Consociativismo e think tank, il potere all’ombra di Enrico Letta

Enrico Letta, classe 1966, nonostante ciò considerato un giovane nella politica italiana, è nipote di Gianni Letta, il braccio destro di Berlusconi, il suo plenipotenziario. Cattolico, nutrito di cultura imprenditoriale, da sempre vicino al mondo confindustriale, vice presidente di Aspen istitute Italia dal 2003 (sorto in Colorado nel 1950 ha la sua sede centrale a Washington ed è finanziato dalla Carnegie Corporation, la Rockefeller Brothers Fund e la Ford Foundation), è membro del club Bilderberg assieme allo zio Gianni e fa parte della stessa Commissione Trilaterale. Insomma non si è fatto mancare nulla: uomo di relazioni, la sua agenda è ben fornita. Collocato da tempo in tutti i posti che contano, quelle necessarie camere di compensazione situate nelle retrovie dove le élites occidentali si incontrano riservatamente, anticipano strategie, elaborano accordi, creano un tessuto di relazioni e conoscienze dirette necessario alla gestione delle politiche, le governances, del capitalismo attuale. Enrico Letta ha l’aria di uno di quelli che ci stava già da piccolo, tanto si muove a suo agio in questo mondo felpato.
Ma c’è qualcosa di più che forse bisogna conoscere per capire meglio alcuni dei passaggi politici realizzati in questi ultimi giorni da questo grande tessitore della tela consociativa italiana, di quel «consociatvismo bipolare» come le definisce Mauro Fotia nel suo, Il consociativismo infinito, Dedalo edizioni 2011 (un testo che andrebbe riletto alla luce di quanto è accaduto dal varo del «governo dei tecnici» guidato da Mario Monti alla nascita di questo esecutivo di «grande coalizione»).
Enrico Letta è anche l’ispiratore di un think tank bipartisan, “veDrò”, una specie di laboratorio per le elités, «nato – così recita la homepage del sito – per riflettere sulle declinazioni future dell’Italia e delineare scenari provocatori, ma possibili, per il nostro Paese. Sulla scena dal 2005, la nostra è una rete di scambio di conoscenza formata da più di 4.000 persone: professori universitari, imprenditori, scienziati, liberi professionisti, politici, artisti, giornalisti, scrittori, registi, esponenti dell’associazionismo».
Leggete questi due interressanti articoli che seguono, sono illuminanti.


VeDrò, il potere all’ombra di Enrico Letta

di Stefano Feltri
Il Fatto Quotidiano, 28 Agosto 2012

LettaEnrico Letta ha soprattutto una funzione rassicurante: se il centrosinistra dovesse vincere le elezioni, legge elettorale permettendo, un pezzo del capitalismo italiano avrebbe qualcuno con cui parlare. Qualcuno che non propone patrimoniali e che non parla solo di cassintegrati e sindacati, tipo Stefano Fassina, il responsabile economico del partito. La convention estiva di Letta, VeDrò (che si svolge appunto a Dro, a Trento) è sempre un’anticamera dell’anno economico-politico che si riapre a settembre dopo le vacanze. Qui, tra un cocktail a bordo lago (di Garda) e un pranzo veloce nel prato della ex centrale elettrica di Fies, si è costruito parte del progetto di Matteo Renzi, sempre qui Corrado Passera, due anni fa, ha mosso i primi passi verso il governo. Finanza, comunicazione e politica si incontrano in questo salotto estivo (lobby, corrente, festa dell’unità fighetta, le definizioni che circolano sono molte) per tenere i rapporti con il centrosinistra, Letta è padrone di casa discreto, garante di quel clima trasversale rappresentato dalla coppia di “vedroidi” più fotografata, Nunzia De Girolamo (Pdl) e Francesco Boccia (Pd).
Tema di quest’anno sono i supereroi americani, con l’idea che servono superpoteri per salvare l’Italia e l’Europa. “Se sono super è anche merito dei miei partner”, esulta un Superman su una scheda fornita ai partecipanti (sul petto ha le virgolette simbolo di VeDrò). I partner sono poi gli sponsor, quelli che finanziano l’iniziativa, pagata anche dalle quote degli iscritti, da 150 a 300 euro più l’albergo. I tre “partner” principali sono Eni, Enel e Telecom. Come usa nei grandi raduni italiani, pagare una fiche garantisce in cambio visibilità sul palco dell’evento. Lo scorso anno Paolo Scaroni, capo dell’Eni, si era prodotto in un monologo.
Quest’anno tocca a Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel da poco diventato anche uno degli esponenti più forti della nuova giunta di Confindustria, di cui dirige il centro studi. L’intervista sentimentale è condotta da Antonello Piroso, l’ex direttore del Tg La7 che nel 2011 a VeDrò discuteva con Fedele Confalonieri di musica classica. Conti celebra la propria parabola di self made man, da “cascherino” (garzone del fornaio) a top manager. E soltanto da un palco come quello di VeDrò si possono dire cose tipo “quello di Fukushima non è stato un incidente nucleare in senso stretto” (vero, c’è stato lo tsunami, prima) e “il nucleare non è una disgrazia” senza rischiare fischi. Visti i tempi, Conti coglie l’occasione per ricordare un paio di volte come le decisioni importanti le ha spesso discusse con “Pier Luigi” (che sarebbe Bersani, aspirante premier).
L’Enel è ovunque a VeDrò: Conti sul palco, le macchine elettriche nel parcheggio, uno stand ben visibile nel cortile, funzionari di vario grado nei gruppi di lavoro in cui si suddividono i “vedroidi” nel pomeriggio. Poi c’è Telecom Italia, il presidente Franco Bernabè è al suo debutto a VeDrò, nel suo monologo non parla di telefoni e banda larga ma di innovazione, dice tra l’altro che più che i cambiamenti tecnologici servono quelli organizzativi, “a Telecom se usassimo tutto il potenziale della tecnologia a disposizione dovremmo ridurre drammaticamente il personale impiegatizio”. Brividini di piacere tra i liberisti in platea. Il potere economico vedroide è soprattutto pubblico e parapubblico, con tutte le zone grigie intermedie, per cui è facile trovare un anno qualcuno in una grossa azienda, l’anno dopo al ministero, quello successivo magari in proprio come consulente. Ma c’è anche tanta finanza, ci sono venture capitalist che nelle pause caffè discutono di potenziali investimenti. C’è una folta colonia londinese di banchieri, di cui ha fatto parte a lungo anche Ivan Scalfarotto (vicepresidente del Pd), pure lui vedroide. Sono banchieri democratici, nel senso che da Londra seguono il Pd (più Matteo Renzi che Letta, a dire il vero). E a sancire questa rilevanza finanziaria, ieri, doveva esserci un grande dibattito tra i capi italiani delle tre principali agenzie di rating. Si è presentato soltanto Alessandro Settepani, di Fitch, intervistato da un altro storico vedroide Oscar Giannino. Settempani però non si sbilancia troppo sui destini dell’Italia: “L’ultima volta che ho fatto una dichiarazione mi è arrivato un avviso di garanzia”, dice ricordando l’inchiesta della Procura di Trani sulle comunicazioni dei rating sull’Italia.
Il potere economico vedroide non pare troppo preoccupato dalla fine dell’esperienza tecnica di Mario Monti. E neppure particolarmente inquieto sugli scenari futuri. Perché, in fondo, il senso di VeDrò è anche questo: assicurare ai partecipanti che, chiunque vinca, ci sarà sempre una rete trasversale di conoscenze e rapporti a garantire il business as usual.


Riparte VeDrò il think tank di Enrico Letta per raccontarci il leader del futuro

di Celestina Dominelli
Il Sole 24 Ore,  28 agosto 2010

Altrove, all’ombra dei palazzi della politica, il tema della leadership del centrosinistra e di come costruire un’alternativa convincente a Silvio Berlusconi sta conoscendo svariate declinazioni. E così i partiti dell’opposizione discettano a ogni pie’ sospinto di alleanze e primarie , di «un nuovo Ulivo» e di leggi elettorali . Ma c’è anche chi, molti chilometri più a Nord, nella centrale idroelettrica Fies di Dro (Trento), sul nodo delicatissimo del leader del futuro ha costruito una quattro giorni di lavoro intensivo. Un metodo diverso, per cominciare, che è ormai l’architrave rodata di VeDrò-L’Italia del futuro, il think thank bipartisan promosso da Enrico Letta e Giulia Bongiorno e presieduto da Benedetta Rizzo, e giunto quest’anno alla sua sesta edizione. Una scelta, quella di delinerare il percorso del leader del futuro, nata prima del dibattito delle ultime settimane. «In un sistema bipolare come il nostro il tema della leadership – spiega il vicesegretario del Pd, Enrico Letta – è diventato rilevante per l’opinione pubblica, poi l’attualità ha fatto il resto trasformandolo in un argomento caldissimo». Ma a suggerire la strada è stata soprattutto la crisi economica che, aggiunge Letta, «ha accresciuto il bisogno di leadership convincenti». Che il pensatoio bipartisan intende costruire con un dettagliatissimo percorso: 17 working group cui spetterà il compito di mettere a fuoco tutte le caratteristiche del futuro leader, dagli strumenti di comunicazione al programma, dalla personalità al rapporto con il territorio. Insomma, una road map accuratissima tenuta insieme da un fil rouge che è un po’ il motore di tutto il progetto: l’assenza di modelli rigidi di confronto e la libertà totale di espressione. Che Benedetta Rizzo, compagna d’avventura di Letta e presidente del think thank, sintetizza così. «A VeDrò tutti coloro che siedono attorno al tavolo hanno lo stesso diritto di parola». E dietro quel “tutti” c’è un panel molto ricco che racconta l’altra chiave del successo dell’appuntamento: il “taglio generazionale” (i partecipanti sono nati a partire dagli anni ’60) e la trasversalità politica, religiosa e culturale di chi arriverà in questo angolo di Trentino. Dall’amministratore delegato del Gruppo Intesa-San Paolo, Corrado Passera, a esponenti politici di entrambi gli schieramenti (i presidenti di Regione, Renata Polverini e Vito De Filippo, i sindaci di Firenze e Verona, il viceministro Adolfo Urso, ma anche molti parlamentari), da firme prestigiose del giornalismo a imprenditori (Anna Maria Artoni, Luisa Todini, Ivan Lo Bello) e a magistrati (Raffaele Cantone, Nicola Gratteri,Stefano Dambruoso). Tutti a discutere di come dovrà essere il leader del 2020. Per arrivare, attraverso i working group, a un identikit completo. Che sarà messo a confronto con i risultati del Rapporto VeDrò 2010, dal titolo assai suggestivo: “Italiano sarà lei. Gli italiani e la leadership». Così al lavoro prospettico dei gruppi si affiancherà la ricerca su un campione di cittadini che fornirà di nuovo l’aggancio con l’attualità. Ma di Pd e di alleanze qui non si parla. E Letta si prepara alla full immersion. «Quest’anno saremo in 600 – racconta – e abbiamo dovuto rimandare indietro molta gente. Quando partimmo eravamo la metà». Quel “quando” riporta indietro la lancetta al 2005 e a un Letta “folgorato” sulla via dell’Aspen Institute in Colorado. «Rimasi colpito dalle modalità del confronto e dall’informalità e tornando in Italia ho pensato a qualcosa che avesse lo stesso taglio». Così Dro, provincia di Trento, ha strizzato l’occhio agli States.

Approfondimenti
Consociativismo

Marcegaglia, il dossier che non c’è. Ennesimo episodio della guerra civile borghese in corso

Il Giornale di Feltri si prende gioco di tutti e pubblica una rassegna stampa dei maggiori quotidiani italiani nella quale si raccontano malefatte e disavventure giudiziarie della holding di famiglia della presidente della Confindustria. Il dossier minacciato e poi cercato dalla procura di Napoli nella redazione del quotidiano della famiglia Berlusconi non esiste, ma i fatti sono noti.
La vicenda, come si apprende dal Corriere della sera di lunedì 11 ottobre, scaturisce da una inchiesta della procura partenopea sulle attività economiche con risvolti illeciti nel settore dello smaltimento dei rifiuti del gruppo Trevi che fa capo al vice presidente della Confindustria Cesare Trevisani. Inchiesta che aveva visto coinvolto anche il gruppo Marcegaglia.
Dall’attività d’intercettazione emerge un contrasto tra il vice direttore del Giornale e il segretario particolare della Marcegaglia (il cui telefono era sotto ascolto) a causa di alcune dichiarazioni critiche rese da quest’ultima sull’operato della maggioranza di Governo. Nicola Porro del Giornale evoca la pubblicazione di un dossier, parla di “segugi” che da Montecarlo (sede dell’inchiesta sull’affaire Fini-Tulliani) andranno ad indagare a Mantova, dove a sede l’impresa familiare della Marcegaglia per “fargli un c…. così”.

La presidente della Confindustria preoccupata che gli affari poco puliti di famiglia possano finire sulle prime pagine di tutti i giornali chiama Fedele Confalonieri per chiedergli di intercedere presso Feltri e farlo recedere dalle cattive intenzioni. Interrogata dalla procura, afferma di aver percepito una minaccia nelle intenzioni del Giornale. La procura apre un indagine nella quale configura il reato di violenza privata e poi cerca il dossier ma resta con un pugno di mosche in mano.
La vicenda fotografa una nuova puntata del feroce scontro di potere tra fazioni della borghesia. Come al solito Repubblica, Unità e Pd si affrettano a promuovere la Marcegaglia ultima eroina della democrazia, nonostante le evasioni fiscali patteggiate, gli appalti irregolari, le tangenti e i fondi neri, sol perché è entrata in rotta di collisione con Berlusconi.
Ma i fatti dicono un’altra cosa: Berlusconi ricatta i suoi avversari, i gruppi finanziari ed economici rivali e le loro emanazioni politiche, perché conosce le loro magagne e sa che non sono diversi da lui. Siamo di fronte ad una guerra tra simili

Paolo Persichetti
Liberazione 10 ottobre 2010


Una collezione di articoli abrasivi sulle disavventure giudiziarie che hanno investito l’attività economica della famiglia Marcegaglia, apparsi nei mesi scorsi sui più importanti quotidiani italiani, Corriere della sera, Repubblica, Stampa, Espresso, Unità e Fatto quotidiano. E’ questo il dossier  sulla presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, annunciato da Vittorio Feltri nel corso della trasmissione, Le invasioni barbariche, tenuta da Irene Bignardi su La 7 e pubblicato ieri dal Giornale. Un vero colpo di genio, va riconosciuto. Feltri si è preso gioco di tutti, in primis dei pm della procura di Napoli che giovedì scorso hanno fatto perquisire la redazione del quotidiano della famiglia Berlusconi in cerca proprio del dossier la cui minaccia di pubblicazione era comparsa durante l’intercettazione di una telefonata intercorsa tra il vice direttore del Giornale, Nicola Porro, e il segretario particolare della presidente della Confindustria, Rinaldo Arpisella, sotto ascolto nell’ambito di una inchiesta su illeciti commessi dalle società della gruppo Marcegaglia. Il dossier non esiste dunque? O meglio “l’officina dei dossier”, come scrive Feltri, appartiene ad altri? La risposta alla prossima puntata.
E sì, perché il feroce scontro di potere senza esclusioni di colpi che oppone da tempo le diverse fazioni che si annidano tra i poteri forti è diventato un serial a puntate, di quelli interminabili, ricchi di colpi di scena, scritti da sceneggiatori di grande fattura. Lo spettacolo è assicurato. La storia italiana degli ultimi decenni è storia fondamentalmente borghese. Borghesi sono gli eroi civili commemorati nelle cerimonie pubbliche, borghesi sono le figure vincenti, i modelli trionfanti, i capitani d’impresa, i maghi del mercato. La società commerciale è divenuta la nuova fonte battesimale, l’unico riferimento culturale legittimo. Borghese è diventato anche il borgataro, come racconta Walter Siti, e un po’ borgatara è diventata certa borghesia dai gusti e modi villani. Il contagio non risparmia nessuno. Questa trama a ceto unico è traversata da un lacerante conflitto, una guerra civile, borghese appunto. Se il monopolio classista della scena non appare affatto in discussione, due gruppi si affrontano per conquistarne il controllo. Vincente da tempo è il blocco berlusconiano che ha tolto lo scettro alla decadente aristocrazia economico-finanziaria di stampo azionista uscita dal dopoguerra. Un populismo che miscela elementi elitari e plebiscitari, premoderni e ipermoderni, che ha riaffermato il ritorno alla leadership carismatica nella quale il potere patrimoniale ha sostituito la vecchia legittimità paternalista-patriarcale. Modello mai accettato dalle vecchie famiglie che dominavano il capitalismo italiano. Tollerato per ragioni di forza maggiore, ma sempre percepito come eversivo. Di volta in volta questi altri poteri sono scesi a patti, hanno tentato di condizionarne il percorso ma periodicamente è riemersa la voglia di buttarlo giù da cavallo. Il gioco di sponda con le procure non ha mai veramente funzionato perché Berlusconi si è difeso dai processi con un fantasioso arsenale di leggi, scudi e artifici non tanto ad personam quanto contra omnes. Per coprire i vantaggi propri inaspriva le norme contro il resto della popolazione, soprattutto più debole. L’offensiva giudiziaria si è rivelata poi il suo miglior strumento di consenso trasformando i magistrati nei suoi (involontari) grandi elettori. I ribaltoni vari, i governi tecnici, il ricorso ai grandi banchieri per guidare coalizioni alternative non lo hanno mai disarcionato una volta per tutte. E così la guerra reciproca prosegue senza risparmio di dossier sparati dai gruppi editoriali di punta delle opposte fazioni. La vicenda D’Addario, le fanciulle che animano i fine serata di palazzo Grazioli o le feste a villa Certosa, da una parte. Per tutta risposta la vicenda Boffo e la grande telenovela dei Tulliani sull’appartamento di Montecarlo, colpo basso contro Gianfranco Fini, dall’altra. Senza dimenticare il caso Unipol-Bnp, con le telefonate di Consorte a Fassino e D’Alema.
Insomma i dossier non li ha inventati Berlusconi, ma di certo i suoi li sanno usare benissimo.

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