A quarant’anni dal 7 Aprile 1979, come magistratura e Pci confezionarono l’inchiesta contro l’Autonomia

Citazione

Due anni fa, Umberto Contarello, segretario nel 1979 della Fgci di Padova,  raccontava il retroscena della sua testimonianza d’accusa nel processo 7 aprile, concordata nelle stanze della federazione cittadina col Pm Calogero. Il magistrato lo ha querelato e Contarello ha invocato gli «scherzi della memoria»

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Nel maggio del 2017, Massimo Bordin nella sua consueta rubrica del Foglio (Fonte: http://www.ilfoglio.it/bordin-line/2017/05/17/news/quando-negli-anni-70-i-giudici-passeggiavano-nelle-stanze-del-pci-134918/#.WRvrOq_VoWw.facebook) rivelava che su una di quelle pagine per nostalgici che riempiono Facebook, intitolata «sono stato iscritto al Pci» e frequentata da ex appartenenti a quel partito, alcune note, molte meno, era apparso un post del segretario, alla fine degli anni Settanta, della Federazione giovanile comunista di Padova. Per la cronaca si trattava di Umberto Contarello, divenuto uno sceneggiatore di successo, legato da stretta collaborazione al realizzatore Paolo Sorrentino. «Erano anni per loro – proseguiva Bordin – di scontro con l’Autonomia. Proprio a Padova, nel 1979, iniziò una inchiesta sfociata nel processo 7 aprile, così detto dal giorno dei numerosi mandati di cattura. Il giovane segretario della Fgci fu allora chiamato a testimoniare in aula e racconta che il giorno prima fu convocato in federazione nella stanza del segretario cittadino dove trovò anche il pm del processo che concordò con lui lo schema delle domande e delle risposte. «Assolutamente veritiero» scrive, ma aggiunge «sostanzialmente». Imparato il canovaccio a memoria, lo espose l’indomani di fronte ai giudici, e agli imputati. Oggi scrive che gli parve una esperienza straniante rispondere con formale verbalizzazione a quel signore in toga che il giorno prima, vestito più normalmente, lo aveva istruito in federazione e che sarebbe l’ora di ammettere che «la sinistra italiana non è realmente garantista, non lo è dentro, come è antirazzista o egualitaria, perché quella generazione imparò che i giudici passeggiano negli uffici di un partito».
Quelle dichiarazioni ebbero un seguito: infuriato per quella ricostruzione dei fatti il procuratore Calogero ha querelato Contarello che ha fatto marcia indietro parlando di «scherzi della memoria». Della “ritrattazione” di Contarello ha scritto Ernesto Milanesi sul manifesto nel gennaio 2018, raccontando come «nello stesso modo social lo sceneggiatore da Oscar si è rimangiato lo “scherzo della memoria”, ottenendo una raffica di insulti da Flavio Zanonato, padre-padrone del Pci-Pds-Ds ora eurodeputato dopo un ventennio da sindaco. Così Padova è tornata ad avvelenarsi, come se il tempo si fosse cristallizzato». Per fortuna – prosegue Milanesi – aggiungendo altri dettagli della vicenda, la storia restituisce quella stagione tutt’altro che univoca. Un altro «ricordo» di Contarello era passato sotto silenzio: il 17 novembre 2011 aveva già scritto on line di Pecchioli, Folena e Longo, ma anche del faccia a faccia con Calogero prima della deposizione in tribunale. «Arriva con la toga sotto braccio che mi pare un cencio. Mi dice ciao perché ci conosciamo…».
La testimonianza di Contarello fa il paio con le rivelazioni di Giuliano Ferrara e Saverio Vertone sulle riunioni con i pm Giancarlo Caselli e Luciano Violante nella sede della federazione di Torino (https://insorgenze.net/2010/11/12/la-vera-storia-del-processo-di-torino-al-nucleo-storico-delle-brigate-rosse-la-giuria-popolare-venne-composta-grazie-allintervento-del-pci/). Erano gli anni in cui il Pci teorizzava l’uso della magistratura come cinghia di trasmissione. Il tempo poi ha chiarito meglio chi faceva da cinghia e chi era realmente la trasmissione: dal partito della classe operaia che entrava nello Stato per controllarlo si arrivò al partito dello Stato dentro la classe operaia e del suo braccio armato giudiziario in ogni anfratto della società.

Per saperne di più
7 aprile 197, quando lo Stato si scatenò contro i movimenti

Dall’esilio con furore. Cronache dalla latitanza e altre storie di esuli e ribelli

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Foto Baruda

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7 aprile 1979. Errorismo di Stato, Sergio Bologna a proposito del libro di Pietro Calogero, Pm del “teorema 7 aprile”

Biblioteca della spazzatura – Pietro Calogero, Carlo Fumian, Michele Sartori, Terrore rosso. Dall’autonomia al partito armato, Laterza, Bari 2010

Sergio Bologna
Fonte: blog di Sergio Falcone

Eccoli gli infiltrati del partito invisibile dell'insurrezione

Nemmeno i negazionisti erano arrivati a tanto. Si erano limitati a dire che i campi di sterminio non erano mai esistiti, ma non si sono spinti a dire che gli ebrei avevano gasato i nazisti. I tre autori di questa nuova prova della miseria italiota vanno oltre il negazionismo. L’arresto di Toni Negri e di molti suoi compagni il 7 aprile 1979 è stato il primo atto di una persecuzione giudiziaria e di un linciaggio mediatico che non aveva precedenti nella storia d’Italia dal 1945 ad allora e non ha avuto eguali nei trent’anni successivi. Nel libro in questione Toni Negri appare invece come un criminale dal volto ancora sconosciuto, grazie alla “copertura” dei servizi di Stato deviati e golpisti. “Getti la maschera” continua a gridargli Calogero, “scopra finalmente il suo volto”, “esca dal suo nascondiglio”! E questo lo grida a un uomo bersagliato per mesi da titoli cubitali dei giornali come l’ispiratore di 17 omicidi (così recitava il primitivo mandato di cattura stilato da Calogero), a un uomo del quale sono stati gettati in pasto alla folla affetti personali e appunti sul notes, agende telefoniche e abitudini quotidiane. Toni Negri tra galera e domicili coatti si è fatto 11 anni. E qui viene definito come uno che lo Stato ha colpevolmente protetto.
Sono passati poco più di trent’anni da allora e trent’anni esatti dalla sconfitta della classe operaia Fiat dopo l’occupazione durata 35 giorni. Trent’anni lungo i quali tanti fili si sono spezzati, tante sequenze sono state interrotte, tranne una sola: l’umiliazione del lavoro. A leggere oggi certe testimonianze su come vengono trattati i giovani laureati negli stages, a scorrere le cronache sui 35 operai morti nelle pulizie delle cisterne, a navigare sui blog dove centinaia di giovani italiani raccontano d’essersene andati da un Paese per loro invivibile, viene da dire: “Sono stato di Potere Operaio e ne sono orgoglioso”. Potere Operaio voleva dire che il lavoro non si deve lasciar umiliare, e se qualcuno – chiunque sia – vuole umiliarlo, il lavoro deve ribellarsi, deve alzare la testa. E’ l’unica condizione perché in un Paese ci sia democrazia. E’ l’unica condizione perché un Paese possa valorizzare le sue risorse umane, è l’unica condizione perché nell’impresa ci sia innovazione, è l’unica condizione perché il servizio pubblico sia rispettoso dei cittadini, è l’unica condizione che permette alla maggioranza di vivere meglio. Perché la maggioranza dei cittadini di questo Paese vive del proprio lavoro. Ma forse c’è un’altra sequenza che non si è mai interrotta: la disinformazione. Non si è mai fermato il degrado dell’informazione quotidiana, un degrado morale e linguistico. Basta poco, basta sfogliare un grande quotidiano italiano e un grande quotidiano tedesco, britannico, francese, americano, spagnolo. C’è un abisso. “Il ritorno dei cattivi maestri”, titolava l’altro giorno in prima pagina La Stampa l’articolo di un suo giornalista. Torna la solfa dei cattivi maestri. E torna non a caso in un momento di crisi politico-istituzionale che apre una fase oscura, inquietante, dove quel poco di Stato che ancora esiste ed esiste perché c’è della gente che ci dedica tutti i suoi talenti, le sue energie, gente che cerca di arginarne lo sfascio, rischia di sgretolarsi. Si fregano le mani in tanti che Berlusconi sia al tramonto, ma troppi tra questi hanno dato una spinta perché il lavoro venisse umiliato. Non solo c’è un’opposizione inesistente ma anche quella che sembra più intransigente, ci marcia con la solfa dei cattivi maestri, affonda le mani in questa melma. Sul blog di Beppe Grillo si poteva da settimane leggere le affermazioni di un giornalista, un certo Fasanella non nuovo a questa bravate, che anticipava le tesi di Calogero e accostava le “coperture” di cui avrebbe goduto l’Autonomia padovana a quelle che rendono ancora insoluto il mistero di Ustica. Abbiamo perduto amici, alcuni dei quali erano come fratelli, morti prematuramente, logorati dalla persecuzione giudiziaria, da carceri preventivi: Luciano Ferrari Bravo, Emilio Vesce, Augusto Finzi, Sandro Serafini, Guido Bianchini. Non possiamo tollerare che le loro tombe vengano insozzate in questo modo!
E’ un brutto momento e può succedere di tutto. Se è vero che l’imbeccata di questa nuova campagna contro i “cattivi maestri” è venuta da alte cariche dello Stato c’è da stare in guardia, vuol dire che la crisi politico-istituzionale è più grave di quanto appaia. Proprio in questi giorni esce nelle librerie l’edizione completa, digitalizzata, della rivista “Primo Maggio”. Ecco il volto dei cattivi maestri, ecco le loro parole. Volete scoprire la loro faccia? Leggete, banda di miserabili. A 30 anni di distanza quei lavori di ricerca, di analisi, quelle inchieste, conservano la loro dignità intellettuale e spesso sono ancora attuali. Abbiamo saputo prendere le distanze allora da pratiche e discorsi dell’Autonomia e dei partiti armati. Lo abbiamo fatto per coerenza d’idee, non per opportunismo, ed è questo che determina oggi l’interesse di tanti giovani per i nostri scritti di quel tempo. Il filone di pensiero che parte dall’operaismo è uno dei pochi che ha dimostrato di resistere alla sfida della globalizzazione e del postfordismo, è rimasto al passo dei tempi. Forse perché al fondo aveva un principio saldo ed elementare: il lavoro non deve lasciarsi umiliare. Abbiamo difeso il lavoro altrui, noi che operai non eravamo. Oggi dobbiamo difendere il lavoro cognitivo, il nostro lavoro, il lavoro intellettuale, più disprezzato e umiliato di quello manuale. Per questo dobbiamo affrontare le infamie della carta stampata a viso aperto, anzi, a brutto muso.

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Steve Wright per una storia dell’operaismo
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro

Steve Wright, per una storia dell’operaismo

Recensioni – Dobbiamo a Steve Wright, noto studioso australiano dei movimenti della seconda metà del Novecento, questo volume che disegna la parabola di Classe Operaia. L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (postfazione di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba, Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 334, euro 20) (1964-67), Potere Operaio (1969-73) e dell’Autonomia operaia (1973-79

Ferruccio Gambino
Liberazione
17 ottobre 2008


Alla prima edizione inglese del 2002 è seguita l’edizione tedesca del 2005 e adesso quella italiana, nella traduzione di Willer Montefusco, grazie al rinnovato interesse per l’operaismo, come osservano Bellofiore e Tomba nella loro postfazione. Steve Wright ricostruisce questa vicenda che troppo a lungo era rimasta affidata alle arringhe di vari magistrati, a parte il notevole contributo di Franco Berardi (La nefasta utopia di Potere Operaio, Castelvecchi, 2003) e ci offre un’interpretazione documentata e originale del dibattito che ha segnato l’operaismo negli anni ’60 e ’70.
Quando si dice operaismo, occorre chiarire. In Italia di operaismi ne sono comparsi almeno tre: prima è venuto l’operaismo di chi si batteva contro questo lavoro e contro l’insensatezza di questo sistema di accumulazione; poi l’operaismo di quanti cercavano di introdurre nuove tematiche operaie nelle istituzioni del movimento operaio; infine l’operaismo di coloro che, reclutando una base militare nelle fabbriche, intendevano costruire un partito armato di ispirazione bolscevica. Chiamo il primo, operaismo anti-accumulativo; il secondo, operaismo istituzionale, il terzo, operaismo reclutativo.
In questo volume, Steve Wright si occupa del primo dei tre operaismi, di gran lunga il più originale. L’autore dedica i due capitoli iniziali alle difficili condizioni in cui quella sinistra che era ai margini del Pci e del Psi andava cercando la strada per uscire dalle strettoie degli anni Cinquanta, quando campeggiavano le grottesche contrapposizioni dei due blocchi nella Guerra fredda. La figura centrale di quella ricerca fu Raniero Panzieri. Il suo programma, «restituire il marxismo al suo naturale terreno che è il terreno della critica permanente», trovava attenzione perlopiù tra una minoranza di giovani intellettuali che gravitavano attorno ai due partiti di sinistra o che avevano sperimentato strategie di non-violenza, ad esempio Goffredo Fofi, Mauro Gobbini, Giovanni Mottura. Come aveva visto Franco Fortini, ben poche forze politiche sembravano disponibili a mettersi in gioco contro l’irreggimentazione con la quale si trasferivano dalle campagne all’industria in Italia e all’estero milioni di individui alla ricerca di un salario, in un processo che i padroni del vapore e il partito della Democrazia cristiana promuovevano sovente con modalità di compromesso tra dormitorio e caserma. Delle dure condizioni in cui questi migranti interni lavoravano nell’industria si conosceva ben poco e quel poco non era argomento da menzionare nell’arena politica.


Con Quaderni Rossi, la rivista diretta da Panzieri, l’incantesimo si ruppe. I tempi e i modi dello sfruttamento industriale entravano finalmente nel dibattito pubblico: a cominciare dalla condizione operaia nella città-fabbrica di Torino. Wright rintraccia giustamente nella categoria di “composizione di classe” il filo rosso dell’esperienza dell’operaismo dei Quaderni Rossi e poi del gruppo che se ne distacca per fondare nel 1964 la rivista Classe Operaia. L’autore non segue il percorso dei Quaderni Rossi dopo tale scissione, ma occorre ricordare che il lavoro della rivista diretta da Vittorio Rieser avrebbe continuato a fornire elementi indispensabili di conoscenza ai giovani militanti che affrontavano l’intervento nelle fabbriche alla fine degli anni Sessanta.
Classe Operaia
era un esperimento che cominciava negando alla classe operaia in Italia il carattere di «compatta massa sociale». Semmai, l’omogeneità «è un obiettivo per cui lottare», ma soltanto a patto di prendere posizione nel conflitto e rilevare dall’interno «l’estrema differenziazione fra i livelli dello sfruttamento capitalistico nelle varie zone, settori, aziende», come scriveva Romano Alquati nel 1965. Wright pone in primo piano il contributo di Mario Tronti, direttore di Classe Operaia, secondo il quale il Marx ossificato dagli economisti dello sviluppo e scienziato dei movimenti del capitale ha troppo a lungo occultato il Marx della rivoluzione contro il capitale e del primato dell’iniziativa di parte operaia. Abbandonate le vecchie certezze dei partiti di sinistra, la navigazione diventava incerta. Nella fase dei Quaderni Rossi avevano soccorso gli scritti di alcuni sociologi industriali statunitensi che non erano allineati con la sociologia dominante, Alvin Gouldner in particolare; ma per il resto era necessario, volenti o nolenti, camminare su terreno inesplorato, mostrando, ad esempio, che la proletarizzazione in Italia era parte di una tendenza  mondiale e che in tale processo era già avvenuta qualche grande rottura della pretesa armonia socialista, come nell’Insurrezione ungherese del 1956. Per quante forze si riuscisse a mettere in campo in Italia contro l’asserita inesorabilità della marcia capitalistica, c’era chi in Classe Operaia si rendeva conto che i partiti di sinistra risultavano arnesi spuntati e che occorreva cercare anche in altri paesi esperienze di lotta contro lo stato delle cose.


La chiusura dell’esperimento di Classe Operaia, chiusura decisa dalla direzione che poi sarebbe rientrata nel Pci, lasciava perplessi parecchi militanti. Dopo un lungo 1967, finalmente il ’68  internazionale e il ’69 italiano confermavano che si poteva fare politica fuori dalle istituzioni del movimento operaio. Ancora oggi pochi rilevano tuttavia che queste insorgenze si manifestano quando la Rivolta afro-americana e operaia di Detroit dell’estate del 1967 è già stata repressa nel sangue dall’Ottantaduesima divisione aerotrasportata. Sarebbe il caso di rammentarlo almeno a coloro che cantano le meraviglie dei cosiddetti Trent’anni Gloriosi (1946-1975), quando, a  loro dire, la classe operaia se la spassava nello Stato del benessere. Wright riannoda i fili del dibattito legato agli eventi del 1968-69 con cui i resti di Classe Operaia che non rientrarono nei ranghi della sinistra costituirono il gruppo di Potere Operaio. Si trattava di militanti che maturarono questa decisione grazie soprattutto all’opera di orientamento e all’azione politica di Toni Negri e di altri attivisti quali Guido Bianchini e Luciano Ferrari Bravo, che si erano  raccolti attorno al periodico Potere Operaio veneto-emiliano nella fase di chiusura di Classe Operaia. Sul gruppo di Potere Operaio è scorso molto inchiostro, prevalentemente per mano sia dei pubblici ministeri dei processi intentati contro i militanti di Potere Operaio sia dei loro epigoni. Per contro, Wright riesce a calibrare il racconto e il giudizio mostrando le linee di convergenza e di collisione delle varie – e in alcuni casi eterogenee – componenti già attive che entrano in Potere Operaio.
Va aggiunto che quando esce il primo numero del periodico omonimo (settembre 1969), la situazione va chiudendosi a livello internazionale in Occidente, anche se meno pesantemente di quanto era avvenuto nelle repubbliche popolari con i carri armati sovietici a Praga (agosto 1968). Potere Operaio si trova stretto tra la repressione strisciante di suoi militanti in fabbrica e la legittimazione del sindacato da parte padronale e statale dopo l’approvazione dello Statuto dei lavoratori (1970). Analogamente a quanto era già successo altrove, l’esodo da Potere Operaio di un intero gruppo di femministe sposta altrove un dibattito che andava già evolvendo fuori dagli schemi tradizionali e che non manca di riverberarsi su quasi tutte le altre formazioni politiche. Quanto alle iniziative a proposito del Mezzogiorno, Potere Operaio si sottrae alla soluzione facile dell’organizzazione del malcontento e punta a formare quadri  capaci di sostenere lotte di lungo corso, per le quali tuttavia i partiti tradizionali sembrano ancora offrire più convincenti  garanzie contro l’isolamento. Lontana purtroppo dai riflettori mediatici ma insistente, anche se timida, rimane la battaglia ecologista che si situa sulla difensiva come lotta operaia contro la nocività industriale e la monetizzazione della salute.


A livello di politica generale, in quegli anni l’uso spregiudicato della Cassa integrazione guadagni, le ristrutturazioni industriali, la diffusione della piccola fabbrica per aggirare lo Statuto dei lavoratori e le scelte urbanistiche si allineavano alle scelte strategiche del capitale industriale che in altri paesi tendevano a rendere obsolete intere sezioni di combattiva classe operaia, come nella Ruhr o in Michigan. A questo proposito, l’antologia curata da Luciano Ferrari Bravo, Imperialismo e classe operaia multinazionale (Feltrinelli 1975) costituiva una notevole anticipazione nella comprensione delle tendenze globali. Le misure di dislocazione industriale e di relativi ammortizzatori sociali sembravano aver poco a che fare con la strategia della tensione e con lo stragismo di Stato (va ricordato, tra l’altro, il prezzo pesante in termini di repressione che nel dicembre del 1971 Potere Operaio pagò, da solo, per la prima manifestazione milanese di massa nell’anniversario della strage di Piazza Fontana). In realtà, in quegli anni era massiccia la combinazione di dosi di paura e di blandizie che le sfere dirigenti riuscivano a rovesciare sul campo dove si giocavano i rapporti di forza con le  “classi pericolose”, al punto che non si esitava ad allentare le cordicelle della spesa pubblica sino alla voragine del debito degli anni Ottanta. All’interno di Potere Operaio, come nota Wright, le divergenze decisive riguardarono allora il peso da attribuire alle mosse dell’avversario. E qui avvennero i primi abbandoni e, ancor più gravemente, si insinuò la tentazione bolscevica dei due momenti, di avanguardia e di massa. E’ forse in questa dissociazione, la quale, come osservò allora Mario Dalmaviva, non veniva legittimata dagli sfruttati, che si collocava la figura che avrebbe dovuto tenere insieme avanguardia e massa, quella dell’operaio sociale di Toni Negri (capitolo 7). Intanto avanzava tutt’altro operaismo, quello reclutativo, che, dando come ormai perso il “popolo teleguidato”, scopriva la fabbrica come  campo di selezione del partito armato.


Wright dedica i due capitoli finali alla storiografia dell’operaio massa e al collasso dell’operaismo. Nel primo, egli esamina i lavori di Sergio Bologna, Karl Heinz Roth e di altri e passa in rassegna i temi della rivista Primo Maggio. Nel secondo, sono presentate le alternative tra i propugnatori della guerra civile e i libertari che si scontrano nel settembre del 1977 a Bologna. I primi avranno la meglio all’interno di quanto rimane della sinistra extraparlamentare, mentre le minoritarie ragioni dell’operaismo vengono tenacemente difese dai Comitati autonomi operai di Roma. Poi, l’ondata di arresti abbattutasi il 7 aprile del 1979 e nei mesi successivi sui militanti di Potere Operaio semplifica, per così dire, il dibattito  ponendo ai militanti la vecchia domanda: “da che parte stai?”. Il dibattito operaista passerà attraverso il laminatoio della  galera e dell’esilio, manifestando così una sua singolare vocazione cosmopolitica. Per sua fortuna, e anche per merito di Steve Wright, esso è quasi sempre rimasto lontano dal libero mercato delle idee.

Strage di Bologna: la montatura della pista palestinese

Abu Saleh e i lanciamissili di Ortona
da http://www.arabmonitor.info

Amman, marzo 2009 – Abu Saleh, cittadino giordano, ora imprenditore, nel 1979 viveva in Italia e studiava all’Università di Bologna. Il 7 novembre di trent’anni fa era ad Ortona: doveva imbarcare per il Libano due lanciamissili Strela di fabbricazione sovietica destinati al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, di cui faceva parte.
Abu Saleh si fece aiutare da Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Giuseppe Nieri, i quali, all’oscuro della natura del carico, si prestarono a portare ad Ortona la cassa contenente i lanciamissili. Vennero tutti arrestati e condannati. Da qualche tempo quell’episodio viene periodicamente rievocato in Italia per tentare di collegarlo all’attentato di Bologna del 2 agosto 1980 e cercare di capire che tipo di legami esistessero all’epoca tra gli apparati dei servizi di sicurezza italiani e la resistenza palestinese. Arabmonitor ne ha parlato con lo stesso Abu Saleh.
Si dice che negli anni Settanta-Ottanta ci fosse un’intesa tra le autorità italiane e le organizzazioni palestinesi, perché l’Italia venisse risparmiata da operazioni palestinesi in cambio del libero transito di armi via Italia destinate appunto ai palestinesi.
“Io posso dire che c’era effettivamente un accordo ed era tra l’Italia e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Fu raggiunto tramite il Sismi, di cui il colonnello Stefano Giovannone, a Beirut, era il garante. Non era un accordo scritto, ma un’intesa sulla parola. Lui ci aveva dato la sua parola d’onore, come dite voi, e noi gli abbiamo assicurato che non avremmo compiuto nessuna azione militare in Italia, perché l’Italia non rivestiva alcun interesse militare per il Fronte, e anche perché il popolo italiano era noto come amico dei palestinesi. In cambio Giovannone ci riconobbe, diciamo, delle facilitazioni in base alle quali si concedeva al Fronte la possibilità di trasportare materiale militare attraverso Italia. L’accordo fu fatto nei primi anni Settanta tra Giovannone e un esponente di primissimo piano del Fronte, il quale è tuttora presente sulla scena pubblica e non voglio nominarlo. Tutte le volte che c’era un trasporto, Giovannone veniva avvisato in anticipo. Non ci dava mai una risposta subito, ma dopo un paio di giorni. Penso che prima consultasse i vertici del Sismi (prima Sid) a Roma”.

Quando ha conosciuto Stefano Giovannone ?
Nel 1974 a Beirut. L’Ambasciata italiana di Beirut non mi aveva dato il visto ed è intervenuto lui. Io ero già in Italia dal 1970. Ero iscritto all’Università di Bologna a scienze politiche. Il primo visto mi fu concesso dall’Ambasciata italiana ad Amman. A Beirut dissero che non era possibile rinnovarlo, perché ero cittadino giordano e dovevo farne richiesta ad Amman, ma noi del Fronte abbandonammo la Giordania dopo il 1970. Quindi non potevo tornare. Allora il Fronte popolare si rivolse a Giovannone, il quale risolse il problema velocemente.

Che tipo di persona era ?
Mi disse subito al primo incontro “Qualsiasi cosa ti possa servire, anche dei soldi, chiamami. Mi diede anche il suo numero riservato a Roma, perché si alternava tra Beirut e Roma. Quando lo chiamavo a Roma, e non c’era, dovevo lasciar detto: “Ha chiamato Gianni”. Mi richiamava da lì a poco. Nel 1975 alla Questura di Bologna mi comunicarono che non potevano rinnovarmi il foglio di soggiorno, perché il mio passaporto giordano era scaduto. Allora lo chiamai. Sistemò tutto in poche ore. Era sempre molto cordiale, disponibile. Ricordo che in quel periodo, grazie a lui, ricevemmo due borse di studio presso Università italiane per i ragazzi del Fronte popolare. Penso che lui non avesse mai rinunciato in quegli anni all’idea di reclutarmi per i servizi segreti italiani. Non mi spiego altrimenti la frequenza con cui usava ripetermi a non esitare a chiamarlo se mi fossi trovato in difficoltà economiche. Questo, comunque, non avvenne mai. Non mi dimenticherò che per tutto il periodo che sono stato in carcere ha continuato a ripetere ai compagni del Fronte: ‘State tranquilli. Verrà rilasciato. Abbiate fiducia in me. Datemi solo un po’ di tempo’.

Lei fu contattato da Giovannone durante il rapimento Moro?
Giovannone mi chiamò a Bologna già all’indomani del sequestro. ‘Puoi venire a Roma?’, mi fece. Gli risposi: ‘Prendo il treno domani’. ‘No, vieni in aereo, oggi’. Mi aspettava già in aeroporto, e ricordo bene il suo discorso. ‘Ti ho chiamato nella speranza che tu possa aiutarmi. Io faccio questo personalmente, perché sono molto amico di Moro. Tu sai quanto Moro abbia a cuore i palestinesi. Ti chiedo di contattare i responsabili del Fronte popolare e domandare se hanno qualche notizia sul rapimento?’. Gli dissi subito che noi non abbiamo nessun legame con le Brigate Rosse e io personalmente non conosco proprio nessuno delle BR, ma che avrei subito contattato Beirut. Da Beirut mi fecero sapere: come Fronte non abbiamo il benché minimo collegamento con le Brigate Rosse.

Ci può raccontare quello che avvenne a Ortona il 7 novembre 1979?
C’erano due lanciamissili, giunti in Italia da fuori, che Daniele Pifano e altri nostri amici ritirarono senza sapere cosa contenesse la cassa in cui erano chiusi. A loro fu richiesto di trasportarla a Ortona. Giovannone venne avvisato a Beirut che c’era un carico in transito. Fu l’unico trasporto in cui venni coinvolto. I lanciamissili dovevano essere caricati su una nave libanese a Ortona, diretta in Libano. Sulla stessa nave volevo imbarcare un carico di vestiti, acquistati a Bologna. L’appuntamento con Pifano e gli altri era ad Ortona. Non ci siamo, però, incontrati per una serie di incredibili sfortunate coincidenze. Io ho fatto caricare la mia merce e la nave è partita. Non ho visto arrivare nessuno. Non ho potuto chiamare nessuno. I cellulari allora non esistevano. Sono quindi rientrato a Bologna tranquillo e all’oscuro di quello che fosse successo. Non ho visto nessun motivo per scappare nemmeno dopo aver appreso del loro arresto. Le circostanze le venni a conoscere solo più tardi, in carcere. Loro, arrivando a Ortona, vennero notati in centro da alcuni metronotte, i quali, allarmati, chiamarono i carabinieri, perché proprio quel giorno in città ci fu una rapina in banca e c’era parecchia tensione in giro. Dissero ai carabinieri che erano diretti al mare, volevano prendere un traghetto. Vennero identificati, ma siccome il collegamento con la centrale di Roma era fuori servizio, non riuscirono a capire subito chi fossero. Allora ordinarono a loro di seguirli alla locale stazione e attendere. Dopo alcune ore il collegamento venne ripristinato. I carabinieri scoprirono che avevano a che fare con esponenti dell’Autonomia romana. Il furgone, già controllato in precedenza, venne nuovamente perquisito. Saltò fuori la cassa. Loro dissero che si trattava di cannocchiali che volevano usare durante la gita in mare.

Lei fu arrestato quando?
I carabinieri trovarono su uno di loro un foglietto con il mio numero di telefono a Bologna. Se ricordo bene, sei giorni dopo ero in giro per Bologna con degli ospiti sauditi, venuti per acquistare dei mobili. All’uscita da un’agenzia di viaggi, dove abbiamo prenotato il loro volo di ritorno, degli agenti in borghese ci circondarono, chiedendoci i documenti. Dopo il controllo, mi dissero ‘Tu vieni con noi’. I sauditi vennero lasciati subito. Perquisirono la mia abitazione in Via delle Tovaglie 33 e mi dissero ‘Trovati subito un avvocato’. Sotto di me c’era uno studio legale, andai a chiamare uno di loro. Ricordo che i carabinieri presero solo l’agenda telefonica. Al termine, mi caricarono in macchina e venni portato a Chieti al comando dei carabinieri. Mi chiusero in una stanza. Qualche ora dopo si presentò un alto ufficiale. Non mi disse il suo nome, ma penso che fosse il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. La mia è un’ipotesi. Vedendo la sua foto sui giornali successivamente, ho pensato che fosse stato proprio lui. Gli assomigliava molto. Mi interrogò e dopo mi disse ‘Ti faccio uscire subito da qui attraverso la porta sul retro se mi dici che i lanciamissili sono per gli autonomi. Tu sei straniero. Da te non voglio nulla. Ti diamo quello che vuoi, cittadinanza, soldi, ma devi dire che le armi sono per loro’. Gli risposi che non sapevo nulla di cui stesse parlando. Replicò secco: ‘Pensaci’, e se ne andò. Per tre giorni sono stato picchiato praticamente di continuo. Mi hanno sempre tenuto nudo, abbandonandomi su una tavola di legno, su cui mi lasciavano dormire un po’. Ricordo che mi è venuta una febbre molto alta. Allora mi hanno portato al carcere di Chieti, dove ho ricevuto le prime cure mediche.

Lei in quegli anni era il responsabile del Fronte popolare in Italia?
Assolutamente no. Ero uno dei membri del Fronte presenti in Italia.

Al processo fu condannato per il trasporto di armi.
Mi condannarono a sette anni, come tutti gli altri. Il processo fu celebrato per direttissima, dopo 40 giorni, nel gennaio 1980. Mio fratello, che stava in Italia, venne a trovarmi in carcere e mi disse che sarei stato rilasciato prima del processo, perché il Fronte ha ricevuto assicurazioni in tal senso, penso da Giovannone. Mi raccontò di un avvocato che da Beirut si era recato a Roma, verso la fine di dicembre, per degli incontri con alcuni rappresentanti italiani, forse lo stesso Giovannone. Comunque, io restai in carcere e al processo venni condannato.

Lei fu tuttavia l’unico a ottenere la libertà anticipata, già nel 1981.
Penso che sia stato Giovannone a intervenire per ottenere la mia scarcerazione per scadenza dei termini. Era in corso il processo di secondo grado all’Aquila e il mio avvocato non aderì alla richiesta di rinvio del dibattimento (giugno 1981) come fecero gli altri. Così il 14 agosto 1981 scattò la scadenza dei termini. Ricordo molto bene quel giorno, perché stavamo organizzando una festa per il mio compleanno, che è il 15, chiedendo del vino e dei dolci. Verso le undici di mattina mi convocano in direzione e mi comunicano che c’è il mandato di scarcerazione. Ricordo che chiesi di poter restare un altro giorno per festeggiare il compleanno coi compagni, ma rifiutarono. Uscito da Rebibbia, restai a Roma per qualche giorno con l’obbligo della firma e quindi tornai a Bologna.

Durante la detenzione non è mai stato interrogato in relazione a qualche altro fatto avvenuto in quegli anni?

Sì, ricordo un episodio curioso. E’ venuto Domenico Sica a interrogarmi. Ero appena stato trasferito da Trani a Regina Coeli. Mi chiese se conoscessi Ali Agca? Quando gli feci ‘E’ una nuova accusa?’, mi rispose ‘Non pensarci nemmeno, è solo per capire.Vedi che non scrivo nulla’.

Ha, poi, completato gli studi a Bologna?
Sì, nel luglio 1983. Lo stesso mese ho lasciato l’Italia, partendo da Fiumicino per il Medio Oriente. Nemer Hammad (allora ambasciatore palestinese a Roma) mi disse già poco dopo la mia scarcerazione ‘Ti consiglio di partire il più presto che puoi. Quando vuoi andare, le autorità italiane chiuderanno un occhio”. Così è stato. Non sono più tornato.

Ci sono persone in Italia che mettono in relazione il suo caso con la bomba alla stazione di Bologna, sostenendo che il suo mancato rilascio, tra la fine del 1979 e la prima metà del 1980, spinse i palestinesi, cioè il Fronte popolare, a organizzare l’attentato.
Io seppi dell’attentato in carcere e posso dirle che ero più dispiaciuto degli stessi italiani. Ho vissuto molti anni a Bologna e ho conosciuto personalmente delle gente meravigliosa. Noi come palestinesi abbiamo ricevuto molta solidarietà e il Fronte popolare ha avuto molti aiuti dal popolo italiano. Mi meraviglio che si voglia ignorare la verità soprattutto quando a sostenere queste falsità sono delle personalità che avevano accesso a numerose informazioni, anche riservate. Smentisco nel modo più assoluto che prima dell’attentato ci fossero delle tensioni tra l’Italia e il Fronte popolare per via del mio caso. Giovannone era rimasto per tutto il tempo in contatto con i nostri responsabili a Beirut, tranquillizzandoli e ripetendo ‘Bisogna ridurre l’intensità della fiamma per poter spegnere il fuoco’. Cercare di accreditare la tesi che la mia detenzione abbia spinto il Fronte popolare a una rappresaglia, è una menzogna colossale. Si tratta di un tentativo di riscrivere la storia.

In un’intervista concessa tempo fa a un autorevole quotidiano italiano, Bassam Abu Sharif sostiene che il Fronte popolare di tanto in tanto forniva aiuto a piccoli militanti, “non gente importante”, delle Brigate Rosse che stavano scappando, e racconta che il colonnello Giovannone veniva a protestare da lui per questo.
Vede, Bassam Abu Sharif negli anni Settanta era semplicemente uno dei responsabili del settore dell’informazione al Fronte popolare. Non aveva nessun potere decisionale, né responsabilità operative. Non poteva avere rapporti con i servizi segreti italiani. Sfido Abu Sharif a dimostrare di aver incontrato il colonnello Giovannone per un colloquio anche una volta sola o di aver fornito documenti a gente delle Br in fuga dall’Italia. Sarà l’effetto dei lunghi anni trascorsi. La memoria che inganna o il desiderio di apparire più di quello che si era.

Link
Strage di Bologna, i palestinesi non c’entrano
Strage di Bologna, l’ultimo depistaggio

L’amnistia Togliatti

Libri – L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392, € 19

Paolo Persichetti
Liberazione
Giovedì 27 aprile 2006

L’ultimo lavoro di Mimmo Franzinelli, L’Amnistia Togliatti, un saggio che ricostruisce la storia del decreto presidenziale di clemenza predisposto dal guardasigilli Palmiro Togliatti, sembra dover riaccendere a distanza di sessant’anni le stesse 8804553340 polemiche che l’accolsero all’indomani della sua emanazione, in occasione della proclamazione della Repubblica, il 22 giugno 1946. In questa direzione, infatti, è rivolta la recensione che lo storico Sergio Luzzato ha scritto sul Corriere della Sera del 19 aprile scorso. Una vera requisitoria contro l’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde, accusato di aver spalancato le porte delle carceri a fascisti e saloini imprigionati subito dopo la Liberazione. Colpevole ancora una volta della sua «proverbiale doppiezza» per aver disconosciuto la responsabilità di quella misura – come lui stesso scrisse – «giusta nelle intenzioni ma sbagliata nell’applicazione», a causa dell’uso politico che ne fece la Dc e dell’interpretazione distorta fornita dalla magistratura.
Non è così! Risponde Luzzato, «l’amnistia Togliatti fu una vergogna nazionale» perché nacque dal duplice intento di reclutare nuovi militanti tra le fila dei vinti e risparmiare conseguenze giudiziarie alle azioni delle forze partigiane. Non fu sempre Togliatti a definire «eccesso di nervosismo» la rabbia dei parenti delle vittime? Per questo, conclude: «il libro di Franzinelli va consigliato come la più istruttiva delle letture possibili per chi voglia sottrarsi a un discorso sull’amnistia che strizza l’occhio all’amnesia». Già, perché a ben vedere il vero obiettivo polemico non è tanto la clemenza del 1946, ma quella in discussione da un quindicennio sugli anni 70. Un provvedimento che se approvato, sostiene Luzzato, si trasformerebbe in una «pietra tombale sugli orrori condivisi della nostra guerra civile». L’intonazione polemica del recensore del Corriere, che da qualche tempo è esulcerato dalle incursioni storiche di alcuni giornalisti sugli anni della guerra civile e i primordi della Repubblica (si veda in proposito La crisi dell’antifascismo, Einaudi 2004), è tale che sembra non voler risparmiare nemmeno l’istituto stesso dell’amnistia, rappresentata come un evento immorale, un diniego di giustizia, una fuga dalle responsabilità, un misconoscimento della verità.

Due secoli di amnistie
Senza voler chiamare in causa l’antichità classica, ci basta sapere che l’Ottocento e il Novecento sono stati secoli di amnistie che hanno seguito, in modo spesso contraddittorio e parziale, rivolgimenti e traumatismi civili e politici. L’Italia post-unitaria è stata marcata dall’adozione ripetuta di misure di clemenza collettiva. Almeno 230 sono state quelle censite tra il 1861 e il 1943. Ben altre 6 amnistie politiche sono state varate fino al 1970. Da allora più nulla.
C’è chi ha proposto, come Stéphane Gacon (L’Amnistie, Seuil 2002), una classificazione dei suoi diversi modelli. Uno di questi sarebbe l’amnistia-perdono, caratteristica dei regimi autoritari, che spesso si presenta come un ambiguo atto di generosità, un gesto di forza vischiosa e paternalista, il più delle volte accompagnato dalla «umiliazione di una richiesta», lì dove il perdono ricambia la sottomissione. Provvedimenti che in genere presuppongono valutazioni soggettive del beneficiario e dispositivi premiali in cambio di una richiesta d’acquiescenza al potere. Si tratta di un perdono inquisitorio, una logica che ricorda molto da vicino i dispositivi premiali intrapresi in Italia, tra il 1979 e il 1987, come le ampie riduzioni di pena previste per i dissociati della lotta armata.
L’amnistia-rifondazione, invece, non chiede nulla in cambio ma interviene per riunificare un paese diviso, ricompattandone il corpo politico, come accadde, con le leggi aministiali del 1872 e del 1898, alla fine della guerra civile americana, o con l’amnistia della Comune di Parigi che gettò le basi della terza Repubblica francese.
C’è poi l’amnistia-riconciliazione, un modello che segue la fine dei periodi dittatoriali. Sembra essere il caso dell’Italia dell’immediato dopo guerra, della Francia dopo la fine della Repubblica collaborazionista di Vichy o della Spagna post-franchista. Questi provvedimenti, nella gran parte dei casi, sono ispirati da valutazioni d’opportunità, ragioni di forza maggiore motivate dal fatto che i regimi caduti hanno potuto contare su un vasto consenso sociale costruito negli anni del loro dominio. Circostanza che rende problematica un’epurazione politica troppo estesa.

L’amnistia del 1946
Nel caso dell’amnistia italiana del 1946, vi è poi un’ambivalenza tutta particolare: per un verso, essa corrisponde all’avvio della politica d’egemonia condotta dal Pci, che mira così a recuperare larghi settori di quel fascismo antiborghese, frondista e di sinistra, in coerenza con quella che era stata la sua analisi del fascismo, riassunta nella formula del «regime reazionario di massa». Una convinzione che aveva spinto il Partito comunista clandestino al velleitario appello verso i «fratelli in camicia nera» nel tentativo di arrivare ad infiltrare le corporazioni e le organizzazioni di massa della dittatura negli anni della sua massima popolarità. Nella relazione con la quale Togliatti accompagna l’amnistia del 46, si spiega che la nuova Italia repubblicana non può nascere incoraggiando «la tradizione medioevale della messa al bando», per questa ragione era necessario un atto di clemenza che mirasse a recuperare quelli che erano stati «travolti da passione politica, o ingannati da propaganda menzognera… giovani resi incapaci da venti anni di dittatura di distinguere il bene dal male». 97888045663801 Al tempo stesso però, come accade per le amnistie francesi del 1951 e del 1953, anch’esse accolte da furiose polemiche, di cui si ebbe testimonianza nel confronto tra Mauriac e Camus, l’applicazione concreta della clemenza viene influenzata dai nuovi scenari geopolitici scaturiti dalla fine del conflitto. La “guerra fredda” spinge i paesi occidentali a rompere il fronte resistenziale e recuperare buona parte del personale compromesso con i passati regimi, per poter garantire una continuità dell’apparato statale in funzione anticomunista. Dietro la «riconciliazione» non ci sono ireniche spinte morali alla concordia ma un cinico calcolo strategico. In previsione dello scontro, il centro-destra democristiano e la sinistra comunista cercano di rafforzarsi reclutando nel passato. In questo modo l’amnistia da luogo ad un singolare paradosso: essa non è più un’occasione per la ricomposizione del corpo politico ma un espediente che perpetua la divisione, seppur in forma nuova, alimentando quella guerra civile fredda che, dopo la parentesi consociativa degli anni 70, vedrà assumere, alla fine del 1989, i connotati di una «guerra civile legale». In realtà, alcuni regi decreti del 44 e del 45 avevano già introdotto alcune misure amnistiali che non tutelavano affatto le azioni della Resistenza armata. Ed è innanzitutto per sanare queste carenze che Togliatti vara un provvedimento molto più organico ed ampio, che estende il beneficio anche ai nemici sconfitti purché incolpati solo di delitti politici, lasciando al giudice il compito dell’accertamento dell’indole politica del reato. Il tutto in un’ottica, come poi spiegò Mario Bracci, uno dei 18 ministri del dicastero De Gasperi che approvarono il provvedimento, che accertasse «le responsabilità dei singoli», evitando la logica delle responsabilità storiche e collettive, che avrebbe finito per imporre l’emarginazione e la persecuzione indiscriminata e non quel «rapido avviamento del paese a condizioni di pace politica e sociale», auspicate dallo stesso Togliatti. E sarà proprio questo il punto dolente del suo provvedimento. Una sorprendente dimostrazione d’angelismo politico o forse, in realtà, di quella precoce volontà di costruire un rapporto privilegiato con la magistratura, ritenuta un vettore di progresso in ragione del mito riformatore dell’azione giudiziaria. Invece, dando prova di un accurato zelo persecutorio, i magistrati della Cassazione, in gran parte reduci del regime, grazie a capziose interpretazioni giurisprudenziali, rovesciarono completamente le intenzioni del legislatore, applicando una clemenza di massa nei confronti dei fascisti, ben 10.034 di loro vennero amnistiati, ed escludendo sistematicamente i Resistenti che si videro riconoscere il beneficio solo in 153 casi. Lo stesso governo dovette promulgare, tre mesi dopo, un decreto che introduceva il divieto di emettere mandati di cattura o revocava quelli già spiccati contro i partigiani (Santosuosso e Colao, Politici e Amnistia, Bertani 1986).
Il fallimento dell’amnistia Togliatti trova spiegazione, in realtà, nel mancato adeguamento statuale al mutamento di regime politico. Venne meno sul terreno giuridico-formale, come spiegò con esemplare lucidità Calamadrei: «lo stabile riconoscimento della nuova legalità» uscita dalla Resistenza. Quella discontinuità che rende «lecita» l’illegalità perché «vittoriosa» sull’assetto politico preesistente. Richiamandosi a Santi Romano, Calamandrei sosteneva che l’assenza di rottura giuridica impedì di trovare nello Stato nuovo, e non nelle leggi precedenti, la necessaria legittimità. Il risultato fu la sistematica depoliticizzazione delle azioni partigiane (come avvenuto anche nel corso degli anni 70-80), passate al vaglio del codice Rocco, concepito proprio per reprimere quel tipo d’inimicizia politica. Furono necessarie ancora tre amplissime amnistie nel 53, 56 e 66, per chiudere definitivamente il dopoguerra.

I mal di pancia di Luzzato: miseria della cultura postazionista
La tesi di Luzzato testimonia il singolare atteggiamento della cultura liberale che oscilla continuamente tra la denuncia del carattere «totalitario, terroristico e fazioso», dei comunisti, per cui da una parte sarebbe stato un crimine l’uccisione di Gentile, ma poi si rimprovera loro l’amnistia ai fascisti; per un verso si condannano le vendette del «triangolo rosso», ma poi si critica la politica di recupero dei giovani quadri frondisti del regime, recentemente ricordata dal libro di Mirella Serri (I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Corbaccio, 2005). Di contro, a sinistra, ancora più meschino è il comportamento dei salvati di allora che, forse per far dimenticare di essere cresciuti negli asili dell’infamia, non hanno mai esitato a condannare i sommersi di oggi, opponendosi con ferocia perseveranza all’amnistia per gli anni 70.
L’amnistia Toglliatti appartiene a quel genere di clemenza che, intervenendo politicamente nell’immediatezza dei fatti, scommette sul futuro mettendo fine al rischio di un ciclo interminabile di rese dei conti. Per questo agisce come un «colpo di spugna», una sorta di oblio preventivo sulle colpe. Ma non è responsabilità di quell’amnistia, il clima più generale di rimozione e occultamento che investì, invece, le stragi più efferate dei nazi-fascisti, che di fatto si avvantaggiarono di una illegale amnistia di fatto, voluta dal potere politico in ragione dell’adesione italiana al Patto atlantico, come l’armadio della vergogna scoperto a Palazzo Cesi ha dimostrato. È inaccettabile, dunque, l’attacco all’istituto dell’amnistia e quella sorta di perverso bilanciamento della storia che Luzzato suggerisce: fare degli anni 70 il capro espiatorio del Novecento italiano per risarcire simbolicamente la mancata giustizia del dopoguerra. A differenza della clemenza preventiva del 46, l’amnistia per gli anni 70 interverrebbe in una situazione in cui la verità giudiziaria è stata già scritta e le pene ampiamente consumate, a distanza di oltre 30 anni dall’inizio del fenomeno e ben 18 anni dalla sua fine, quando in carcere vi sono ancora 132 detenuti per reati di sovversione e ben 119 latitanti all’estero (fonte Ministero della Giustizia aggiornata all’ottobre 2004), rinchiusi da un massimo di 28 anni ad un minimo di 18. Quale che sia il giudizio su quell’epoca, un dato ormai è certo: i militanti degli anni 70 hanno largamente scontato le loro pene, compreso il sovrasanzionamento dovuto alle leggi speciali dell’emergenza. Sono stati gli unici a pagare nella storia repubblicana. Si tratta ormai di chiudere simbolicamente un’epoca terminata da lunghi anni, e che alcuni settori della magistratura, degli apparati e del mondo politico, vorrebbero tenere artificiosamente ancora aperta per utilizzarla come una minaccia che ipotechi ogni presente e futuro di critica contro il potere.

Post scriptum
Quel che non è accettabile nella recensione di Luzzato è l’utilizzo della polemica contro l’amnistia Togliatti per attaccare, in realtà, l’ipotesi che un provvedimento del genere possa essere varato per il conflitto degli anni 70. Luzzato sembra quasi voler suggerire una sorta di perverso contrappasso: poiché ci fu clemenza contro i crimini fascisti è bene che ora i militanti della lotta armata degli anni 70 risarciscano simbolicamente anche quella mancata giustizia. Esiste una differenza sostanziale: nel giro di pochissimi anni (il maresciallo Graziani fu scarcerato nel 1953, accolto a braccia aperte da Andreotti), i fascisti furono tutti scarcerati. L’amnistia e l’indulto erano congeniati in modo tale che anche coloro che avevano subito condanne molto alte potessero uscire in libertà condizionale dopo 5 anni. Si trattò sostanzialmente di un’amnistia quasi preventiva. Mentre per i militanti della lotta armata dopo oltre 30 anni non si parla nemmeno più della opportunità di un provvedimento. L’amnistia la sta facendo il tempo.
Negli anni 90, uno degli argomenti in favore dell’indulto era quello di riportare l’entità delle pene ad una misura normale, togliendo il sovrasanzionamento dell’emergenza. Oggi, paradossalmente, non avrebbe più senso poiché la sanzione è stata largamente consumata.
La stessa cosa accadde in Francia. Non è vero in proposito quel che dice Luzzato. Anche se l’amnistia francese arrivò nel 1953, essa non fu esente dalle stesse polemiche che denunciavano una epurazione troppo lieve. Basti pensare alla vicenda Papon e Touvier! Per altro quel po’ di epurazione che avvenne Oltralpe fu essenzialmente un regolamento di conti a destra, tra gaulliani e petenisti.

Link
Politici e amnistia, tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’unità d’Italia ad oggi
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Una storia politica dell’amnistia

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La fine dell’asilo politico
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Quella ferita aperta degli anni 70

Grenoble, vince il bossnapping. La Caterpillar cede e non chiude gli stabilimenti

Una vertenza modello quella dei lavoratori della Caterpillar. Forme innovative di lotta, fantasia, audacia e determinazione. L’esempio si espande. A Edf-Gdf i lavoratori dell’energia riprendono gli insegnamenti di Emile Pouget, l’autore di un piccolo opuscolo scritto nei primi anni del Novecento, frutto del lavoro della commissione sabotage della Cgt: regalano corrente alle famiglie meno abienti e lasciano al buio i decisori, ministeri, uffici, banche, sedi sociali di grandi imprese, per «farsi vedere meglio»

Paolo Persichetti
Liberazione 21 aprile 2009

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La lotta senza remore paga. Lo dimostra una volta di più la vicenda dei lavoratori della Caterpillar di Grenoble e Echirolles che, dopo due mesi di mobilitazione e un clamoroso bossnapping del direttore e tre altri dirigenti del gruppo, realizzato il 31 marzo scorso, hanno strappato domenica un accordo alla multinazionale americana. I due siti francesi non saranno chiusi. Al contrario nell’accordo si parla di nuovi investimenti. I posti soppressi scendono da 733 a 600. La riduzione del tempo di lavoro dovrebbe ulteriormente alleggerire i tagli di personale. Per evitare che si trasformino in licenziamenti secchi saranno accompagnati da maggiori incentivi in denaro, prepensionamenti per i più anziani e corsi di formazione con mantenimento del salario, finanziati dalla regione Rhône-Alpes, per chi verrà ricollocato altrove. Insomma un vasto impiego d’ammortizzatori sociali (l’azienda già faceva uso della cassa integrazione) consentirà una uscita dalla crisi. Un preliminare del negoziato era stato il ritiro delle misure disciplinari prese contro 8 operai che avevano partecipato ai picchetti davanti alla fabbrica. Nelle prossime ore il protocollo d’accordo sarà sottoposto a referendum. Una vertenza modello quella della Caterpillar. Da soli e contro tutti, con un vasto ventaglio d’azioni, che hanno dato largo sfogo alla fantasia e all’audacia, i lavoratori hanno imposto la trattativa, conquistato visibilità mediatica e consenso sociale, strappato risultati ai vertici di un’azienda che avevano deciso di trasferire la produzione all’estero. Per questo il modello si espande e assume nuove forme, come regalare corrente alle famiglie povere e fare il buio nei ministeri per «farsi vedere meglio». A Edf-Gdf applicano alla lettera il libro di Emile Pouget, Le sabotage.

Link
Bossnapping, una storia che viene da lontano
Bossnapping nuova arma sociale dei lavoratori
Bruxelles,manager Fiat trattenuti dagli operai in una filiale per 5 ore
F
rancia, altri manager sequestrati e poi liberati
Francia, padroni assediati torna l’insubordinazione operaia
Rabbia populista o nuova lotta di classe
Francia, sciopero generale contro la crisi
S
ciopero generale, giovedi 29 gennaio la Francia si è fermata
Francia, tre milioni contro Sarko e padroni

Bossnapping, nuova arma sociale dei lavoratori

Gerarchie d’impresa costrette a misurarsi con la trattativa forzata imposta dai lavoratori in lotta. È finita l’epopea dei golden boys e degli yuppie. Per far fronte allo stess dei manager pronto un kit antisequestro

Paolo Persichetti
Liberazione 11 aprile 2009

Brutti tempi per le gerarchie d’impresa chiamate a confrontarsi con un nuovo fenomeno chiamato bossnapping, «La nuova arma sociale dei lavoratori», scrive il quotidiano francese Libération. L’obbligo di non alzarsi più dal tavolo e uscire dagli uffici delle direzioni aziendali fintantoché non si è pervenuti ad un accordo accettabile. Davvero brutte nottate in bianco attendono i Patrons. La sensazione è che la crisi attuale abbia fatto girare il vento. È finita la pacchia. L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. I manager sono sotto stress. continental_scioperofuocoFa di nuovo capolino la «grande paura», quella raccontata da Cesare Romiti in un libro di Gianpaolo Pansa, vera e propria autobiografia del ceto imprenditoriale italiano degli anni 70. Per fare fronte a questo trauma, un avvocato francese esperto di diritto e relazioni sociali, Sylvain Niel, ha preparato un piccolo manuale, pubblicato dal quotidiano economico la Tribune. Nell’opuscolo, l’esperto dispensa ai manager una decina di consigli «anti sequestro», per «evitare di cadere in trappola durante una trattativa» e su come comportarsi in caso di sequestro.

Azioni legittime
Azioni legittime o azioni illegali? Il ricorso al bossnapping, cioè alla «trattativa forzata» da parte degli operai quando le aziende rifiutano di negoziare i piani di crisi, oppure nemmeno accettano di sedere al tavolo delle trattative comunicando semplicemente la lista dei dipendenti licenziati, fa discutere non solo la Francia.
Va detto subito che fino a questo momento si è trattato di un modello di lotta che oltre a riscontrare consenso nell’opinione pubblica è risultato “pagante”, come ha dimostrato fino ad ora l’esperienza concreta, seppur attuato in un contesto ultradifensivo che mira unicamente a ridurre i danni. Alla Caterpillar di Grenoble sembra che l’azienda abbia rinunciato a licenziare, garantendo l’apertura della fabbrica per altri tre anni nella speranza che intervenga un nuovo ciclo espansivo. In altri siti, gli operai hanno ottenuto migliori indennità di licenziamento, ammortizzatori sociali, riducendo anche l’attacco portato ai livelli occupazionali.
Questo repertorio d’azione – come viene definito dal linguaggio asettico dei sociologi del conflitto che cercano di fotografare i comportamenti sociali senza caricarli di giudizi di valore -, comincia ad estendersi altrove seguendo un classico dispositivo d’emulazione. È arrivato in Belgio mercoledì scorso, dove tre manager Fiat sono rimasti bloccati per 5 ore negli uffici di una filiale commerciale di Bruxelles. C’è stato per l’ennesima volta in Francia, dove i dipendenti di Faurecia, azienda dell’indotto automobilistico filiale del gruppo Psa Peugeot Citroen, giovedì sera hanno bloccato per 5 ore tre quadri dirigenti del gruppo. In questo caso il bossnapping messo in pratica dai dipendenti ha assunto una valenza ancora più significativa perché il sito è costituito essenzialmente da uffici di un centro studi, dove le maestranze (circa mille) sono in prevalenza “colletti bianchi”, ingegneri, tecnici e amministrativi. Ciò vuol dire che il ricorso a pratiche di lotta radicale non è solo patrimonio della classe operai ma guadagna anche i ceti medi colpiti dalla crisi. Un blocco di manager nei loro uffici c’è anche stato in italia, alla Benetton di Piobesi, il 25 febbraio scorso, ma è passato sotto silenzio.
«Si tratta di azioni sindacali coordinate e organizzate assolutamente non paragonabili a dei sequestri», ha spiegato dalla Francia il segretario della Cgt, Bernard Thibault, che ha giustificato il ricorso a queste forme d’azione «fintantoché non producono rischi fisici sui dirigenti d’impresa». Azioni più che legittime dunque, capaci d’attirare per la loro alta simbolicità «microfoni e telecamere», se è vero che cortei, scioperi e picchetti non sono più sufficienti per costringere il padronato a trattare.

Conflitto negoziato
Il succo del ragionamento è semplice: quando le gerarchie aziendali fanno orecchie da mercante, pensando d’imporre il loro punto di vista senza ascoltare quello della controparte operaia, occorre imporre loro la trattativa. Lì dove non c’è negoziato si apre allora uno spazio di conflitto ulteriore. È il «conflitto negoziato» che in Francia, a differenza dell’Italia, non ha mai perso agibilità politica e sociale. Le azioni «coups de poing» (colpo di mano), non appartengono solo al repertorio d’azione della Cgt, ma sono condivise oltre che da altri sindacati collocati sul fronte della sinistra radicale e anticapitalista, come le coordinazioni e Sud, anche dalle associazioni rurali, dei contadini, pescatori e camionisti, spesso bacini elettorali delle forze moderate.

Embrioni di autonomia operaia
Oltralpe la tradizione corporativa del conflitto ha mantenuto sempre piena legittimità. Fintantoché non vengono percepite come un attacco politico alla sicurezza dello Stato, queste forme d’azione collettiva sono ritenute domande sociali a cui la politica è chiamata a dare risposte. Semmai in quel che accade oggi emerge un forte deficit delle forze politiche della sinistra incapaci di fornire rappresentanza. Queste lotte difensive hanno il sapore di embrioni vitali di autonomia operaia. La sensazione è che la crisi attuale abbia fatto girare il vento. L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. I manager sono sotto stress. Per fare fronte a questo trauma, un avvocato francese esperto di diritto e relazioni sociali, Sylvain Niel, ha preparato un piccolo manuale, pubblicato dal quotidiano economico la Tribune. Nell’opuscolo, l’esperto dispensa ai manager una decina di consigli «anti sequestro», per «evitare di cadere in trappola durante una trattativa» e su come comportarsi in caso di sequestro.
A leggerlo sembra una presa in giro, ma è tutto vero. Prima regola: conservare un «kit di sopravvivenza», un telefono cellulare di scorta con numero criptato e recapiti d’emergenza (polizia, famiglia), trousse per la toilette, cambio di biancheria nel caso si dovesse passare la notte in ufficio. Ma, suggerisce l’esperto, «è meglio prevenire» per non finire come quel responsabile del personale di un’azienda che si vide costretto ad uscire disteso in una bara dalla sala in cui era “ospitato” . Fondamentale allora è «una stima del rischio di ammutinamento contro la direzione», «individuare sempre i leader della protesta», «non andare mai da soli a negoziare con le parti sociali, ricorrere sempre ad un mediatore». Infine, se dovesse andare male «accettare tutte le richieste dei dipendenti perché gli impegni presi sotto costrizione non hanno valore giuridico».
Manca però la cosa essenziale, qualche buon libro di filosofia capace di aprire la testa dei manager per dare aria alle loro anguste visioni culturali nutrite solo di manuali sulla gestione delle risorse umane, la performatività delle prestazioni, l’economia aziendale. Magari Discours sur l’inégalité parmi les hommes di Jean-Jacques Rousseau e il primo libro del Capitale del dottor Marx, così tanto per cominciare.

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Anni 70: L’odiosa rivoluzione

Libri – da Il Nemico inconfessabile, Paolo Persichetti e Oreste Scalzone, Odradek 1999


L’odiosa rivoluzione – Capitolo primo

Nuove generazioni in rivolta, figlie di epoche curiose, ritroveranno la traccia delle rivoluzioni sconfitte, dimenticate, estradate dalla storia. Ai loro occhi la potenza del passaggio rivoluzionario ritroverà il suo vigore, la sua energia, i suoi saperi. Quest’oblio è un destino migliore della sorte riservata a quelle rivoluzioni vittoriose, trasfigurate in icone di Stato, disseccate in vuoti simboli paradossali e derisorii del «movimento reale che trasforma le cose presenti».9788886973083g Nondimeno, le rivoluzioni sconfitte subiscono a lungo l’insulto della denigrazione e della criminalizzazione. Ogni strumento è utile per trascinarle nel fango e sottoporle al linciaggio. L’obiettivo è sempre lo stesso: minarne la potenza e stroncare non solo il diritto, ma l’idea stessa della possibilià della rivolta. La dimensione e la profondità sociale, l’estensione temporale e geografica, l’intensità politica della rivolta che ha traversato l’Italia nel corso degli anni Settanta, fino agli echi giunti ben oltre la metà degli anni Ottanta, ne hanno fatto l’episodio rivoluzionario più significativo dell’Europa occidentale dal ’45 a oggi. Ciò spiega anche le ragioni dell’implacabile offensiva denigratrice, potente e sistematica, cui è ancora sottoposta. Il Sessantotto fu «la bella rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che si erano manifestati non erano ancora sviluppati, si limitavano all’esistenza della frase, del verbo». Gli anni Settanta furono quelli della «rivoluzione odiosa e ripugnante» perché al posto della «frase subentrò la cosa»(1).  Il Segretario generale del Pci, Enrico Berlinguer, in risposta alla cacciata al grido di «via, via, la nuova polizia!» del Segretario generale della Cgil, Luciano Lama, e del suo servizio d’ordine dall’Università di Roma, definì «untorelli» i protagonisti di quel movimento(2). Fu quello il segnale dello scontro aperto, dichiarato, tra il sommovimento sociale e il partito della classe operaia dentro lo Stato, trasformatosi in partito dello Stato dentro la classe operaia, alla stregua dei suoi fratelli dell’est, al potere nei paesi del «socialismo reale». Allora il più grande Partito comunista d’Occidente dismise l’azione di recupero attraverso il sindacato delle forme di autorganizzazione autonoma delle lotte operaie dei primi anni Settanta, e ostentò l’intenzione di sedare la rivolta a tutti i costi e con ogni mezzo. La strategia del «compromesso storico» – presentato come alleanza tra le masse popolari d’ispirazione comunista, socialista e cattolica, e sul quale il Paese avrebbe dovuto risorgere dalla crisi economica – da mesi aveva partorito una funesta alleanza di governo con gli “avversari” della Democrazia cristiana, annunciandosi come «politica dei sacrifici e dell’austerità», cioè di sistematica concertazione subalterna al padronato. L’atteggiamento di apertura, di mediazione e recupero, verso la contestazione del Sessantotto politico e culturale era finito. Il nuovo ceto politico dei gruppi extraparlamentari era chiamato a entrare per la porta di servizio, nell’area istituzionale, confinato al ruolo di satellite del Pci, oppure sciogliersi o essere criminalizzato. Si apriva una competizione frontale che estendeva ora a ogni angolo della società la contesa che fino ad allora sembrava riguardare solo i luoghi alti del conflitto capitalistico, le fabbriche, dove la si voleva contenere. La «politica dei sacrifici» trovava ostacoli e nemici su tutto il territorio e vedeva di fronte a sé, incontenibile, una pluralità di movimenti sociali ammutinati, autorganizzati (disoccupati, precari, donne, studenti, senza casa, prigionieri) cresciuti attorno all’esempio delle lotte operaie.  Il compromesso storico – strategia che rispondeva al regime di «democrazia a sovranità limitata» attribuito all’Italia – con le sue politiche accomodanti e supine, di contenimento del protagonismo sociale di fronte alle compatibilità economiche, apparve inaccettabile. L’urto tra la situazione dinamica della realtà sociale e le soluzioni statiche messe in piedi dall’alto del sistema politico divenne inevitabile. La risposta alla rivolta sociale fu l’edificazione del sistema dell’emergenza. La nozione di «emergenza»3, concepita inizialmente come esigenza economica, divenne una categoria dello spirito, per poi estendersi al campo giuridico, sociale e politico. Si trasformò in uno strumento per governare il conflitto all’interno di una nuova concezione della democrazia come spazio blindato composto da territori recintati oltre i quali non era consentito fuoriuscire. La legalità era il nuovo filo spinato che designava in modo assolutamente rigido lo spazio dell’agire legittimo. Il conflitto veniva messo a nudo, spogliato di ogni rappresentanza che ne tentasse un recupero in termini di dialettica sociale e politica, per divenire una questione di ordine pubblico, di codice penale. Per avere legittimità i movimenti sociali dovevano rientrare nel recinto stabilito dalle rappresentanze istituzionali, oppure subire la criminalizzazione. Il Pci elaborò la linea di attacco ideologico contro il sommovimento sociale di opposizione facendosi propugnatore di uno «Stato democratico forte» e fu la punta di diamante della risposta statale cercando di costruire il consenso sociale attorno all’azione repressiva delle forze di polizia e magistratura. Una nuova disciplina, la «dietrologia»(4), designò nella figura dell’agente provocatore il profilo di un nemico – particolarmente criminale e pericoloso per la democrazia – attore di un «complotto di destabilizzazione»(5) del processo di ulteriore democratizzazione dell’Italia, cioè l’arrivo al potere del Pci(6). L’assalto sociale armato al cielo della politica, la «critica delle armi», divenne allora la forma espressiva progressivamente dominante della moltitudine del rifiuto e della rivolta, che non volle restare rinchiusa nel recinto della marginalità politica. Nel caso dell’Italia, la contro-insurrezione è andata ben oltre la congiuntura connessa alla necessità di delegittimare l’avversario, attraverso l’uso di menzogne, distorsioni e intossicazioni della realtà, per combatterlo con maggiore efficacia. Si è trattato di una offensiva “totale” che ha raggiunto una dimensione molto più inquietante fino a diventare una specie di “auto-illusione”, di “auto-accecamento”, una catastrofe del mentale, un indizio dell’alienazione del politico che ha colpito nel profondo il pensiero critico. L’ossessione di voler nascondere il carattere politico del nemico interno è uno degli aspetti maggiori delle politiche controrivoluzionarie moderne, recepito in modo unanime oramai in tutti i codici, accordi internazionali e convenzioni sulle estradizioni(7). L’Italia ha dato prova di notevole capacità nell’esercizio di questa ipocrisia. Una lunga serie di norme e leggi speciali, aggravanti e nuove figure di reato, reati associativi, modificazioni procedurali, uso speciale di leggi normali, procedure in deroga, introduzione di un diritto differenziato che premia comportamenti processuali favorevoli alle tesi accusatorie (pentimento e dissociazione), la moltiplicazione dei trattamenti differenziati su base tipologica, a livello penitenziario e giudiziario, hanno di fatto costituito l’edificio di una giustizia reale di eccezione contro i comportamenti di sovversione, e per estensione, di opposizione politica e sociale. Ciò che è definito il sistema delle garanzie – le libertà civili, alcune libertà costituzionali – ha subito molte limitazioni dando luogo a un vero stato d’eccezione opportunamente camuffato. Fin dall’inizio il movimento italiano degli anni Settanta è stato protagonista di una rivoluzione negata, una rivoluzione occultata, e le figure sociali che vi presero parte – gli operai, le donne, i giovani, i disoccupati – apparvero da subito come il nemico inconfessabile.

* * *

Nei capitoli che seguono verranno affrontate alcune matrici, sovradeterminazioni e macrocontesti che hanno caratterizzato lo spazio di azione e di espressione politica delle figure sociali che hanno costituito il nemico inconfessabile. Ne saranno descritte le molteplici originalità, la ricchezza e la potenza del discorso sovversivo, la modernità delle rivendicazioni, l’intuizione di tematiche e contraddizioni che s’imporranno nei decenni successivi. In modo particolare saranno tratteggiati quegli aspetti specifici che hanno contraddistinto i limiti cronici e al tempo stesso le capacità di sviluppo della società italiana, al punto da essere considerati da alcuni come una «anomalia» nel quadro europeo.

Ben al di là di ventimila furono le persone denunciate, oltre quattromila quelle condannate per una cifra globale dell’area sociale sovversiva che il ministero degli Interni stimava oltre le centomila. L’evidenza delle cifre della rivolta toglie sostanza a ogni tentativo di riduzionismo storico. Un’analisi veloce delle cartografie che descrivono la nascita e il rapido sviluppo delle formazioni politiche, classificate dalla giustizia come sovversive, mostra come la violenza politica fosse un elemento endogeno di questa rivolta in un contesto sociale, politico e statale, che già largamente ricorreva al suo impiego. Di fronte all’offensiva sociale, la società politica, in difficoltà, ha risposto severamente a ciò che le sembrava essere (non a torto) la premessa di una catastrofica destabilizzazione. La sua azione si Ë posta all’insegna di una emergenza nata sotto la forma di una eccezione mascherata. L’ipertrofia dell’azione giudiziaria sovraccaricata di compiti morali e politici, la rottura degli equilibri costituzionali tra poteri e contro-poteri, dovuta all’apparizione di un modello di democrazia giudiziaria, ha dato luogo a uno stato d’eccezione permanente. Vero paradigma inconfessato, esso si è imposto come un modello di governo della società, la cui esportazione ha aperto la strada al rischio di una deriva europea. La crescente giudiziarizzazione” della società solleva un dibattito che ormai oltrepassa i confini italiani e le stesse ragioni storiche della sua origine.

La sconfitta, il riflusso e la repressione dei movimenti sociali degli anni 70 hanno suscitato reazioni divergenti. La ricerca affannosa di differenziazioni, nell’intenzione di attenuare le proprie posizioni processuali, ha portato alcuni a esportare le proprie responsabilità politiche. Atteggiamento che sotto l’offensiva inesorabile della giustizia d’eccezione si è trasformato in uno slittamento della colpa giuridica verso altri. La “dissociazione politica dal terrorismo” ha avuto ripercussioni culturali, politiche e giudiziarie ben pi profonde del fenomeno dei “pentiti”. La capacità di critica e di autonomia rispetto all’ordine costituito sono state indebolite da questa stagione del rinnegamento. Il giudizio penale ha mutato natura non rivolgendosi pi all’identificazione delle responsabilità personali ma alla verifica e al sanzionamento delle opinioni della persona giudicata.

Prima di concludere affronteremo le ragioni talvolta sorprendenti, molteplici e complesse, che hanno ostacolato, finora, la realizzazione di una amnistia per tutte le condanne legate alla sovversione sociale e politica che ha attraversato l’Italia tra gli anni 70 e 80. Gli effetti perversi dell’emergenza hanno avuto un ruolo fondamentale nella strutturazione di un blocco sociale trasversale oggettivamente nemico della chiusura di questa epoca. Dagli apparati dello Stato, attori della macchina della giustizia d’eccezione, a certi settori integralisti dell’antagonismo sociale, dalle divisioni dei prigionieri politici all’inconsistenza del ceto politico-istituzionale, dal protagonismo di una magistratura travestita nei panni di cavalieri post-moderni garanti della morale e dell’etica, a certi gruppi editorial-finanziari che fabbricano il mentale e strutturano l’opinione pubblica; tutti da sinistra a destra, sulla base di motivazioni ideologiche e politiche diverse, convergono sulla stessa posizione di boicottagio o di timore dell’amnistia.


Note

1 Il riferimento è a Marx: “La rivoluzione di febbraio era stata la bella rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che erano scoppiati in essa contro la monarchia, sonnecchiavano tranquilli l’uno accanto all’altro, non ancora sviluppati; perché la lotta sociale che formava il loro sostrato aveva soltanto raggiunto una esistenza vaporosa, l’esistenza della frase, della parola. La rivoluzione di giugno è la rivoluzione brutta, la rivoluzione repugnante, perché al posto della frase è subentrata la cosa”, Karl Marx Lotte di classe in Francia dal1848 al 1850, Opere, vol. X, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 65.

2

3 Il termine emergenza designa il ricorso a pratiche di eccezione in campo giuridico e politico che si differenziano dalla forma classica dello stato di eccezione. Il termine emergenza, inteso come “stato d’emergenza”, “modello” o “sistema dell’emergenza”, “politica dell’emergenza”, “giustizia dell’emergenza”, “post-emergenza” si è affermato in Italia all’interno del linguaggio politico e giuridico a partire dalla metà degli anni Settanta. Secondo alcuni autori la nozione di emergenza ha costituito una vera e propria ideologia di sostegno al processo di modernizzazione autoritaria della giustizia penale. L’intenzione di perseguire i movimenti armati ha accompagnato la volontà di normalizzare la conflittualità sociale. L’emergenza ha contribuito alla legittimazione degli equilibri politici e del sistema penale.

4

5 Secondo questa logica, la storia d’Italia, dal dopoguerra fino alla vittoria elettorale, nel 1996, del Pds, oggi Ds ed ex Pci, è interpretata come la trama di un “doppio Stato”: l’uno corrotto e con propaggini occulte, che ha criminalmente detenuto il potere nella prima Repubblica; l’altro leale e legale che avrebbe fatto da baluardo al sovversivismo atavico delle classi dominanti. Inutile precisare che il Pci-Pds-Ds ne sarebbe sempre stato il pilastro essenziale. Sulla natura del complotto si sono confrontate due “dottrine”: la prima, anche in ordine di tempo, che ha ipotizzato il “ruolo consapevole e diretto” giocato dai movimenti sociali e in particolare dalla lotta armata, il “partito armato”, contro il Pci; la seconda che ha ipotizzato “l’eterodirezione”, la “complicità inconsapevole”, delle Brigate rosse in particolare, come se esse fossero state nient’altro che delle pedine manovrate da potenze occulte. Per chi voglia documentarsi sugli stati modificati della coscienza, suscitati dalla frequentazione eccessiva con queste flatulenze cerebrali, suggeriamo come testo esemplare, per comprendere gli effetti devastanti a cui possono condurre alcune forme irreparabili di psicopatologia della menzogna storica: Sergio Flamign, La tela del ragno. Il delitto Moro, Roma, Edizioni Associate, 1988. Sospinto da oscuri mandanti Sergio Flamigni replica dieci anni dopo in Convergenze parallele, Milano, Kaos edizioni, 1998. Un altro testo che testimonia dei risultati suscitati da queste turbe legate alla sindrome maniacale da ossessione del complotto e metacomplotto è quello di Guy Debord, Préface à la quatrièmme édition italienne de la Société du spectacle, in Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard folio, 1997, pp. 133-147; nonché Gianfranco Sanguinetti, Del terrorismo e dello Stato. La teoria e la pratica del terrorismo per la prima volta divulgate, Milano, 1979.

6 Berlinguer, riflettendo sui fatti del Cile, osservava che le sovradeterminazioni geopolitiche avrebbero impedito all’opposizione di governare anche se il Pci avesse da solo raggiunto il 50 % più uno dei suffragi. Lo scenario del golpe cileno, che aveva visto stroncato nel sangue il governo d’Unitad popular di Salvador Allende, era interpretato come l’anticipazione di un possibile scenario italiano che andava evitato. Il Pci, dunque, teorizzava autonomamente l’impossibilità di andare al governo, anche vincendo le elezioni, in assenza di un preventivo accordo con la Dc, di una alleanza con i ceti medi e di un patto col padronato. In realt?, appare evidente come l’ipotesi dello “scenario cileno” abbia favorito una lettura rovesciata (cioé, “mai più senza fucile”) di quella posta a fondamento del “compromesso storico”. Interpretazione che motivava ulteriormente la scelta della rottura rivoluzionaria di quel vuoto simulacro rappresentato da una democrazia a sovranit? limitata che era la Repubblica italiana. Per tutto questo si veda il famoso saggio berlingueriano: “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, in Rinascita, 28 settembre, 5 e 9 ottobre 1973.

7 Convenzione europea per la repressione del terrorismo, Strasburgo, 1977, ratificata dalla Francia solo nel dicembre 1987; “Convenzione per le estradizioni dell’Unione Europea”, Dublino, settembre 1996.

Storia della dottrina Mitterrand

Storia della dottrina Mitterrand

Paolo Persichetti
Liberazione 19 giugno 2008

Nessuna estradizione, l’occasione di uscire dalla clandestinità, libertà di parola. La dottrina Mitterrand, che negli anni Ottanta sistematizza la vecchia tradizione francese di offrire rifugio a chi è costretto a espatriare per motivi politici, raccontata dal suo “architetto”, Louis Joinet. Una scelta strategica, capace di “liberare” generazioni di militanti (italiani, ma anche irlandesi e baschi) rifugiatisi Oltralpe sulle orme degli esuli del Risorgimento e dell’antifascismo

La firma apposta nei giorni scorsi sul decreto d’estradizione dell’ex militante delle Brigate rosse Marina Petrella conferma l’abbandono della dottrina Mitterrand da parte delle autorità francesi. Il riparo offerto agli attivisti della sinistra rivoluzionaria italiana fuggiti alle retate giudiziarie e alla legislazione penale d’emergenza varata alla fine degli anni 70 riprendeva una lunga tradizione d’asilo avviata dalla rivoluzione francese. La dottrina Mitterrand aveva illustri precedenti come la protezione concessa agli esuli risorgimentali e agli antifascisti. Considerata dall’Italia una grave violazione della legalità, un vulnus al diritto interno, la sua storia è poco nota, occultata dalla demonizzazione che ha colpito il decennio repubblicano dove più avanzato è stato il livello delle lotte sociali e politiche.
Oltre a essere corta, la nostra memoria è soprattutto selettiva. Durante la guerra d’indipendenza algerina anche l’Italia aveva dato rifugio ai membri dell’Oas e rifiutato l’estradizione dei militanti del Fln algerino. Jean-Jacques Susini, fondatore insieme a Pierre Lagaillarde (gennaio 1961), del gruppo d’estrema destra che tentò di uccidere nel 1962 il presidente della repubblica francese Charles De Gaulle, rimase per molti anni sotto la protezione della nostra polizia. Non per questo il nostro paese venne tacciato d’essere la retrovia del terrorismo antifrancese contrariamente a quanto si è detto della dottrina Mitterrand, accusata d’aver creato un «santuario europeo della lotta armata».
Nel 1981, appena eletto alla presidenza della repubblica, François Mitterrand, politico tra i più implicati nell’avventura coloniale francese, mantenne fede agli impegni presi durante la campagna elettorale, in particolare quelli che aveva definito «riforme che non costano», come l’abolizione della pena di morte e l’amnistia politica generale. Avviò così una strategia d’asilo, con alterni risultati, rivolta ai diversi conflitti di carattere rivoluzionario e irredentista che traversavano l’Europa (italiani ma anche irlandesi e baschi). «Al di là della risposta giudiziaria, si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. Era importante non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica», ha spiegato una volta Louis Joinet, il vero architetto giuridico di questa politica d’asilo, in un’intervista apparsa sulle pagine di Libération del 23 settembre 2002. Fondatore del Syndicat de la magistrature (componente di sinistra della magistratura francese), negli anni 80 consigliere giuridico del primo governo socialista diretto da Pierre Mauroy e successivamente dello stesso presidente della Repubblica Mitterrand, Joinet ebbe l’incarico di seguire i dossier sulle estradizioni politiche. Per questo finì nel mirino del giudice istruttore romano Ferdinando Imposimato.
In quella intervista, rimasta inedita in Italia, Joinet ricostruiva i diversi passaggi della dottrina Mitterrand. «Le prime liste da noi ricevute contenevano 142 nomi di rifugiati ricercati a vario titolo ma appaiono subito delle reticenze da parte della giustizia italiana». Insomma, si scontrano due culture giuridiche ispirate da filosofie politiche opposte. Le autorità francesi dispiegano una tecnica di governo che aveva come presupposto una lettura politica e non criminale di quel che accadeva in Italia. Per questo esplorano vie politiche alla soluzione dei conflitti armati. Colgono nelle vicende italiane quel che nella penisola non si vuole vedere: un lacerante conflitto sociale, una latente condizione di guerra civile. Inoltre cercano soluzioni a un problema d’ordine pubblico che sta emergendo sul loro territorio: far affiorare e “normalizzare” un’area sociale clandestina e potenzialmente sovversiva composta dalle migliaia di militanti che avevano trovato rifugio nei solidali interstizi della loro società. La Francia restava attenta alle forme giuridiche mentre in Italia l’emergenza antisovversione si dispiegava nella forma di una guerra giudiziaria che negava la politica.

Come uscire dalla violenza politica?
«L’esperienza – racconta sempre l’ex consigliere dell’Eliseo – mi aveva insegnato che la clandestinità è la peggiore delle situazioni poiché produce gerarchie ma non dibattiti. La vera questione che pone la violenza politica, ripeteva Mitterrand, è certo quella di sapere come vi si entra, ma soprattutto come trovare il modo di uscirne. È sulla base di questo ragionamento che con l’accordo di Gaston Defferre, allora ministro dell’Interno, decidemmo di discutere con gli avvocati dei fuoriusciti». In questo modo si arrivò a delineare una soluzione: «Bisognava realizzare delle liste, fornire nomi, date e luoghi di nascita». Un gruppo di lavoro venne costituito presso il ministero dell’Interno, supervisionato dal prefetto Maurice Grimaud, con la partecipazione di diversi consiglieri governativi e alti funzionari di polizia, come il commissario Genthial, all’epoca vice direttore dei Reinseignements généraux. A queste riunioni parteciparono anche gli avvocati dei rifugiati, come Henri Leclerc e Pierre Mignard (Serge Quadruppani, L’Antiterrorisme en France ou la Terreur integrée, 1981-1989, La Découverte 1989). «Alcuni di questi poliziotti osservavano incuriositi la procedura. Per loro era senza precedenti che persone del genere uscissero quasi collettivamente dalla clandestinità». Delle inchieste furono ordinate, i rifugiati vennero sorvegliati ma i rapporti di polizia «mostravano che nessuno di loro violava la legge». Tuttavia la reazione italiana non si fece attendere e molti pentiti, per ottenere agevolazioni e riduzioni di pena, cominciarono a sovraccaricare d’accuse gli esiliati, «circostanza che non solo riaccese una violenta campagna contro la Francia, ma soprattutto provocò una immediata inflazione di domande d’estradizione e al contempo un ulteriore aggravamento dell’incertezza giuridica che le contraddistingueva». L’ex capo del SISMI, ammiraglio Fulvio Martini rivela in un suo libro di memorie (Nome in codice Ulisse) che in quel periodo un piano dei sevizi era pronto per rapire diversi rifugiati residenti a Parigi.

«Per tutti e per ciascuno»
Una circolare del ministero della Giustizia fissò i primi criteri di regolarizzazione. Inizialmente erano inclusi soltanto gli imputati o condannati per “reati associativi” e “insurrezione contro i poteri dello Stato”, ma dei dissensi interni all’esecutivo bloccarono questa prima soluzione. Anche tra i rifugiati si aprì un confronto. Da una parte chi era disposto ad accettare un’interpretazione ristrettiva della politica d’asilo. Una posizione che trovava sponde nei militanti che avevano aderito al movimento della dissociazione. Dall’altra Oreste Scalzone, che divenne la figura di riferimento dei favorevoli al riconoscimento pieno, senza limiti e distinzioni, dell’asilo per tutti e per ciascuno.
Nel 1984 i fuoriusciti e i loro avvocati tennero una conferenza stampa. In cambio dell’asilo indifferenziato offrirono i loro nomi e l’impegno di rispondere ad ogni convocazione per il mezzo dei loro legali. Rivendicarono invece la loro piena libertà di parola e decisero, come racconta sempre Joinet «d’avviare il dibattito sulle ragioni del fallimento della lotta armata. Per gli avvocati si trattava di un importante impegno e certamente questo ha pesato molto sulla decisione dell’avvocato Mitterrand. Noi pensavamo soprattutto che grande sarebbe stato il pericolo di vedere questi italiani ritornare nella clandestinità, col rischio d’alimentare a breve una deriva terrorista anche sul suolo francese».
Si arriva in questo modo al 20 aprile 1985, al congresso della Lega dei Diritti dell’Uomo, nel quale il presidente francese annuncia l’adozione di una politica d’asilo senza discriminazioni: «ho detto al governo italiano e ripetuto recentemente al capo del governo Craxi, nel corso di una conferenza stampa tenutasi in occasione della sua visita, che il centinaio d’Italiani che hanno partecipato ad azioni terroristiche, approdati successivamente in Francia dopo aver rotto con la macchina infernale e avviato una seconda fase della loro vita, inserendosi nella società francese, trovandovi lavoro e fondando una famiglia, che questi italiani sono al riparo da ogni sanzione per via d’estradizione».

L’asilo informale
Prevalse la garanzia di uno spazio di libertà informale, senza criteri discriminatori. Una situazione che fu così riassunta da Robert Pandraud, futuro sottosegretario alla sicurezza del governo Chirac, in un dibattito tenutosi all’Assemblea nazionale: «Dal 1981, tra i 150 e i 200 brigatisti italiani sono rifugiati a Parigi. Una quarantina di loro beneficiano di un permesso di soggiorno, gli altri vivono in uno stato di non-diritto, tollerati ma non riconosciuti. Occorre precisare che il governo ha sempre rifiutato di dare seguito alle richieste d’estradizione avanzate nei loro confronti dall’Italia, nonostante una quindicina di queste richieste avessero ottenuto l’avviso favorevole della giustizia».
Negli anni 80, gran parte dei processi dell’emergenza erano in fase d’istruzione, oppure ancora in corso. L‘introduzione di criteri selettivi avrebbe creato delle situazioni di manifesta antigiuridicità. Persone nel frattempo condannate solo per reati di tipo associativo sarebbero state tutelate a discapito di chi, ancora in attesa di giudizio e dunque sotto il beneficio della presunzione d’innocenza, sarebbe rimasto escluso. Per evitare questo ginepraio insolubile venne salvaguardato il principio astratto e generale dell’asilo, a prescindere dalla regolarizzazione amministrativa, demandata ai criteri d’applicazione delle singole prefetture.
Nonostante le alternanze politiche che seguirono, la situazione restò sostanzialmente immutata per circa un decennio, fino all’indomani dell’entrata dell’Italia nel dispositivo Shengen. Gli automatismi previsti nel sistema della banca dati integrata provocarono diversi arresti. Per porvi rimedio il 4 marzo 1998 il primo ministro, Lionel Jospin, ribadì ufficialmente che il suo governo non aveva l’intenzione di modificare l’atteggiamento tenuto dalla Francia fino ad allora: «Per questo non ha dato e non darà seguito ad alcuna domanda d’estradizione dei fuoriusciti italiani che sono venuti nel nostro paese[…] a seguito di atti di natura violenta d’ispirazione politica repressi nel loro paese». Superata la crisi precise disposizioni furono impartite per disattivare tutte le segnalazioni d’arresto. La successiva introduzione del reciproco riconoscimento delle decisioni di giustizia penale tra gli stati membri dell’Unione inaugura lo spazio giudiziario europeo sotto i cattivi auspici di un disequilibrio tra le accresciute potenzialità repressive delle autorità statali e le ridotte garanzie di tutela dei singoli cittadini. I vari protocolli stabiliti con il sistema informatico Schengen, il mandato d’arresto europeo, Europol ed Eurojust stanno alle vecchie sovranità politiche come la Banca centrale europea sta alla vecchie politiche economiche nazionali di scuola keynesiana.

Il ridimensionamento del lodo Mitterrand
Nell’estate del 2002, l’esclusione dal secondo turno delle presidenziali del candidato socialista mise fine alla coabitazione. La destra francese riconquistò dopo 21 anni tutte le leve del potere. In Italia l’attentato al collaboratore del governo Marco Biagi fornì al governo il pretesto tanto atteso per ripartire all’assalto della dottrina Mitterrand. Anzi, i fuoriusciti conservati nel serbatoio dell’esilio apparirono subito una preziosissima risorsa sulla quale far ricadere la responsabilità dei nuovi attentati e distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dallo scandalo suscitato dalla mancata protezione del professore e dalla frase offensiva rivoltagli dal ministro degli Interni Scajola obbligato alle dimissioni.
Per uscire dall’angolo fu escogitato un vero e proprio depistaggio. Grazie ad un’ipotesi investigativa messa in piedi dal sostituto procuratore bolognese Paolo Giovagnoli che indagava sull’episodio, venne confezionata la cosiddetta “pista francese”. «Come noto – sostenevano gli inquirenti – nell’ambito dell’attività investigativa relativa all’omicidio del Prof. M. Biagi, particolare attenzione è stata rivolta ai latitanti per reati di terrorismo rifugiati in Francia. Tale strategia investigativa si basa sull’ipotesi che tra i c.d. esuli “francesi” ed i latitanti o i “clandestini”, appartenenti al sodalizio criminoso resosi responsabile del delitto in argomento, esista un forte collegamento, quanto meno di carattere ideologico».
L’esportazione delle indagini Oltralpe consentì per la prima volta nell’agosto 2002 di forzare la dottrina Mitterrand, in barba agli stessi trattati europei. Così trasformato in una foglia di fico, il diritto non riesce più neanche a salvaguardare la propria logica formale interna, assumendo sempre più le goffe sembianze di un travestimento kelseniano dell’essenza decisionista sostenuta da Schmitt.
Una lista ulteriore di 14 estradandi era pronta. I guardasigilli Castelli e Perben scelsero l’anniversario dell’11 settembre per incontrarsi e ridimensionare il lodo Mitterrand. Ma intanto la pista francese non offriva i frutti sperati. Un nuovo colpo di mano viene allora concertato per forzare nuovamente la situazione. Come racconta Guillaume Perrault, giornalista del Figaro (Génération Battisti, Plon 2005), una retata sarebbe dovuta scattare nel giugno del 2003. Operazione concordata con i vertici del Viminale e la collaborazione della procura di Bologna, ma fatta saltare dall’intervento del presidente della repubblica Jacques Chirac che, per evitare altri blitz estivi da parte del suo rivale e ministro degli Interni Sarkozy, aveva accentrato i fascicoli dei rifugiati italiani sotto il controllo dei suoi uffici. Il presidente francese temeva che la retata fosse un regalo a Berlusconi per la presidenza Ue che avrebbe assunto il primo luglio successivo tra i clamori mediatici della grande operazione antiterrorismo.
Fallita quell’operazione, nel febbraio successivo con un nuovo stratagemma venne riarrestato Cesare Battisti, nonostante nel 1990 la magistratura parigina avesse dato il proprio avviso sfavorevole alla estradizione. L’episodio ebbe un enorme clamore mediatico. Rimesso in libertà, l’estradizione fu accolta ma Battisti fuggì per essere ripreso in Brasile nel 2006, dove è tuttora detenuto in attesa che le autorità si pronuncino sulla estradizione. È di questi giorni la notizia del nuovo ricovero di Marina Petrella nell’ospedale psichiatrico di Villejuif.
Il diritto estradizionale ha rappresentato per oltre un secolo il meglio della cultura giuridica di scuola liberale. Maturato nella temperie delle lotte nazionali, democratiche e repubblicane del XIX° secolo, esso viene definitivamente sotterrato nell’epoca che vanta il dominio assoluto del modello neoliberale sul pianeta. Circostanza che suggerisce più di una riflessione sulla natura liberticida e dispotica del neoliberismo contemporaneo, marcato dall’eccezione permanente inaugurata subito dopo l’11 settembre 2001.

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