L’amnistia Togliatti

Libri – L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392, € 19

Paolo Persichetti
Liberazione
Giovedì 27 aprile 2006

L’ultimo lavoro di Mimmo Franzinelli, L’Amnistia Togliatti, un saggio che ricostruisce la storia del decreto presidenziale di clemenza predisposto dal guardasigilli Palmiro Togliatti, sembra dover riaccendere a distanza di sessant’anni le stesse 8804553340 polemiche che l’accolsero all’indomani della sua emanazione, in occasione della proclamazione della Repubblica, il 22 giugno 1946. In questa direzione, infatti, è rivolta la recensione che lo storico Sergio Luzzato ha scritto sul Corriere della Sera del 19 aprile scorso. Una vera requisitoria contro l’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde, accusato di aver spalancato le porte delle carceri a fascisti e saloini imprigionati subito dopo la Liberazione. Colpevole ancora una volta della sua «proverbiale doppiezza» per aver disconosciuto la responsabilità di quella misura – come lui stesso scrisse – «giusta nelle intenzioni ma sbagliata nell’applicazione», a causa dell’uso politico che ne fece la Dc e dell’interpretazione distorta fornita dalla magistratura.
Non è così! Risponde Luzzato, «l’amnistia Togliatti fu una vergogna nazionale» perché nacque dal duplice intento di reclutare nuovi militanti tra le fila dei vinti e risparmiare conseguenze giudiziarie alle azioni delle forze partigiane. Non fu sempre Togliatti a definire «eccesso di nervosismo» la rabbia dei parenti delle vittime? Per questo, conclude: «il libro di Franzinelli va consigliato come la più istruttiva delle letture possibili per chi voglia sottrarsi a un discorso sull’amnistia che strizza l’occhio all’amnesia». Già, perché a ben vedere il vero obiettivo polemico non è tanto la clemenza del 1946, ma quella in discussione da un quindicennio sugli anni 70. Un provvedimento che se approvato, sostiene Luzzato, si trasformerebbe in una «pietra tombale sugli orrori condivisi della nostra guerra civile». L’intonazione polemica del recensore del Corriere, che da qualche tempo è esulcerato dalle incursioni storiche di alcuni giornalisti sugli anni della guerra civile e i primordi della Repubblica (si veda in proposito La crisi dell’antifascismo, Einaudi 2004), è tale che sembra non voler risparmiare nemmeno l’istituto stesso dell’amnistia, rappresentata come un evento immorale, un diniego di giustizia, una fuga dalle responsabilità, un misconoscimento della verità.

Due secoli di amnistie
Senza voler chiamare in causa l’antichità classica, ci basta sapere che l’Ottocento e il Novecento sono stati secoli di amnistie che hanno seguito, in modo spesso contraddittorio e parziale, rivolgimenti e traumatismi civili e politici. L’Italia post-unitaria è stata marcata dall’adozione ripetuta di misure di clemenza collettiva. Almeno 230 sono state quelle censite tra il 1861 e il 1943. Ben altre 6 amnistie politiche sono state varate fino al 1970. Da allora più nulla.
C’è chi ha proposto, come Stéphane Gacon (L’Amnistie, Seuil 2002), una classificazione dei suoi diversi modelli. Uno di questi sarebbe l’amnistia-perdono, caratteristica dei regimi autoritari, che spesso si presenta come un ambiguo atto di generosità, un gesto di forza vischiosa e paternalista, il più delle volte accompagnato dalla «umiliazione di una richiesta», lì dove il perdono ricambia la sottomissione. Provvedimenti che in genere presuppongono valutazioni soggettive del beneficiario e dispositivi premiali in cambio di una richiesta d’acquiescenza al potere. Si tratta di un perdono inquisitorio, una logica che ricorda molto da vicino i dispositivi premiali intrapresi in Italia, tra il 1979 e il 1987, come le ampie riduzioni di pena previste per i dissociati della lotta armata.
L’amnistia-rifondazione, invece, non chiede nulla in cambio ma interviene per riunificare un paese diviso, ricompattandone il corpo politico, come accadde, con le leggi aministiali del 1872 e del 1898, alla fine della guerra civile americana, o con l’amnistia della Comune di Parigi che gettò le basi della terza Repubblica francese.
C’è poi l’amnistia-riconciliazione, un modello che segue la fine dei periodi dittatoriali. Sembra essere il caso dell’Italia dell’immediato dopo guerra, della Francia dopo la fine della Repubblica collaborazionista di Vichy o della Spagna post-franchista. Questi provvedimenti, nella gran parte dei casi, sono ispirati da valutazioni d’opportunità, ragioni di forza maggiore motivate dal fatto che i regimi caduti hanno potuto contare su un vasto consenso sociale costruito negli anni del loro dominio. Circostanza che rende problematica un’epurazione politica troppo estesa.

L’amnistia del 1946
Nel caso dell’amnistia italiana del 1946, vi è poi un’ambivalenza tutta particolare: per un verso, essa corrisponde all’avvio della politica d’egemonia condotta dal Pci, che mira così a recuperare larghi settori di quel fascismo antiborghese, frondista e di sinistra, in coerenza con quella che era stata la sua analisi del fascismo, riassunta nella formula del «regime reazionario di massa». Una convinzione che aveva spinto il Partito comunista clandestino al velleitario appello verso i «fratelli in camicia nera» nel tentativo di arrivare ad infiltrare le corporazioni e le organizzazioni di massa della dittatura negli anni della sua massima popolarità. Nella relazione con la quale Togliatti accompagna l’amnistia del 46, si spiega che la nuova Italia repubblicana non può nascere incoraggiando «la tradizione medioevale della messa al bando», per questa ragione era necessario un atto di clemenza che mirasse a recuperare quelli che erano stati «travolti da passione politica, o ingannati da propaganda menzognera… giovani resi incapaci da venti anni di dittatura di distinguere il bene dal male». 97888045663801 Al tempo stesso però, come accade per le amnistie francesi del 1951 e del 1953, anch’esse accolte da furiose polemiche, di cui si ebbe testimonianza nel confronto tra Mauriac e Camus, l’applicazione concreta della clemenza viene influenzata dai nuovi scenari geopolitici scaturiti dalla fine del conflitto. La “guerra fredda” spinge i paesi occidentali a rompere il fronte resistenziale e recuperare buona parte del personale compromesso con i passati regimi, per poter garantire una continuità dell’apparato statale in funzione anticomunista. Dietro la «riconciliazione» non ci sono ireniche spinte morali alla concordia ma un cinico calcolo strategico. In previsione dello scontro, il centro-destra democristiano e la sinistra comunista cercano di rafforzarsi reclutando nel passato. In questo modo l’amnistia da luogo ad un singolare paradosso: essa non è più un’occasione per la ricomposizione del corpo politico ma un espediente che perpetua la divisione, seppur in forma nuova, alimentando quella guerra civile fredda che, dopo la parentesi consociativa degli anni 70, vedrà assumere, alla fine del 1989, i connotati di una «guerra civile legale». In realtà, alcuni regi decreti del 44 e del 45 avevano già introdotto alcune misure amnistiali che non tutelavano affatto le azioni della Resistenza armata. Ed è innanzitutto per sanare queste carenze che Togliatti vara un provvedimento molto più organico ed ampio, che estende il beneficio anche ai nemici sconfitti purché incolpati solo di delitti politici, lasciando al giudice il compito dell’accertamento dell’indole politica del reato. Il tutto in un’ottica, come poi spiegò Mario Bracci, uno dei 18 ministri del dicastero De Gasperi che approvarono il provvedimento, che accertasse «le responsabilità dei singoli», evitando la logica delle responsabilità storiche e collettive, che avrebbe finito per imporre l’emarginazione e la persecuzione indiscriminata e non quel «rapido avviamento del paese a condizioni di pace politica e sociale», auspicate dallo stesso Togliatti. E sarà proprio questo il punto dolente del suo provvedimento. Una sorprendente dimostrazione d’angelismo politico o forse, in realtà, di quella precoce volontà di costruire un rapporto privilegiato con la magistratura, ritenuta un vettore di progresso in ragione del mito riformatore dell’azione giudiziaria. Invece, dando prova di un accurato zelo persecutorio, i magistrati della Cassazione, in gran parte reduci del regime, grazie a capziose interpretazioni giurisprudenziali, rovesciarono completamente le intenzioni del legislatore, applicando una clemenza di massa nei confronti dei fascisti, ben 10.034 di loro vennero amnistiati, ed escludendo sistematicamente i Resistenti che si videro riconoscere il beneficio solo in 153 casi. Lo stesso governo dovette promulgare, tre mesi dopo, un decreto che introduceva il divieto di emettere mandati di cattura o revocava quelli già spiccati contro i partigiani (Santosuosso e Colao, Politici e Amnistia, Bertani 1986).
Il fallimento dell’amnistia Togliatti trova spiegazione, in realtà, nel mancato adeguamento statuale al mutamento di regime politico. Venne meno sul terreno giuridico-formale, come spiegò con esemplare lucidità Calamadrei: «lo stabile riconoscimento della nuova legalità» uscita dalla Resistenza. Quella discontinuità che rende «lecita» l’illegalità perché «vittoriosa» sull’assetto politico preesistente. Richiamandosi a Santi Romano, Calamandrei sosteneva che l’assenza di rottura giuridica impedì di trovare nello Stato nuovo, e non nelle leggi precedenti, la necessaria legittimità. Il risultato fu la sistematica depoliticizzazione delle azioni partigiane (come avvenuto anche nel corso degli anni 70-80), passate al vaglio del codice Rocco, concepito proprio per reprimere quel tipo d’inimicizia politica. Furono necessarie ancora tre amplissime amnistie nel 53, 56 e 66, per chiudere definitivamente il dopoguerra.

I mal di pancia di Luzzato: miseria della cultura postazionista
La tesi di Luzzato testimonia il singolare atteggiamento della cultura liberale che oscilla continuamente tra la denuncia del carattere «totalitario, terroristico e fazioso», dei comunisti, per cui da una parte sarebbe stato un crimine l’uccisione di Gentile, ma poi si rimprovera loro l’amnistia ai fascisti; per un verso si condannano le vendette del «triangolo rosso», ma poi si critica la politica di recupero dei giovani quadri frondisti del regime, recentemente ricordata dal libro di Mirella Serri (I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Corbaccio, 2005). Di contro, a sinistra, ancora più meschino è il comportamento dei salvati di allora che, forse per far dimenticare di essere cresciuti negli asili dell’infamia, non hanno mai esitato a condannare i sommersi di oggi, opponendosi con ferocia perseveranza all’amnistia per gli anni 70.
L’amnistia Toglliatti appartiene a quel genere di clemenza che, intervenendo politicamente nell’immediatezza dei fatti, scommette sul futuro mettendo fine al rischio di un ciclo interminabile di rese dei conti. Per questo agisce come un «colpo di spugna», una sorta di oblio preventivo sulle colpe. Ma non è responsabilità di quell’amnistia, il clima più generale di rimozione e occultamento che investì, invece, le stragi più efferate dei nazi-fascisti, che di fatto si avvantaggiarono di una illegale amnistia di fatto, voluta dal potere politico in ragione dell’adesione italiana al Patto atlantico, come l’armadio della vergogna scoperto a Palazzo Cesi ha dimostrato. È inaccettabile, dunque, l’attacco all’istituto dell’amnistia e quella sorta di perverso bilanciamento della storia che Luzzato suggerisce: fare degli anni 70 il capro espiatorio del Novecento italiano per risarcire simbolicamente la mancata giustizia del dopoguerra. A differenza della clemenza preventiva del 46, l’amnistia per gli anni 70 interverrebbe in una situazione in cui la verità giudiziaria è stata già scritta e le pene ampiamente consumate, a distanza di oltre 30 anni dall’inizio del fenomeno e ben 18 anni dalla sua fine, quando in carcere vi sono ancora 132 detenuti per reati di sovversione e ben 119 latitanti all’estero (fonte Ministero della Giustizia aggiornata all’ottobre 2004), rinchiusi da un massimo di 28 anni ad un minimo di 18. Quale che sia il giudizio su quell’epoca, un dato ormai è certo: i militanti degli anni 70 hanno largamente scontato le loro pene, compreso il sovrasanzionamento dovuto alle leggi speciali dell’emergenza. Sono stati gli unici a pagare nella storia repubblicana. Si tratta ormai di chiudere simbolicamente un’epoca terminata da lunghi anni, e che alcuni settori della magistratura, degli apparati e del mondo politico, vorrebbero tenere artificiosamente ancora aperta per utilizzarla come una minaccia che ipotechi ogni presente e futuro di critica contro il potere.

Post scriptum
Quel che non è accettabile nella recensione di Luzzato è l’utilizzo della polemica contro l’amnistia Togliatti per attaccare, in realtà, l’ipotesi che un provvedimento del genere possa essere varato per il conflitto degli anni 70. Luzzato sembra quasi voler suggerire una sorta di perverso contrappasso: poiché ci fu clemenza contro i crimini fascisti è bene che ora i militanti della lotta armata degli anni 70 risarciscano simbolicamente anche quella mancata giustizia. Esiste una differenza sostanziale: nel giro di pochissimi anni (il maresciallo Graziani fu scarcerato nel 1953, accolto a braccia aperte da Andreotti), i fascisti furono tutti scarcerati. L’amnistia e l’indulto erano congeniati in modo tale che anche coloro che avevano subito condanne molto alte potessero uscire in libertà condizionale dopo 5 anni. Si trattò sostanzialmente di un’amnistia quasi preventiva. Mentre per i militanti della lotta armata dopo oltre 30 anni non si parla nemmeno più della opportunità di un provvedimento. L’amnistia la sta facendo il tempo.
Negli anni 90, uno degli argomenti in favore dell’indulto era quello di riportare l’entità delle pene ad una misura normale, togliendo il sovrasanzionamento dell’emergenza. Oggi, paradossalmente, non avrebbe più senso poiché la sanzione è stata largamente consumata.
La stessa cosa accadde in Francia. Non è vero in proposito quel che dice Luzzato. Anche se l’amnistia francese arrivò nel 1953, essa non fu esente dalle stesse polemiche che denunciavano una epurazione troppo lieve. Basti pensare alla vicenda Papon e Touvier! Per altro quel po’ di epurazione che avvenne Oltralpe fu essenzialmente un regolamento di conti a destra, tra gaulliani e petenisti.

Link
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Le leggenda degli italiani brava gente

Libri 1/Italiani brava gente – Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943), Odradek 2008, p. 275, euro 18

L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943), Intervista a Davide Conti

di Paolo Persichetti
Liberazione
5 settembre 2008

Nel Sergente della neve Mario Rigoni Stern descrive la disastrosa ritirata dell’Armir dell’inverno 1942-43 come una tragica epopea umana dove non c’è odio ma rispetto per i nemici, dove i soldati italiani fraternizzano con i contadini delle pianure del Don. Nel racconto traspare la consapevolezza per la condizione comune vissuta dagli uomini contro che bivaccavano nelle trincee scavate sulle linee opposte del fronte. Pubblicato nel 1953, il racconto di Rigoni Stern è divenuto una sorta di libro di testo per generazioni di scolari, una pedagogia pacificata piuttosto che pacifista della nostra memoria. Le avventure coloniali e le guerre d’aggressione del regio esercito e delle milizie fasciste scolorano fino a cancellarisi in una narrazione addolcita, nostalgica, senza rivalse e rancori ma anche senza gli orrori della guerra di conquista, gli eccidi, gli sterminii dei civili, la pulizia etnica, le politiche di snazionalizzazione delle popolazioni autoctone condotte da Mussolini in Africa, nei Balcani e in Russia. Il conflitto bellico sembra seguire le regole non scritte d’un galateo cavalleresco d’altri tempi. Il «generale inverno», la fame, i topi e le «cordate di pidocchi» che risalgono il collo dei nostri alpini appaiono i soli veri nemici da combattere. Questo libro ci ha aiutato a odiare la guerra sui banchi di scuola, a capirne tutta la sua insensatezza, ma ha anche riassunto e divulgato il mito del “bravo italiano”, del nostro «colonialismo straccione» e quindi dal volto umano, privo di ferocia, esente da crimini bestiali. Un’epica degli ultimi che troviamo anche in Italiani brava gente, film di Giuseppe De Santis uscito nel 1964. L’internazionalismo, la divisione per classi e non per nazionalità, l’antieroismo, la solidarietà tra russi e italiani poveri, la critica feroce degli stati maggiori fino a rappresentare i soldati italiani come vittime inconsapevoli delle loro gerarchie, nutrono un racconto didascalico che nel tentativo di educare al rifiuto della guerra, all’antimilitarismo e ai valori della fratellanza tra i popoli, getta un velo ideologico sulla condotta reale delle nostre truppe. È singolare che la cultura di sinistra, sia pur giustificata da intenti lodevoli, abbia contribuito con la sua narrazione nazionalpopolare alla rimozione delle responsabilità italiane nella seconda guerra mondiale, facilitando quel rovesciamento di paradigma storiografico che l’attuale egemonia culturale della destra erede del fascismo sta portando a termine con successo. Affrontiamo la questione con Davide Conti, giovane storico ricercatore della Fondazione Basso, che ha recentemente pubblicato per le edizioni Odradek (prima edizione già esaurita), L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943), 2008, p. 275, euro 18.

Nei Balcani le truppe italiane hanno lasciato alle loro spalle una scia orribile di massacri. «Qui si ammazza troppo poco», disse una volta il generale Mario Robotti. Com’è possibile che i palikuca, i «bruciatetti», così le popolazioni civili chiamavano gli italiani, siano diventati nel dopoguerra «brava gente»?
In realtà l’immagine autoassolutoria del “bravo italiano” è rimasta una rappresentazione nazionale ben poco condivisa all’estero. Al termine del secondo conflitto mondiale tutti i paesi occupati dal regime fascista, Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss, Francia ed Etiopia, chiesero alla commissione internazionale per i crimini di guerra l’estradizione dei militari italiani accusati di violenze. Gli Usa e l’Inghilterra condannarono a morte alcuni militari del regio esercito responsabili di crimini contro i prigionieri alleati. La legenda degli italiani “brava gente” emerse solo in un secondo tempo, nel quadro dei nuovi equilibri provocati dalla Guerra Fredda. Quest’immagine, sostenuta poi dagli stessi Alleati, fu utilizzata per legittimare il rapido riarmo dell’Italia e la sua integrazione nell’Alleanza Atlantica.

Non credi che insieme ad una rimozione dei crimini dei militari ascrivibile alla cultura della destra, vi sia stata anche una involontaria omissione da parte della sinistra?
Tra il 1944 ed il 1945 tutti i partiti della sinistra sostennero la necessità di estradare i responsabili italiani delle violenze nei paesi occupati. Successivamente il coinvolgimento nei governi di unità nazionale e la presenza di socialisti e comunisti all’interno della Commissione d’inchiesta sui crimini di guerra rese problematico mantenere una linea intransigente. Il biennio 46-47 fu un momento decisivo. La sconfitta delle posizioni più avanzate in termini di rinnovamento dello Stato e l’arresto delle epurazioni ebbe ripercussioni anche sull’apertura dei processi per crimini di guerra. Dopo l’esclusione dal governo e la sconfitta elettorale del 1948, la questione assunse un peso prevalentemente polemico-propagandistico fino a dissolversi nella “normalizzazione” post-bellica.

Il fatto che il nostro paese abbia subito una dura occupazione militare e una feroce guerra civile non ha forse contribuito alla rimozione delle spedizioni coloniali e dei loro crimini. Il dolore di casa nostra non ha forse oscurato quello altrui?
Di fronte alla commissione che venne istituita dal ministero della Guerra, un alto esponente del regio esercito utilizzò a sua discolpa proprio quest’argomento per attenuare le responsabilità italiane nei bombardamenti dei villaggi jugoslavi. Disse che le distruzioni di abitati civili non erano diverse dai bombardamenti subiti dalle città italiane. In sostanza sosteneva che in guerra i crimini contro le popolazioni civili trovavano un senso e una giustificazione nell’eccezionalità della situazione storica.

Quale è l’odierno utilizzo del mito del bravo italiano?
Fatte salve le ovvie differenze con le forze armate attuali, credo che il perdurare del mito risieda nell’assoluta attualità e funzionalità che la rappresentazione dell’italiano brava gente assume oggi nelle cosiddette “missioni di pace” dei nostri militari. Domandiamoci quanto abbia inciso nel consenso dell’opinione pubblica, soprattutto quella di sinistra più sensibile ai temi della pace, la retorica del “bravo italiano”, della “Missione Arcobaleno” durante la guerra in Kosovo, dell’intervento “umanitario e di ricostruzione” in Afghanistan, per poi finire con l’Iraq? In queste operazioni militari tutti i governi hanno utilizzato a piene mani l’immagine del soldato italiano elemento di “pace” e “normalizzazione” delle aree di crisi internazionale, marginalizzando il ruolo militare e di combattimento delle nostre truppe anche in contesti di aperta violazione del diritto internazionale.

Non ritieni che il discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica Napolitano nel febbraio 2007, in occasione della “Giorno del ricordo”, appartenga a quel modello di narrazione storica costruita attorno al paradigma del vittimismo memoriale?
Il discorso di Napolitano si colloca all’interno di un vero e proprio “corto circuito della memoria”. Ne parlo nell’ultimo capitolo del libro. Sulle foibe Napolitano parlò di “pulizia etnica” contro gli italiani. Gli rispose il presidente croato Mesic ricordando la ferocia e gli eccidi dell’occupante fascista. Replicò infine D’Alema sostenendo che anche partigiani italiani avevano combattuto valorosamente insieme alle brigate jugoslave contro i fascisti, riscattando in questo modo l’Italia. Ora delle due l’una: o gli italiani che affiancavano gli jugoslavi erano interni al progetto di pulizia etnica anti-italiana……oppure la pulizia etnica non c’entra nulla e le ragioni storiche che spiegano la complessa e drammatica vicenda delle foibe sono da rintracciarsi in altri elementi. Quando lo storico Raul Pupo intervenne sulla rivista dell’Anpi di Roma, Persona e Società, del giugno 2006, spiegò che i fattori alla base delle uccisioni del 1943 e poi del 1945 dovevano essere ricercati non tanto nella relazione causa-effetto, innescata dall’occupazione italiana e successiva reazione jugoslava, quanto nelle particolari dinamiche della storia della Jugoslavia del tempo. Questo cambio di prospettiva analitica, che pone al centro la storia jugoslava e non la sola lettura italiana, potrebbe consentire una comprensione reale degli eventi.

Quali sono le novità documentali presenti nel tuo libro rispetto alle ricerche precedenti?
I documenti sono in larga parte inediti e certificano, attraverso resoconti dettagliati delle operazioni militari, che le truppe del regio esercito commisero stragi, rappresaglie, internamenti, deportazioni e distruzioni in danno di civili, partigiani e militari di altri paesi. Inoltre si palesa l’intento programmatico del governo fascista e delle alte gerarchie militari di realizzare politiche di “snazionalizzazione” dei territori occupati e di terrore programmato per il controllo dell’ordine pubblico. Si riportano lunghi elenchi di presunti criminali di guerra italiani di cui i paesi occupati chiedono l’estradizione (circa 1200). Si menzionano luoghi, tempi e modalità in cui vennero svolte operazioni militari contro le popolazioni locali e si individua la catena di comando. Il fatto che tali documentazioni provengano da fonti militari e ministeriali e da relazioni dirette di soldati italiani e non siano solo accuse di provenienza jugoslava rafforza l’elemento di verità storica e a mio avviso lo pone come fattore non marginale di impegno pubblico rispetto ai conti con la nostra storia nazionale.

Perché il ministero della Difesa rende ancora inaccessibili quei documenti che possono fare luce sui comportamenti delle forze armate nelle imprese coloniali italiane?
L’allargamento del dibattito e una maggiore sollecitazione dell’opinione pubblica potrebbe rappresentare un grimaldello efficace per ottenere finalmente l’accesso alle fonti militari. Nel febbraio 1996, al termine di una lunga disputa tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli sull’uso dei gas in Africa, il ministro della Difesa dell’allora governo Dini, il generale Domenico Corcione, intervenne in Parlamento per confermare ciò che sosteneva Del Boca, sancendo una verità storica fino ad allora negata.

Nelle polemiche rivolte alla vicenda delle foibe o del “triangolo rosso” emiliano non vi è il tentativo di confondere quella che è stata la «guerra civile» con la «guerra sistematica ai civili» condotta dai nazifascisti dentro e fuori il territorio italiano?
Confondere la guerra civile con la “guerra ai civili” significa dare adito alle forme peggiori di revisionismo. Uniformando sotto il criterio di una indefinita “violenza” elementi completamente diversi per natura, origine e sviluppo, porta alla conclusione che da una parte e dall’altra vi fu lo stesso grado di crudeltà e che in sostanza le due parti contendenti abbiano una uguale moralità e dignità storica. Le diversità tra nazifascisti e antifascisti vengono in questo modo cancellate favorendo la costruzione di quel “senso comune” che ha permesso in questi ultimi anni un vero e proprio processo mediatico alla Resistenza, ridefinendo in termini di egemonia nella società il primato di una cultura di destra anche nell’ambito della lettura della storia nazionale. La “guerra ai civili” fu una strategia militare adottata dalle truppe nazifasciste nei territori occupati dell’Europa per mantenere il controllo dei paesi invasi dalle truppe dell’Asse ed in Italia le stragi tedesche ne rappresentano la più triste conferma.

Sui crimini di guerra commessi dal nostro esercito nei Balcani è tornata ad indagare anche la magistratura militare dopo che, nel 2002, è venuta meno la clausola della reciprocità sancita dall’art. 165 cp. Ma gli eventuali processi non avranno comunque un esito penale effettivo poiché i responsabili sono scomparsi. Non c’è il rischio di delegare all’ambito giudiziario la ricerca storica?
Quella clausola venne utilizzata per negare le estradizioni dei nostri militari, mettendo sullo stesso piano aggressori e aggrediti. La “scoperta” dei fascicoli riguardanti le stragi tedesche e le responsabilità dei collaborazionisti salotini rappresenta un elemento di grande importanza dal punto di vista storico e civile. Ritengo molto importante che il procuratore militare Intelisano abbia riaperto il caso dei crimini di guerra italiani all’estero. Credo che forme di sanzione giuridica siano in questo caso specifico assolutamente importanti. Sarebbe mai stato possibile costruire il mito del “bravo italiano” se si fossero celebrati i procedimenti giudiziari contro i nostri criminali di guerra? Ciò non avrebbe favorito un ricambio quantomeno dei vertici militari e dell’alta burocrazia rendendo percorribile e più incisiva la strada dell’epurazione e del rinnovamento delle istituzioni? In sostanza quella tara storica della “continuità dello Stato” patita nel dopoguerra dalla stessa Repubblica democratica e antifascista avrebbe trovato terreno meno fertile per radicarsi nel tessuto nazionale. L’immagine evocativa, utilizzata da Filippo Focardi, della mancata “Norimberga italiana” rappresenta in questo senso un elemento centrale della storia dell’Italia post-fascista.

Ma il processo di Norimberga non ha affatto denazificato la Germania. Non è una tragica illusione credere che i processi nei tribunali possano compensare ciò che non è riuscito ai processi storici? Così non si rischia di scadere dal tribunale della storia alla storia dei tribunali?
Naturalmente il lavoro giudiziario è diverso da quello storico cui competono altre funzioni rispetto alla ricerca sul piano penale e di responsabilità individuali che sono proprie dell’ambito giuridico. Sta alla ricerca storica non subordinare esclusivamente il proprio lavoro alla dimensione giudiziaria. Il problema risiede poi nella capacità di sedimentare nella coscienza dell’opinione pubblica ciò che emerge dalle carte e dai documenti. È poi ovvio che un processo di generale rinnovamento sociale, politico e culturale di un paese non possa essere delegato in toto ad un ambito giuridico o soltanto storico. Sono processi che per riuscire nel loro compito necessitano della attiva ed ansiosa spinta di rinnovamento delle società.

I crimini del colonialismo italiano dall’Africa alla Jugoslavia

«La favola del bono italiano deve cessare […] per ogni camerata caduto paghino con la vita 10 ribelli. Non fidatevi di chi vi circonda. Ricordatevi che il nemico è ovunque; il passante che vi saluta, la donna che avvicinate, l’oste che vi vende il bicchiere di vino […] ricordatevi che è meglio essere temuti che disprezzati»

Generale Alessandro Pirzio Biroli

«È necessario eliminare tutti i maestri elementari, tutti gli impiegati comunali e pubblici in genere (A.C., Questura, Tribunale, Finanza, ecc.), tutti i medici, i farmacisti, gli avvocati, i giornalisti…, i parroci…, gli operai…, gli ex militari»

Generale Orlando

«Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento»

Generale Gambara, 17 dicembre 1942

1934 Tripolitania e Cirenaica vengono riunite per formare la colonia di Libia. Alla Libia viene attribuito l’appellativo di quarta sponda. Per gran parte degli anni 20 le autorità italiane sono impegnate in una sanguinosa pacificazione durante la quale si fece ricorso ai gas asfissianti e alla deportazione di 100 mila persone che provocò la morte a 15 mila di queste.

Ottobre 1935 100 mila soldati italiani occupano l’Abissinia (attuale Etiopia), estendendo il dominio coloniale già presente in Eritrea dalla fine dal 1879 e in Somalia dal 1889. Anche qui vi fu l’impiego sistematico di bombe all’Iprite (solfuro di etile biclorurato), di bombardamenti a tappeto dell’aviazione sui civili e di esecuzioni in massa dei prigionieri. Massimi responsabili i generali Del Bono e Graziani.

Aprile 1939 Alla vigilia della seconda guerra mondiale, una settimana dopo la conclusione della guerra di Spagna del 1936-39, viene annessa l’Albania.

Ottobre 1940 Aggressione della Grecia.

Aprile 1941 L’invasione congiunta del regno di Jugoslavia da parte della Germania nazista, della Bulgaria, dell’Ungheria e dell’esercito dell’Italia fascista, porta alla spartizione della Slovenia, con annessione all’Italia della provincia di Lubiana; occupazione del Montenegro con inclusione della Bosnia, entrambi trasformati in protettorato italiano; creazione di uno Stato fantoccio croato (appoggiato dal Vaticano), alla cui testa viene messo Ante Pavelic, nominato poglavnik (duce), capo del movimento d’estrema destra Ustascia, clone nazi-fascista. Varo immediato di leggi razziali, massacri di civili, deportazioni, conversioni religiose forzate al cattolicesimo, apertura di otto campi di concentramento contro Serbi, Ebrei e Zingari. 400 mila morti nel campo di concentramento di Jasenovac (il terzo per grandezza in Europa). Regio esercito emilizie fasciste si rendono responsabili di distruzioni, incendi di centri abitati e fucilazioni di massa di civili e prigionieri. 26 mila montenegrini vengonointernati.

Luglio 1941 Invio di un corpo di spedizione italiano in Russia-Armir di circa 220 mila uomini.

Pulizia etnica. Il Mladic italiano

ll generale Mario Roatta fu uno dei più feroci esponenti della politica militarista di Mussolini

Paolo Persichetti
Liberazione
18 settembre 2008

Paolo Persichetti
ll generale Mario Roatta fu uno dei più feroci esponenti della politica militarista di Mussolini. Nato a Modena nel 1887, divenne capo del Sim (servizio segreto militare) dal gennaio 1934 al settembre 1936, quando prese il comando del corpo di spedizione italiano in Spagna. Dal 1941 al 1942 è capo di stato maggiore. Comanda la seconda armata in Slovenia e Croazia, dove ordina l’eliminazione dei civili sospetti di ribellione, attua la pulizia etnica e organizza il sistema dei lager per i civili slavi. Torna ad essere capo di stato maggiore fino al novembre 1943. Viene contattato dall’Oss, il servizio segreto progenitore della Cia, perché organizzi una pre-Gladio. Il 16 novembre 1944 viene arrestato per la mancata difesa di Roma. Il 4 marzo del 1945 evade dall’ospedale militare con la complicità dei dei carabinieri e del Sim appena ricostituito. Una settimana dopo la fuga arriva la condanna all’ergastolo perché ritenuto uno dei mandanti dell’assassinio dei fratelli Rosselli. Ripara nella Spagna di Franco. Rientra in Italia nel 1966 grazie ad alcune amnistie. Muore a Roma nel 1968. Una sua foto è tuttora appesa alle pareti dell’Archivio storico dello Stato maggiore dell’esercito.

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