L’articolo 18 di Emma Marcegaglia

L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori pone dei limiti al licenziamento per ragioni disciplinari stabilendo che la rescissione del contratto di lavoro non può avere carattere discriminatorio diretto e indiretto, cioè in quest’ultimo caso ammantarsi di ragioni che celino nella realtà una volontà di censura dell’attività sindacale, delle opinioni politiche, religiose, culturali, di appartenenza etnica o linguistica o degli orientamenti sessuali del lavoratore, come sancito per altro dallo stesso articolo 3 della Costituzione. Per questo motivo quando il giudice del lavoro ne dovesse accertare la violazione, al datore di lavoro viene imposto il reintegro del dipendente licenziato per ingiusta causa e il risarcimento integrale delle mensilità perdute.
Per Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori serve invece a proteggere ladri e fannulloni. Lo ha detto ieri. Da molti anni il padronato non compie più l’errore, o sarebbe meglio dire che non ha avuto più la forza e la legittimità – grazie alle lotte sociali degli anni 60 e 70 ivi compresa la lorta armata – di liberarsi di un dipendente accusandolo apertamente di avere idee o condotte politiche poco gradite all’azienda.
Chi fa attività sindacale o politica verrà, per esempio, accusato di essere un violento (come è accaduto alla Fiat di Melfi non molto tempo fa e come accadde nel 1979 a Mirafiori con i 61 quadri di lotta licenziati in blocco perché accusati di connivenza con le organizzazioni comuniste armate), di avere infranto le regole aziendali; i rimproveri disciplinari saranno sempre fondati su contestazioni subdole come l’assenteismo, l’errore professionale, la poca diligenza, eccetera. Il fondamento di questo tipo di accuse viene vagliato nel merito dal giudice del lavoro, una volta che il lavoratore presenta ricorso. E’ questo margine interpretativo che padronato, governo e forze sindacali tradizionalmente filo governative, corporative e concertative, vogliono ridurre.
Per dirla in breve, il padronato rivendica mano libera, dominio totale sul posto di lavoro. Incrinando il principio delle tutele antidiscriminatorie potrà disporre come vuole della sua forza-lavoro, resa docile da una gestione terroristica del rapporto di lavoro. E’ questo il nodo della partita in corso: flessibilità totale in uscita, dopo aver reso totalmente flessibile, cioè totalmente precario, il mercato del lavoro in entrata.

C’è un’altro aspetto delle dichiarazioni della signora Marcegaglia contro l’articolo 18 sul quale vale la pena soffermarsi: l’attuale presidente uscente della Confindustria ha parlato a proposito dell’articolo 18 di tutela dei ladri…
Forse è il caso di ricordare alcune vicissitudini non proprio in regola con la legge che hanno visto come protagonista il gruppo Marcegaglia.

Scandalo Enipower
Nel 2007 Mario Perego, un dirigente della società N.E.-C.C.T. (“joint venture” tra gli americani di Nooters Eriksen e la C.C.T. del gruppo Marcegaglia), fu accusato di aver pagato nel 2003 una tangente a un dirigente di Enipower, Lorenzino Marzocchi. Anche Antonio Marcegaglia, fratello di Emma, amministratore delegato della capogruppo e presidente di N.E.-C.C.T., venne indagato per corruzione. Si difese sostenendo di aver autorizzato il pagamento di quella che gli era stata prospettata dal suo manager («in larga autonomia») come una consulenza richiesta da Marzocchi per dar spessore al desiderio della società di essere ammessa nella lista dei fornitori di Enipower. Per l’accusa, invece, quella consulenza sarebbe stata solo la «maschera» legale di una tangente da 1,1 milioni di euro. Alla fine Antonio Marcegaglia preferì uscirne patteggiando una condanna: undici mesi di reclusione (subito sospesa) per lui; 500mila euro di pena pecuniaria e 250 mila di confisca per Marcegaglia spa; 500 mila euro di pena pecuniaria e cinque milioni di confisca per la N.E.-C.C.T.
Come ha scritto Luca Piana sull’Espresso, le indagini milanesi hanno rivelato l’esistenza di numerosi conti “off shore” intestati alla famiglia, sui quali sono transitate negli anni cifre importanti. In pratica, il gruppo non sempre acquistava i materiali necessari per l’attività industriale, ma li comprava da società di trading che riversavano i guadagni su appositi conti cifrati. Rispondendo ai magistrati, Antonio Marcegaglia ha spiegato che il sistema serviva a creare «risorse riservate che, peraltro, abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo, per le sue esigenze non documentabili». Antonio Marcegaglia ha raccontato che nell’agosto 2004 si decise di chiudere il sistema di triangolazioni che ha alimentato i fondi neri. Una parte dei fondi, circa 22 milioni di euro, venne tuttavia trasferita a Singapore.
«La decisione», ha detto Antonio Marcegaglia, «era stata presa da tempo anche per motivi commerciali. Tuttavia non nego che l’inchiesta Enipower abbia impresso un’accelerazione nel timore di un sequestro giudiziario.» Secondo Piana dell'”Espresso”, «nelle motivazioni di diversi trasferimenti di denaro, non mancano pagamenti in nero a collaboratori, professionisti, fornitori italiani».  Emma Marcegaglia accolse favorevolmente lo scudo fiscale voluto da Giulio Tremonti sui patrimoni detenuti all’estero.*

L’appalto berlusconiano del G8 alla Maddalena
Mita Resort è una società attiva soprattutto in Sardegna (nel 2008 ha fatturato 66 milioni di euro, producendone 3,2 di utile) controllata al 50% dalla Gaia Turismo della famiglia Marcegaglia e al 50% dalla Olii Resorts, una spa che appartiene al 72% alla Life & Resorts di Massimo Caputi. Mita, si occupa di costruzione e gestione di immobili turistici la cui proprietà resta di soggetti terzi.
All’inizio del 2009 il Governo Berlusconi affida a Mita Resort l’appalto per la costruzione e la gestione di una nuova area turistica in Sardegna, di fronte all’Arsenale dell’isola di La Maddalena, proprio davanti a Caprera e a Santo Stefano. Lo scopo iniziale è di riqualificare l’area in preparazione del G8, che doveva tenersi in loco. Gli investimenti dello Stato in questa operazione immobiliare sono stati pari a circa 210 milioni di euro. Come scrive Fabrizio Gatti sull’Espresso, fra il primo maggio e il 20 giugno 2009 la Mita Resort avrebbe dovuto completare e arredare le 95 stanze dell’albergo destinato a Barack Obama e alla sua delegazione, assumere e formare il personale, gestire l’hotel secondo uno standard di cinque stelle lusso, attrezzare il porto turistico. Inoltre, la Mita Resort avrebbe dovuto versare 41 milioni di euro una tantum allo Stato, e un affitto di 600 mila euro all’anno alla regione Sardegna. In cambio, la società avrebbe ottenuto la concessione per costruire e gestire un’area di 155 mila metri quadrati nella parte più ricca della Sardegna, edificando un hotel di lusso, un centro delegati da 10 mila metri quadrati progettato per esser poi trasformato in sala conferenze o centro commerciale, ulteriori aree coperte per 16 mila metri quadrati di estensione, 30 mila metri quadrati di verde, un porto turistico.All’ultimo momento si decide di trasferire il G8 in Abruzzo per catalizzare l’attenzione mondiale sulla tragedia del terremoto.
In questo modo, si determina una sorta di «perdita» per Mita Resort, che non può utilizzare l’evento per promuovere l’area turistica. Come «risarcimento» Mita ottiene la conferma delle medesime condizioni, e il prolungamento della concessione da 30 a 40 anni. «Così Mita Resort incasserà due volte», scrive Gatti, «dal prolungamento del periodo di gestione e dal risparmio per la cancellazione del vertice.» In pratica, a fronte di un esborso pubblico pari a 210 milioni di euro, Mita Resort investe 65 milioni di euro (41 milioni di una tantum + 600 mila euro per 40 anni) per avere in affitto l’area per 40 anni. A conti fatti, si tratta di un canone di locazione annuale di 10 euro al metro quadrato per una delle aree migliori della Costa Smeralda. Un ottimo affare per Mita Resort, «uno schiaffo ai contribuenti» secondo Gatti.
L’ottimo affare della presidente di Confindustria viene sottolineato da Silvio Berlusconi stesso, quando, nel giugno 2009, interviene al convegno dei giovani imprenditori di Santa Margherita Ligure: «Abbiamo ultimato i lavori di rilancio della Maddalena, lavori affidati al gruppo Marcegaglia», dice il presidente del Consiglio di fronte alla platea confindustriale e a tutte le televisioni, sottolineando una seconda volta: «lavori affidati al gruppo Marcegaglia». Chi doveva capire ha capito.*


* Fonte: Filippo Astone, Il Partito dei padroni. Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia, Longanesi, Milano 2010

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Le disavventure girotondine nel mondo della finanza

Truffa dei Parioli, il guadagno facile che “incanta” anche a sinistra

Paolo Persichetti
Liberazione 8 aprile 2011

Quello che più colpisce del raggiro finanziario messo in piedi da Gianfranco Lande, un po’ troppo velocemente ribattezzato il “Madoff dei Parioli”, vicenda sulla quale si sono dilungate le cronache dei giorni scorsi, non è tanto lo schema truffaldino messo in piedi quanto il profilo di alcune delle vittime, quasi 1200, finite nella rete. La tecnica utilizzata da Lande e dai suoi sodali finiti a Regina Coeli insieme a lui, attraverso alcune società costituite inizialmente in Paesi europei dove vige una larga deregulation finanziaria, come l’Irlanda e la Gran Bretagna, riprende la tecnica resa celebre negli Stati uniti all’inizio del secolo scorso dal migrante italiano Charles Ponzi. Si tratta del vecchio trucco della piramide: attraverso la promessa di guadagni rapidi e lucrosi, grazie a interessi sugli investimenti vertiginosi, si rastrella denaro. Il segreto è quello di trovarsi sempre al vertice della piramide ed aspettare che questa allarghi la sua base. L’afflusso di denaro dei nuovi clienti permette di remunerare i lauti interessi promessi ai primi. Lo schema regge finché la base della piramide continua ad allargarsi, poi crolla tutto. Nel frattempo i promotori della truffa scappano con la cassa. Ponzi reclutava le sue vittime tra gli altri immigranti e nei ceti popolari. Con appena due dollari si entrava nella società. In questo modo raccolse diversi milioni di dollari truffando quasi 40 mila persone.
Bernard Madoff, che è stato presidente del Nasdaq, il listino più importante nel mercato degli affari degli ultimi decenni, è riuscito a condurre fino al sublime questo modello attirando nella sua rete non singoli clienti ma i maggiori istituti finanziari del mondo. L’entità della truffa stavolta è stata dell’ordine dei miliardi di dollari, oltre 50. Addebitare a lui il crack della finanza internazionale sarebbe comunque un errore anche se la giustizia americana ne ha fatto un capro espiatorio. Ceti medi in rovina e grande borghesia avevano bisogno di un colpevole. Ma la bolla del mercato immobiliare statunitense, da cui hanno avuto origine i “derivati finanziari” utilizzati dai fondi speculativi che hanno invaso la finanza mondiale dopando l’economia, il debito pubblico di molti Paesi, persino quello di regioni e comuni in Italia, non sono certo riconducibili all’azione di un singolo attore. Il problema evidentemente investe l’evoluzione sistemica del capitalismo.
Lande, molto più modestamente, ha beffato il gotha della Roma pariolina, quartiere d’eccellenza della Capitale. Ma anche qui ridurre tutto ad una semplice truffa è forse fin troppo riduttivo. Lande e i suoi associati hanno certo agito fraudolosamente con società non autorizzate alla raccolta del risparmio, ma la loro azione illecita ha trovato spazio nelle maglie per nulla illegali della finanza internazionale. Il denaro dei loro clienti veniva investito in portafogli finanziari di varia natura, con l’arrivo dello scudo fiscale di Tremonti, Lande ha avuto l’occasione di creare una nuova società, questa volta autorizzata a raccogliere risparmio, che si è occupata di riportare in Italia i capitali precedentemente trasferiti all’estero al nero per convogliarli in nuovi investimenti dai contorni incerti, finché il crack della finanza internazionale ha accelerato il crollo di tutta l’architettura finanziaria messa in piedi.
Molto più interessante appare invece il profilo socio-culturale dei truffati, tra vip, imprenditori, politici (diversi piddini), calciatori e persino affiliati del clan Piromalli, si annidano alcune figure di punta del fronte girotondino che hanno promosso in chiave essenzialmente moralista l’antiberlusconismo nell’ultimo decennio. Spicca il nome di Sabina Guzzanti (400 mila euro persi), a dire il vero, fatta eccezione per Corrado, c’è l’intera famiglia: padre (275 mila) e sorellina più piccola (88 mila). Significativo il coinvolgimento dei Piromalli, esponenti di un noto clan della ‘ndrangheta calabrese, arrestati per estorsione su denuncia di un terrorizzato Lande perché cercavano di recuperare i 14 milioni versati, mentre erano loro i truffati. Circostanza che sfata molti luoghi comuni sul libìvello d’integrazione delle organizzazioni criminali con i “terzi e quarti livelli” finanziari. Ma forse ancora più decisive appaiono le parole di Mario Adinolfi, il bloger già candidato alle primarie dell’Ulivo, anch’egli esponente della galassia girotondina, che i suoi soldi li ha recuperati per tempo guadagnandoci un bel gruzzolo. Come ha spiegato in una intervista al Messaggero, aveva capito che non bisognava essere tra gli ultimi della piramide. A leggerlo, anche lui tra i più accesi antiberlusconiani, sembra di sentire invece uno dei tanti yesmen di Arcore: «Sono uno dei pochi che ha vinto», esulta. Quando il cavaliere entrava in politica Adinolfi affidava il suo denaro a Lande, «tra il ’94 e il ’95 credo. Ho tenuto i soldi “fermi” per quattro anni e già mi sembrava tantissimo». Adinolfi non è fesso, capisce l’antifona e chiede in dietro il suo investimento. E’ presto e la base della piramide si sta ancora allargando, per lui è una fortuna. Si è studiato bene la questione, come confessa sempre al quotidiano romano, dove conclude: «ho avuto indietro il denaro e gli interessi. E’ andata molto bene». Pecunia non olet si sa.
Questa vicenda mette in mostra l’essenza dei protagonisti girotondismo, l’indignazione moralista dei salotti che dietro le virtù pubbliche declamate cela gli stessi vizi privati del berlusconismo. In pubblico se la pigliano con il Cavaliere e i suoi loschi affari ma in privato tentano di fare la stesa cosa, anche se poi non ci riescono solo per imperizia delle membra. Dove sta la diffrenza?

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