Pino Narducci – Rapimento Moro, le sentenze giudiziarie al vaglio della storia (parte seconda)

A mezzo secolo di distanza dalle istruttorie e i maxi processi condotti contro i militanti della lotta armata è ormai maturo il tempo si sottoporre le sentenze di giustizia al vaglio critico della storia. Il tempo trascorso, l’importante mole documentaria, le ulteriori testimonianze orali e gli studi storici più seri, ci consentono di potere valutare se «la verità giudiziaria resista, e in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica». Su Questione giustizia di questo mese di giugno, rivista di Magistratura democratica curata da Nello Rossi, è apparso un importante studio in due puntate di Pino Narducci, presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia, che già in passato si è cimentato su vicende giudiziarie che hanno riguardato i movimenti sovversivi degli anni Settanta.
Il lavoro di Narducci smonta uno dei luoghi comuni più diffusi, agitato polemicamente dagli esponenti della dietrologia contri chi cerca di fare lavoro storico: ovvero che questi ultimi si trincererebbero dietro le sentenze perché «i processi hanno detto tutto quello che c’era da dire». Basti pensare alle divergenze tra le prime ricostruzioni processuali sulla dinamica dell’azione di via Fani e i successivi lavori storici che hanno precisato nel dettaglio la preparazione logistica, il numero dei singoli partecipanti, la dinamica dell’azione, Il percorso di di fuga.
Tre anni fa, nel volume La polizia della storia pp. 260-263, (https://insorgenze.net/2022/03/15/sequestro-moro-dopo-44-anni-continua-ancora-la-caccia-ai-fantasmi/), avevo analizzato le cinque istruttorie e i quattro processi che hanno contraddistinto l’attività della magistratura nella vicenda del sequestro Moro. In quello studio indicavo in ventisette il numero delle persone condannate per il sequestro, l’uccisione della scorta e l’omicidio finale del presidente del consiglio nazionale della Dc, fatti avvenuti tra la mattina del 16 marzo 1978 e l’alba del 9 maggio successivo. Una ventottesima persona era stata assolta perché all’epoca dei processi non erano emersi elementi di prova nei suoi confronti. In realtà, solo 16 di queste risultavano con certezza direttamente coinvolte nella vicenda, le altre undici non avevano partecipato né sapevano del sequestro.
Il lavoro di scavo e analisi realizzato da Pino Narducci ci dice che le persone sanzionate furono in realtà trentuno. Ventisette condannate sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, gli altri quattro riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali. Se all’elenco dei condannati – scrive ancora Narducci – si aggiungono gli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, «scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata». 
Questo ci dice che l’attività inquisitoria della magistratura e delle forze di polizia fu imponente, seppur inizialmente imprecisa, anche se la martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato negli anni successivi questo dato significativo. Non ci fu affatto una inazione o distrazione, tantomeno episodi di clemenza pattuita sulla base di una rinuncia a verità scomode o indicibili. Gli unici sconti di pena concessi furono il risultato della legislazione premiale che venne introdotta e applicata a quegli imputati che collaborarono nei processi o si dissociarono con dichiarazioni di abiura che prendevano le distanze dalla loro militanza passata.
Il lavoro di Narducci dopo aver scandagliato per intero le sentenze di ogni grado dei cinque processi, coglie le numerose incongruenze presenti. I reati principali contestati nei giudizi riguardavano l’assalto in via Fani con l’omicidio plurimo degli agenti della scorta di Moro e i vari reati corollario, il sequestro vero e proprio dello statista democristiano e infine la sua uccisione. Per altro Narducci contesta il ricorso all’aggravante della premeditazione della uccisione dell’esponente Dc, che si dimostra storicamente infondata o comunque valida solo a partire da una determinata data: il 15 aprile con il comunicato numero 6 che annunciava la fine del processo del popolo e la sentenza di condanna? Comunicato smentito in realtà dalla ricerca continua di una interlocuzione politica e scambio di prigionieri (le lettere di Moro inviate dopo quella data e la telefonata di Moretti del 30 aprile), o ancora la riunione dell’esecutivo di colonna dell’8 maggio in via Chiabrera, che di fatto sancisce la decisone reale della uccisone di Moro, predisponendone la logistica.
Chi era direttamente coinvolto nella gestione quotidiana del sequestro non per forza era in via Fani, nonostante ciò nelle prime sentenze di condanna emesse negli anni 80, questa differenza non viene fatta. Si applicano «singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani […] In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto». 
Cosa che non avverrà nei processi compiuti nella seconda parte degli anni 90 quando le sentenze torneranno ad applicare i canoni della responsabilità personale distanziandosi da quella «responsabilità di posizione» condivisi nel decennio precedente, tanto che il reato di concorso e l’appartenenza alla banda armata verranno puniti con criteri meno estensivi e maggiormente conformi al dettato costituzionale. Diversi tra quei 27 condannati nei primi processi, Moro uno-bis e Moro ter, non avrebbero subito la stessa condanna o sarebbero stati prosciolti se giudicati nel decennio successivo.
Nel suo studio Narducci sottolinea la sconcertante condanna di 25 imputati ritenuti colpevoli del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini. Il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini.
Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura pendono nuovi filoni d’indagine (su alcuni di questi vi sarebbe la richiesta di archiviazione), ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa (uno dei primi grossolani errori commessi dalla prima sentenza del Moro uno-bis, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver inquisito 50 persone, condannato 11 persone totalmente estranee al sequestro e altre coinvolte solo in parte, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Foto Roberto Kock  – Agenzia Contrasto, Aula Bunker Foro Italico, aprile 1982

Pubblicato su Questionegiustizia.it, 26 giugno 2025 col titolo «Il caso Moro. Per un’analisi delle sentenze (parte seconda)»
di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

Nel maggio ’87, la Corte di Assise di Roma, nel cd. processo Metropoli, stabilì che Lanfranco Pace e Franco Piperno erano estranei a tutti i reati connessi alla vicenda Moro.  

Al termine del processo Moro ter di primo grado, nell’ottobre ’88, i giudici romani assolsero Rita Algranati, Marcello Capuano, Cecilia Massara, Luigi Novelli, Marina Petrella e Stefano Petrella e condannarono, invece, Alessio Casimirri per tutti i fatti di via Fani e via Montalcini. Giulio Baciocchi, Walter Di Cera, Giuseppe Palamà e Odorisio Perrotta, militanti della colonna romana, a differenza di Casimirri, furono condannati solo per il sequestro e l’omicidio del presidente della DC.

Nel processo Moro quater di primo grado, che si celebrò nel ‘94, Alvaro Lojacono venne ritenuto responsabile di tutti i fatti avvenuti tra il 16 marzo e il 9 maggio ‘78.

Infine, nel processo Moro quinquies, nel 1996, i giudici affermarono la responsabilità di Germano Maccari, il falso marito di Anna Laura Braghetti, e di Raimondo Etro che aveva collaborato ad alcune fasi della inchiesta su Moro prima del sequestro. Questa volta però, Maccari ed Etro, riconosciuti colpevoli della uccisione della scorta e del sequestro e della morte del presidente DC, per scelta fatta dalla Procura romana al momento del rinvio a giudizio, non furono processati anche per il tentato omicidio di Alessandro Marini. [17]

Nel corso della lunga vicenda processuale, Anna Laura Braghetti (v. interrogatorio sostenuto nel processo di primo grado Moro quater alla udienza del 24 novembre 1993) e Germano Maccari (v. la drammatica confessione resa nel processo Moro quinquies alla udienza del 19 giugno 1996) ammisero le proprie responsabilità e raccontarono cosa era accaduto nella primavera ‘78.

Anche altri protagonisti della vicenda (Mario Moretti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Barbara Balzerani e Bruno Seghetti), a partire dagli anni ’90, in luoghi diversi dalle aule giudiziarie (la Balzerani rese tuttavia dichiarazioni alla udienza del 2 dicembre 1993 del cd. Moro quater), hanno raccontato la storia di cui ci stiamo occupando. [18]

Le versioni provenienti dagli imputati dissociati/collaboratori di giustizia e dagli imputati che fecero scelte processuali opposte alla dissociazione/collaborazione sono, per larga parte, coincidenti. Inoltre, recenti accertamenti di natura tecnica o scientifica – sulla dinamica della azione a via Fani, sulla base di via Gradoli e sulla uccisione di Moro in via Montalcini – hanno definitivamente smontato le teorie complottiste, accreditando come sostanzialmente veritiera la ricostruzione della vicenda fornita dai responsabili del sequestro e della uccisione di Aldo Moro. [19]

Esiste, quindi, oggi, un solido patrimonio di conoscenze da cui partire per valutare i fatti accertati dalle sentenze.

Sono chiare ed ampiamente provate le responsabilità dei componenti del Comitato esecutivo, della direzione della colonna romana e di coloro che presero parte, direttamente e in prima persona, alla operazione di via Fani e al sequestro protrattosi in via Montalcini.

Meno evidenti sono quelle di altri condannati nei processi Moro uno/bis e ter e, per alcuni di essi, gli elementi di prova presentano profili decisamente problematici.

Se quasi tutti ricordano i fatti salienti che avvennero la mattina del 16 marzo ’78, quasi nessuno ha memoria dell’episodio meno noto tra quelli che accaddero a via Fani: il tentato omicidio dell’ingegnere Alessandro Marini. 

Era veramente arduo riporre fiducia nella credibilità del teste Marini che, nella fase iniziale della indagine, dopo aver visto alcune fotografie ed aver fatto anche una ricognizione personale, sostenne di essere assolutamente sicuro che uno dei brigatisti da lui visti la mattina del 16 marzo era Corrado Alunni, che però nulla c’entrava con via Fani ed aveva abbandonato le BR già da molto tempo. [20] 

Ma questo scivolone non impedì a Marini di diventare il più importante testimone del caso Moro e di ripetere mille volte, cambiando però mille volte la sua versione, che, essendosi trovato casualmente all’angolo tra via Stresa e via Fani, aveva incrociato due brigatisti che viaggiavano su una moto Honda. Il passeggero della moto aveva sparato contro di lui una raffica di mitra che aveva mandato in frantumi il parabrezza in plastica del suo ciclomotore Boxer. Marini si era salvato solo perché si era istintivamente abbassato.

Il testimone, quindi, convinse inquirenti e giudici di essere stato vittima di un tentativo di omicidio, commesso da due brigatisti, che però non saranno mai identificati, a bordo di una moto Honda, un mezzo che, tuttavia, nessuna indagine o processo ha mai dimostrato essere stato utilizzato dalle BR la mattina del 16 marzo. 

A 25 persone è stata inflitta una pena definitiva anche per questo delitto. 

Poi, in anni più recenti, fu la versione del testimone ad andare in frantumi. 

In alcune fotografie scattate nella mattinata del 16 marzo ’78, si vede chiaramente un Boxer, parcheggiato su un marciapiede in via Fani, che ha il parabrezza in plastica tenuto insieme con una striscia di un vistoso scotch marrone, ma ancora tutto integro. Nessun colpo di arma da fuoco l’ha colpito. Quando venne convocato dalla Commissione di inchiesta sul caso Moro, Marini (che, in verità, lo aveva già detto al Pubblico Ministero nel ’94), per l’ennesima volta, fece marcia indietro e cambiò la sua versione dei fatti, cercando di adattarla alla nuova situazione: sì, era vero, il parabrezza si era rotto prima dei fatti di via Fani e lui, per tenerlo insieme, aveva applicato lo scotch. Solo dopo il 16 marzo, avendo notato un pezzo mancante, aveva creduto che il parabrezza fosse stato raggiunto da un proiettile. [21] 

Un altro colpo durissimo alla credibilità del testimone lo diedero due testimonianze particolarmente qualificate.

Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, ricordò ai parlamentari che Marini aveva sostenuto di essere stato minacciato a causa delle sue dichiarazioni sull’agguato di via Fani e la Polizia aveva installato un apparecchio nella abitazione dell’ingegnere per registrare le telefonate che riceveva a casa. Quelle registrazioni, dimenticate per 36 anni, erano state recuperate e dimostravano che Marini era stato sì effettivamente minacciato, ma per vicende personali che nulla c’entravano con il caso Moro. [22]

Federico Boffi, dirigente del Servizio centrale della Polizia Scientifica (per incarico della Commissione parlamentare aveva analizzato la scena dell’agguato), spiegava che la versione del testimone non reggeva perché la analisi della dinamica della azione dimostrava che non erano stati esplosi colpi di arma da fuoco da un veicolo in movimento e che la traiettoria dei proiettili era opposta rispetto al luogo in cui Marini affermava di essersi trovato. [23]

Ha sostenuto lo storico Gianremo Armeni che «il tentato omicidio di Alessandro Marini non è un fatto acclarato dalla magistratura, è una circostanza scritta nella sentenza direttamente dal testimone» ed è difficile non condividere questa affermazione. 

Non è, quindi, avventato concludere oggi, trascorsi 47 anni da quel giorno del marzo ’78, che uno dei fatti per i quali sono state inflitte molte condanne definitive non si è mai verificato.

Restano, però, gli altri gravissimi reati.

I componenti della brigata Università della colonna romana (Antonio Savasta, Emilia Libéra, Massimo Cianfanelli, Caterina Piunti e Teodoro Spadaccini) ammisero le proprie responsabilità ed anzi Savasta e Libéra divennero due tra i principali collaboratori di giustizia nella storia delle BR. I cinque imputati sono stati condannati per tutti i delitti connessi alla vicenda Moro. 

Ma cosa fecero esattamente questi brigatisti che, ovviamente, non si trovavano a via Fani? 

Secondo i giudici, la brigata universitaria era corresponsabile della “operazione Fritz” per tre essenziali ragioni: 1) al pari di tutte altre brigate, anche questa, nella imminenza del 16 marzo, aveva rubato auto poi utilizzate a via Fani; 2) aveva spiato i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche; 3) aveva ricevuto la Renault 4 colore amaranto poi usata per trasportare il corpo di Moro sino a via Caetani.

Gli elementi di prova sembrano corposi, ma, se ci addentriamo nelle pieghe delle centinaia di pagine dei faldoni del processo, questo quadro offre minori certezze.

Un paio di mesi prima del 16 marzo, Savasta ricevette da Bruno Seghetti, cioè dalla direzione della colonna romana, l’incarico di osservare i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche. Le regole della compartimentazione imponevano a Seghetti di non spiegare a cosa servisse questa inchiesta preliminare. Nel corso del processo, Savasta dichiarava di aver comunicato questa decisione a Libéra e Spadaccini, senza tuttavia aver fatto cenno al colloquio avuto con Seghetti. Dunque, per qualche giorno, i membri della brigata avevano spiato Moro e la sua scorta all’interno della facoltà. Infine, Savasta aveva comunicato a Seghetti che, dal suo punto di vista, era impossibile portare a termine qualsiasi azione in quel luogo perché il presidente DC era costantemente sorvegliato dalla scorta che, sicuramente, avrebbe aperto il fuoco.

Ma il racconto di Savasta diverge non poco da quello degli altri due militanti della brigata Università. 

Spadaccini negava di aver spiato Moro e confessava solo di aver svolto una rapida inchiesta sul professore Franco Tritto perché volevano dar fuoco alla sua auto.  Quando il Presidente della Corte di Assise chiese ad Emilia Libéra se aveva partecipato alla inchiesta sul presidente della DC insieme a Savasta, la donna replicava di non averlo mai fatto né di averlo mai saputo (Presidente: «Ma lei non seppe nulla di questa inchiesta?» Libéra: «No». Presidente: «Savasta non ebbe mai a parlarle, anche in seguito, di una inchiesta che aveva fatto su Moro?» Libéra: «No». Presidente: «Mai gliene parlò?» Libéra: «L’ho saputo adesso». Presidente: «Prima non l’ha mai saputo?» Libera: «No»).

Un mese prima del sequestro tutte le brigate ricevettero una lista di veicoli da rubare. Seghetti, responsabile politico della brigata Università, consegnò la lista a Libéra dicendo che le auto sarebbero state usate per una imminente, grande operazione. La brigata rubò un solo veicolo, ha sostenuto Savasta nel processo. Invece, secondo la versione processuale della Libéra, la brigata non riuscì a rubare nulla. 

Circa dieci giorni prima del 9 maggio, Seghetti affidò a Savasta, Libéra e Spadaccini l’auto Renault 4 di colore amaranto per “gestirla”, cioè cambiare le targhe, eliminare qualsiasi contrassegno del veicolo e lavarla. I tre della brigata università svolsero questi compiti. Poi, qualche giorno dopo, Libéra e Spadaccini portarono il veicolo a Piazza Albania e lo riconsegnarono a Seghetti. Per i tre militanti della brigata si trattava di una operazione di ruotine, eguale a tante altre, e, solo dopo la conclusione della vicenda, Savasta comprese che sulla Renault 4 era stato trasportato il cadavere di Moro. 

In definitiva, l’inchiesta nella facoltà di Scienze politiche, quasi certamente, non venne, quindi, svolta dalla brigata Università, ma dal solo Savasta ed i brigatisti Libéra e Spadaccini non seppero che i compiti che svolgevano erano connessi alla vicenda Moro: né la ricerca di auto prima del 16 marzo, né la custodia della Renault 4 amaranto.

Inoltre, nel processo emerse che Teodoro Spadaccini era stato sospeso dalla organizzazione prima del sequestro ed era stato riammesso, “scongelato”, alla metà di aprile ’78, quando cioè la vicenda stava per avviarsi a conclusione. 

Tuttavia, il forzato allontanamento del brigatista dalla vita della organizzazione non suscitò nei giudici l’interrogativo che la sua partecipazione, quantomeno ai delitti avvenuti la mattina del 16 marzo, esattamente come per Emilia Libéra, non era dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio.

Caterina Piunti, reclutata nella brigata nell’autunno ’77, ammise di essere stata militante della colonna romana e di aver diffuso i comunicati delle BR durante il periodo del sequestro. Massimo Cianfanelli, alla udienza del 19 maggio ‘82, sostenne di essere entrato nella brigata solo dopo i fatti di via Fani, a fine aprile ’78, e di essersi limitato a fare volantinaggio.

Piunti e Cianfanelli non vennero mai coinvolti nelle attività degli altri membri della brigata e Savasta e Libéra non smentirono la versione dei due imputati. Per i giudici, tuttavia, anche l’attività di diffusione dei comunicati aveva contribuito a rafforzare la prosecuzione del sequestro, anche se è difficile comprendere, allora, perché Piunti e Cianfanelli, se avevano assolto ad alcuni compiti solo dopo che Moro era già stato portato a via Montalcini, vennero condannati anche per i fatti avvenuti la mattina del 16 marzo. In termini più chiari: come può una attività di propaganda fatta durante il sequestro aver contribuito a realizzare delitti avvenuti prima, cioè uccidere la scorta di Moro e tentare di uccidere il teste Marini?

Le sentenze del processo Moro uno/bis sancirono la colpevolezza anche di Luca Nicolotti, dirigente della colonna genovese, e Cristoforo Piancone, dirigente della colonna torinese. 

Secondo i giudici, che ricevettero questa informazione da Patrizio Peci, i due imputati, già prima del 16 marzo, erano componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione insieme a Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari. Le sentenze, nel primo come nel secondo grado, non spesero molte parole per dimostrare la responsabilità dei due brigatisti: avevano sicuramente partecipato ai delitti connessi alla vicenda Moro perché rivestivano posizioni di vertice ed il fronte nazionale della contro aveva deciso il sequestro insieme al comitato esecutivo. 

I fatti storici appaiono, però, molto più complessi.

Se Peci aveva sostenuto che Nicolotti era inserito nel fronte della lotta alla controrivoluzione [24], Valerio Morucci e Adriana Faranda possedevano informazioni diverse. 

Quando i due ex brigatisti, alla fine degli anni ‘80, scrissero un corposo memoriale sul caso Moro, compilarono anche un foglio che conteneva il completo organigramma degli organismi dirigenti nazionali e locali delle BR durante il sequestro. Secondo Morucci (nel ’78 membro del fronte nazionale della logistica) e Faranda (nel ’78 membro della Direzione strategica), il fronte della lotta alla controrivoluzione era composto da Bonisoli e Brioschi per Milano, Micaletto per Torino e Genova, Gallinari per Roma e Piancone per Torino, mentre Luca Nicolotti era solo membro della direzione della colonna genovese. [25]

I giudici di secondo grado del processo Moro uno/bis scrissero nella sentenza che l’inserimento di Nicolotti nel fronte di lotta alla controrivoluzione era «comprovato dalle concordanti, precise dichiarazioni degli imputati Peci, Savasta e Fenzi i quali, fra l’altro, parteciparono insieme con il Nicolotti alla riunione della Direzione strategica dell’organizzazione svoltasi a Genova nel dicembre 1979». 

In realtà, Fenzi non era presente alla riunione che si tenne a Genova, in via Fracchia, nel dicembre ‘79 e, in ogni caso, la partecipazione di Nicolotti ad una riunione di un organismo dirigente, la Direzione strategica, a fine ’79, cioè trascorso oltre un anno dai fatti di via Fani, non dimostrava, ovviamente, che l’imputato fosse stato membro di uno dei fronti nazionali delle BR. [26]      

In definitiva, Nicolotti e Piancone furono condannati perché Adriana Faranda, durante il processo di secondo grado, aveva confermato che «le azioni delle colonne dovevano essere preventivamente decise dai responsabili dei fronti; tutto ciò per rispondere a quella centralizzazione del dibattito politico che precedeva sempre e concludeva poi la esecuzione di tutte le azioni delle BR che si muovevano unitariamente su tutto il territorio nazionale».

Ma la sintetica descrizione delle regole di funzionamento delle BR, contenuta nella sentenza, appare troppo schematica. 

In generale, il compito del fronte nazionale della lotta alla controrivoluzione era quello di elaborare la “campagna politico-militare” all’interno della quale collocare gli obiettivi da colpire (i magistrati, gli esponenti politici ecc.), obiettivi concreti che, tuttavia, venivano individuati dalla colonna ed affidati, per la pianificazione della azione, al settore della contro locale. 

Ma ciò che più importa è che la vicenda Moro, per la sua eccezionale importanza, rappresentò un unicum nella vita della organizzazione. Già a partire dalla fine del ’76, la scelta di colpire un esponente politico di altissimo livello della DC era attribuibile, per intero, al comitato esecutivo che, in quel periodo, peraltro, aveva due suoi componenti, Moretti e Bonisoli, impegnati proprio a Roma per costruire la colonna cittadina, operazione senza la quale non avrebbe potuto realizzarsi l’azione di attacco al cuore dello stato. Il compito della pianificazione dell’agguato, si è detto ampiamente nelle pagine precedenti, era affidato, in toto, alla direzione della colonna romana ed il fronte nazionale della controrivoluzione, di fatto, era stato esautorato. 

Ha sostenuto Franco Bonisoli, deponendo nel corso del processo Metropoli nell’aprile 87, che la decisione del sequestro fu presa dal comitato esecutivo e che neppure la Direzione strategica entrò mai nel merito della azione che era in programma, «ciò non soltanto per un problema di compartimentazione, perché nella DS c’erano militanti che non sapevano dell’azione Moro, cioè non sapevano che l’obiettivo dell’azione che avevano ratificato fosse Moro. L’azione era estremamente compartimentata. Nella Direzione strategica del febbraio ’78 non si discusse dell’obiettivo dell’azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro».

Se la direzione strategica non partecipò alla ideazione e pianificazione del sequestro, come è possibile, allora, che lo abbiano fatto i membri del fronte della lotta alla controrivoluzione, struttura di rango politico inferiore alla Direzione strategica, oltre che al Comitato esecutivo?

Peraltro, le Brigate Rosse non avevano alcuna necessità di infrangere le rigide regole della compartimentazione, coinvolgendo tutti i componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione, visto che tre membri di questa struttura (Bonisoli, Micaletto e Gallinari) erano già attivamente impegnati nella pianificazione della operazione.  

La posizione di Cristoforo Piancone presenta poi alcuni aspetti di straordinaria singolarità. Il brigatista torinese, l’11 aprile ’78, a Torino, partecipò all’agguato mortale contro l’agente di custodia Lorenzo Cotugno. Piancone, ferito, venne arrestato. Il 25 aprile ’78, il suo nome comparve nel comunicato n. 8 con il quale le BR chiedevano la liberazione di 13 detenuti in cambio del rilascio di Moro. Nonostante fosse detenuto dall’11 aprile e nonostante Piancone fosse, oggettivamente, interessato, in quel momento, ad una conclusione positiva del sequestro e non certo alla soppressione del prigioniero, anche lui venne condannato quale corresponsabile della uccisione avvenuta in via Montalcini.  

Giulio Cacciotti e Francesco Piccioni non erano dirigenti della colonna romana, ma semplici militanti. Il primo era membro della brigata Torre Spaccata, il secondo integrava il fronte logistico. Entrambi parteciparono a diverse azioni armate, in particolare Piccioni all’assalto alla caserma Talamo del 19 aprile ’78, azione nella quale venne utilizzata l’auto Renault 4 amaranto.

Ma Cacciotti e Piccioni, come tutti i militanti della colonna romana, non seppero mai nulla della operazione del 16 marzo e non svolsero nessun compito concreto che contribuì a mantenere Moro in prigionia. 

Applicando singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani. 

In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto. 

Ancor più singolari appaiono le motivazioni che riguardano gli imputati Gabriella Mariani, Antonio Marini ed Enrico Triaca, individuati come militanti di rango elevato, organizzatori delle attività della colonna romana.

In realtà, nulla provava che i tre imputati avessero partecipato ad una qualsiasi fase della operazione del 16 marzo o della custodia del prigioniero a via Montalcini. Nemmeno gli intensi rapporti avuti con Mario Moretti e nemmeno il fatto che Gabriella Mariani aveva dattiloscritto la risoluzione della direzione strategica del febbraio ‘78 permettevano di giungere a questa conclusione. È indiscutibile che Moretti non abbia mai parlato con loro della “operazione Fritz” prima del 16 marzo né saltò fuori, durante il processo, che gli imputati erano stati sollecitati a svolgere attività particolari e diverse dopo i fatti di via Fani. Peraltro, i comunicati diffusi durante il sequestro non vennero realizzati o duplicati né a via Palombini né a via Foà. 

I giudici fecero ricorso all’assunto apodittico della doppia negazione: in sostanza, gli imputati “non potevano non sapere”.

Così, per Gabriella Mariani «deve ritenersi per certo che fosse a conoscenza delle attività e dei programmi della organizzazione a Roma dall’inizio a sino all’arresto del 18 maggio ’78 e che abbia dato quindi…un contributo efficace alle attività delle BR e alla commissione di delitti, tra cui certamente la strage di via Fani, il sequestro e l’omicidio Moro» e per Triaca che «non può non aver partecipato alla operazione Moro ed a tutta la campagna di primavera». [27]

Le decisioni dei giudici del Moro uno/bis vennero sostanzialmente condivise dai magistrati del Moro ter, ma questi ultimi non seguirono sino in fondo la linea tracciata dai colleghi del primo processo. Anzi, nella parte della sentenza illustrativa della metodologia che i giudici avrebbero seguito, esplicitarono chiaramente un punto significativo di discontinuità con i provvedimenti giudiziari precedenti scrivendo:  «…non possa estendersi automaticamente agli organizzatori della banda armata la responsabilità per i reati commessi da altri associati, quasi derivando dalla loro posizione ai vertici dell’organizzazione una generalizzata attribuibilità a titolo di concorso morale di tutte le attività dei compartecipi di grado subordinato. In altri termini, la sola appartenenza all’organizzazione, anche con ruolo dirigenziale, e la previsione del reato nel programma criminoso non sono da sole sufficienti per stabilire la responsabilità a titolo di compartecipazione del singolo associato rimasto estraneo alla ideazione ed all’esecuzione del reato-fine, occorrendo la prova di un consapevole apporto causale alla commissione del fatto sia pure nella forma dell’istigazione o dell’agevolazione».  

Se nel processo del 1982/’83 condotto dal Presidente Severino Santiapichi, l’essere stato mobilitato per rubare auto poi usate il 16 marzo costituiva elemento di prova molto importante, quasi decisivo, per concludere che il militante brigatista aveva fornito un contributo alla realizzazione di tutti i delitti di via Fani (il plurimo omicidio degli uomini della scorta e il sequestro), i giudici del Moro ter pervennero ad una conclusione parzialmente diversa.   

Giulio Baciocchi, Walter Di Cera e Odorisio Perrotta era stati militanti della brigata Centocelle ed anche questa aveva ricercato/procurato auto usate a via Fani. 

Giuseppe Palamà, romano di Ostia, era entrato nella colonna romana nel marzo ’78 e, come Perrotta, aveva diffuso i comunicati BR durante il sequestro.

I giudici scrissero che «Di Cera ed Arreni rubano una Fiat 128 mentre Baciocchi e Savasta si impossessano di una Diane rossa. Entrambe le auto verranno utilizzate nell’iter criminis della strage di via Fani, del sequestro e dell’omicidio dell’On. Moro…l’autovettura dell’on. Moro viene bloccata da una Fiato 128 chiara rubata il 23 febbraio 1978 a Bosco Giuliano in Via Monte Brianzo, nei pressi immediati di Piazza Nicosia, come riferisce il Di Cera».

Le informazioni contenute in questo passaggio della sentenza non sono, tuttavia, corrette.

Infatti, l’auto che bloccò la macchina su cui viaggiava Moro non è quella indicata nella sentenza perché Moretti guidava una Fiat 128 familiare di colore chiaro (sulla quale venne apposta la targa CD 19707) rubata a Nando Miconi, l’8 marzo 1978, davanti al suo negozio in Via degli Scipioni 48. Questo veicolo venne abbandonato in via Fani. Invece, la Fiat 128 di colore chiaro di cui parlano i giudici, cioè quella rubata a Giuliano Bosco nei pressi di Piazza Nicosia, venne usata da Lojacono e Casimirri e, subito abbandonata in Via Licinio Calvo, venne trovata dagli inquirenti il 17 marzo 1978. 

Quanto all’auto Citroën Dyane è vero che i brigatisti ne utilizzarono una, ma non può trattarsi di quella che i giudici sostengono, sulla base dell’accusa formulata da Walter Di Cera, essere stata rubata da Baciocchi e Savasta. 

La macchina, infatti, (come ha sostenuto, senza essere mai smentito sul punto, Valerio Morucci nel suo memoriale) venne rubata il 6 marzo, era di colore azzurro e non è mai stata individuata dalle forze di polizia. 

Quando terminò la fase dell’agguato a via Fani, il convoglio brigatista in fuga era composto dalla Fiat 132 guidata da Seghetti (con Moretti, Fiore e il sequestrato), da una Fiat 128 bianca condotta da Casimirri (con Gallinari e Lojacono) e da altra Fiat 128 blu guidata da Morucci (con Bonisoli e Balzerani). Dopo aver percorso piazza Monte Gaudio, via Trionfale sino a largo Cervinia, via Carlo Belli e via Casale De Bustis, il convoglio si immise in via dei Massimi. Superata via Bitossi, Seghetti lasciò la guida della Fiat 132 a Moretti, salì su una Citroën Dyane azzurra, lasciata in quel posto il giorno prima, e si mise al seguito della 132. In piazza Madonna del Cenacolo avvenne il trasbordo di Moro dalla 132 ad un furgone Fiat 850. Morucci salì sulla Dyane guidata da Seghetti che diventò la testa del convoglio. La Citroën Dyane seguì il furgoncino 850 (su cui si trovavano Moretti, Gallinari e Moro) sino a via Isacco Newton, al parcheggio coperto della Standa. Mentre la Dyane restò fuori, il furgoncino 850 entrò nel parcheggio e si accostò ad una Ami 8 Breck guidata da Germano Maccari. La cassa di legno con dentro Moro venne caricata nella Ami che partì con Moretti alla guida e Maccari accanto. Morucci si mise alla guida del furgoncino 850 e si allontanò insieme a Seghetti che conduceva la Dyane. Morucci e Seghetti arrivarono poi a piazza San Cosimato, luogo nel quale i due veicoli vennero abbandonati. [28]

I giudici del Moro ter condannarono Baciocchi e Di Cera perché «il rapporto di causalità materiale e psichica tra il furto delle auto ed il sequestro e l’omicidio dell’On. Moro è evidente», ma, contrariamente ai giudici del Moro uno/bis, l’affermazione della responsabilità non riguardò anche il plurimo omicidio degli uomini della scorta benché i fatti (eccidio della scorta e sequestro) fossero contestuali. 

Alla stessa conclusione i magistrati giunsero per i brigatisti Palamà e Perrotta, responsabili di aver distribuito comunicati BR durante il sequestro. Avendo realizzato un «inserimento nella gestione del sequestro», erano corresponsabili del sequestro stesso e del successivo assassinio del presidente DC. [29]

In definitiva, identiche condotte illecite vennero valutate e sanzionate in maniera differente.

Nel Moro uno/bis, gli imputati accusati di aver procurato auto oppure di avere diffuso i comunicati della organizzazione durante il sequestro furono condannati per tutti i delitti principali della vicenda. 

Invece, nel Moro ter, ai brigatisti accusati delle medesime condotte venne risparmiata la condanna per l’eccidio della scorta e il tentato omicidio Marini.  

La scelta di applicare principi di “attribuzione automatica” della responsabilità penale produsse una ulteriore torsione dei criteri di valutazione della prova. 

Gli imputati nella prima vicenda giudiziaria furono riconosciuti colpevoli, indistintamente, anche per tutti i delitti compiuti dalla colonna romana nella imminenza del sequestro e durante il suo protrarsi. Si trattava, in particolare, dell’omicidio del magistrato Riccardo Palma del 14 febbraio ’78, dell’incendio dell’auto del poliziotto Tinu del 7 aprile ’78, dell’attentato alla caserma Talamo dei carabinieri del 19 aprile ’78 e del ferimento del consigliere democristiano Girolamo Menchelli del 26 aprile ’78.

In realtà, durante il processo, Savasta e Libéra non avevano fornito molte informazioni su questi fatti, accusando Prospero Gallinari, per il delitto Palma, e Seghetti, Piccioni ed Arreni, per l’attentato alla caserma. 

Ma i giudici decisero che «ne sono responsabili tutti gli imputati attesa la evidente connessione» con il sequestro di Aldo Moro, anche se per molti di essi (in particolare, Braghetti, Mariani, Marini, Spadaccini, Triaca, Savasta, Libèra, Cacciotti e Piunti), peraltro non inseriti in alcuna struttura dirigenziale nazionale o romana, non emergevano prove di una partecipazione, materiale o morale, ai fatti.   

La torsione diventò ancor più stridente nel caso di Anna Laura Braghetti, la invisibile proprietaria della abitazione di via Montalcini che, sino al 9 maggio ’78, ovviamente, non poteva e non doveva avere alcun contatto con altri brigatisti, per non compromettere la sicurezza della prigione del popolo. La “invisibilità” della Braghetti (la vita della brigatista, durante il sequestro, era quotidianamente scandita dalla presenza sul luogo di lavoro e dall’immancabile rientro nella abitazione di via Montalcini) dimostrava che la donna ben difficilmente avrebbe potuto partecipare, anche solo come ideatrice, ad altre azioni armate. Eppure, anche la Braghetti venne condannata per gli altri delitti commessi dalla colonna romana tra il febbraio e il 9 maggio 1978. [30]

Germano Maccari, l’altro abitante di via Montalcini, aveva svolto un ruolo identico a quello della Braghetti. Ma, nel suo caso, i magistrati romani fecero scelte diverse da quelle compiute nei primi anni ’80. Si è già sottolineato che il brigatista non fu processato per il tentato omicidio di Alessandro Marini. Inoltre, nel Moro quinquies, Maccari fu giudicato solo per i reati strettamente connessi al sequestro ed alla uccisione di Moro e non per gli altri delitti compiuti dalla colonna romana nella “campagna di primavera”, quelli per i quali la Braghetti era stata condannata. Raimondo Etro, imputato nello stesso processo, fu giudicato e condannato per l’omicidio del magistrato Riccardo Palma perché aveva svolto un ruolo attivo nel delitto. [31]

La sentenza Maccari-Etro matura in un’epoca diversa, distante 18 anni dai fatti di via Fani e 12 anni dalla prima sentenza Moro. Sembra evidente che la magistratura, in una fase storica che progressivamente si allontana dalla cultura emergenziale che ha dominato la vita giudiziaria negli anni ’70 e ’80, muti il proprio atteggiamento e decida di applicare altri criteri di valutazione della prova ed altre regole in materia di concorso di persone nel reato. 

Se le prime sentenze si erano pericolosamente allontanate dai canoni della responsabilità personale per condividere quelli della “responsabilità di posizione”, l’indagine ed il processo Maccari-Etro seguirono una linea giudiziaria diversa aprendo la strada ad un orientamento che, oggi, ispira i giudici nell’affermare principi costituzionalmente orientati, ad esempio quelli secondo i quali «il ruolo di partecipe di una organizzazione criminale non è sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio…giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo alla attuazione della singola condotta criminosa…essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di posizione o da riscontro di ambiente». [32] 

Note

[17] Nel processo Moro uno/bis, la sentenza di primo grado viene emessa dalla Corte di Assise di Roma (Pres. Santiapiachi) il 24 gennaio 1983. Quella di secondo grado (Pres. De Nictolis) è emessa il 14 marzo 1985 e quella della Corte di cassazione (Pres. Carnevale) interviene il 14 novembre 1985. Nel cd. processo Metropoli, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 maggio 1987 e quella d’appello il 19 maggio 1988. Nel processo Moro ter, la sentenza di primo grado (Pres. Sorichilli) è del 12 ottobre 1988. La sentenza d’appello è del 6 marzo 1992 e quella della Corte di cassazione (Pres. Valente) viene emessa il 10 maggio 1993. La sentenza di primo grado del processo Moro quater è del 1° dicembre 1994, quella di secondo grado del 3 giugno 1996 e quella della Corte di cassazione del 14 maggio 1997. Infine, nel processo Moro quinquies, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 luglio 1996, quella della Corte di Assise di Appello il 19 giugno 1997 e, dopo due annullamenti disposti dalla Corte di cassazione, le condanne diventano definitive nel 1999. Tutti i provvedimenti giudiziari sul caso Moro, con i relativi incartamenti, sono custoditi presso l’Archivio di Stato di Roma.   

[18] Per il racconto fornito da alcuni brigatisti che furono protagonisti della operazione Moro v. Mario Moretti (intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate Rosse. Una storia italiana, Mondadori, 2017; Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, PGreco, 2014; Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli, 2003; Aldo Grandi, L’ultimo brigatista, BUR, 2007; Barbara Balzerani, Compagna luna, DeriveApprodi, 2013.

[19] Per incarico della Commissione parlamentare di indagine sul caso Moro, il Reparto Investigazioni Scientifiche Carabinieri ha svolto accertamenti sulla vicenda Moro. Ha escluso che, nei reperti della base di via Gradoli, vi fossero tracce biologiche riconducibili ad Aldo Moro (dimostrando, in maniera inconfutabile, che Moro non è mai stato nell’appartamento) ed ha, invece, accertato la presenza di profili genetici riconducibili a 2 soggetti maschili ignoti e 2 soggetti femminili ignoti. Inoltre, il RIS accedeva, il 4 maggio 2017, in via Montalcini 8 per effettuare una sperimentazione all’interno del box auto che, nel ’78, apparteneva a Laura Braghetti. Secondo la relazione tecnica «si ritiene che non siano emersi elementi oggettivi tali da sconfessare un’azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro…le prove reali e virtuali d’ingombro con la Renault4 consentono di non escludere che la vittima sia stata attinta nel bagagliaio mentre l’auto era parcheggiata a retromarcia nel box» (v. audizioni del Comandante RIS Roma, Luigi Ripani, nelle sedute del 30 settembre 2015, 23 febbraio 2017 e 2 marzo 2017 della Commissione Moro). Infine, gli accertamenti tecnici effettuati dalla Polizia Scientifica in via Fani-via Stresa (sul numero dei colpi esplosi, sulla traiettoria dei proiettili esplosi dalle armi usate dai brigatisti ecc.) smentivano sia la ipotesi di un “super sparatore” sia la tesi della presenza, in via Fani, durante l’azione, di persone diverse ed ulteriori rispetto a quelle che sono individuate e condannate dalla magistratura (v. audizione del Dirigente Servizio Centrale Polizia Scientifica nella seduta del 10 giugno 2015 della Commissione Moro).                  

[20] Sulla identificazione di Corrado Alunni da parte del teste Alessandro Marini v. l’audizione, del 25 marzo 2015, dell’ex giudice istruttore di Roma Ferdinando Imposimato davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro.

[21] Sulla tormentata testimonianza di Alessandro Marini e sul tema della moto Honda usata a via Fani v. Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, cit.; inoltre, v. dell’autore l’articolo, Il secolo breve del testimone di via Fani, in http://www.questionegiustizia.it, 9 giugno 2023.

[22] L’audizione del Procuratore Generale di Roma Luigi Ciampoli si è svolta nella seduta del 12 novembre 2014 della Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro e può essere consultata accedendo al sito della Camera dei deputati alla voce Resoconti stenografici–audizioni.

[23] Il funzionario della Polizia di Stato Federico Boffi è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nelle sedute del 10 giugno ed 8 luglio 2015.

[24] Peci sostenne che Nicolotti, Micaletto, Gallinari, Faranda, Piancone e Bonisoli erano membri del fronte della lotta alla controrivoluzione durante l’interrogatorio reso alla udienza del 17 giugno ’82 nel processo di primo grado Moro uno/bis. Nel corso del processo Moro ter svoltosi innanzi la 2° Corte di Assise di Roma, alla udienza del 7 maggio ‘97, Morucci dichiarò che Luca Nicolotti non era membro del fronte della lotta alla controrivoluzione.

[25] Il memoriale Morucci-Faranda, redatto nella seconda parte degli anni ’80, è divenuto pubblico nel 1990 ed è allegato agli atti del processo di appello del Moro ter.

[26] Alla riunione della Direzione strategica svoltasi in via Fracchia a Genova, nell’appartamento di Anna Maria Ludmann, parteciparono Mario Moretti, Barbara Balzerani, Vincenzo Guagliardo, Nadia Ponti, Riccardo Dura, Luca Nicolotti, Francesco Lo Bianco, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Renato Arreni, Maurizio Iannelli, Antonio Savasta, Rocco Micaletto, Patrizio Peci e Lorenzo Betassa.

[27] Nel processo Moro uno/bis, Antonio Savasta rese interrogatorio nelle udienze del 28 e 29 aprile, 3, 4, 5, 10, 12 e 17 maggio ’82; Emilia Libéra durante le udienze del 12, 17, 18 e 19 maggio ’82; Patrizio Peci alle udienze del 14, 15, 16 e 17 giugno ’82; Teodoro Spadaccini alle udienze del 2 e 3 giugno ’82; Massimo Cianfanelli nel corso delle udienze del 17, 20 e 24 maggio ’82.

[28] Un interessante e documentato reportage fotografico di tutti i luoghi del sequestro e della fuga verso via Montalcini è stato realizzato dal fotografo Luca Dammico. Il reportage Geografia del caso Moro è consultabile nel sito www.lucadammico.it. Inoltre, una meticolosa ricostruzione del percorso di fuga dei brigatisti da via Fani alla base di via Montalcini è contenuta nel libro di Marco Clementi-Paolo Persichetti-Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, cit.

[29] Nel gruppo dei condannati con la sentenza di primo grado del Moro ter, solo Perrotta era stato rinviato a giudizio per tutti i fatti principali (uccisione della scorta, tentato omicidio Marini, sequestro ed uccisione di Aldo Moro). A Baciocchi, Di Cera e Palamà i delitti vennero contestati nel corso del processo, ad eccezione di quelli riguardanti l’uccisione della scorta e il tentato omicidio Marini. La sentenza sancì un trattamento uniforme e Perrotta vene assolto per questi ultimi reati. Nel processo di appello, svoltosi nel 1992, Baciocchi, Di Cera e Palamà si avvalsero del nuovo istituto introdotto dall’art. 599 nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nell’ottobre 1989, e definirono la propria posizione in udienza camerale, senza affrontare il dibattimento.

[30] Nel processo d’appello del Moro uno/bis, Caterina Piunti venne assolta per l’omicidio Palma, avvenuto nel febbraio ’78, in quanto restava in dubbio che l’attività svolta dalla imputata nella brigata fosse «in nesso di causalità con la produzione della suddetta azione criminosa». La scelta, condivisibile, di assolvere la Piunti, perché non era dimostrato quale contributo avesse fornito alla consumazione del delitto Palma, non è però coerente con quella, di segno diametralmente opposto, seguita per gli altri imputati in riferimento ai delitti commessi a Roma dalle BR tra febbraio e maggio 1978. Sempre con riferimento all’omicidio del magistrato Riccardo Palma, i processi Moro quater e quinquies (sulla base delle dichiarazioni di Adriana Faranda, Valerio Morucci, Antonio Savasta, Emilia Libéra e Raimondo Etro) stabilirono che la uccisione di Palma, deliberata dal Comitato esecutivo e dalla Direzione della colonna romana, venne organizzata ed eseguita dai componenti del settore romano della lotta alla controrivoluzione: Faranda, Gallinari, Lojacono, Casimirri, Algranati ed Etro. È significativa l’ampia distanza che intercorre tra questo accertamento giudiziale e la decisione dei giudici del processo Moro uno/bis che, invece, condannarono per il delitto Palma anche militanti brigatisti che non integravano il settore della contro.           

[31] Raimondo Etro era stato incaricato di svolgere una prima inchiesta preliminare sui movimenti di Moro e della scorta ed aveva disegnato la planimetria della zona della chiesa situata in piazza dei Giochi Delfici. Etro sarà poi estromesso dall’azione di via Fani per manifesta incapacità. Durante le fasi preparatorie della operazione, nella zona di via Trionfale-angolo via Fani, avrebbe dovuto controllare gli orari di passaggio della scorta e avvisare gli altri brigatisti con un walkie-talkie, ma non riuscì a farlo perché sopraffatto dalla paura. Una situazione analoga avvenne anche in occasione della uccisione del magistrato Riccardo Palma perché Etro, che era incaricato di sparare al magistrato, non ebbe il coraggio di farlo. Fu Prospero Gallinari ad intervenire, prendendo il posto di Etro ed ammazzando Palma.       

[32] Il brano è tratto dalla sentenza emessa dalla VI Sezione Penale della Corte di cassazione, Pres. Ippolito, il 17 settembre 2014.

Pino Narducci – Rapimento Moro, le sentenze giudiziarie al vaglio della storia (parte prima)

A mezzo secolo di distanza dalle istruttorie e i maxi processi condotti contro i militanti della lotta armata è ormai maturo il tempo si sottoporre le sentenze di giustizia al vaglio critico della storia. Il tempo trascorso, l’importante mole documentaria, le ulteriori testimonianze orali e gli studi storici più seri, ci consentono di potere valutare se «la verità giudiziaria resista, e in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica». Su Questione giustizia di questo mese di giugno, rivista di Magistratura democratica curata da Nello Rossi, è apparso un importante studio in due puntate di Pino Narducci, presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia, che già in passato si è cimentato su vicende giudiziarie che hanno riguardato i movimenti sovversivi degli anni Settanta.
Il lavoro di Narducci smonta uno dei luoghi comuni più diffusi, agitato polemicamente dagli esponenti della dietrologia contri chi cerca di fare lavoro storico: ovvero che questi ultimi si trincererebbero dietro le sentenze perché «i processi hanno detto tutto quello che c’era da dire». Basti pensare alle divergenze tra le prime ricostruzioni processuali sulla dinamica dell’azione di via Fani e i successivi lavori storici che hanno precisato nel dettaglio la preparazione logistica, il numero dei singoli partecipanti, la dinamica dell’azione, Il percorso di di fuga.
Tre anni fa, nel volume La polizia della storia pp. 260-263, (https://insorgenze.net/2022/03/15/sequestro-moro-dopo-44-anni-continua-ancora-la-caccia-ai-fantasmi/), avevo analizzato le cinque istruttorie e i quattro processi che hanno contraddistinto l’attività della magistratura nella vicenda del sequestro Moro. In quello studio indicavo in ventisette il numero delle persone condannate per il sequestro, l’uccisione della scorta e l’omicidio finale del presidente del consiglio nazionale della Dc, fatti avvenuti tra la mattina del 16 marzo 1978 e l’alba del 9 maggio successivo. Una ventottesima persona era stata assolta perché all’epoca dei processi non erano emersi elementi di prova nei suoi confronti. In realtà, solo 16 di queste risultavano con certezza direttamente coinvolte nella vicenda, le altre undici non avevano partecipato né sapevano del sequestro.
Il lavoro di scavo e analisi realizzato da Pino Narducci ci dice che le persone sanzionate furono in realtà trentuno. Ventisette condannate sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, gli altri quattro riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali. Se all’elenco dei condannati – scrive ancora Narducci – si aggiungono gli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, «scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata». 
Questo ci dice che l’attività inquisitoria della magistratura e delle forze di polizia fu imponente, seppur inizialmente imprecisa, anche se la martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato negli anni successivi questo dato significativo. Non ci fu affatto una inazione o distrazione, tantomeno episodi di clemenza pattuita sulla base di una rinuncia a verità scomode o indicibili. Gli unici sconti di pena concessi furono il risultato della legislazione premiale che venne introdotta e applicata a quegli imputati che collaborarono nei processi o si dissociarono con dichiarazioni di abiura che prendevano le distanze dalla loro militanza passata.
Il lavoro di Narducci dopo aver scandagliato per intero le sentenze di ogni grado dei cinque processi, coglie le numerose incongruenze presenti. I reati principali contestati nei giudizi riguardavano l’assalto in via Fani con l’omicidio plurimo degli agenti della scorta di Moro e i vari reati corollario, il sequestro vero e proprio dello statista democristiano e infine la sua uccisione. Per altro Narducci contesta il ricorso all’aggravante della premeditazione della uccisione dell’esponente Dc, che si dimostra storicamente infondata o comunque valida solo a partire da una determinata data: il 15 aprile con il comunicato numero 6 che annunciava la fine del processo del popolo e la sentenza di condanna? Comunicato smentito in realtà dalla ricerca continua di una interlocuzione politica e scambio di prigionieri (le lettere di Moro inviate dopo quella data e la telefonata di Moretti del 30 aprile), o ancora la riunione dell’esecutivo di colonna dell’8 maggio in via Chiabrera, che di fatto sancisce la decisone reale della uccisone di Moro, predisponendone la logistica.
Chi era direttamente coinvolto nella gestione quotidiana del sequestro non per forza era in via Fani, nonostante ciò nelle prime sentenze di condanna emesse negli anni 80, questa differenza non viene fatta. Si applicano «singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani […] In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto». 
Cosa che non avverrà nei processi compiuti nella seconda parte degli anni 90 quando le sentenze torneranno ad applicare i canoni della responsabilità personale distanziandosi da quella «responsabilità di posizione» condivisi nel decennio precedente, tanto che il reato di concorso e l’appartenenza alla banda armata verranno puniti con criteri meno estensivi e maggiormente conformi al dettato costituzionale. Diversi tra quei 27 condannati nei primi processi, Moro uno-bis e Moro ter, non avrebbero subito la stessa condanna o sarebbero stati prosciolti se giudicati nel decennio successivo.
Nel suo studio Narducci sottolinea la sconcertante condanna di 25 imputati ritenuti colpevoli del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini. Il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini.
Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura pendono nuovi filoni d’indagine (su alcuni di questi vi sarebbe la richiesta di archiviazione), ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa (uno dei primi grossolani errori commessi dalla prima sentenza del Moro uno-bis, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver inquisito 50 persone, condannato 11 persone totalmente estranee al sequestro e altre coinvolte solo in parte, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Schizzo di Mario Moretti

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
Pubblicato su Questionegiustizia.it, 25 giugno 2025 col titolo «Il caso Moro. Per un’analisi delle sentenze (parte prima)»

Le indagini che si avviarono nel marzo ‘78, secondo un giudizio storico ormai consolidato, si svolsero all’insegna della più assoluta impreparazione. Nella capitale, forze di polizia e magistratura non possedevano alcuna conoscenza della struttura brigatista, del suo gruppo dirigente e del suo insediamento nel territorio urbano. Pur avendo tra le proprie mani le registrazioni di diverse telefonate fatte dai brigatisti durante il sequestro (tutti hanno in mente quella fatta da Mario Moretti, il 30 aprile, alla famiglia del prigioniero e quella del 9 maggio con la quale il dottor Nicolai, cioè Valerio Morucci, comunicava al prof. Franco Tritto che il cadavere di Moro si trovava in via Caetani), per lunghissimo tempo gli inquirenti non riuscirono a stabilire a quale volto appartenessero quelle voci ed attribuirono quelle telefonate, di volta in volta, a persone che, in realtà, non c’entravano nulla con il sequestro Moro [1]

Non avendo alcuna idea sulla composizione del nucleo che aveva agito in via Fani, gli investigatori romani controllarono la possibile presenza a Roma, sia il 16 marzo che il 9 maggio, di decine di aderenti o simpatizzanti di formazioni della sinistra extraparlamentare di varie città italiane («sospettabili di vicinanza alle BR»), accertamento che, ovviamente, non poteva produrre alcun risultato. 

Quanto al luogo di prigionia di Moro, solo nel 1985 gli inquirenti stabilirono, in maniera definitiva, che il presidente della Democrazia cristiana era sempre stato, per l’intera durata del rapimento, in un appartamento situato al primo piano di un edificio che si trovava in via Montalcini 8 [2].

Patrizio Peci aveva iniziato a collaborare nell’aprile ’80 e, nel gennaio ’81, il giudice istruttore romano Ernesto Cudillo fece un primo bilancio delle indagini. Dispose il rinvio a giudizio di molte persone ritenute responsabili della vicenda Moro, ma dovette anche emettere una sentenza con la quale riconoscere che diverse altre – colpite da mandati di cattura che contestavano il reato di partecipazione alla banda armata Brigate Rosse e quello di partecipazione ai fatti del 16 marzo e 9 maggio ’78 – erano estranee a quei fatti. Cudillo prosciolse dalle accuse principali Corrado Alunni, Maria Fiore Pizzi Ardizzone, Enrico Bianco, Giovanni Lugnini, lo stesso Patrizio Peci, Franco Pinna, Oriana Marchionni, Susanna Ronconi, Giustino De Vuono e Antonio Negri [3]

Peci, tuttavia, non aveva partecipato alla azione di via Fani e, nel ’78, non era ancora diventato responsabile della colonna torinese. Le sue informazioni sulla operazione Moro erano scarne ed imprecise, per lo più frutto di alcune notizie fornite da Raffaele Fiore. Negli anni successivi si aggiunsero altre testimonianze, ben più importanti, provenienti da brigatisti appartenenti alla colonna romana, perché solo i romani potevano raccontare quello che era realmente accaduto. Le informazioni di Antonio Savasta ed Emilia Libéra, ma, soprattutto, quelle di Valerio Morucci e Adriana Faranda (ciascuno sempre tenacemente geloso della definizione, dai confini in verità assai labili, che riservava per sé: Morucci e Faranda imputati dissociati, Savasta e Libéra collaboratori di giustizia) saranno i pilastri su cui i giudici scriveranno le sentenze emesse dalla Corte di Assise di Roma, negli anni ’80 e 90, al termine di ben cinque processi: Moro uno/bis, Moro ter, Moro quater, Moro quinquies e cd. processo Metropoli. 

Se la ossessiva tentazione di rincorrere zone d’ombra per svelare i presunti misteri del caso Moro rischia di trasformare in farsa una delle maggiori tragedie della nostra storia, come sostiene lo storico Marco Clementi [4], appare allora molto più utile fermarsi a valutare i documenti di quei processi per comprendere se, ormai giunti a quasi 50 anni dal 16 marzo ‘78, la verità giudiziaria resista, ed in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica. 

Dunque, valutare i fatti descritti nei provvedimenti giudiziari non per scovare vuoti narrativi da riempire con ipotesi alternative – come suggeriscono quelli che sostengono che ogni avvenimento di quella primavera è frutto di cospirazioni ordite da forze inafferrabili – ma per trovare soluzioni ad alcune domande in ordine alle quali le sentenze non sempre hanno fornito risposte convincenti.  

Quanti furono i brigatisti coinvolti, complessivamente, nella “operazione Fritz” [5]? Quanti sono stati individuati e processati? Manca ancora qualcuno all’appello? O, forse, il numero degli inquisiti e dei condannati, al contrario, è più che esaustivo ed anzi si rivela eccessivo rispetto alle reali forze messe in campo dalle Brigate Rosse nella primavera ‘78? 

Anzitutto, se aggiungiamo all’elenco dei condannati quello degli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata. 

Le sentenze dedicate al caso Moro, accanto ad ampi ed innegabili punti fermi di verità, non sempre ci offrono una immagine nitida delle responsabilità personali benché, alla fine, il processo penale, anche quando si occupa di attività delittuose commesse da organizzazioni, abbia il compito di accertare e sanzionare le condotte degli individui. 

Così, leggendo, in particolare, i provvedimenti giudiziari dei processi Moro uno/bis e Moro ter, per alcuni imputati scorgiamo distintamente luci ed ombre mentre per altri l’immagine è così sfocata da rendere indistinguibili i contorni della responsabilità.      

I fatti storici, cioè gli accadimenti che nei processi diventarono i reati principali contestati a tutti gli imputati (fa eccezione, per un solo aspetto, il processo Moro quinquies), furono sempre quattro: il plurimo, premeditato omicidio degli uomini della scorta (il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci e i poliziotti Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino); il sequestro a scopo di estorsione del presidente della Democrazia Cristiana, dal giorno del rapimento al 9 maggio; il tentato omicidio di Alessandro Marini, un cittadino romano che si trovava casualmente all’angolo tra via Stresa e Via Fani la mattina del 16 marzo e contro il quale venne esplosa una raffica di mitra; l’uccisione premeditata di Aldo Moro avvenuta il 9 maggio nella base di via Montalcini 8 [6]

Se è ampiamente provato, sul piano storico e nei processi, che il piano (annientamento della scorta e rapimento in via Fani) venne messo a punto nel corso di circa due mesi e che i delitti del 16 marzo sono chiaramente premeditati, non è invece scontato definire il perimetro all’interno del quale collocare l’omicidio del 9 maggio, un confine temporale necessario per individuare le responsabilità per un delitto certamente premeditato che, però, non prese avvio il giorno del sequestro. 

Sappiamo che le Brigate Rosse non intendevano, sin dall’inizio, sopprimere la vita del presidente democristiano. 

«Non c’era nulla di programmato rispetto alla sorte di Moro, quindi neanche il tempo della sua detenzione. Si prevedeva che, avendo aperto una complessa campagna politico-militare di cui Moro era il perno politico, i tempi sarebbero stati necessariamente lunghi. C’era anche un altro tipo di operazione a pari livello nel mondo economico…a Milano era già pronto il sequestro di Leopoldo Pirelli», ha raccontato Lauro Azzolini, componente del comitato esecutivo delle BR nel ‘77’/’78 [7]

Infatti, l’azione di via Fani fu costruita per rapire e processare il presidente della Democrazia Cristiana e la possibilità di liberazione del sequestrato, tra marzo ed aprile, fu sempre una opzione concreta e possibile, almeno sino ad un certo momento, opzione chiaramente ricercata ed auspicata dalle BR. Se il prigioniero fosse stato rilasciato a fine aprile in cambio della liberazione anche di una sola persona della lista che conteneva 13 nomi di detenuti o, quantomeno, del riconoscimento politico da parte della Democrazia Cristiana che, in Italia, esistevano prigionieri politici, le BR avrebbero ottenuto un innegabile successo. 

Questa fu la soluzione ricercata insistentemente, soprattutto per iniziativa di Mario Moretti, sino ai primi giorni di maggio, ma senza alcun esito. 

D’altronde, i brigatisti presenti in via Montalcini hanno sempre ricordato che il prigioniero ebbe rapporti con due sole persone (Moretti e Gallinari), che avevano sempre il volto coperto, e che Aldo Moro non si rese mai conto che, nell’appartamento, vivevano Anna Laura Braghetti e Germano Maccari. Queste scrupolose precauzioni furono adottate, appunto, per evitare che il sequestrato, tornato in libertà, potesse fornire informazioni sulla prigione del popolo. 

Sempre Lauro Azzolini ha sostenuto che le BR avevano deciso che, anche se la prigione di via Montalcini fosse stata accerchiata dalle forze di polizia, il prigioniero non doveva essere ucciso ed i brigatisti avrebbero dovuto avviare una trattativa: ottenere garanzie per la propria incolumità in cambio della salvezza del presidente della DC. 

La decisione di uccidere il prigioniero venne, quindi, adottata dal comitato esecutivo delle BR nel periodo successivo alla diffusione del comunicato n. 7 del 20 aprile («il rilascio del prigioniero Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione di prigionieri comunisti») e del comunicato n. 8 del 25 aprile con il quale si chiedeva la liberazione di 13 detenuti esattamente individuati, richiesta che non ottenne aperture nel mondo politico ed istituzionale e che indusse poi la organizzazione – soprattutto non avendo colto alcun segnale di possibile dialogo dopo la telefonata di Mario Moretti del 30 aprile – ad annunciare, nel comunicato n. 9 del 6 maggio, che le BR si apprestavano ad eseguire la sentenza cui il presidente della DC era stato condannato. Il periodo in cui matura la decisione di uccidere Aldo Moro è dunque, all’incirca, quello che va dagli ultimi giorni di aprile al 9 maggio. Nelle pagine che seguono è possibile comprendere perché questa precisazione, opportuna dal punto di vista storico, è utile anche sul piano giuridico.

Le sentenze dei giudici romani, tutte definitive da moltissimi anni, hanno stabilito che 31 persone sono responsabili per i reati della vicenda Moro. Ma se 27 imputati sono stati condannati sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, quattro brigatisti sono stati riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali.

In realtà, a contar bene, i condannati dovrebbero essere 32, ma si è determinata una situazione singolare perché la brigatista Rita Algranati, militante irregolare della colonna romana e componente del nucleo che portò a termine l’azione in via Fani, è stata assolta in via definitiva perché, quando venne processata, non era ancora emersa la sua presenza la mattina del 16 marzo né il ruolo che aveva svolto nella preparazione del sequestro.

Per valutare le sentenze non possiamo non partire dalla storia, quella che avviene ben prima che comincino i processi. Dobbiamo tornare al 1977.   

Hanno già studiato alcuni sui movimenti un anno prima, in una sorta di pre-inchiesta, ma, solo alla fine della estate ’77, le Brigate Rosse, scartate definitivamente le iniziali opzioni Giulio Andreotti e Amintore Fanfani, decidono di avviare la complessa operazione che, alcuni mesi dopo, conduce al sequestro di Aldo Moro. Mario Moretti, il membro più autorevole del Comitato esecutivo (formato anche da Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini), negli ultimi giorni di settembre/primi giorni di ottobre, incontra la Direzione della colonna romana (composta da Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Prospero Gallinari, Valerio Morucci e Adriana Faranda) in un villino a Velletri, da poco adibito a base del gruppo dirigente brigatista della capitale. Moretti comunica che l’attacco alla Democrazia cristiana avverrà al più alto livello politico possibile, mediante il sequestro del suo Presidente, ed affida alla dirigenza della colonna la elaborazione del piano: osservare i movimenti di Moro e della scorta, scegliere il luogo in cui sequestrarlo e studiare con scrupolo anche il non meno importante percorso al termine del quale il rapito dovrà arrivare nella prigione del popolo. L’unico compito che non viene affidato alla colonna romana è quello della individuazione della abitazione in cui il rapito sarà tenuto prigioniero, aspetto di cui si occuperà personalmente Mario Moretti. 

Le Brigate Rosse romane hanno assunto una completa fisionomia solo nel corso del ‘77, grazie all’iniziale dinamismo di Moretti e dei milanesi Bonisoli e Carla Brioschi, tutti giunti nella capitale, tra fine del ’75 e gli inizi del ’76, per creare una struttura della organizzazione nella città al di fuori della quale è impensabile portare l’attacco al cuore dello stato, cioè, nella visione delle BR, al partito-regime che con lo stato si identifica, la Democrazia Cristiana. Il reclutamento a Roma è stato notevole e nelle BR sono entrati molti giovani con esperienze di lavoro illegale e di azioni armate maturate in altre formazioni della multiforme galassia della sinistra estrema. 

L’obiettivo della azione che prende forma a Velletri è un esponente politico e, quindi, secondo le regole della organizzazione, lo studio del piano richiede il coinvolgimento dei brigatisti che integrano il settore romano della lotta alla controrivoluzione: con Gallinari e Faranda ne fanno parte anche i militanti irregolari Rita Algranati, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri e Raimondo Etro. 

Le BR devono reperire una abitazione sicura che sarà destinata a luogo di prigionia di Moro. Serve, quindi, un prestanome che non attiri sospetti e che non sia conosciuto dalle forze di polizia. Bruno Seghetti presenta a Moretti la sua compagna, Anna Laura Braghetti, che accetta la proposta del dirigente BR di acquistare un appartamento che – questo solo comunica Moretti alla Braghetti – sarà utilizzato per una importante azione delle BR. La donna deve trovarlo nella zona dei Colli Portuensi e, quindi, nel giugno ’77, acquista un appartamento situato al primo piano di un condominio di via Montalcini 8 per una somma di 45 milioni di lire in contanti, denaro proveniente dal sequestro Costa. L’edificio si trova in un quartiere di media borghesia e, ad agosto ’77, Braghetti inizia ad abitare l’appartamento ed a socializzare con gli altri condomini. Quello che presenta come marito, l’ingegnere Luigi Altobelli, è in realtà Germano Maccari, anche lui da poco reclutato nella colonna romana. Braghetti e Maccari non devono svolgere nessun compito particolare, se non quello di abitare la casa ove Moro sarà tenuto prigioniero. Se non è conosciuta dalle forze di polizia, nemmeno i brigatisti romani (con la eccezione di alcuni militanti dell’area Centocelle-Torre Spaccata) conoscono Anna Laura Braghetti e, certamente, non sanno che lei è la proprietaria dell’appartamento che sarà la prigione di Moro.

Pur consapevole che Braghetti è la prestanome scelta dalla organizzazione, anche Bruno Seghetti ignora dove si trovi la abitazione acquistata dalla sua compagna.   

Nella preparazione della “operazione Fritz” le Brigate Rosse mettono in pratica un doppio livello di compartimentazione. Anzitutto, nessun brigatista diverso da quelli che pianificano ed attueranno il piano militare deve sapere cosa avverrà il 16 marzo. Il secondo livello prevede che l’abitazione che diventerà prigione del popolo sia sconosciuta anche ai brigatisti che sequestreranno Moro, fatta eccezione per Moretti e Gallinari. 

Le BR hanno anche un piano di riserva pronto a scattare in caso di emergenza. Se, il giorno scelto per la operazione, le cose si metteranno male (ad esempio, con la uccisione o il ferimento di Moretti e Gallinari), Seghetti cercherà la Braghetti presso il luogo di lavoro della donna ed Aldo Moro, provvisoriamente collocato nella base di via Chiabrera 74, sarà poi subito trasportato a via Montalcini [8].      

Mentre la Braghetti cerca la casa ai Colli Portuensi, si dipanano altre due vicende che con la storia del sequestro, in realtà, non c’entrano nulla, ma che si intrecceranno a questa, a partire da maggio, nel corso delle indagini e del processo. 

Enrico Triaca, divenuto militante irregolare brigatista nel ’76, fitta un locale su indicazione di Mario Moretti e, nel marzo ’77, apre una tipografia in via Pio Foà 31 che servirà per la stampa del materiale della organizzazione [9]. In questo compito lo aiuta Antonio Marini, altro militante irregolare. 

La compagna di Marini, Gabriella Mariani, nel luglio ’77, sempre per incarico di Moretti, acquista, con i soldi del sequestro Costa, una abitazione in via Palombini 19 nella quale vive insieme al compagno. L’appartamento costituisce la base di quello che le BR immaginano possa diventare, nel tempo, un robusto settore della stampa e propaganda.           

I componenti della direzione di colonna studiano i movimenti di Moro e verificano che, spesso, la mattina, si ferma nella chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici [10]. In quel momento, le BR ritengono ancora di poter realizzare il sequestro senza uccidere gli uomini della scorta, ma la scelta del rapimento all’interno della chiesa non solo comporta il rischio altissimo del conflitto a fuoco, ma anche quello del coinvolgimento di estranei perché nelle vicinanze esiste una scuola elementare. Circa due mesi prima del 16 marzo, Bruno Seghetti incarica Antonio Savasta, componente della brigata Università, di osservare i movimenti di Moro quando si reca nella facoltà di Scienze Politiche nella quale insegna «Istituzioni di diritto e procedura penale». Tuttavia, la facoltà non è un luogo adatto per una azione armata. Savasta comunica la sua valutazione negativa a Seghetti che, però, decide di compiere personalmente una ulteriore perlustrazione. Poi si arrende alla evidenza. Savasta ha ragione. 

Dopo ulteriori ricognizioni (le svolgono sul campo i dirigenti della colonna), si decide che il rapimento avverrà nella zona di Roma nord, lungo il percorso che Aldo Moro compie abitualmente partendo dalla sua abitazione di via Forte Trionfale. All’angolo tra via Fani e via Stresa, un’auto guidata da Moretti bloccherà la marcia dei due veicoli sui quali viaggiano Moro e gli uomini della scorta. Dopo aver ucciso i poliziotti e i carabinieri, il Presidente della DC sarà condotto a via Montalcini. 

Anche il piano di fuga viene meticolosamente studiato dalla colonna romana, in particolare da Morucci e Seghetti. I brigatisti devono sequestrare un Moro incolume e condurlo sino alla prigione del popolo per processarlo. Un percorso di circa 12 km., dalla Balduina a Roma sud-ovest. E’, quindi, necessario pianificare un tragitto che garantisca le migliori probabilità di successo. Per realizzare l’obiettivo, i brigatisti devono mimetizzarsi durante la fuga, evitando le arterie principali e scegliendo strade secondarie, anche private, per non incrociare auto delle forze di polizia che accorreranno in massa nella zona del sequestro. Inoltre, la mimetizzazione attuata attraverso il cambio dei veicoli, collocati in precedenza lungo il percorso di fuga, serve ad evitare che possibili testimoni possano segnalare il tragitto alle forze di polizia e condurle alla zona ove si trova la prigione del popolo. 

A febbraio, quando la Direzione strategica si riunisce nel villino di Velletri, il piano è stato definito ed è già stato deciso che l’azione avverrà a via Fani. Infatti, i membri della dirigenza nazionale, come ricorda Adriana Faranda che a quella riunione partecipa, discutono, in termini politici, della campagna di primavera ed approvano la risoluzione che sarà poi divulgata nel corso del sequestro. Ma, in quell’incontro, non si discute di ciò che avverrà solo un mese dopo [11].

Alla vigilia della operazione, le brigate della colonna romana (Torre Spaccata, Centocelle, Università, Servizi e Primavalle) ricevono l’indicazione di rubare alcuni modelli di macchine e furgoni. Saranno i mezzi da utilizzare nella azione di via Fani e lungo il percorso della fuga. Alla fine, la maggior parte dei veicoli viene rubata da Seghetti e da altri brigatisti in un megaparcheggio situato sul lungotevere, dietro il mausoleo di Augusto.

L’operazione politico-militare più importante nella storia delle Brigate Rosse sarà portata a termine da Mario Moretti e dai componenti della colonna romana ai quali si affiancheranno Raffaele Fiore, responsabile della colonna torinese, e il milanese Franco Bonisoli, membro del comitato esecutivo. A poche ore dalla operazione che sta per iniziare, il piano che conduce al sequestro di Aldo Moro è conosciuto solo dai componenti del comitato esecutivo e della direzione della colonna romana, dai tre militanti irregolari romani che si troveranno in via Fani, da Raffaele Fiore, dalla coppia Braghetti-Maccari che attende l’arrivo del prigioniero a via Montalcini e, probabilmente, da Raimondo Etro, che sosterrà, molti anni dopo, di aver saputo della operazione da Alessio Casimirri, il 14 marzo. 

In tutto, quindici/sedici persone. Nessun altro brigatista, membro delle strutture nazionali della organizzazione o componente delle brigate romane, conosce in anticipo quello che sta per accadere. 

La mattina del 16 marzo ’78, l’azione militare a via Fani viene portata a termine da 10 persone che svolgono compiti diversi: Rita Algranati, Mario Moretti, Bruno Seghetti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Franco Bonisoli, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Alessio Casimirri ed Alvaro Lojacono. Uccisi gli uomini della scorta e caricato Moro sulla 132 guidata da Seghetti, il convoglio brigatista attraversa la città. Nel parcheggio sotterraneo della Standa in via Isacco Newton, la cassa in cui è nascosto il prigioniero viene presa in consegna da Moretti e Maccari che conducono, infine, il rapito nella abitazione ai Colli Portuensi, ove resterà sino alla mattina del 9 maggio. Solo Moretti, Maccari, Braghetti e Gallinari conoscono la prigione del popolo. 

Durante i giorni del sequestro, il compito di recapitare i comunicati e le lettere di Moro è affidato esclusivamente alla coppia Morucci-Faranda, che vive nella base di via Chiabrera 74 (i brigatisti romani che la conoscono la chiamano “l’ufficio”), e a Bruno Seghetti. 

Ricevono i documenti dalle mani di Mario Moretti che ha il compito di interrogare il sequestrato e di tenere i rapporti con gli altri membri del comitato esecutivo che incontra, in una prima fase, a Firenze e, poi, in un secondo momento, in una base a Rapallo. Morucci e Seghetti sono i brigatisti che, usando cabine pubbliche, telefonano alle redazioni dei giornali, alle radio libere e alle agenzie di stampa per far trovare i comunicati oppure comunicano con i familiari o con alcuni amici intimi del prigioniero. 

Il 1° marzo ’78, Bruno Seghetti ruba un’auto Renault 4 amaranto nella zona di Piazza Cavour. In quel momento, il veicolo è solo uno dei molti mezzi nella disponibilità della colonna romana, tanto da essere utilizzato, il 19 aprile, per compiere un attentato alla caserma Talamo che ospita l’VIII Battaglione Carabinieri in via Ponte Salaria e che, qualche volta, viene utilizzata come base di lavoro dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa quando si trova nella capitale.

Il 3 aprile ’78, una gigantesca “retata” rischia di cambiare il corso del sequestro. La Questura di Roma stila un lunghissimo elenco di perquisizioni da compiere nelle abitazioni di ex militanti di Potere operaio e di persone che gravitano nell’area della Autonomia. Alcuni nomi risultano da un vecchio controllo, che risale al ’75, di giovani presenti ad una riunione che si era svolta a via dei Volsci. I carabinieri della Compagnia San Pietro suonano al campanello della abitazione dei genitori di Alessio Casimirri a via Germanico 42 ed il padre, Luciano, li conduce nell’appartamento di via del Cenacolo 56 dove il figlio vive con Rita Algranati. La perquisizione non ha un esito positivo, ma l’organizzazione, per sicurezza, “congela” i due membri del fronte di lotta alla controrivoluzione. Nella stessa giornata, i poliziotti si presentano nella abitazione ove è residente Bruno Seghetti, nel quartiere Centocelle. Seghetti, militante regolare legale, vive, però, da un’altra parte, in un minuscolo appartamento della organizzazione situato a Borgo Pio, lo stesso dal quale, la mattina del 16 marzo, lui e Raffaele Fiore sono usciti per recarsi a via Fani. Se la polizia deciderà di continuare ad indagare sul suo conto, esiste il pericolo che gli inquirenti estendano le investigazioni alla compagna di Seghetti, Anna Laura Braghetti, ed arrivino a via Montalcini. Per questa ragione, il brigatista compie una mossa inaspettata e si presenta spontaneamente negli uffici della polizia poiché lui non ha nulla da nascondere e vuole sapere perché lo stanno cercando. La visita produce gli effetti sperati ed i poliziotti, a partire da quel momento, si disinteressano di Seghetti. Tuttavia, il brigatista è costretto a smantellare ed abbandonare la base di Borgo Vittorio 5 [12]

Il 18 aprile, nello stesso giorno nel quale viene diffuso il falso comunicato sul corpo di Moro che si trova nel lago della Duchessa, viene scoperta la base di via Gradoli 96, abitata da Barbara Balzerani e, solo saltuariamente durante il sequestro, da Mario Moretti. La individuazione della base (contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, l’appartamento non è mai stato «la centrale operativa del sequestro Moro»), tuttavia, non può imprimere una svolta alle indagini finalizzate a trovare la prigione del popolo.

Circa dieci giorni prima dell’epilogo della vicenda, Seghetti affida la Renault 4 ad Antonio Savasta che ha il compito di “gestirla”. Poi Seghetti chiede di avere indietro l’auto nel cui bagagliaio, la mattina del 9 maggio, all’interno del box di via Montalcini, Moro viene ucciso da Mario Moretti, che ha al suo fianco Germano Maccari. Moretti e Maccari partono dai Colli Portuensi e, a piazza Monte Savello, vengono agganciati da Seghetti e Morucci insieme ai quali si recano in via Caetani ove l’auto, con dentro il corpo di Moro, viene abbandonata. Valerio Morucci telefona a Franco Tritto, assistente del presidente DC nella facoltà universitaria, per comunicargli il posto esatto ove ritrovare il corpo del presidente della DC. 

Il 17 maggio ‘78, la Polizia scopre la tipografia di via Pio Foà. Dopo essere stato torturato, Enrico Triaca conduce i poliziotti alla base di via Palombini in cui vengono arrestati Antonio Marini e Gabriella Mariani [13]

Anche Teodoro Spadaccini, membro della brigata Università, viene catturato. 

Anna Laura Braghetti, che diventa militante regolare e passa alla clandestinità nell’estate/autunno del 1978, viene arrestata il 27 maggio 1980, ma trascorre ancora molto tempo prima che si scopra il ruolo ricoperto dalla donna nel sequestro. Ancor più tempo occorre per scoprire chi si nasconda dietro il nome Luigi Altobelli. Negli anni ’90, la identificazione di Germano Maccari e la sua confessione chiudono la lunga fase della indagine sui responsabili della vicenda Moro [14].

Quando inizia il processo di primo grado nel 1982, molti responsabili dei fatti di via Fani (Moretti, Seghetti, Gallinari, Fiore, Bonisoli, Azzolini, Micaletto) sono già stati arrestati. Solo alcuni, come Barbara Balzerani, sono in fuga. Su altri (Algranati, Casimirri, Lojacono, Maccari, Etro) non esiste ancora alcun sospetto.

Anche gli accusatori si trovano in carcere.

Morucci e Faranda, dopo aver abbandonato le BR ed aver portato via armi e denaro della organizzazione, sono stati arrestati a Roma il 29 maggio ’79.

Savasta e Libéra, divenuti militanti della nuova formazione Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente, vengono catturati a Padova, il 28 gennaio ’82, mentre, nella città veneta, è in corso il sequestro del generale statunitense James Lee Dozier. Torturati, con altri brigatisti, nelle stanze del reparto celere di Padova, decidono subito di collaborare [15]

Il patrimonio di conoscenze dei giudici del processo Moro uno/bis di primo grado, fondato essenzialmente sulle informazioni fornite da Peci, Savasta e Libéra, è ancora incompleto ed approssimativo e la sentenza ritiene che siano stati provati alcuni fatti, narrati dai collaboratori, che saranno, in seguito, seccamente smentiti da altre risultanze processuali ben più solide.

Ad esempio, illustrando la posizione di Lauro Azzolini, i magistrati scrivono che «Patrizio Peci e Antonio Savasta hanno inchiodato in maniera definitiva il prevenuto alle sue responsabilità sostenendo che costui…fu tra i componenti del commando che il 16 marzo 1978 portò a termine l’eccidio degli agenti di scorta ed il sequestro del parlamentare secondo un piano prefissato». Il processo di appello smentirà questa ricostruzione ed Azzolini, che non si trovava a via Fani, sarà condannato per la vicenda Moro solo in quanto membro del comitato esecutivo. 

Un’altra informazione completamente errata riguarda Faranda che «prese parte di persona alla tragica azione, seguendo i suoi complici sulla Fiat 128 con targa diplomatica che provocò il tamponamento con le vetture dell’On Aldo Moro e con l’Alfetta della Polizia» e Morucci che «secondo i pentiti, scese con Prospero Gallinari dalla Fiat 128 con targa diplomatica, si avvicinò all’autovettura del parlamentare e aprì il fuoco su Ricci Domenico e Oreste Leonardi». 

Saranno proprio i due protagonisti del racconto a chiarire che sulla Fiat 128 che si arrestò all’incrocio tra via Fani e via Stresa c’era solo Mario Moretti e che il brigatista non sparò durante l’azione; che Morucci, vestito da pilota Alitalia, non era sull’auto con Moretti, ma – con Gallinari, Bonisoli e Fiore – si trovava davanti al bar Olivetti e, soprattutto, che Adriana Faranda, la mattina del 16 marzo, si trovava nella base di via Chiabrera 74, in attesa della fine della operazione e del ritorno di Valerio Morucci.

Anche il professore Enrico Fenzi, dissociatosi dalle attività della colonna genovese, contribuì a creare un meccanismo di alterazione dei fatti storici perché, così testualmente si legge nella sentenza di primo grado, «ha attribuito al Nicolotti un ruolo ben più consistente, affermando senza mezzi termini, sulla base delle sue dirette cognizioni, che costui, unitamente a Riccardo Dura, fu inserito nel commando che il 16 marzo 1978 si parò in armi dinanzi alle autovetture su cui viaggiavano il presidente della Democrazia cristiana e gli uomini della scorta». In realtà, le “dirette cognizioni” di Fenzi non erano fondate sulla conoscenza degli avvenimenti perché, come riconoscerà lui stesso, si limitava a formulare delle ipotesi. Infatti, nessun militante della colonna genovese prese parte alla “operazione Fritz” ed i giudici del processo d’appello, dopo aver ascoltato il più credibile racconto di Morucci e Faranda, presero le distanze dai colleghi del primo grado condannando Nicolotti, ma non perché fosse presente a via Fani [16].

La sentenza di appello corresse, dunque, diverse informazioni errate, ma confermò le condanne inflitte in primo grado. Al termine dei tre gradi di giudizio, nel 1985, i brigatisti condannati in via definitiva furono 23: Mario Moretti, Prospero Gallinari, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Rocco Micaletto, Raffaele Fiore, Luca Nicolotti, Cristoforo Piancone, Anna Laura Braghetti, Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Adriana Faranda, Valerio Morucci, Gabriella Mariani, Antonio Marini, Teodoro Spadaccini, Enrico Triaca, Francesco Piccioni, Antonio Savasta, Giulio Cacciotti, Emilia Libéra, Caterina Piunti e Massimo Cianfanelli. 

I giudici ritennero che i delitti di via Fani e via Montalcini fossero addebitabili non solo ai componenti del Comitato Esecutivo e della direzione della colonna romana, ma anche ai membri dei fronti nazionali della organizzazione, in particolare il fronte della lotta alla controrivoluzione, nonché ai militanti della colonna romana che avevano svolto funzioni di organizzazione importanti per la vita e il funzionamento della colonna oppure erano stati impegnati nella attività di propaganda durante il sequestro. 

(continua)

Nella foto lo schizzo della azione di via Fani disegnato da Mario Moretti e consegnato dallo storico Marco Clementi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nella audizione del 17 giugno 2015  

Note

[1] Prima che saltasse fuori che la voce era di Mario Moretti, la magistratura ritenne che l’autore della telefonata del 30 aprile ’78 alla famiglia Moro fosse il professor Toni Negri. Addirittura, per quella del 9 maggio ’78 al professor Franco Tritto, fatta da Valerio Morucci, la responsabilità ricadde sul giornalista veneto Giuseppe Nicotri, arrestato nell’ambito della cd. indagine 7 aprile e poi scarcerato dalla magistratura romana il 7 luglio ’79 e scagionato dalle accuse.   

[2] Quando il ruolo di Anna Laura Braghetti nella vicenda Moro era stato già quasi ampiamente disvelato, il 17 giugno 1985, i giudici istruttori romani Rosario Priore e Ferdinando Imposimato, con la presenza degli ex brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, ispezionarono l’appartamento. Morucci fece notare che, sul pavimento in parquet, esisteva una lunga striscia di colore più scuro rispetto a quello del legno residuo. Morucci non era mai stato prima in questa abitazione, ma riteneva che potesse trattarsi del luogo in cui era stato custodito Moro perché in quella stanza poteva essere stata ricavata una prigione larga m. 1,15 circa e lunga m. 4 circa, senza finestre. Inoltre, sosteneva Morucci, la costruzione di questa prigione non avrebbe comportato la eliminazione di un vano, cosa che invece sarebbe accaduta nella stanza attigua.

[3] v. Sentenza-Ordinanza del giudice istruttore Ernesto Cudillo del 15 gennaio 1981.     

[4] v. l’articolo a firma Marco Clementi Il rapimento di Aldo Moro è l’ossessione degli storici da bar sul quotidiano domani del 15 marzo 2024.

[5] Il nome scelto dai brigatisti per definire l’operazione di via Fani, “operazione Fritz”, è frutto della storpiatura della parola “frezza” che stava ad indicare il ciuffo di capelli bianchi presente sulla testa di Aldo Moro

[6] Quando avvennero i fatti di via Fani, il 16 marzo 1978, il codice penale contemplava una sola norma applicabile alla vicenda concreta, cioè al rapimento di Aldo Moro: il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione previsto dall’art. 630 c.p., come modificato dalla legge 14 ottobre 1974 n. 497. La norma puniva il responsabile del reato con una pena massima di 25 anni di reclusione e, soprattutto, non prevedeva l’ipotesi che, durante il sequestro, avvenisse la morte del rapito, fatto questo che continuava ad essere punito dalla norma del codice penale sull’omicidio volontario (art. 575 c.p.). Pochi giorni i fatti di via Fani, il 21 marzo 1978, venne emanato il decreto-legge n. 59 (poi convertito, con modificazioni, nella L. 18 maggio 1978 n. 191) che modificava l’art. 630 Codice penale prevedendo, anzitutto, un aumento della pena sino a 30 anni di reclusione, e, soprattutto, l’ipotesi che, dal sequestro, derivasse la morte del rapito, quale conseguenza non voluta (anni 30 di reclusione) o voluta dal colpevole (ergastolo). Inoltre, con lo stesso decreto-legge, si introduceva nell’ordinamento il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289 bis Codice penale) punito con le stesse pene previste per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione. 

[7] Interrogatorio sostenuto da Lauro Azzolini, il 14 aprile 1987, innanzi alla Corte di Assise di Roma, Pres. Santiapichi, nel corso del cd. processo Metropoli.

[8] L’appartamento di via Chiabrera venne preso in fitto, nel settembre ’76, da Valerio Morucci che usava una falsa identità. Abitato in vari periodi, anche nel marzo ’78, da Morucci e Faranda, venne utilizzato come sede della direzione della colonna romana che, durante i giorni del sequestro Moro, vi svolse alcune riunioni. Nell’appartamento vennero ciclostilati tutti i comunicati diffusi durante il sequestro. La base di via Chiabrera venne abbandonata dopo la conclusione del sequestro Moro.    

[9] La prima tipografia delle BR a Roma era stata avviata da Stefano Ceriani Sebregondi e da Enrico Triaca, nel maggio ’76, in via Renato Fucini n. 2-4, all’interno di un locale preso in fitto da Sebregondi. In seguito, le BR decisero di trasferire la tipografia in un luogo, cioè via Pio Foà, più vicino alla base di via Palombini. Alcuni macchinari che esistevano in via Fucini (un bromografo e una stampatrice A.B. Dik) vennero rinvenuti e sequestrati nella tipografia gestita da Triaca e Marini.  

[10] Era stato Franco Bonisoli, nel ’76, quando abitava nella base di via Gradoli 96 (l’appartamento era stato preso in fitto, nel dicembre ’75, da Mario Moretti che usava il falso nome Mario Borghi), ad accorgersi, mentre rientrava a casa, che una scorta era posizionata davanti la chiesa. Si era avvicinato ed aveva visto che si trattava della scorta di Moro. 

[11] Secondo Bonisoli, che fornisce una ricostruzione dei fatti analoga a quelle della Faranda e di Azzolini, «Nella Direzione strategica del febbraio 1978 non si discusse dell’obiettivo della azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro. Si parlò dell’attacco che doveva avere al suo centro al Democrazia cristiana». La risoluzione della Direzione strategica del febbraio 78 venne diffusa durante il sequestro Moro insieme al comunicato n. 4 del 4 aprile ’78.

[12] La monocamera di Borgo Vittorio 5 era stata presa in fitto da Bruno Seghetti nel settembre ’77.

[13] Sulla vicenda giudiziaria di Enrico Triaca e sul processo di revisione della sentenza di condanna per il reato di calunnia v. dell’autore l’articolo I tormenti e la calunnia”, pubblicato in http://www.questionegiustizia.it il 12 luglio 2023.

[14] Nella sterminata “letteratura” sul caso Moro, si distinguono, sia per l’esplicito rigetto delle suggestioni dietrologiche che per il rigore metodologico nella indagine storica, alcune opere: Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Edizioni Odradek, 2007; Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, DeriveApprodi, 2017; Marco Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli 2006; Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Rubettino, 20026; V. Satta, Odissea nel caso Moro, Edup, 2003; Nicola Lofoco, Il caso Moro. Misteri e segreti svelati, Gelsorosso, 2015; Nicola Lofoco, Le alterazioni del caso Moro, Les Flaneur Edizioni, 2017; Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, Tra le righe libri, 2015.

[15] Sulle indagini avviate dopo il sequestro Dozier e sull’uso diffuso della tortura nei confronti dei sospettati e degli arrestati nel periodo 1982/1983, v. dell’autore gli articoli Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Il sequestro Dozier ed altre storie, pubblicato su http://www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024, e I cani d’Albania, pubblicato su http://www.questionegiustizia.it, 23 luglio 2024. 

[16] Enrico Fenzi, nel febbraio ‘85, scrisse una lettera ai giudici del processo d’appello Moro uno/bis. Il professore genovese precisava, quanto a Micaletto, Nicolotti e Dura da lui accusati nel processo di primo grado, che questa indicazione non aveva «alcun valore oggettivo» in quanto lui non sapeva «nulla sul numero dei brigatisti presenti sulla scena della azione» e che, alla domanda che gli aveva rivolto il Presidente Santiapichi, lui aveva risposto che «tra coloro che avevo conosciuto a Genova, avrebbero potuto esserci, per quanto sapevo del loro ruolo e della loro determinazione ad operare, appunto Micaletto, Nicolotti e Dura». In sintesi, Fenzi non sapeva nulla della operazione Moro ed aveva solo ipotizzato la presenza di brigatisti genovesi a via Fani.

In ricordo di Otello Conisti: l’ironia contro le carceri e le leggi speciali

E’ scomparso Otello Conisti, imputato al processo Moro bis per appartenenza all’Mpro (un’area militante collaterale alle Brigate rosse). Venne condannato nel 1985 a 15 anni di reclusione. I funerali si sono tenuti stamani presso il tempietto egizio (dove si svolgono le funzioni civili per i non credenti) del cimitero romano del Verano

di Sandro Padula

Le gabbie dei prigionieri – aula bunker di Rebibbia, Roma

Martedì 11 settembre 2012. A Roma un sole caldo illumina il Verano e le sue mura costeggianti un bel tratto della via Tiburtina. Degli amici raggiungono il cuore del cimitero senza prendere il bus elettrico. Li sento col cellulare. Non mi posso muovere dal posto di lavoro. Le regole sono regole. E un semilibero non può andare ad un funerale senza averne l’autorizzazione. Ho saputo qualcosa nel tardo pomeriggio di ieri. Una telefonata, parole rapide a zig zag, carceri come Rebibbia Nuovo Complesso e Bellizzi Irpino, il solito cancro, aveva lavorato con “Sensibili alle foglie” e rivedo l’immagine sorridente del roscio Otello Conisti, un mio coimputato. Quando potevo chiedere di partecipare alla commemorazione? Stamattina? Nel migliore dei casi mi avrebbero risposto dopo questa giornata.
E così,  pur essendo lontano dalla Sala del Tempietto egizio, laddove stamattina si svolge la cerimonia in modo laico,  immagino la scena. Molte persone attorno alla bara, poltroncine foderate di velluto, qualcuno proferisce parole semplici ma sentite, alcuni si riabbracciano per la prima volta dopo gli anni ’80 trascorsi nelle patrie galere, altri portano delle corone di fiori. Una piccola comunità reale, frantumata dai mille travagli della vita e della storia, sembra ricomporsi col ritmo solenne di un classico brano jazz. Risorge dopo lunghi tempi di frenetica monotonia. Usa linguaggi verbali e non verbali come strumenti dei ricordi.
Chi era Otello?  Sfoglio un vecchio decreto di citazione per il processo Moro bis: Conisti Otello, nato a Poggio Fidoni 11.3.1958, detenuto Casa Circondariale Rebibbia N.C.
Arrestato nel maggio del 1980 a Roma, città in cui viveva da tempo, era accusato di far parte del Movimento Proletario di Resistenza Offensivo, cioè di un’area di simpatizzanti delle Br.
Il 21 giugno 1982, nel corso del processo Moro bis in Corte d’assise, fa prima «sapere che chi lo ha inserito nel nuovo gruppo di “dissociati” ha preso un abbaglio» e poi dice «al presidente Santiapichi di revocare il mandato al difensore e di non voler rispondere ad alcuna domanda» (La Stampa, 22.06.1982).
Dopo il mio arresto, avvenuto nel novembre 1982, lo conobbi. C’era la fase finale del processo Moro bis e Otello lo ricordo con la faccia simpatica, un paio di jeans, un maglione color arancio e uno zuccotto di lana in testa quasi per anticipare di un ventennio l’estetica del cantante Manu Chao.
Non aveva reati di sangue o per specifiche azioni armate ma il Pubblico Ministero Nicolò Amato chiese 18 anni di galera, una condanna quasi uguale a quella prospettata per i “pentiti” pluriomicidi. Due pesi e due misure.
In seguito la pena gli fu ridotta ma trascorse in carcere il decennio successivo all’arresto.
Superò quell’esperienza con la forza dell’ironia, del ragionamento e della volontà di costruire una nuova e dignitosa prospettiva di vita.
Com’era di carattere? È semplice dirlo: gioviale, scanzonato, arguto in stile romanesco. Gli piaceva giocare col dialetto pur non essendo romano de Roma.
Mai aggressivo verso gli altri, sempre disposto al dialogo ma fermo nei valori della solidarietà contro le oppressioni, nella critica alle leggi premiali, nell’assunzione delle proprie responsabilità e quindi nel rifiutare una rapida libertà mandando in galera altre persone o facendosi attrarre dalla logica dell’abiura denominata “dissociazione”.
In un quadro di mestizia aveva la capacità di fare battute ironiche e produrre il buon umore anche ai più depressi. Nel carcere di Bellizzi Irpino, dove fu catapultato a metà degli anni ’80, diceva ad esempio e in modo salomonico: “Qui non si soffre come cani ma come cinque canili”.
I gradi di sofferenza nelle carceri erano da lui paragonati al numero dei canili.
Aveva ragione. Ogni carcere è simile ad una specifica quantità di canili. Di vario grado e affollamento.
Mentre scrivo queste cose a mo’ di diario, tanto per mantenere per sempre il ricordo di Otello, un amico mi telefona: «c’erano molte persone. Ho rivisto alcuni che lavoravano e altri che ancora lavorano con “Sensibili alle foglie”. Parecchi ex compagni di carcere. La moglie Mara, colleghi di lavoro di quest’ultima, e la figlia Egle di 21 anni. Sembrava che il sole di oggi volesse asciugare le lacrime e donare un sorriso a tutti».