La leggenda dei due motociclisti che spararono e il tentativo di cambiare la storia di via Fani – 4a puntata

Da quei primi novanta secondi in cui, la mattina del 16 marzo 1978, le Brigate rosse riuscirono a neutralizzare la scorta e portare via il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, il tentativo di cambiare la storia di via Fani non è mai cessato. Oggi raccontiamo la lunga storia delle parole inaffidabili dell’ingegner Alessandro Marini, da sempre ritenute una delle testimonianze più attendibili e ancora oggi utilizzate per dare corpo alle letture cospirazioniste del sequestro. La leggenda dei due motociclisti che sparano e di un parabrezza che va in frantumi restano uno dei pezzi forti attorno al quale si dipana la narrazione dietrologica.  Leggi qui le precedenti puntate (1), (2), (3)

Paolo Persichetti
Il Garantista 12 marzo 2015 (versione integrale)

13 Motorino03 copiaUna moto Honda di grossa cilindrata con due persone a bordo passò davvero in via Fani la mattina del 16 marzo 1978? Se la risposta è affermativa, chi c’era sopra quel mezzo? Due brigatisti mai identificati o due ignari motociclisti piombati nel luogo sbagliato al momento sbagliato? Oppure, come sostengono i dietrologi, i centauri erano uomini dei servizi in appoggio al commando brigatista? La questione tiene banco da anni e recentemente è tornata d’attualità dopo una campagna sensazionalistica ripresa dai media. Un clamore che ha provocato prima l’avocazione dell’inchiesta, ferma da tempo, e poi la richiesta di archiviazione formulata dal pg Luigi Ciampoli (ne abbiamo parlato sul Garantista del 1 marzo 2015). Ora il gip, Donatella Pavone, accogliendo il ricorso del nuovo procuratore generale Antonio Marini (fortemente polemico con il suo predecessore), ha deciso la riapertura delle indagini. Un ping pong tra magistrati della procura segnato da rivalità, sgambetti e divergenze. Se l’attuale pg, “protempore”, Marini si mostra sempre convinto della presenza della motocicletta e che a bordo vi fossero due brigatisti rimasti impuniti, l’ex pm Franco Ionta, lo scorso 3 marzo, di fronte alla nuova commissione parlamentare d’inchiesta ha manifestato grosse perplessità.
Dal punto di vista storico e politico, se si accertasse che la moto passò e che era guidata da due brigatisti rimasti ignoti, non cambierebbe nulla. La questione rivestirebbe solo un residuale interesse giudiziario. Tuttavia i brigatisti hanno sempre smentito l’impiego di una motocicletta quella mattina. D’altronde a cosa sarebbe servita? Non certo per confermare l’imminente arrivo del convoglio che a volte sceglieva itinerari alternativi, perché la moto sarebbe dovuta rimanere troppo vicina alla scorta di Moro col rischio di insospettirla. Per questo le Brigate rosse scelsero una soluzione più discreta, impiegando una giovane militante in cima a via Fani con un mazzo di fiori in mano. Agitandoli, avrebbe dato il segnale. Una presenza talmente discreta che nessuno dei 34 testimoni la notò, e furono gli stessi brigatisti a indicarla quando, ritenuto concluso il ciclo politico della lotta armata, intesero favorire un lavoro di storicizzazione di quelle vicende.
Era superfluo anche l’impiego di una staffetta mobile per verificare che la strada fosse sgombera da presenze inopportune. Il declivio di via Fani consente una visibilità ottima a chi è più in basso. D’altronde intralci improvvisi ci furono, come la 500 che procedeva troppo lentamente, sorpassata dalla 128 giardinetta dei Br e poi con una manovra un po’ avventata dalla scorta di Moro. Il rischio di variabili era stato preso in considerazione, come la possibilità che una qualche vettura anticipasse la giardinetta di Moretti e il convoglio, piazzandosi davanti a tutti all’altezza dello stop. In quel caso l’assalto sarebbe stato portato qualche metro più in alto, all’altezza del furgone del fioraio Spiriticchio. Furgone al quale vennero bucati i pneumatici la sera prima perché non fosse presente quella mattina.
Infine, è al di fuori di qualsiasi schema d’azione brigatista ipotizzare che due militanti a cavallo di una moto si potessero fare strada con le armi in pugno, allertando chiunque li avesse visti e vanificando così quell’effetto sorpresa che forniva loro la supremazia militare, per poi sparare come dei cowboy, addirittura nemmeno contro la scorta di Moro ma verso un inerme testimone.
Come se non bastasse, tutti i mezzi impiegati durante l’azione sono stati abbandonati dopo un breve tragitto, ma della moto invece non si è mai trovata traccia. Non è pensabile immaginare che i due militanti delle Br abbiano attraversato la città su quel mezzo, segnalato da alcuni testimoni, senza mai effettuare un cambio. Pur non avendo risolto queste contraddizioni, la sentenza conclusiva del primo processo Moro, che riunisce le inchieste Moro e Moro bis, stabilì che quella moto ci fu, che sopra c’erano due militanti delle Brigate rosse che spararono ad un testimone, l’ingegner Alessandro Marini, fermo all’incrocio sul lato basso di via Fani. Almeno questo dichiarò il teste perché le perizie balistiche non confermarono mai la presenza di spari nella sua direzione. Insomma i giudici si fidarono ciecamente delle parole di Marini e condannarono anche per concorso in tentato omicidio tutti i componenti del commando brigatista, ritenendo che ve ne fossero altri due ancora da scovare e consegnare all’ergastolo.

Collocazione dei testimoni in via Fani (via Fani 9.02)

Collocazione dei testimoni in via Fani (Fonte via Fani 9.02)

La presenza della moto fu confermata solo da tre testimoni: Luca Moschini che mentre attraversa perpendicolarmente l’incrocio di via Fani, prima che scattasse l’azione, avvista una Honda di colore bordeaux accanto a due avieri (due Br) che stanno sul marciapiede antistante il bar Olivetti. Non vede armi e non sente sparare; l’ingegner Marini, per il quale invece l’Honda è di colore blu, partecipa all’assalto e addirittura sfreccia dietro la 132 blu che porta via Moro; il poliziotto del reparto celere Giovanni Intrevado che colloca il passaggio della motocicletta ad azione conclusa. Il 5 aprile 1978 riferisce di una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo che gli «sfrecciò vicino» quando era già sceso dalla sua 500 e correva verso le tre macchine ferme. All’epoca non scorge armi e descrive i due a volto scoperto. Solo nel maggio 1994, sollecitato sulla questione, fa mettere a verbale che i due a bordo della moto procedevano lentamente guardandosi attorno e ricorda qualcosa che assomigliava al caricatore di un mitra posizionato verticalmente tra i due passeggeri, anche se «l’uomo che sedeva dietro teneva le braccia avvinte al guidatore». Circostanza che contrasta apertamente con la scena descritta dall’ingegner Marini, il quale alterna la posizione del passeggero col passamontagna: nella prima deposizione era quello posteriore che gli avrebbe sparato; nella seconda è il guidatore. Nel 1994 non è più sicuro e rimanda a quanto detto negli anni precedenti. Intrevado e Marini, che pure sono entrambi fermi allo stop, non si accorgono mai uno dell’altro. Nessuno degli altri 31 testimoni scorge la moto, durante l’assalto o subito dopo, come per esempio il giornalaio Pistolesi o il benzinaio Lalli. Nemmeno Conti, che dalla sua abitazione alle 9.02 chiama per primo il 113 e avverte che hanno colpito l’auto di Moro.
Domanda: quando è passata la moto? Siccome le tre testimonianze non sono sovrapponibili, stabilirlo è dirimente, perché solo se è passata durante l’azione si può ritenere, senza ombra di dubbio, che la moto facesse parte del commando. Se invece è passata prima, o dopo, non si ha più alcuna certezza. Fino ad oggi la magistratura ha sottovalutato queste divergenze cronologiche dando credito alla versione dell’ingegnere sul motorino.
Ma davvero Marini è così attendibile? In realtà, la sua affidabilità fu già messa in discussione dalla corte d’appello del primo processo Moro, che qualificò la sua testimonianza di «ricostruzione “a posteriori” del fatto». Le deposizioni di Marini hanno tutte una caratteristica particolare: oltre a confondere e sovrapporre le varie fasi dell’assalto brigatista, moltiplicandone i partecipanti, tendono a ricostruire la sequenza degli eventi con una forte carica egocentrica che viene a situarlo al centro di un episodio che ha cambiato la storia.
Il 16 marzo 1978 egli riferì del passeggero posteriore di una moto Honda blu munito di passamontagna che avrebbe esploso dei colpi contro di lui, perdendo un caricatore a terra che poi disse di aver indicato agli investigatori.

Marini 2

Marini 2.1

Il 26 settembre successivo dichiarò: «La persona che viaggiava sul sellino della “Honda”, dietro il conducente, sparò alcuni colpi di arma da fuoco dei quali uno colpì anche la parte superiore del parabrezza del motorino rompendolo. Io non sono stato colpito perché nel frattempo istintivamente mi ero abbassato. Conservo ancora a casa i frammenti del parabrezza che mantengo a disposizione della giustizia».
1. Caricatore e cappello copiaPerò del caricatore di cui parla Marini non si è mai vista traccia. L’unico caricatore ritrovato in via Fani, e ritratto nelle foto accanto al berretto da aviere, è quello del mitra che aveva in mano Raffaele Fiore. Il solo dei quattro del commando che doveva fare fuoco che non riuscì a sparare un solo colpo perché la sua arma si inceppò per due volte, anche dopo il cambio di caricatore, come attestano le perizie balistiche e conferma lo stesso Fiore nel libro di Aldo Grandi, L’ultimo brigatista (Bur).
Caricatore copiaIl 17 maggio 1994 l’ingegner Marini, sentito nuovamente dalla procura che stava conducendo nuove indagini, fa una rivelazione che ribalta completamente la storia dei colpi di pistola esplosi dalla Honda: «Riconosco nei due pezzi di parabrezza che mi vengono mostrati, di cui al reperto nr.95191, il parabrezza che era montato sul mio motorino il giorno 16 marzo 1978. Ricordo in modo particolare lo schoch che io stesso ho apposto al parabrezza che nei giorni precedenti era caduto dal cavalletto incrinandosi. Prima di sostituirlo ho messo momentaneamente questo schoch per tenerlo unito. Ricordo che quel giorno, in via Fani, il parabrezza si è infranto cadendo a terra proprio dividendosi in questi due pezzi che ho successivamente consegnato alla polizia». Dunque non sono più i colpi di pistola ad aver distrutto il parabrezza.

Dep Marini 0 1994Dep Marini 1994

Dep Marini 2 1994

4. Motorino 1 copiaTra le tante foto che ritraggono via Fani subito dopo l’assalto brigatista, in alcune si può scorgere, proprio dietro l’Alfasud beige della digos parcheggiata sul lato sinistro della via, un motorino accostato al muretto che separa il bar Olivetti dalla strada con un parabrezza nastrato che assomiglia moltissimo alla descrizione fatta da Marini, il quale nella deposizione del 1994 non ricordava «quando sono andato a ritirare il motorino che avevo lasciato incustodito all’incrocio con via Fani e via Stresa». E’ il suo?
Se, come dice l’ingegner Marini con 16 anni di ritardo, il parabrezza era già incrinato prima di quella mattina, e si danneggia ulteriormente perché impaurito dall’assalto armato lascia cadere il motorino, viene meno l’unico labile indizio richiamato fino a quel momento come prova dei colpi sparati dalla Honda contro di lui. E crolla la versione della Honda con i brigatisti a bordo che avrebbero partecipato al rapimento. 8 Motorino nastrato-1 copiaBoxer nastrato

9 Motorino nastrato-2 copia

12 Motorino02 copiaSe così stanno le cose, l’attuale procuratore generale, Antonio Marini, che ha ripreso in mano le indagini, ha una grande opportunità: fornire un decisivo contributo alla verità approfittando dell’occasione per chiedere la revisione delle condanne per tentato omicidio dell’ingegner Marini emesse nel primo processo Moro.
Appare sempre più chiaro che su quella moto c’erano persone ignare di quel che stava accadendo, passate nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Eliminare l’ipoteca penale costituita del coinvolgimento nel rapimento e l’uccisione dei cinque uomini della scorta permetterebbe, a chi quella mattina si trovò lì per puro caso, di ammettere che, senza volerlo, transitò dentro la storia che stava cambiando.

4/continua

Le altre puntate
 5a puntata

Stefano Cucchi, “non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte”

Il libro di Ilaria Cucchi sulla morte del fratello Stefano: «Nessuno deve più morire in un carcere o in una caserma». Ostacoli e retroscena su una verità che fa paura alle istituzioni. Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli 2010

Paolo Persichetti
Liberazione 22 ottobre 2010

«Noi non c’entriamo, la divisa non ha colpa». Si congeda con queste parole il maresciallo dei carabinieri che aveva portato alla madre di Stefano Cucchi la notizia del decesso del figlio, esattamente un anno fa nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini. Non una imbarazzata frase di circostanza ma l’annuncio di una programmatica impunità. L’episodio è rivelato da Stefania Cucchi nel libro scritto insieme al giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli. Di frasi del genere in questa terribile storia che racconta l’oscenità del potere che si impossessa dei corpi, se ne trovano altre, come quella pronunciata da un’altro uomo in divisa davanti al reparto dove Cucchi è morto, «Ci sono tutte le carte a disposizione. Se volete potete controllare, noi siamo tranquilli». L’accesso alle carte sarà invece un percorso labirintico, per nulla spontaneo, dovuto unicamente all’attenzione politico-mediatica accesa sul caso dalla pubblicazione delle foto del corpo straziato di Stefano sul tavolo dell’obitorio e dalla caparbietà della famiglia costretta a rinunciare all proprio lutto privato. Le denunce pubbliche innescheranno una doppia inchiesta, parlamentare e amministrativa, arrivando lì dove l’indagine penale da sola non sarebbe mai giunta senza tuttavia dissolvere le molte ombre. L’autoassoluzione preventiva appartiene alle caratteristiche peculiari delle burocrazie repressive. E’ parte del patto tacito stipulato con le gerarchie in cambio della fedeltà e dei servizi prestati, spesso inconfessabili. Non a caso a sancire l’irresponsabilità è arrivato anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che a conclusione dell’inchiesta ministeriale affermava, «Gli accertamenti amministrativi hanno rilevato fin qui l’assenza di responsabilità da parte della polizia penitenziaria», nonostante l’indagine interna redatta dal numero due del Dap, Sebastiano Ardita, traesse ben altre considerazioni. «Quando ho potuto leggerla – afferma Ilaria Cucchi – mi sono resa conto che si stava tentando di celare perfino quanto scoperto dalle stesse istituzioni». A fargli compagnia le dichiarazioni preventive del ministro della Difesa Ignazio La Russa in favore dell’Arma dei carabinieri, quando le indagini erano ancora al punto di partenza, e la sortita ignobile del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al lotta contro le tossicodipendenze, Carlo Giovanardi, per il quale Cucchi se l’era cercata. In questa gara all’esportazione delle responsabilità non è stata da meno neanche la Asl competente per territorio sull’ospedale Pertini, che appena dieci giorni dopo il trasferimento in via cautelare reintegrava il personale sanitario indagato. Eppure nei sei giorni che l’hanno separato dall’arresto fino all’ultimo respiro Stefano Cucchi non ha fatto altro che passare di mano da una divisa e l’altra attraverso caserme, camere di sicurezza, carceri, reparti penitenziari di ospedali. In realtà le divise e i camici, inquadrati da altre divise, nella sua morte c’entrano eccome. «In tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici, emerge una incredibile continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti», afferma il rapporto interno del Dap che riassume così il calvario del giovane: «Assenza di comprensione del disagio, mancata assistenza ai bisogni, trattazione burocratica della tragica vicenda personale e in alcuni casi assenza del comune senso di umanità, si sono susseguiti in un modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti fra loro, ma con inesorabile consequenzailità». Il tutto condito da tante violenze, prima durante e dopo, testimoniate da un corpo fratturato e pieno di ematomi. A Cucchi, come recita la canzone di De André, non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte. Il libro è la testimonianza dolorosa del percorso di una famiglia legata a valori tradizionali, «religione, legge e ordine», che proprio per questo scopre il tradimento delle istituzioni in cui ha sempre creduto. Una presa di coscienza che fa dire a Ilaria, “sorella coraggio”, di aver sentito dire in giro che la morte del fratello fa parte di quegli incidenti «inevitabili conseguenze di pratiche e comportamenti che servono a tutelare la sicurezza della collettività. Forse anch’io, un tempo, mi sarei lasciata andare a cose simili ma oggi so che sono inaccettabili. Perché non ci può essere un motivo valido per cui un ragazzo debba morire in un carcere o in una caserma. Non deve accadere, né deve accadere che l’opinione pubblica lo giustifichi come uno sgradevole inconveniente». Ad Ilaria e alla famiglia diciamo una cosa sola: non vi lasceremo mai soli.

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Tullia Fabiani
L’Unità 21 ottobre 2010


È come se fossimo noi gli imputati. Io e i miei genitori, i colpevoli. L’atmosfera che abbiamo percepito in Aula è ostile, come se accusa e difesa fossero coalizzate contro di noi. Forse ci si dimentica che io e i miei genitori stiamo lì perché è morto mio fratello. O forse siamo quelli che stanno dando fastidio solo perché chiediamo, senza tregua, che venga riconosciuta la verità». Ilaria Cucchi è molto amareggiata: due giorni fa è stata scortata dai carabinieri fuori dal tribunale. Era in corso l’udienza del processo che vede imputate 13 persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici dell’ospedale romano Sandro Pertini, dove suo fratello Stefano è morto un anno fa, il 22 ottobre, dopo una settimana di agonia. «Mi hanno detto che dovevo uscire dal tribunale per motivi di ordine pubblico e mai avrei immaginato di creare un simile problema. Mi sento umiliata e molto triste, anche perché dover sentire certe cose…» 



Quali cose?
«Ho sentito dire da uno dei legali della difesa: “Adesso oltre il libro faranno anche il film”. Ecco, questo è l’atteggiamento nei nostri confronti, come se nel raccontare quanto accaduto a mio fratello avessimo chissà quale secondo fine. Come posso sentirmi di fronte a certe affermazioni? È una grande mortificazione; ripeto, la sensazione è di essere gli imputati». 



E dipende dal fatto che va in tv, rilascia interviste, scrive libri su quanto accaduto?
«Si, anche. Penso che certi atteggiamenti, come l’allontanamento dal tribunale, dipendano dai miei interventi. Evidentemente non vorrebbero tutta questa attenzione mediatica». 



Chi non la vorrebbe?
«I soggetti coinvolti: accusa e difesa. Però se i pm si sentono sotto pressione possono sempre farsi sostituire».

La procura ha chiesto comunque che dalla prossima udienza siano ammessi in aula stampa e tv.
«Sì. Ci sarà un’udienza martedì 26 e vedremo cosa decide il gup. Per me non c’è alcun problema, anzi. È importante che i giornalisti possano seguire ciò che avviene in aula, vedere come procede l’udienza e qual è il rapporto tra le parti. Che ci sia o meno la stampa la mia impressione sull’atmosfera che respiriamo quando siamo lì non cambia». 



Ce l’ha con loro perché è stata respinta la vostra richiesta di una super perizia su Stefano?
«No, non è questo. So bene che ci sono motivazioni precise e che è stata rigettata non perché infondata, ma perché, come ha spiegato il nostro avvocato, è inammissibile in questa fase processuale. La questione è un’altra: l’episodio dell’altro giorno, venire allontanati dal tribunale, vietare a mia madre di andare sul piazzale per fumare una sigaretta e dare così tanto fastidio al pm da costringerlo a lamentarsene davanti al giudice. E poi subire ad esempio dichiarazioni da parte del pm che dice ai miei avvocati “Non santifichiamo questa famiglia”. Che significa? Che non siamo dei santi e allora non possiamo chiedere giustizia per la morte di mio fratello? È assurdo. Ed è la dimostrazione che la battaglia che stiamo portando avanti è una battaglia ímpari». 



Perché ímpari?
«Oggi sento che questa giustizia non è per tutti. Sento una forte ostilità e un’ostinazione nel voler continuare a negare la realtà. Ma come si fa a continuare a parlare di lesioni lievi quando queste “lesioni lievi” hanno causato la morte di Stefano?. La verità ci è dovuta e io la pretendo». 



Domani, 22 ottobre, sarà un anno dalla morte di suo fratello. Come passerete questa giornata e cosa vi aspettate dopo?
«Per i giorni che verranno vorrei solo che si mettesse finalmente fine all’ipocrisia. E che cominci un’altra storia. È stato un anno tremendo, ci siamo trovati a combattere una battaglia al di sopra delle nostre capacità e delle nostre forze, con la disperazione di non avere risposte. Abbiamo passato giornate drammatiche e solo oggi, dopo un anno, sembra che stiamo cominciando a realizzare l’assenza di Stefano. Domani ci sarà una messa nella nostra parrocchia, alle 15.30 a Santa Giulia Billiart, al Casilino. Poi seguirà un incontro, uno spettacolo teatrale, e la presentazione del libro “Vorrei dirti che non eri solo”. Perché al di là delle allusioni e delle mortificazioni per me anche un libro è un mezzo buono per denunciare l’uccisione di mio fratello e per continuare a chiedere ancora, un anno dopo, verità e giustizia».

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Il libro di Ilaria Cucchi: “Nessuno deve più morire in carcere o in una caserma”

«Piano carceri, unica novità i poteri speciali a Ionta»

Parla Patrizio Gonella, presidente di Antigone

Paolo Persichetti
Liberazione 14 gennaio 2010

Stato di emergenza fino al 31 dicembre 2010. È questo il «primo pilastro» del Piano carceri, largamente preannunciato nei mesi scorsi ( Liberazione ha dedicato alla questione l’inserto di domenica 3 gennaio) e illustrato dal ministro della giustizia Angelino Alfano ieri, al termine della riunione del consiglio dei ministri. Gli altri tre «pilastri» sarebbero «il piano edilizio», che prevede la costruzione di 47 nuovi padiglioni nei penitenziari esistenti; l’approvazione in sede di governo di un disegno di legge con «possibilità di scontare in detenzione domiciliare l’ultimo anno di reclusione e l’introduzione della “messa in prova” per le persone passibili di condanne che non superano i tre anni di reclusione in cambio della disponibilità a prestare lavori di pubblica utilità e la sospensione il processo». Infine l’arruolamento in organico di duemila nuovi agenti di polizia penitenziaria. Ma per le associazioni che lavorano nel pianeta carcere, come Antigone, l’Arci e la Vic-Caritas, non si tratta soltanto di un piano inadeguato, incapace di risolvere il problema del sovraffollamento, ma di un progetto portatore di una filosofia pericolosa che pretende di agire velleitariamente sugli effetti trascurando le cause. Il sovraffollamento non è la conseguenza dell’insufficienza del numero di celle, ma di leggi ispirate a pulsioni liberticide e ultrapenali che fabbricano incarcerazione. Secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’annuncio fatto dal guardasigilli Alfano non aggiunge nulla di nuovo, si tratterebbe in realtà dell’ennesima gesticolazione mediatica.

Si parla di proclamazione dello stato di emergenza. A ben vedere però si tratta unicamente dell’attribuzione di poteri speciali in materia di edilizia penitenziaria al capo del Dap, Franco Ionta. Non ti sembra un’emergenza monca? Nulla è previsto per fara fronte ad un piano d’intervento complessivo sulle carceri e al tempo stesso troppo viene concesso sul fronte dell’edilizia?
Evocare l’emergenza quantomeno rappresenta la presa di coscienza di una situazione eccezionale. Da questo punto di vista si tratta di una importante assunzione di consapevolezza. Dopo di che non è successo niente di più. Si riciclano promesse di posti letto fatte oltre dieci anni fa, quando ministro della Giustizia era Piero Fassino. In realtà, non c’è alcuna traccia di un piano e i 500 milioni messi in finanziaria non permettono la costruzione di nuove carceri. L’unico vero fatto nuovo sono i poteri speciali attribuiti al capo del Dap sul modello di quelli concessi a Bertolaso per la protezione civile.

Esiste un precedente molto pericoloso. I poteri straordinari concessi al generale Dalla Chiesa furono poi all’origine di uno dei casi di corruzione ai danni dello Stato tra più importanti degli anni 80. La famose carceri d’oro.
In realtà di precedenti ne esistono almeno due: uno riuscito, quello delle carceri d’oro, che vide la corruzione arrivare a termine. E quello più recente della DiKe edifica di Roberto Castelli. Operazione fallita grazie all’opposizione della Corte dei conti. È evidente che la scelta di opacizzare i criteri che ispireranno l’attribuzione dei lavori per chiamata diretta desta molte preoccupazioni. Invece di prevedere la velocizzazione delle gare, riducendo all’osso i termini, garantendo comunque concorrenza e trasparenza, si è scelta la via del segreto. Vi è qui anche una mancanza di coraggio nell’assunzione della responsabilità delle proprie scelte, una fuga dalla trasparenza. Un quando davvero preoccupante, speriamo che ci sia un controllo pubblico.

Forse c’è anche qualcosa di più. Non è singolare questa logica del doppio binario? Poteri straordinari solo in materia edilizia che agevoleranno solo i padrini del calcestruzzo e binari normali per i ddl finalizzati alla deflazione carceraria che per altro scontano già la preannunciata ostilità parlamentare di An e Lega e dunque non avranno alcun margine di riuscita?
Si tratta di una presa in giro, un contentino per indorare la pillola durante la discussione che si è tenuta in parlamento. In quella sede il governo ha chiaramente mostrato le sue vere intenzioni esprimendo parere negativo sui punti più significativi della mozione Bernardini, la più avanzata. Si è opposto all’istituzione del difensore civico nazionale, alla revisione della legge Cirielli sulla recidiva, che è una delle cause dell’ingorgo carcerario. Ha dato parere negativo alla possibilità di aumentare le relazione affettive. Ovviamente ha fatto muro ad ogni modifica del 4 bis e 41 bis, per limitarsi ad una generica dichiarazione di intenti in favore della riduzione del sovraffollamento. È chiaro che non c’è alcuna volontà politica. Come per l’edilizia, il ricorso allo stato d’emergenza poteva giustificare il varo di un decreto legge per introdurre le norme deflattive. Come non serve costruire nuove celle, non servivano nemmeno 2 mila nuovi poliziotti della penitenziaria. Non è incrementando la custodia che si risolve il sovraffollamento e il problema dei suicidi. Al loro posto andava assunto personale civile: educatori e psicologi. Infine ci auguriamo che lo stato di emergenza non venga esteso a dismisura fino a comprendere ragioni di sicurezza per ridurre i livelli di conoscenza e accesso alle strutture carcerarie già aperte. Si aprirebbe un vero problema di democrazia.

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Cronache carcerarie
Dietro al piano carceri i signori del calcestruzzo
Stato d’eccezione carcerario, strada aperta alla speculazione
Punizioni e premi, la funzione ambigua della rieducazione
Già piu di mille i ricorsi dei detenuti a Strasburgo contro il sovraffollamento
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Sprigionare la società
Desincarcerer la société
Prigioni i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario
Carceri private il modello a stelle e strisce privatizzazioni e sfruttamento
Aboliamo le prigioni
Il lavoro in carcere
Carceri affollate, giudici californiani “svuotate le celle”

Stato d’eccezione carcerario, strada aperta alla speculazione

I responsabili del sistema penitenziario chiedono poteri speciali

Paolo Persichetti
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Cemento e castigo

Il capo del Dap Franco Ionta ha chiesto lo scorso novembre l’apertura dello stato d’emergenza per le carceri. Secondo l’ex pm antiterrorismo, salito ai vertici dell’amministrazione penitenziaria nel luglio 2008, i «poteri straordinari» conferitigli all’inizio del 2009, in qualità di «commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria», non sarebbero più sufficienti per fronteggiare la gravità della situazione carceraria. In una lettera inviata a Settembrino Nebbioso, attuale capo di gabinetto del ministro della Giustizia Angelino Alfano, il massimo responsabile del carceri ha chiesto poteri speciali da «commissario delegato». Un ampliamento delle competenze simile a quelle attribuite a Guido Bertolaso nel campo della protezione civile. Un potere d’eccezione che gli consentirebbe di aggirare le normali procedure in materia di edilizia penitenziaria prospettati, a più riprese, nel piano carceri annunciato dal governo. Ionta chiede di fare a meno delle gare pubbliche di appalto per l’attribuzione dei lavori alle ditte costruttrici e di avere in cambio la facoltà di affidare in via riservata, con modalità arbitrarie e discrezionali, i contratti per la costruzione di 47 nuovi padiglioni nei penitenziari già esistenti, e per i quali la finanziaria ha stanziato 500 milioni di euro (in buona parte presi dalla “cassa ammende”, circa 350 milioni, in precedenza utilizzati per finanziare programmi di trattamento e rieducazione che in questo modo verranno meno). Il piano indica anche la costruzione di 24 nuovi penitenziari a struttura modulare, di cui 9 «flessibili» (vale a dire carceri di “prima accoglienza” destinati a governare l’enorme flusso di ingressi/uscite rappresentato da quella fascia di persone arrestate, o detenute con pene lievi, che soggiornano in prigione per pochi giorni), da costruire nelle grandi aree metropolitane o in aree considerate “strategiche”, e di altre 7 strutture “pesanti”, a pianta architettonica tradizionale; progetti per i quali manca la copertura finanziaria. Il project financing si è infatti arenato di fronte all’indisponibilità dei costruttori privati ad anticipare il costo dei lavori in cambio di contratti di lising poco remunerativi a breve termine. Un emendamento alla finanziaria, che consentiva la permuta di aree demaniali e delle sedi di vecchie carceri situati nei centri storici urbani, molto appetiti dagli speculatori del cemento, in cambio di nuove carceri da costruire nelle periferie, è stato fortunatamente bocciato. La richiesta del capo del Dap ha un precedente pericoloso, estremamente evocativo delle mire speculative che si nascondono dietro il piano carceri. Si tratta dei poteri speciali attribuiti nel maggio del 1977 al generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Con un decreto interministeriale ripetutamente prorogato, il responsabile dei nuclei speciali antiterrorismo venne nominato Comandante dell’ufficio di coordinamento per la sicurezza esterna degli stabilimenti penitenziari. A Dalla Chiesa fu affidato il compito di individuare i penitenziari destinati alla creazione di un nuovo circuito di massima sicurezza: le famose “carceri speciali”. In soli due giorni, con l’ausilio anche di elicotteri bimotore, vennero trasferiti sulle isole e da un capo all’altro del Paese circa 600 detenuti. Ma i poteri eccezionali conferiti al generale non si limitavano solo a questo. Dalla Chiesa aveva assunto anche competenze di intelligence che gli consentivano di entrare senza problemi all’interno degli istituti ed esercitare un forte potere gerarchico sui direttori. Nell’ambito di questi poteri d’eccezione, il Parlamento approvò, sempre nel dicembre del 1977, una legge recante «disposizioni relative a procedure eccezionali per lavori urgenti ed indifferibili negli istituti penitenziari». Si tratta del precedente legislativo a cui si ispirano le pretese dell’attuale capo del Dap. Questa legge attribuiva al ministero della Giustizia ampi poteri discrezionali in materia di lavori pubblici e di appalti per la realizzazione di interventi che andavano ben oltre l’ordinaria manutenzione. Da quella operazione prese origine uno dei più importanti episodi di corruzione e truffa ai danni dello Stato. Scandalo scoperto nel febbraio 1988 e che travolse un ministro, il socialdemocratico Nicolazzi. La chiamata nominativa delle imprese di costruzione e l’opacizzazione dei protocolli, oltre all’avvio di un vasto programma di nuova edilizia penitenziaria basato su impressionanti colate di calcestruzzo e ferro in poco tempo divenute fatiscenti, diede origine allo scandalo delle carceri d’oro. Ogni “posto detenuto” venne a costare circa 250 milioni di lire, il prezzo di un appartamento in una grande città dell’epoca. Come allora, la banda del calcestruzzo, sponsor di questo governo, sarà il vero fruitore del piano carceri. Cemento e castigo, ecco l’Italia di Berlusconi.

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«Dietro al piano carceri i signori del calcestruzzo»

Intervista a Cesare Burdese Architetto, esperto di progettazione carceraria ispirata ai modelli riabilitativi della pena

Ermanno Gallo
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Cemento e castigo

Cesare Burdese è un architetto torinese che da vent’anni si occupa di progettazione carceraria in stretto rapporto con la concezione istituzionale della pena. Recentemente è stato relatore in un seminario tenuto presso il carcere di Sollicciano (13 giugno 2009) con un intervento critico rivolto alla tipologia di edilizia penitenziaria contemplata dal piano carceri proposto dal governo.

Esiste un modello architettonico di carcere trattamentale e riabilitativo distinto dal penitenziario afflittivo di mera custodia?
I vecchi modelli penitenziari, diciamo ideologici, a volte di matrice utopistica, sono tramontati o vanno rinominati.

Intende che quei laboratori sperimentali per la modificazione del comportamento dei detenuti, come Pentonville, o il carcere-paradigma di Filadelfia (isolamento diurno e notturno del detenuto) e di Auburn (lavoro collettivo di giorno agli affidabili, isolamento notturno), o ancora il Panottico del controllo invisibile “interiorizzato”, non hanno più corso storico?
Oggi siamo di fronte a “derivati” ottocenteschi, con prigioni a pianta crociata e radiale oppure a strutture moderne a palo telegrafico. Per fare fronte alla cosiddetta “emergenza” vengono evocate carceri galleggianti, veri modelli protostorici, o carceri grattacielo, strutture obsolete e futuriste al contempo. In ogni caso ogni tipologia dovrebbe essere contestuale, posto che sia replicabile fuori del suo tempo.

Il sovraffollamento attuale, che enfatizza il carattere afflittivo e patogeno della pena, non inficia qualsiasi visione architetturale che si proponga il cambiamento dell’essenza reale del castigo, attraverso la modificazione delle strutture murarie, della camicia di pietra del sistema cellulare, in funzione, ad esempio, del “carcere democratico”, della “dolcezza delle pene”?
Il ritardo casuale o colpevole dell’edilizia rispetto alla legge penitenziaria non può che aggravare lo stato presente delle cose. Constato, oggi più di ieri, che anche nella facoltà di Architettura, dove tengo seminari e ho seguito tesi sull’argomento, per non parlare delle sedi decisionali, pochi considerano l’architettura carceraria una materia di studio e ricerca.

Il circuito carcerario italiano è obsoleto ed esplosivo. Nel piano carceri proposto dal governo esiste una visione architettonica adeguata che potrebbe trasformare questa situazione degradata?
La promessa di 22 mila posti cella in più nel 2012, può essere solo un tappabuchi. Il carcere ha paura del vuoto. Più aumentano i posti – oggi li chiamano “posti letto”, come se fosse un albergo o un dormitorio – tanto più aumenta la bulimia penale e penitenziaria. Un detenuto tira l’altro.

Fino ad oggi sembra che siano stati stanziati in finanziaria solo 500 milioni di euro per l’ampliamento della capienza.
Si prevedono circa cinque mila posti come primo intervento di sostegno. Celle ricavate da ristrutturazioni, ampliamenti o costruzioni di nuovi padiglioni nelle strutture esistenti. Cpt riconvertiti, oppure riutilizzo di strutture prerecintate, come ex caserme, fabbriche dismesse ecc. 150 milioni sarebbero stanziati dal ministero della Giustizia, altri contributi sono attesi dal fondo unico della giustizia e dalle cassa ammende. Mancherebbero al momento oltre 600 milioni, non attingibili dalla casse pubbliche. Stando così le cose, è impossibile creare entro il 2012 i 22 mila posti promessi. D’altronde il settore privato non sembra particolarmente allettato dalle promesse dello Stato.

Come si presentano gli schemi  architettonici del piano?
Le premesse di progettazione e costruzione, avallate dal ministro Alfano, con la supervisione del commissario plenipotenziario Ionta, non fanno prevedere grandi innovazioni. Nell’allegato D del documento ministeriale c’è lo schema di un penitenziario-tipo per circa 400 posti detentivi. Si tratta di un prototipo ad aggregazione radiale. Un modello derivato dai vecchi sistemi di fine ‘800. Questo modello tipologico rappresenta l’immagine della regressione dell’edilizia penitenziaria italiana. E dimostra che la progettazione carceraria è estromessa dal circuito del libero mercato della progettazione.

Pensa che sia tutto riconducibile ad una mancanza di “concorrenza progettuale?”
La circostanza incide molto perché il progetto è demandato acriticamente agli uffici tecnici ministeriali, che non sembrano molto competenti. Poi gli stessi schemi approvati a occhi chiusi passeranno ai cartelli delle imprese di costruzione, che  sono puri comitati di affari Quanto meno lo Stato appare ingenuo, in contraddizione con i suoi stessi organi legislativi, rendendo pubblico uno schema tipologico assurdo.

Non le pare che si vada verso un idealtipo di carcere-cubo, gestito dal settore  privato che capitalizza lucrando sul detenuto e il  lavoro coatto. Insomma una industria-carcere, o come dicono gli americani: un «complesso carcerario industriale»?
Finora, in Italia, la componente produttiva è sempre stata trascurabile nella gestione delle pene. La carenza di personale, l’articolazione degli spazi nel carcere cellulare, hanno permesso solo piccole attività di riproduzione interna, manutenzione e lavori artigianali appaltati da piccole imprese. Difficile parlare di lavoro industriale.

Quindi non è in vista una forma-carcere caratterizzata dalla produttività incentivata dal privato?
Non direi, tenuto conto della legge vigente e della dislocazione cellulare esistente. Casomai vedo la potenziale capitalizzazione a monte della carcerazione.

Cioè attraverso la progettazione e costruzione di nuove strutture carcerarie?
L’Italia è un grande cementificio. Per questo, più che fare dei containers o dei cubi prefabbricati, ai costruttori conviene costruire con colate di cemento. In questo modo, edificando strutture fotocopia, l’edilizia penitenziaria diventa particolarmente redditizia.

E chi potrebbe vincere  queste gare di appalto?
I signori del calcestruzzo.

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Non si ferma la protesta nelle carceri italiane

A Sollicciano la Direzione negozia, ad Arezzo denuncia. Franco Corleone (Garante per i diritti dei detenuti):
“Dare voce ai detenuti in tutte le carceri”

Paolo Persichetti
Liberazione
19 agosto 2009

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Dopo la dura protesta inscenata lunedì sera, è continuata la mobilitazione dei detenuti del carcere di Sollicciano. Un quasi tumulto che aveva fatto temere l’avvio di una rivolta in grande stile tanto da far scattare l’allarme attorno alla cinta muraria, subito circondata da importanti forze di polizia. Nella serata di martedì è partita ancora una volta la battitura delle sbarre, ripresa nella mattinata del giorno successivo. Iniziata intorno alle 22, è durata per circa due ore. Questa volta con modalità meno dure, senza incendi e danneggiamenti. Preoccupato per le notizie che giungevano dal carcere fiorentino e per episodi analoghi avvenuti in altri istituti, il capo dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, si è recato ieri in visita al carcere per accertarsi di persona della situazione. Oltre a Lucca, Como e Perugia, si segnalano proteste ad Ancona, prima di Ferragosto, alle quali sembrano seguite punizioni, e Pesaro che ospita ormai 300 detenuti invece dei 170 regolamentari. Ad Arezzo (114 detenuti per una capienza normale di 65), dopo la battitura di Ferragosto, la Direzione per rappresaglia ha chiesto sette trasferimenti e presentato 4 denunce.
Sempre ieri si è tenuto il preannunciato incontro tra il direttore della casa circondariale di Sollicciano, Oreste Cacurri, e una commissione di detenuti, circa una trentina, rappresentativi delle diverse sezioni. Alla riunione ha preso parte anche il garante per i diritti dei detenuti del comune di Firenze, Franco Corleone, a cui abbiamo chiesto di raccontarci come è andata.

Cosa è successo veramente a Sollicciano lunedì sera?
Non chiamerei quanto accaduto una rivolta. C’è molta esasperazione in una popolazione costituita fondamentalmente da soggetti deboli, incapaci di dare voce alle loro richieste. Prima si tagliavano per comunicare, ora protestano. La molla scatenante è stata la distribuzione di pane ammuffito il giorno di Ferragosto, dopo che da diverso tempo veniva lamentato un vitto molto scadente. Il cibo distribuito nelle carceri ha un costo medio per detenuto di 1,53 euro a pasto. Forse questo spiega molte cose.

Allora si è trattato di un tumulto del pane come nella più manzoniana delle tradizioni?
Quella è stata la scintilla. Ma le ragioni di fondo sono le condizioni materiali intollerabili e la preoccupazione per il futuro, l’insopportabilità del sovraffollamento, il timore che possa durare all’infinito e che la cifra di 950 detenuti, invece dei 400 previsti, possa aumentare ancora. Ormai è stabile la terza branda in celle nate per essere singole.

Cosa è venuto fuori dall’incontro col direttore?
Richieste molto concrete che segnalano una situazione degradata: un’alimentazione più decente, doccia anche la domenica, le ore d’aria che vengono ridotte, gli spazi angusti. Una situazione dove i detenuti vengono considerati pacchi da spostare da un corridoio all’altro e non persone titolari di diritti. Poi la sanità che non funziona, il codice fiscale non più attribuito agli stranieri (causa l’ultimo pacchetto sicurezza) che così non possono più lavorare, l’impossibilità di chiamare i cellulari quando molte famiglie non hanno più numeri fissi, le condizioni dei colloqui, l’atteggiamento ostruzionistico delle magistrature di sorveglianza che non applicano le misure alternative previste dalla legge.

Un po’ come chiedere la luna?
Si, quando regna una mentalità sciatta e burocratica. Ma il vero problema è che per molto tempo gli stessi detenuti hanno dimenticato di essere portatori di diritti e quindi hanno cercato di sopravvivere nel carcere alla meno peggio, senza parlare, senza farsi sentire, vittimizzandosi con l’autolesionismo.

Il responsabile della Uil penitenziaria, Eugenio Sarno, ha detto che a «fomentare la rivolta sarebbero i detenuti stranieri». Esponenti dell’Osapp hanno chiesto di ripristinare lo stato d’emergenza, come nel 1977. È giusto utilizzare il termine “fomentare»”? Non è forse la situazione a fomentarsi da sola?
In questo caso spinte all’intervento militare ci sono sempre. Ma io credo che l’esempio di oggi sia confortante. Non c’è stata una chiusura a riccio dell’amministrazione. Ho spiegato a Ionta che la protesta è giustificata. Se da questa vicenda uscisse fuori la possibilità che si riconoscano, in ogni carcere, commissioni di detenuti in grado di formulare documenti con richieste, con la possibilità di negoziare direttamente con le Direzioni e il Dap, sarebbe un passaggio positivo. Tornare ad avere voce nella vita delle prigioni è per i detenuti l’unico modo per uscire da una condizione di minorità. Occorre ridare la parola a una popolazione incarcerata rimasta per troppo tempo muta.

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Carceri, è rivolta contro l’affollamento: “Amnistia”

Dopo la prigione di Lucca, fuochi e tumulti al Bassone di Como e Solliciano

Paolo Persichetti
Liberazione
19 agosto 2009

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Al calar della sera si sono accesi i primi bagliori di rivolta. È successo lunedì scorso, nemmeno 24 ore dopo la più grande visita parlamentare mai avvenuta nelle carceri italiane dal dopoguerra. Prima nella casa circondariale Bassone di Como, poi in quella di Sollicciano a Firenze. Ieri è stato il turno di Capanne, il penitenziario di Perugia. È allarme generale ma non una sorpresa: «Da giorni, settimane, mesi ripetiamo che la situazione penitenziaria del Paese, a causa del costante sovraffollamento, è ogni giorno sempre più critica», ha ribadito in un comunicato il segretario del Sappe, una delle maggiori sigle sindacali della polizia penitenziaria.
L’incendio scoppiato all’interno di una cella del carcere di Capanne ha richiesto l’intervento di alcune squadre dei vigili del fuoco. Secondo le prime informazioni ad appiccare le fiamme sarebbero stati alcuni detenuti. A quanto pare l’episodio sarebbe circoscritto, a differenza di quanto è invece accaduto a Sollicciano tra le 23 e l’una di notte di lunedì. La battitura delle inferiate, programmata dai detenuti per dare voce alla protesta contro il sovraffollamento e rivendicare l’amnistia, si è rapidamente trasformata in una mezza sommossa. Per far sentire oltre le mura il respiro affannato di chi è rinchiuso, l’impasto di sudore e afa, le brande infuocate, l’aria densa e immobile che affoga gli spazzi stracolmi delle celle, i detenuti hanno deciso la protesta del rumore, una delle più classiche e antiche manifestazioni che danno voce al mondo dei rinchiusi. Una battitura ritmica delle inferiate realizzata con pentole, coperchi, bombolette del gas vuote, sgabelli e quant’altro si può percuotere contro le sbarre delle finestre o i blindati. Il tutto accompagnato da urla, fischi, slogan in favore dell’amnistia e dell’indulto. Presi dall’adrenalina altri hanno, invece, cominciato a dare fuoco a tutto quello che si poteva incendiare: giornali, lenzuola, stracci da mostrare alla città. No, non c’era nessun piano, nessun complotto in una situazione dove spesso manca la stessa grammatica per organizzare una protesta. Solo disperazione, tanta rabbia che esplode e accende gli animi. Provate voi a stare accatastati in quel modo, in pochi metri quadrati anche solo per qualche giorno. 950 persone rinchiuse in una struttura che ha una capienza massima di 400. In quelle stanze non circola aria ma grisù. Basta un nulla che prende fuoco.
Lo sanno gli agenti di custodia, e lo dicono ormai da diverso tempo. Lo sanno i direttori degli Istituti, lo sanno i dirigenti del Dap. Lo sa il ministro Alfano. Lo sanno tutti. E sanno anche qual’è l’unica soluzione. Ma fino ad oggi hanno deciso di fare finta di nulla accampando un piano carceri che, anche se solo riuscisse a decollare in parte dopo i tanti rinvii, non risolverebbe nulla se non gonfiare i portafogli di quegli imprenditori che avranno gli appalti.
A Sollicciano lunedì sera la tensione è salita alle stelle. Le cronache raccontano l’attivazione di un immediato piano sicurezza. La casa circondariale è stata subito circondata da gazzelle del nucleo radiomobile dei carabinieri e da agenti delle volanti. Altri rinforzi sono arrivati dal reparto mobile della polizia. Attorno al carcere è  stato costituito un fitto cordone di sicurezza, neanche avessero dovuto fare fronte a una guerra civile. Ma forse è un po’ a questa idea che i governanti vogliono prepararci. Già ad ogni crocicchio e semaforo di strada si vedono mimetiche dell’esercito armate di tutto punto. Nell’immediato dopoguerra alcune rivolte esplose in diverse carceri sovraffollate come oggi vennero sedate a colpi di cannone. Ci fu un massacro. Stiamo attenti, dunque.
Per fortuna l’altra sera la situazione si è placata nel giro di alcune ore, la polizia penitenziaria è entrata sezione dopo sezione per spegnere i focolai d’incendio. La protesta è di nuovo ripresa alle 10 e 30 del mattino successivo con una nuova battitura. Il garante per i detenuti Franco Corleone dopo un sopralluogo ha spiegato che le proteste nascono da una somma di carenze, diffuse un po’ ovunque nei penitenziari della penisola, aggravate dall’affollamento: la riduzione dei colloqui con familiari e delle ore di passeggio causa ferie del personale di custodia, la mancanza di docce, l’impossibilità di avere visite mediche rapide, sommata alla mancanza di spazi, l’impossibilità di lavorare o svolgere attività, la sordità delle magistrature di sorveglianza che negano i benefici penitenziari.
Non stupisce allora se anche a Como, una delle strutture penitenziarie più degradate d’Italia, la protesta è durata tre giorni. Dalla battitura iniziale e lo sciopero della fame intrapreso da alcuni, si è passati nei giorni successivi all’esplosione delle bombolette di gas in dotazione per i fornellini da cucina fino alla rottura dei neon delle celle col tentativo di provocare cortocircuiti, almeno secondo quanto riferito da un esponente della Uil penitenziaria. Angelo Urso, in una nota ha ricordato come nel carcere di Como «in questi anni non sono mai stati realizzati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. Pertanto la fatiscenza e l’insalubrità dei locali non può che aggravare la condizioni detentive».
Qualcosa di simile era già accaduto nella prigione di Lucca nei primi giorni di agosto. Anche lì, una protesta dimostrativa si era trasformata in un piccolo tumulto con il lancio di bombolette e focolai d’incendio nelle sezioni. Insomma si assiste ad una fisiologica tendenza all’inasprimento delle forme di lotta conseguenza dell’esasperazione suscitata dalle condizioni d’invivibilità. Nonostante questi ripetuti segnali e i continui appelli lanciati da tutti gli operatori del settore, dal cielo della politica non vengono risposte. Il governo è in vacanza, come i vertici del Dap e del ministero. Intervistato dal Gr della Rai, Ionta ha ribadito le virtù del suo piano straordinario d’edilizia carceraria, senza però indicare date precise sulla sua presentazione. Un’incertezza dietro la quale si nasconde l’assenza di copertura finanziaria e una sostanziale mancanza di credibilità. L’opposizione dovrebbe mobilitarsi con una grande iniziativa politica per impedire che nelle carceri avvengano tragedie. È ora di riaprire la vertenza sull’amnistia.

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Carceri affollate: Giudici californiani, «Svuotate le celle»

In California dopo il successo di una Class action promossa da un’associazione di detenuti, la Corte federale ordina la scarcerazione di 43 mila detenuti  entro due anni. Intanto l’Italia subisce la prima condanna per il sovraffollamento delle sue prigioni

Paolo Persichetti

Liberazione 6 agosto 2009

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La corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato nelle scorse settimane l’Italia a risarcire la cifra simbolica di mille euro per “danni morali” a un ex detenuto, Izet Sulejmanovic, perché vivere in 2,7 metri quadrati di spazio, cifra inferiore al limite di vivibilità di 7 metri quadri a persona stabilito dal comitato europeo per la prevenzione della tortura, è «inumano e degradante». Il trentaseienne bosniaco, condannato nel 2002 a due anni di reclusione per furto aggravato, era finito nel carcere romano di Rebibbia dove era rimasto rinchiuso per alcuni mesi in una cella che ospitava altre 5 persone. 16 metri e 20 centimetri da dividere in sei. Più o meno la realtà quotidiana di tutte le carceri italiane, anzi nemmeno la peggiore. Basti ricordare che tempo fa, nella casa circondariale di Trieste, si era sperimentata la turnazione, regolata con un registro, dei materassi sul pavimento. La cosiddetta “quinta branda”, cioè il posto in più ricavato con mezzi di fortuna nelle celle collettive, in genere da quattro, è stata sorpassata da tempo. Ormai si ricorre ai letti a castello. Le sezioni monocellulari ospitano due, se non tre detenuti per “cubicolo”, mentre nei “cameroncini” si può arrivare a sette-otto ospiti. Poi ci sono i “transiti”, le sezioni di prima accoglienza dove non esistono limiti. Pollai umani. Calca di corpi. La sanzione stabilita dai giudici europei è dunque importante perché riconosce l’illegalità permanente della condizione carceraria. Probabilmente questa è solo la prima di una lunga serie di condanne che investiranno il sistema carcerario italiano, e non si capisce bene con quale faccia i dirigenti del Dap e del ministero della Giustizia potranno affacciarsi in Europa. Il problema tuttavia non è solo italiano, anzi più esattamente l’Italia l’ha importato dagli Stati uniti, soggiogata dalle politiche sicuritarie della tolleranza zero. Ora però arriva il conto e sarà salato in termini economici e sociali. Il livello di tensione e conflitto sta salendo, l’ingestibilità dell’universo carcere diventa ogni giorno di più difficile. L’ossessione della sicurezza «ha generato solo insicurezza», come ricordava tempo fa Michele Ainis su La Stampa. Basta ascoltare gli allarmi lanciati dai sindacati penitenziari. Un coro unanime denuncia l’invivibilità e la pericolosità raggiunta dal sistema.
Negli Stati uniti, ha raccontato l’altro ieri il New York Times, un comitato di giudici federali della California ha ordinato al governatore Arnold Schwarzenegger di ridurre il numero dei reclusi di almeno 40 mila unità entro i prossimi due anni, cioè circa il 27% della popolazione totale.

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Il giudizio emesso dalla corte è molto netto, definisce senza mezzi termini il circuito penitenziario, così come oggi è concepito, un sistema «criminogeno». Dopo aver indagato per alcuni anni il trattamento riservato ai reclusi, a seguito di una class action promossa da un’associazione di carcerati, e dopo lo stato di emergenza proclamato dallo stesso governatore nel 2006,  i tre giudici federali hanno stilato un rapporto di 184 pagine nel quale concedono 45 giorni di tempo ai membri dell’assemblea statale e al governatore per presentare un piano che riduca la popolazione dalle attuali 150 mila unità a 110 mila. Nel rapporto i giudici denunciano violazioni patenti dei diritti individuali sanciti dalla costituzione. «La salute fisica e mentale degli istituti californiani è umanamente e costituzionalmente inadeguata da oltre 10 anni». Per lungo tempo sono state negate, in situazioni dove l’affollamento può raggiungere livelli spettrali anche del 300%, «le cure fisiche e mentali essenziali con conseguenze talvolta fatali».

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Il rapporto descrive un flusso d’ingresso negli istituti che stravolge tutte le misure di verifica e gestione, con l’effetto di rendere poco accurate le fasi d’identificazione e di certificazione dello stato di salute degli incarcerati, suscitando situazioni di pericolo per la custodia e i reclusi stessi. Emerge un sistema caotico con tripli letti a castello, brande accatastate in palestre e corridoi. In sostanza l’inchiesta delinea lucidamente il tracollo del complesso carcerario-industriale e della politica della tolleranza zero risoltasi nel suo esatto contrario, ovvero una industria dell’insicurezza. Schwarzenegger aveva già proposto una riduzione di 27 mila unità, ma i giudici ora portano la barra a 43 mila. Nessuno pensa alla costruzione di nuove carceri come in Italia. Una vacanza in California potrebbe suggerire qualche buona idea al ministro Alfano e al capo del Dap, Ionta. Buon viaggio.

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Mammagialla morning
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Paolo Persichetti
Liberazione
30 luglio 2009

Una «cella di punizione» descritta da testimoni e da chi ha potuto verificarne l’esistenza come «stretta, buia, dall’odore nauseabondo». Qualcosa che assomiglia più a una segreta medievale che a una moderna camera di sicurezza, molto lontano dai requisiti di legge che stabiliscono dimensioni, caratteristiche architetturali, condizioni igieniche e arredo di una normale «camera di pernottamento», come l’ordinamento e il regolamento il carcere di veneziapenitenziario si ostinano a definire – non senza un tocco di perfida ipocrisia – una normale cella penitenziaria. In gergo carcerario si chiama «cella liscia», il non plus ultra della punizione. Una cella completamente vuota, senza mobilio, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto o manufatto che possa svolgere funzione di appiglio. Senza finestra, con piccole feritoie al suo posto, oppure – l’immaginario del supplizio è pieno di fantasia – senza infissi, nude sbarre senza vetri e ante col freddo che d’inverno aggredisce i corpi non di rado lasciati nudi (col pretesto di non offrire vantaggi a chi avrebbe intenzione di suicidarsi), magari anche bagnati. Solo le quattro mura, il pavimento e il “blindo”, cioè una massiccia porta di ferro senza cancello che chiude la stanza. Per servizi igienici una turca piazzata in un angolo senza muretto, quando si è fortunati, altrimenti nemmeno quella. Un buco a terra oppure niente. Chi c’è finito, qualsiasi fosse il carcere dove si trovava, descrive il medesimo spettacolo rivoltante. Escrementi ovunque, urina rafferma, aria infetta, insetti. Una sentina della terra piena di graffiti tracciati con le unghie da chi in quel luogo ha trascorso dure quarantene per spurgare ataviche dipendenze dalle droghe, furie isteriche, crisi psichiatriche, oppure ha scontato ruvide punizioni. Quando finisci in un posto del genere dormi per terra, cioè su un tappeto di merda. Impari a non respirare col naso e ti stringi più che puoi, cerchi di farti piccolo, piccolo. Tutte le attuali sezioni d’isolamento dispongono ancora di una cella liscia. Eredità antica, dura a morire come quella del carcere di santa Maria Maggiore a Venezia, che, dopo il suicidio – lo scorso 6 marzo – di un marocchino di ventisei anni di nome Mohammed, ha attirato l’attenzione della magistratura. Così il nome di sei poliziotti della penitenziaria è finito nel registro degli indagati per il reato di «abuso di autorità contro persone arrestate o detenute» (698 cp). La magistratura vuole accertare se la cella liscia sia stata impiegata per ospitare momentaneamente i detenuti “nuovi giunti”, in attesa di essere assegnati in sezione, oppure se sia stata utilizzata come cella d’isolamento.
Dopo la morte di Mohammed il sostituto procuratore Stefano Michelozzi ha indagato per omicidio colposo due ispettori della penitenziaria: il responsabile del reparto dove è avvenuto il suicidio, e il responsabile della sorveglianza generale. Secondo il magistrato nella condotta dei due graduati si evidenziano possibili carenze e omissioni nella gestione del detenuto, che in manifeste condizioni di sofferenza psichica aveva già tentato il suicidio poche ore prima della morte. Invece di essere affidato alle cure del caso e sottoposto a “sorveglianza speciale” a vista, Mohammed è finito nella famigerata cella liscia. Abbandonato a se stesso e alla sua sofferenza e disperazione, ha sfilettato con i denti la coperta di lana lasciatagli come giaciglio per farne una treccia che poi è riuscito a utilizzare per appendersi alla finestra. L’episodio aveva suscitato numerose proteste tra i suoi compagni (diversi vennero trasferiti).
Alcune lettere provenienti dal carcere, pubblicate anche sul sito di Ristretti orizzonti, hanno ricostruito le fasi precedenti il suicido denunciando l’incuria e i metodi brutali della custodia, in particolare contro gli stranieri. Dopo il primo tentativo di suicidio, scriveva un testimone: «è stato portato in una cella di punizione che puzza tanto da far vomitare e che è buia più di una grotta. Lo so perché ci sono stato. Gli hanno prima tolto i vestiti e poi sarebbe stato spinto dentro solo con una coperta senza neppure farlo visitare da un medico o da uno psichiatra. Perché nessuno ha controllato cosa faceva e come stava? Non era meglio lasciarlo con i compagni, che pure avevano chiesto di lasciarlo con loro?». Nei giorni scorsi il pm ha chiesto di poter raccogliere sotto forma di incidente probatorio le dichiarazioni di sette detenuti, tutti stranieri, che nel corso delle indagini preliminari hanno raccontato al magistrato numerosi particolari sull’utilizzo della cella liscia. È l’unica strada per dare immediato valore probatorio alle loro dichiarazioni, prima che possibili pressioni e ricatti dell’istituzione carceraria possano spingerli a ritrattare o, terminata la pena, diventino irrintracciàbili. Ma la domanda più importante è un’altra: questa inchiesta porterà all’abolizione delle celle lisce e dei reparti d’isolamento? Il presidente del Dap, Franco Ionta, interverrà con una circolare apposita?

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