cura i torturati. Questo anche perché esiste un risvolto ancora sconosciuto: nelle carceri Italiane ci sono da più decenni persone che hanno subito torture, non hanno visto riconosciuto questo trattamento violento subito, non sono state curate.
E’ venuto il momento di cominciare a parlarne e soprattutto esigere la loro scarcerazione.

Che cosa accade nella psiche di una persona torturata?
Negli ultimi dieci anni si è capito che la tortura, come ogni tipo di violenza interpersonale, soprattutto se ripetuta e prolungata nel tempo, provoca degli effetti assolutamente specifici che vanno molto al di là della classica sindrome da stress post-traumatico.

Che tipo di effetti?
Si assiste ad una frantumazione dell’identità che da luogo a patologie della personalità di tipo dissociativo. La nostra identità è fatta di tante cose messe insieme che vanno a costruire quello che si vede all’esterno e quello che sentiamo dentro. Una composizione complessa di fattori con molte facce: culturale, politica, religiosa, sociale… che ad un certo punto si frammentano e si dissociano dando vita ad una serie di fenomeni clinici, spesso purtroppo non riconosciuti, che se non sono trattati in modo specifico possono divenire cronici aggravandosi nel tempo, anche lontano dall’episodio di tortura e di violenza.

Come si scatena questo sfaldamento della personalità?
La tortura produce conseguenze che investono la profondità della psiche. Rispetto ai traumi dovuti ad incidenti, catastrofi naturali, qui si tratta dell’incontro con qualcosa di negativo che viene portato da un altro uomo e che dal punto di vista analitico è chiamato il “male incarnato”. E’ il ritorno ad un’angoscia primitiva che ognuno di noi ha nella fase infantile ma che impariamo ad allontanare con un rapporto genitoriale sufficientemente buono. Quest’angoscia può ricomparire se ci si ritrova completamente inermi nelle mani di qualcuno che vuole distruggerci. L’idea di un io stabile e unitario ci sembra un fatto acquisito. In realtà non è così. Si tratta di un equilibrio fragile. Ce ne accorgiamo solo in determinati momenti della nostra vita, quando subiamo dei lutti, dei contraccolpi, ma in genere si tratta di brevi esperienze. Questa percezione stabile e unitaria dell’io può andare completamente in frantumi proprio nei momenti in cui incontriamo un essere umano che ci tiene in pugno e vuole annientarci.

Parli di “fenomeni non riconosciuti”. Soffermiamoci un momento su questo punto. In un contesto dove la tortura è stata praticata ma non riconosciuta, il perdurare di questa menzogna che effetti ha? Siamo abituati a riflettere sugli effetti politici e storici ma sulla singola persona quali conseguenze si ripercuotono?
Uno dei problemi nelle persone che hanno subito torture è proprio il dopo. Si è visto nelle ricerche compiute sui sopravvissuti ai campi di concentramento che quanto accade dopo, soprattutto nell’immediato, quando sembra che è finita, si è scampati, fuggiti, è molto importante. Se viene meno il riconoscimento da parte dei riferimenti che c’erano prima si incrementata in modo esponenziale la violenza subita. In questo caso la tortura raggiunge il suo scopo primario, anche se implicito: non solo estorcere informazioni ma distruggere l’identità e indurre al silenzio civile, politico e sociale. L’effetto finale della tortura è far sì che le persone non siano più tali e si trasformino in fantasmi che sopravvivono nel mondo. In modo che attraverso questo silenzio e questa sofferenza siano testimoni del potere, siano monito a tutti di cosa può succedere a chi prende posizioni diverse da quelle possibili o richieste dal potere stesso.

Dunque il riconoscimento ha una doppia valenza, storico-politica ma anche clinico-sociale?
Certo, se c’è un riconoscimento da parte della collettività, che può essere più o meno allargata, come poter tornare in un gruppo sociale di riferimento, in qualche modo sentire una condivisione e un sostegno da parte del gruppo in cui si è reinseriti, l’effetto è positivo. Aiuta a ritrovare le proprie radici, la possibilità di ritornare a quelle che precedentemente erano le proprie identità. Questo ovviamente è un qualcosa che non prelude automaticamente alla possibilità di un recupero.

Fino ad ora mi hai descritto la condizione dell’inerme, quella che per definizione è definita “vittima assoluta”. Tuttavia nei militanti che hanno subito torture si tende a rifiutare questa identità. Esiste una differenza?
Questo è un punto molto importante. La ricerca clinica ha dimostrato che la consapevolezza del rischio a cui si va incontro facendo certe cose, sapere che si può essere presi, messi in carcere, subire delle violenze, nella maggioranza dei casi è un fattore di protezione importante. Aiuta rispetto a quello che può essere il risultato finale di una esperienza di tortura o di violenza. Questo è possibile perché si ha la consapevolezza che quello che sta accadendo, la sofferenza subita, è legato ad un significato. Questo significante può svolgere una funzione di protezione, come tutte le credenze condivise che riescono a sopravvivere alla esperienza della tortura: siano esse religiose, sociali o politiche. Naturalmente questo non significa che chi ha una fede politica o religiosa sia esente dalle conseguenze della tortura. Ho in mente tante persone che nonostante questo sono uscite distrutte e hanno dovuto fare percorsi lunghi prima di ritrovare un senso di sè, una certa soddisfazione e fiducia negli altri.

In Italia, i militati della lotta armata torturati, e che nel frattempo non sono diventati “collaboratori di giustizia”, sono rimasti in carcere per molti decenni. Ancora oggi ci sono almeno due casi che hanno oltrepassato i 30 anni. Come è definibile questa situazione?
Anche questa è un’altra cosa importante dal punto di vista umano e clinico. Le persone che hanno subito trattamenti inumani e degradanti, o di vera e propria tortura, soprattutto se sono in regime carcerario avrebbero dovuto subire accertamenti sulle loro condizioni di salute psico-fisiche in strutture specializzate nel riconoscimento e nella cura di questo tipo di patologie. Le patologie dissociative sono fenomeni ed hanno sintomi che spesso sfuggono anche a psicologi o medici, o anche a psichiatri che non hanno una grossa esperienza di questo tipo. Possono quindi essere facilmente sottovalutati o presi per altri tipi di problematiche e non riconosciuti. Inoltre non siamo di fronte a patologie che volgono spontaneamente verso una guarigione nel tempo. Lasciate a se stesse nella maggior parte dei casi evolvono verso un peggioramento e una cronicizzazione.

Farlo sarebbe stato un riconoscimento implicito delle torture. In realtà la macchina giudiziaria e quella carceraria hanno lavorato per seppellire ogni prova. Subito dopo le torture c’è stato l’articolo 90, la sospensione della riforma carcerario e l’ulteriore inasprimento delle condizioni detentive.
Spiegaci un’altra cosa: hai riscontrato un uso e degli effetti specifici della tortura sul corpo delle donne?

Se pensiamo alle sevizie sessuali, non c’è differenza. Ci siamo resi conto che durante le torture anche la maggior parte degli uomini ha subito forme di abuso sessuale. Se già le donne, soprattutto all’inizio, non raccontano le sevizie perché se ne vergognano, per gli uomini è ancora più difficile. Pensiamo a chi, attraversando il Sahara, è passato per le carceri libiche o in quelle afgane. Esistono invece differenze importanti per quanto riguarda gli effetti. Sono in corso delle ricerche (tra qualche anno ne sapremo di più). Oggi si sa che nelle donne è più alta l’incidenza dei fenomeni dissociativi e l’incidenza delle sindromi depressive gravi, che si presentano come fenomeno secondario. Se oltre l’80% di chi ha subito tortura va incontro a sindromi depressive, insieme a quadri clinici che presentano iperattivazione continua, sensazione di pericolo imminente, stati ansiogeni, tensione interna molto forte che spesso porta ad avere scoppi di rabbia, nelle donne si arriva al 90% con forme ancora più gravi.

Il tuo lavoro ti ha messo davanti a tanti racconti di torture che arrivano da Paesi lontani. Che effetto ti hanno fatto le testimonianze delle torture italiane?
Sul piano emotivo mi hanno toccato di più. Faccio fatica a dirlo perché in questi anni molte cose che ho sentito mi hanno colpito in un modo incredibile, tuttavia devo sottolineare questa piccola ma significativa differenza. Quando ho letto della caserma di Castro Pretorio, ad esempio, un luogo che conosco, ci passo davanti, sentire questa cosa… Ecco, penso che questo vada colto, vada valorizzato per far capire che queste cose possono succedere veramente vicino a noi. E’ importante cercare di comunicarle nel modo giusto, che non è quello di far scandalo ma di avere una sensibilità più diffusa su qualcosa che altrimenti può essere sentita come lontana. Poi ovviamente sopravviene la riflessione e allora voglio dire che ogni tanto c’è un dibattito sul ricorso all’uso della tortura da impiegare magari solo in casi eccezionali, “se c’è il terrorista con la bomba che vuol far saltare in aria una scuola”. Questi discorsi che hanno la pretesa di essere realisti sono invece molto pericolosi. Guai a cedere alla tentazione di cominciare a contrattare. Ci deve essere un tabù della tortura. Non deve esistere, non va fatta. Questo ci impone di lottare contro di essa concretamente, al di là delle parole. In Italia è arrivato il momento, perché non è mai troppo tardi, di approvare una legge contro il reato di tortura.

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Torture di Stato: i nomi di chi diede l’ordine ed eseguì le torture. Le rivelazioni di Salvatore Genova all’“Espresso”

Sevizie ai brigatisti. Le denunciò “l’Espresso” trent’anni fa. Fu smentito e il cronista arrestato. Oggi uno dei presenti conferma e dice chi le ordinò

Colloquio con Salvatore Genova di Pier Vittorio Buffa
L’Espresso 6 aprile 2012

«Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare».
Salvatore Genova è l’uomo il cui nome è da trent’anni legato a una grigia vicenda della nostra storia recente. Quella delle torture subite da molti terroristi tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Una vicenda grigia perché malgrado il convergere di testimonianze concordanti, le denunce di poliziotti coraggiosi e le inchieste giudiziarie la verità non è mai stata accertata. Nessuna condanna definitiva, nessuna responsabilità gerarchico-amministrativa, nessuna responsabilità politica. Solo lui, il commissario di polizia Salvatore Genova, e quattro altri poliziotti arrestati con l’accusa di aver seviziato Cesare Di Lenardo, uno dei cinque carcerieri del generale americano James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dalla polizia il 28 gennaio 1982. Evocare il nome di Genova vuol dire far tornare alla memoria l’acqua e sale ai brigatisti, le sevizie, le botte.
Oggi Salvatore Genova non ci sta più. Nel 1997 aveva iniziato a mandare al ministero informative ed esposti senza avere risposte. Adesso ha deciso di fare nomi, indicare responsabilità, svelare quello che accadde davvero in quei giorni drammatici Ecco il suo racconto.

L’ordine dall’alto
«Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano De Gregori. È la squadra messa in campo dal ministero dell’Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.
Il capo dell’Ucigos, De Francisci, ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno.

Arriva Nicola Ciocia-De Tormentis, lo specialista del waterboarding
Il giorno dopo, a una riunione più allargata, partecipa anche un funzionario che tutti noi conosciamo di nome e di fama e che in quell’occasione ci viene presentato. E’ Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta squadretta dei quattro dell’Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli specialisti dell’interrogatorio duro, dell’acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all’indomani dell’uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale.
Ciocia, che Umberto Improta soprannomina dottor De Tormentis, un nomignolo che gli resta attaccato per tutta la vita, torna a Verona a gennaio, con i suoi uomini, i quattro dell’Ave Maria. Da più di un mese il generale è prigioniero, la pressione su di noi è altissima.

Improta, Fioriolli e Genova “disarticolano” (tradotto: pestano brutalmente) Nazareno Mantovani in un villino appositamente affittato per le torture
Il 23 gennaio viene arrestato un fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. Iniziamo a interrogarlo noi, lo portiamo all’ultimo piano della questura. Oltre a me ci sono Improta e Fioriolli. Dobbiamo “disarticolarlo”, prepararlo per Ciocia e i quattro dell’Ave Maria. Lo facciamo a parole, ma non solo. Gli usiamo violenza, anche io. Poi bisogna portarlo da Ciocia in un villino preso in affitto dalla questura. Lo facciamo di notte. Lo carichiamo, bendato, su una macchina insieme a quattro dei nostri. Su un’altra ci sono Ciocia con i suoi uomini, incappucciati. Fioriolli, Improta e io, insieme ad altri agenti, siamo su altre due macchine. Una volta arrivati Mantovani viene spogliato, legato mani e piedi e Ciocia inizia il suo lavoro con noi come spettatori. Prima le minacce, dure, terrorizzanti: “Eccoti qua, il solito agnello sacrificale, sei in mano nostra, se non parli per te finisce male”. Poi il tubo in gola, l’acqua salatissima, il sale in bocca e l’acqua nel tubo. Dopo un quarto d’ora Mantovani sviene e si fermano. Poi riprendono. Mentre lo stanno trattando entra il capo dell’Ucigos, De Francisci, e fa smettere il waterboarding.
Dopo qualche giorno l’interrogatorio decisivo che ci porterà alla liberazione di Dozier, quello del br Ruggero Volinia e della sua compagna, Elisabetta Arcangeli.

Lo stupro di Elisabetta Arcangeli
Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all’ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e dopo pochi minuti parla, ci dice dove è tenuto prigioniero il generale Dozier. Il blitz è un successo, prendiamo tutti e cinque i terroristi e li portiamo nella caserma della Celere di Padova. Ciascuno in una stanza, legato alle sedie, bendato, due donne e tre uomini. Tra loro Antonio Savasta che inizierà a parlare quasi subito, e proprio con me, consentendoci di fare centinaia di arresti.

Il giardino dei torturatori

Dopo i quattro dell’Ave maria arrivano i Guerrieri della notte
Ma le violenze non finiscono con la liberazione del generale. Il clima è surriscaldato. Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta l’imitazione, il “mano libera per tutti”. Un gruppo di poliziotti della celere, che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo, va nelle stanze dove sono i cinque brigatisti e li picchia duramente. Un ufficiale della celere, uno di quei giorni, viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a “quello stronzo”, riferendosi a Cesare Di Lenardo, l’unico dei cinque che non collabora con noi. Io non gli dico di no e inizia in quell’attimo la vicenda che ha portato al mio arresto. La mia responsabilità esiste ed è precisa, non aver impedito che il tenente Giancarlo Aralla portasse Di Lenardo fuori dalla caserma. La finta fucilazione e quello che accadde fuori dalla caserma lo sappiamo dalla testimonianza di Di Lenardo. Io rividi il detenuto alle docce. Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice.

Dopo Padova torture anche a Mestre
La voglia di emulare, di menar le mani, di far parlare quegli “stronzi” non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l’inchiesta non porterà da nessuna parte.
Quando i giornali cominciano a parlare di torture e scatta l’indagine contro di me e gli altri per il caso Di Lenardo mi faccio vivo con Improta, gli dico che non voglio restare con il cerino in mano, che devono difendermi. Lui promette, dice di non preoccuparmi, ma solo l’elezione al Parlamento propostami dal Partito socialdemocratico mi toglie dal processo. Gli altri quattro arrestati con me vengono condannati in primo grado e, alla fine, amnistiati.

L’impunità
Noi non siamo mai stati in prigione. Io venni portato all’ospedale militare di Padova e lì mi venivano a trovare funzionari di polizia per informarmi delle intenzioni dei magistrati. Tra le mie carte ho ritrovato un appunto dattiloscritto che mi venne consegnato in quei giorni. È una falsa, ma dettagliatissima, ricostruzione dei fatti che dovevamo sostenere per essere scagionati. Suppongo che lo stesso foglio venne dato anche agli altri arrestati perché non ci fossero contraddizioni tra di noi.
Io me ne sono restato buono per tutti questi anni perché non volevo far scoppiare lo scandalo, fare arrestare tutti quanti.
Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato, che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né come uomo né come poliziotto. L’esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell’Ave Maria».


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Torture contro i militanti della lotta armata
8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura
Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista