Proteste nelle carceri: amnistia subito e abolizione delle leggi che fabbricano detenzione

La legge Martelli sull’immigrazione (1991), la Bossi-Fini (2002), la ex Cirielli (2005), la Fini-Giovanardi (2006)  e il pacchetto Maroni (2009), hanno portato la popolazione detenuta dalle 29 mila unità del 1990 alle 64 mila di oggi.
Quando la Francia della terza repubblica progettava il suo nuovo sistema penitenziario, il padre della sociologia Émile Durkheim dava consigli affinché le condizioni di vita del detenuto non si allontanassero molto dalla durezza spartana della vita di strada condotta da un normale clochard. È passato molto più di un secolo da allora, ma la mentalità dei burocrati dell’amministrazione penitenziaria non è molto cambiata

Paolo Persichetti
Liberazione 21 agosto 2009

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Anche il carcere romano di Regina Coeli si è unito ieri alle proteste degli altri detenuti che stanno agitando diversi istituti di pena in questo torrido agosto. Una battitura delle sbarre è partita in mattinata. Notte agitata, invece, nel carcere femminile di Rebibbia, sempre a Roma, dove le detenute a causa del gran caldo hanno chiesto, e finalmente ottenuto, l’apertura delle celle dalla mattina alla sera, e così anche l’accesso alle docce. Le proteste di questi giorni non sono una novità. Seppur coperte dal silenzio quasi totale dei media, nello scorso luglio una prima ondata di mobilitazioni aveva traversato decine di istituti penitenziari. Lanciano (7 giorni di battitura delle inferriate), Napoli Secondigliano, Reggio Emilia, Rebibbia reclusione, Rebibbia femminile, Genova-Marassi, Como, Ascoli Piacenza, Saluzzo, Catania, Palermo, Pisa, Verona e Venezia, solo per citarne alcuni. Allora si trattava d’iniziative concertate, con battiture delle sbarre e lo stato d’agitazione generale programmato per alcuni giorni, per poi proseguire altrove come in una sorta d’ideale staffetta. Alcuni episodi isolati, ma importanti, avevano preannunciato questo ciclo di lotte. Il 19 aprile, a Trapani, una due giorni di battiture era trascesa in incidenti tra detenuti, in prevalenza tunisini, e agenti di custodia. A Poggioreale, invece, la protesta era scattata il 3 giugno.
Queste mobilitazioni hanno tutte in comune repertori d’azione e rivendicazioni. Alla base delle iniziative di protesta c’è sempre la richiesta di migliori condizioni materiali di vita. A Poggioreale, per esempio, si chiedeva l’abbassamento a non più di quattro del numero di detenuti in ogni cella e l’aumento delle ore d’aria, che in questo istituto a causa dell’eccezionale sovraffollamento (al momento delle proteste il numero raggiungeva le 2500 persone) è tradizionalmente ridotto ai minimi termini. Le altre richieste riguardavano l’accesso alle docce, che in estate diventa un problema d’igiene drammatico. Se a Poggioreale è possibile solo due volte a settimana, nella stragrande maggioranza degli istituti di pena è precluso la domenica. Nell’Italia rurale e contadina di un tempo, la domenica oltre ad essere il giorno del Signore era anche quello del bagno. Nelle carceri, invece, è il giorno in cui per regolamento non ci si lava. Inutile cercare una ragione logica. Non c’è. Banale ottusità e l’idea che chi è recluso vale meno di una bestia.
Quando la Francia della terza repubblica progettava il suo nuovo sistema penitenziario, il padre della sociologia Émile Durkheim dava consigli affinché le condizioni di vita del detenuto non si allontanassero molto dalla durezza spartana della vita di strada condotta da un normale clochard. È passato molto più di un secolo da allora, ma la mentalità dei burocrati dell’amministrazione penitenziaria non è molto evoluta. La domenica non ci si lava. E se c’è sovraffollamento, ci si lava a giorni alterni oppure non più di due volte a settimana. La mancanza d’igiene evidentemente fa parte del percorso di rieducazione. È un’idea di purificazione al rovescio. Una pulizia dell’anima, mica del corpo. E poco importa se la mancanza d’igiene scatena poi le emergenze vere, come quella sanitaria ricordata in una lettera aperta della Cgil funzione pubblica dell’Umbria alla presidente della Regione, Maria Rita Lorenzetti. «Il raddoppio della popolazione detenuta – scrive il sindacato – grava su un organico sanitario già di fatto insufficiente e rialimenta focolai di infezioni quali la scabbia, la tbc, epatiti di varia natura difficili da gestire in situazione di sovraffollamento e di ridotto organico».
Non stupisce, dunque, se intorno a Ferragosto, anche per l’imprevista attenzione suscitata dalle visite parlamentari, il ciclo di proteste sia ripreso con i picchi raggiunti dalle proteste di Como e Sollicciano. In realtà molte altre strutture si sono mobilitate o lo stanno facendo in queste ore, non tutte però riescono a far pervenire la notizia all’esterno.
Queste proteste un primo obiettivo l’hanno comunque raggiunto, mettendo in evidenza come la strada della costruzione di nuove carceri scelta dal governo non solo non andrà da nessuna parte, ma non è la soluzione. Come ha sostenuto ai microfoni di Radio vaticana il cappellano di Rebibbia, Sandro Spriano: «L’unica via è mettere mano al Codice penale, alla depenalizzazione dei reati, a non immaginare che tutto debba essere semplicemente punito con il carcere. Potremmo costruirne 100 all’anno e non risolveremmo il problema!». La vera emergenza è dunque l’abolizione delle leggi che producono detenzione, oltre ad una amnistia che riporti nei parametri della legalità il numero delle presenze dentro le celle. Gli unici provvedimenti che hanno decarcerizzato negli ultimi 20 anni sono stati il decreto Bondi sulla detenzione cautelare (4 mila scarcerazioni), l’indultino del 2003 (1500) e l’indulto del 2006. Altrimenti dalla legge Martelli sull’immigrazione del 1991 ad oggi, passando per la Bossi-Fini (2002), la ex Cirielli (2005), Fini-Giovanardi (2006)  e il pacchetto Maroni (2009), si è passati dai 29 mila detenuti del 1990 ai 64 mila attuali. Serve anche praticare delle misure alternative più automatiche, «su Roma – ha spiegato ancora don Spriano – su circa 2500 detenuti solo 50 sono in semi-libertà; e poi più del 50% non sono ancora condannati in maniera definitiva, non dovrebbero stare nemmeno in carcere, però stanno lì».

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Dopo la prigione di Lucca, fuochi e tumulti al Bassone di Como e Solliciano

Paolo Persichetti
Liberazione
19 agosto 2009

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Al calar della sera si sono accesi i primi bagliori di rivolta. È successo lunedì scorso, nemmeno 24 ore dopo la più grande visita parlamentare mai avvenuta nelle carceri italiane dal dopoguerra. Prima nella casa circondariale Bassone di Como, poi in quella di Sollicciano a Firenze. Ieri è stato il turno di Capanne, il penitenziario di Perugia. È allarme generale ma non una sorpresa: «Da giorni, settimane, mesi ripetiamo che la situazione penitenziaria del Paese, a causa del costante sovraffollamento, è ogni giorno sempre più critica», ha ribadito in un comunicato il segretario del Sappe, una delle maggiori sigle sindacali della polizia penitenziaria.
L’incendio scoppiato all’interno di una cella del carcere di Capanne ha richiesto l’intervento di alcune squadre dei vigili del fuoco. Secondo le prime informazioni ad appiccare le fiamme sarebbero stati alcuni detenuti. A quanto pare l’episodio sarebbe circoscritto, a differenza di quanto è invece accaduto a Sollicciano tra le 23 e l’una di notte di lunedì. La battitura delle inferiate, programmata dai detenuti per dare voce alla protesta contro il sovraffollamento e rivendicare l’amnistia, si è rapidamente trasformata in una mezza sommossa. Per far sentire oltre le mura il respiro affannato di chi è rinchiuso, l’impasto di sudore e afa, le brande infuocate, l’aria densa e immobile che affoga gli spazzi stracolmi delle celle, i detenuti hanno deciso la protesta del rumore, una delle più classiche e antiche manifestazioni che danno voce al mondo dei rinchiusi. Una battitura ritmica delle inferiate realizzata con pentole, coperchi, bombolette del gas vuote, sgabelli e quant’altro si può percuotere contro le sbarre delle finestre o i blindati. Il tutto accompagnato da urla, fischi, slogan in favore dell’amnistia e dell’indulto. Presi dall’adrenalina altri hanno, invece, cominciato a dare fuoco a tutto quello che si poteva incendiare: giornali, lenzuola, stracci da mostrare alla città. No, non c’era nessun piano, nessun complotto in una situazione dove spesso manca la stessa grammatica per organizzare una protesta. Solo disperazione, tanta rabbia che esplode e accende gli animi. Provate voi a stare accatastati in quel modo, in pochi metri quadrati anche solo per qualche giorno. 950 persone rinchiuse in una struttura che ha una capienza massima di 400. In quelle stanze non circola aria ma grisù. Basta un nulla che prende fuoco.
Lo sanno gli agenti di custodia, e lo dicono ormai da diverso tempo. Lo sanno i direttori degli Istituti, lo sanno i dirigenti del Dap. Lo sa il ministro Alfano. Lo sanno tutti. E sanno anche qual’è l’unica soluzione. Ma fino ad oggi hanno deciso di fare finta di nulla accampando un piano carceri che, anche se solo riuscisse a decollare in parte dopo i tanti rinvii, non risolverebbe nulla se non gonfiare i portafogli di quegli imprenditori che avranno gli appalti.
A Sollicciano lunedì sera la tensione è salita alle stelle. Le cronache raccontano l’attivazione di un immediato piano sicurezza. La casa circondariale è stata subito circondata da gazzelle del nucleo radiomobile dei carabinieri e da agenti delle volanti. Altri rinforzi sono arrivati dal reparto mobile della polizia. Attorno al carcere è  stato costituito un fitto cordone di sicurezza, neanche avessero dovuto fare fronte a una guerra civile. Ma forse è un po’ a questa idea che i governanti vogliono prepararci. Già ad ogni crocicchio e semaforo di strada si vedono mimetiche dell’esercito armate di tutto punto. Nell’immediato dopoguerra alcune rivolte esplose in diverse carceri sovraffollate come oggi vennero sedate a colpi di cannone. Ci fu un massacro. Stiamo attenti, dunque.
Per fortuna l’altra sera la situazione si è placata nel giro di alcune ore, la polizia penitenziaria è entrata sezione dopo sezione per spegnere i focolai d’incendio. La protesta è di nuovo ripresa alle 10 e 30 del mattino successivo con una nuova battitura. Il garante per i detenuti Franco Corleone dopo un sopralluogo ha spiegato che le proteste nascono da una somma di carenze, diffuse un po’ ovunque nei penitenziari della penisola, aggravate dall’affollamento: la riduzione dei colloqui con familiari e delle ore di passeggio causa ferie del personale di custodia, la mancanza di docce, l’impossibilità di avere visite mediche rapide, sommata alla mancanza di spazi, l’impossibilità di lavorare o svolgere attività, la sordità delle magistrature di sorveglianza che negano i benefici penitenziari.
Non stupisce allora se anche a Como, una delle strutture penitenziarie più degradate d’Italia, la protesta è durata tre giorni. Dalla battitura iniziale e lo sciopero della fame intrapreso da alcuni, si è passati nei giorni successivi all’esplosione delle bombolette di gas in dotazione per i fornellini da cucina fino alla rottura dei neon delle celle col tentativo di provocare cortocircuiti, almeno secondo quanto riferito da un esponente della Uil penitenziaria. Angelo Urso, in una nota ha ricordato come nel carcere di Como «in questi anni non sono mai stati realizzati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. Pertanto la fatiscenza e l’insalubrità dei locali non può che aggravare la condizioni detentive».
Qualcosa di simile era già accaduto nella prigione di Lucca nei primi giorni di agosto. Anche lì, una protesta dimostrativa si era trasformata in un piccolo tumulto con il lancio di bombolette e focolai d’incendio nelle sezioni. Insomma si assiste ad una fisiologica tendenza all’inasprimento delle forme di lotta conseguenza dell’esasperazione suscitata dalle condizioni d’invivibilità. Nonostante questi ripetuti segnali e i continui appelli lanciati da tutti gli operatori del settore, dal cielo della politica non vengono risposte. Il governo è in vacanza, come i vertici del Dap e del ministero. Intervistato dal Gr della Rai, Ionta ha ribadito le virtù del suo piano straordinario d’edilizia carceraria, senza però indicare date precise sulla sua presentazione. Un’incertezza dietro la quale si nasconde l’assenza di copertura finanziaria e una sostanziale mancanza di credibilità. L’opposizione dovrebbe mobilitarsi con una grande iniziativa politica per impedire che nelle carceri avvengano tragedie. È ora di riaprire la vertenza sull’amnistia.

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