Le disavventure girotondine nel mondo della finanza

Truffa dei Parioli, il guadagno facile che “incanta” anche a sinistra

Paolo Persichetti
Liberazione 8 aprile 2011

Quello che più colpisce del raggiro finanziario messo in piedi da Gianfranco Lande, un po’ troppo velocemente ribattezzato il “Madoff dei Parioli”, vicenda sulla quale si sono dilungate le cronache dei giorni scorsi, non è tanto lo schema truffaldino messo in piedi quanto il profilo di alcune delle vittime, quasi 1200, finite nella rete. La tecnica utilizzata da Lande e dai suoi sodali finiti a Regina Coeli insieme a lui, attraverso alcune società costituite inizialmente in Paesi europei dove vige una larga deregulation finanziaria, come l’Irlanda e la Gran Bretagna, riprende la tecnica resa celebre negli Stati uniti all’inizio del secolo scorso dal migrante italiano Charles Ponzi. Si tratta del vecchio trucco della piramide: attraverso la promessa di guadagni rapidi e lucrosi, grazie a interessi sugli investimenti vertiginosi, si rastrella denaro. Il segreto è quello di trovarsi sempre al vertice della piramide ed aspettare che questa allarghi la sua base. L’afflusso di denaro dei nuovi clienti permette di remunerare i lauti interessi promessi ai primi. Lo schema regge finché la base della piramide continua ad allargarsi, poi crolla tutto. Nel frattempo i promotori della truffa scappano con la cassa. Ponzi reclutava le sue vittime tra gli altri immigranti e nei ceti popolari. Con appena due dollari si entrava nella società. In questo modo raccolse diversi milioni di dollari truffando quasi 40 mila persone.
Bernard Madoff, che è stato presidente del Nasdaq, il listino più importante nel mercato degli affari degli ultimi decenni, è riuscito a condurre fino al sublime questo modello attirando nella sua rete non singoli clienti ma i maggiori istituti finanziari del mondo. L’entità della truffa stavolta è stata dell’ordine dei miliardi di dollari, oltre 50. Addebitare a lui il crack della finanza internazionale sarebbe comunque un errore anche se la giustizia americana ne ha fatto un capro espiatorio. Ceti medi in rovina e grande borghesia avevano bisogno di un colpevole. Ma la bolla del mercato immobiliare statunitense, da cui hanno avuto origine i “derivati finanziari” utilizzati dai fondi speculativi che hanno invaso la finanza mondiale dopando l’economia, il debito pubblico di molti Paesi, persino quello di regioni e comuni in Italia, non sono certo riconducibili all’azione di un singolo attore. Il problema evidentemente investe l’evoluzione sistemica del capitalismo.
Lande, molto più modestamente, ha beffato il gotha della Roma pariolina, quartiere d’eccellenza della Capitale. Ma anche qui ridurre tutto ad una semplice truffa è forse fin troppo riduttivo. Lande e i suoi associati hanno certo agito fraudolosamente con società non autorizzate alla raccolta del risparmio, ma la loro azione illecita ha trovato spazio nelle maglie per nulla illegali della finanza internazionale. Il denaro dei loro clienti veniva investito in portafogli finanziari di varia natura, con l’arrivo dello scudo fiscale di Tremonti, Lande ha avuto l’occasione di creare una nuova società, questa volta autorizzata a raccogliere risparmio, che si è occupata di riportare in Italia i capitali precedentemente trasferiti all’estero al nero per convogliarli in nuovi investimenti dai contorni incerti, finché il crack della finanza internazionale ha accelerato il crollo di tutta l’architettura finanziaria messa in piedi.
Molto più interessante appare invece il profilo socio-culturale dei truffati, tra vip, imprenditori, politici (diversi piddini), calciatori e persino affiliati del clan Piromalli, si annidano alcune figure di punta del fronte girotondino che hanno promosso in chiave essenzialmente moralista l’antiberlusconismo nell’ultimo decennio. Spicca il nome di Sabina Guzzanti (400 mila euro persi), a dire il vero, fatta eccezione per Corrado, c’è l’intera famiglia: padre (275 mila) e sorellina più piccola (88 mila). Significativo il coinvolgimento dei Piromalli, esponenti di un noto clan della ‘ndrangheta calabrese, arrestati per estorsione su denuncia di un terrorizzato Lande perché cercavano di recuperare i 14 milioni versati, mentre erano loro i truffati. Circostanza che sfata molti luoghi comuni sul libìvello d’integrazione delle organizzazioni criminali con i “terzi e quarti livelli” finanziari. Ma forse ancora più decisive appaiono le parole di Mario Adinolfi, il bloger già candidato alle primarie dell’Ulivo, anch’egli esponente della galassia girotondina, che i suoi soldi li ha recuperati per tempo guadagnandoci un bel gruzzolo. Come ha spiegato in una intervista al Messaggero, aveva capito che non bisognava essere tra gli ultimi della piramide. A leggerlo, anche lui tra i più accesi antiberlusconiani, sembra di sentire invece uno dei tanti yesmen di Arcore: «Sono uno dei pochi che ha vinto», esulta. Quando il cavaliere entrava in politica Adinolfi affidava il suo denaro a Lande, «tra il ’94 e il ’95 credo. Ho tenuto i soldi “fermi” per quattro anni e già mi sembrava tantissimo». Adinolfi non è fesso, capisce l’antifona e chiede in dietro il suo investimento. E’ presto e la base della piramide si sta ancora allargando, per lui è una fortuna. Si è studiato bene la questione, come confessa sempre al quotidiano romano, dove conclude: «ho avuto indietro il denaro e gli interessi. E’ andata molto bene». Pecunia non olet si sa.
Questa vicenda mette in mostra l’essenza dei protagonisti girotondismo, l’indignazione moralista dei salotti che dietro le virtù pubbliche declamate cela gli stessi vizi privati del berlusconismo. In pubblico se la pigliano con il Cavaliere e i suoi loschi affari ma in privato tentano di fare la stesa cosa, anche se poi non ci riescono solo per imperizia delle membra. Dove sta la diffrenza?

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Populismo penale

Feticci della legalità e natura del populismo giustizialista

Botta e risposta a proposito di un articolo apparso su questo blog e nel quale si spiegava che l’aggressione subita da Berlusconi non trova origine in un presunto ritorno al clima degli anni 70 ma nella guerra civile borghese strisciante che traversa l’Italia di oggi

Aggressione a Berlusconi: ma cosa c’entrano gli anni 70? E’ guerra civile borghese

1) Vecchiume

“giovani che sventolavano Il Fatto, quotidiano portavoce del giustizialismo populista più fazioso, «destra d’opposizione» qualunquista, reazionaria, ultralegittimista, borghese e forcaiola”.

Non dico che ci sia anche una parte di verita ma che semplificazione banale. Tra quelli che sventolano il “Fatto” piuttosto che votare “Italia dei Valori” ci sono persone in carne ed ossa, con un nome una storia personale. Molti come il sottoscritto, compagni, che senza dare un significato strategico (non ci si muove solo con campagne super pianificate di lunga durata) magari per protestare contro quei peraccottari di Rifondazione e company hanno anche votato Di Pietro. E cosa siamo: qualunquisti borghesi!
Meno male che ci sei tu a spiegarcelo. Visto che avevi capito tutto a tempi della lotta armata giustamente sei ancora qui a illuminare le nostre deboli menti che tutto questo non capiscono.


2) Asilo d’infanzia

Bè vedi, compagno, “persone in carne ed ossa“ siamo tutti, tutte. Mammiferi bipedi, derivati per uno ‘scarto’ genetico minimo dai primati superiori, con pollice opposto, stazione eretta, epiglottide capace di emettere suoni articolati, diversificatisi in parallelo – iniziando un po’ dopo – di Cro Magnon, e fondamentalmente distintisi come specie di “esseri parlanti“, definiti “specializzati nella parola“ e perciostesso, essendosi sporti fuori dall’essere, inferito la mortalità, riguardatisi, realizzata l’alterità, concepitisi, conosciuti gli interrogativi su cause e fini, su prima e prima del prima, scoperto/inventato il tempo, angosciatisi sul senso, i dilemmi, gli aut-aut, le coppie come felice/infelice…, l’angoscia del finito, effimero, e la claustrofobia dell’eterno….
Perciostesso, dicevamo, specie “pericolosa“, non più governata dalla teleologia dell’istinto, innato, di autoconservazione della specie dunque suscettibili di autodistruggersi…

In carne ed ossa siamo tutti, “uomini ed altri animali”, e fuor di dilemmi su olismi o individualismo/universalismo, fuor di ideologie “umanistiche“, o altro… Che c’entra, però!
Tra l’altro, la furia, il disappunto, vengono dal pensare che ci sia – tra nojaltri – una alienazione della ribellione, della rivoltosità, a favore della caricatura di una denuncia del Tiranno senza nemmeno tirannicidio; un barattare “la primogenitura” dela critica radicale, dell’inimicizia, della sovversione sociale per il “piatto di lenticchie” del risentimento, della denuncia morale, della focalizzazione su una parte per il tutto, dell’illusione di una soluzione penale, del feticcio della “legalità“, del “controllo di legalità“, dell’azione penale e della sanzione giudiziaria e poi dell’esecuzione penitenziaria.

Nessuno qualifica te, o i “tipi come te” che hanno creduto di trovare un punto di forza, di leva, di traduzione del proprio bisogno di rivolta nell’ oltranzismo di un “antibelusconismo” ipnotizzato ed ipnotico, nell’alienazione giudiziaria, nel surrogato penale dell’ “azione collettiva“, nella sua surrogazione che si fa sostituzione, in un diversivo e sfogo contraddittorio con le ‘ragioni per cui’, con i principî enunciati, come borghesi moralisti forcajoli.

Resta, che ciò che fanno e predicano Feticcio della legalità, i Travaglio, i Di Pietro & simili, negli anni ‘70 lo faceva e diceva Il Candido del senatore missino ed ex-repubblichino Giorgio Pisanò.
Ti impenni per articolo, occhiello, titolo, sommario ( “Anni ‘70? Macchè, è guerra civile borghese (…) a contestare il leader del Pdl non c’erano i centri sociali ma giovani che sventolavano Il Fatto, quotidiano portavoce del giustizialismo populista più fazioso, «destra d’opposizione» qualunquista, reazionaria, ultralegittimista, borghese e forcaiola”), e con sarcasmo amaro osservi: “E cosa siamo: qualunquisti borghesi ?”.

Ma il giudizio è sulla natura, per cominciare, “natura di classe” del “manipulitismo”, del giustizierismo in forma giudiziaria, dell’emergenzialismo penale, del feticcio della Legalità (“potere dei senza potere”), del mito e del culto dell’azione penale come panacèa giustiziera e forma di una logica “giustizialista”. Critica del girotondismo, della cultura propinata da Repubblica e da una schiera di “satelliti, ateroidi, pianetini…”.

La critica può eventualmente essere sottoposta a tentativo di confutazione: ma è distorcerla e malintenderla se le si attribuisce sprezzo per quei compagni che – a nostro parere – alienando la loro voglia di rivolta finiscono (a nostro avviso argomentato e, beninteso, offerto a controversia) ad intrupparsi dietro bandiere certamente non loro. Anzi, apertamente nemiche, portatrici di inimicizia frontale implacbile contro “tutti noi” !

Per contro, se posso dirti, sei tu che usi un sarcasmo che rivela un malcelato pregiudizio che il risentimento fa affiorare alla superficie, quando scrivi: “Meno male che ci sei tu a spiegarcelo. Visto che avevi capito tutto a tempi della lotta armata giustamente sei ancora qui a illuminare le nostre deboli menti che tutto questo non capiscono”.

Devo dirti : lo stilema è frusto, estenuato, buono per battute da disputa di coppia in fotoromanzi e telenovela. Se ne evince, o una sorta di reazione da mania di persecuzione o complesso, oppure un giudizio sprezzante e liquidatorio, animoso, rancoroso verso la “lotta armata” e i suoi “tempi”. Non è così?

Oreste Scalzone 16/12/2009

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«Caro Lula, in Italia di ergastolo si muore»

Lettera aperta di un gruppo di ergastolani italiani al presidente brasiliano: «In Italia l’ergastolo è reale. Non estradare Battisti»

Paolo Persichetti

Liberazione 26 marzo 2009

Un gruppo di ergastolani reduci dallo sciopero della fame contro l’ergastolo, che per tre mesi e mezzo ha coinvolto a staffetta tutte le prigioni italiane, ha indirizzato una lettera aperta al presidente del Brasile, Ignazio Lula da Silva. Lo rende noto l’associazione Liberarsi che ieri ne ha diffuso il contenuto. Con questo gesto quei detenuti che sul loro certificato penale trovano la dicitura “fine pena mai” hanno voluto esprimere apprezzamento per un Paese che ha abolito l’ergastolo dal proprio codice penale. Nel testo, gli autori criticano senza mezzi termini quei giornali e soprattutto quegli esponenti politici che, ignorando «la storia, le storie e persino gli atti processuali», hanno per settimane ingiustamente raffigurato il Brasile come un postribolo da «terzo mondo, privo di una solida cultura giuridica, terra che custodisce latitanti e criminali internazionali». Un Paese che all’uscita degli anni bui della dittatura militare ha saputo fare quel salto di civiltà giuridica che mancò all’Italia dopo il fascismo. Dopo aver letto che una delle ragioni che potrebbero condurre le autorità brasiliane a rifiutare l’estradizione verso l’Italia di Cesare Battisti, l’ex militante della sinistra armata degli anni 70 che ha ottenuto lo status di rifugiato politico dal ministro della Giustizia Genro, viene proprio dal fatto che il Brasile rifiuta l’ergastolo, e senza per questo «voler entrare nel merito della vicenda», gli autori del testo ringraziano Lula «per aver ribadito un principio giuridico internazionale che dovrebbe essere un atto politico essenziale nella storia sociale dei popoli». In Italia – spiegano ancora gli autori della lettera – uno sciopero della fame che ha coinvolto migliaia di persone contro una pena socialmente eliminativa, «figlia giuridica della pena di morte, non fa notizia come il fatto che siano stati depositati alla corte di Strasburgo ben 739 ricorsi contro l’ergastolo». Per tutta risposta, invece, si stanno approntando «leggi che prevedono carcere e pene severe per immigrati, tossicodipendenti, prostitute e persino giornalisti». Tanto che le condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane «come ha dichiarato in questi giorni lo stesso ministro della Giustizia, non rispettano il dettato costituzionale né il diritto alla dignità». Con questa iniziativa gli ergastolani vogliono far sapere alla comunità internazionale che in Italia la pena dell’ergastolo resta a tutti gli effetti una pena perpetua. La concessione della liberazione condizionale dopo il ventiseiesimo anno di reclusione, evocata ipocritamente dai nostri rappresentanti istituzionali, resta solo un’ipotesi sottomessa alla discrezionalità della magistratura e sempre più impraticabile a causa di una giurisprudenza restrittiva. Mentre la legge esclude, di fatto, tutti quelli che sono sottoposti al carcere duro. Di ergastolo si muore. Lula ora lo sa.

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Dove vuole arrivare la coppia Battisti-Vargas?

A proposito delle ultime dichiarazioni di Cesare Battisti e Fred Vargas

dal BlackBlog di Oreste Scalzone
febbraio 2009

Fred Vargas è piombata come un elefante in una cristalleria quando in una intervista ha contraddetto quella che chiama «una cara amica», la signora Bruni-Sarkozy, smentendo la sua smentita su una intercessione che quest’ultima, insieme a suo marito, il presidente francese Sarkozy, avrebbero fatto in favore di Battisti. Smentita fatta alla Tv italiana, sulla terza rete davanti a Fabio Fazio, nel pieno di una campagna di vero e proprio linciaggio, che non si è fatta scrupolo di attaccarla come donna (nello stupefacente silenzio dell’intellighentzsjia del femminismo di sinistra che tanto aveva predicato e stigmatizzato in proposito).

Romanzo, risentimento o realtà?
A ruota, Battisti, in un’intervista al giornale Isto è, ha fatto delle “rivelazioni” che ci hanno lasciato allibiti, seminando costernazione, doloroso stupore, amaro in bocca tra chi ha condiviso con lui la condizione fuggiasca, l’asilo precario e l’ipoteca sul futuro, la spada di Damocle dell’estradizione, e tra quanti lo hanno difeso e si sono battuti per lui. Abbiamo letto con turbamento che sostiene di essere stato fatto scappare dalla Francia dai servizî segreti. Le nostre reazioni oscillano tra incredulità (ma in questo caso, sgomenta e fa scandalo una simile disinformazione, di cui sfugge la ratio), e la domanda: «Perché mai lo avrebbero esfiltrato?» e «In cambio di che?». E perché mai – vero o fiction che sia – viene a dirlo come se fosse la cosa più normale del mondo, offrendo sponda e argomento alle calunnie “pistaiole”, in particolare stalino/fasciste, che da sempre ci propinano in materia?
Lei, la signora Vargas, interviene di nuovo per precisare, in una dichiarazione all’Ansa, che Battisti conosce il nome della persona “servizievole” che gli avrebbe fornito il passaporto falso, che non sarebbe riconducibile alle sfere d’influenza di Sarkozy o Chirac, ma ai superstiti del potere mitterrandiano. Poi riviene alla carica, rettificando ancora: non si tratterebbe esattamente di un agente dei servizî, ma di una personalità vicina ai governi della presidenza-Mitterrand.

 

Fred Vargas

Fred Vargas

 

A chi mirano?
Manca solo che lancino un altro strale avvelenato contro qualche figura che si sia particolarmente impegnata verso la France, terre d’asile, e nella cosiddetta dottrina-Mitterrand, che magari ne sia stato l’artigiano e lo strenuo difensore… una di quelle figure, guarda coso, più detestate dalla magistratura italiana. Quale ratio c’è in tutto ciò? Perché tanto astio con quelli che ora Battisti definisce «i miei ex-compagni rifugiati»? O con gli avvocati suoi e di tutti noi, Jean-Jacques De Felice e Irène Terrel, a suo tempo ricusati?
Una sorta di cupio dissolvi, una profezia volente autorealizzarsi, per farlo essere realmente il “maudit”, il solo-contro-tutti, il malamato concentricamente

O per me o per nessuno?
Battisti in Brasile ha già in passato “rovesciato la tavola”, mandato a baracca la scacchiera, rifiutando e sabotando le possibilità di scampo che gli erano state offerte, delle soluzioni brasiliane che gli avrebbero permesso di ricostruirsi lì una condizione del tipo di quella “francese”. Pulsione suicidaria, come quella di comportarsi in modo assurdo per una persona a rischio mortale qual’era?
In ogni caso – fosse pure mera razionalizzazione in senso clinico – si diceva convinto di una sua quantomeno virtuale naturalizzazione in Francia, e metteva la barra dei suoi obiettivi all’altezza di un suo rientro, appunto, in Francia: dove aveva amici, colleghi scrittori, pubblico, famiglia…
Adesso sembra quasi recidivare mettendo a rischio quello che ha ottenuto, e che nessun altro o altra delle centinaia e centinaia di fuggiaschi degli “anni di piombo” e del loro strascico penale aveva ottenuto, e neanche chiesto: uno statuto di «rifugiato politico».
Sembra temere un assestamento che richiuderebbe la vicenda su un qualcosa che non gli basta. Sembra tirare ancora una volta la corda, far saltare quello che c’è e rilanciare sull’unica posta che gli interessa: tornare in Francia.
I mezzi, la ratio delle sue “mosse”, risultano incomprensibili a noi “semplici”. Ci sfugge in quel che fa e dice, in questo stillicidio di rivelazioni centellinate e in crescendo che sembrano uscite dalla mentalità contorta di chi, a furia d’inventare intrecci polizieschi, finisce per vedere la vita come un vortice di complotti, le genti come fotocopie di marionette, la realtà decretata da “pupari”, e alla fine da un qualche “ragno” come il Bafometto al centro di un universo di tenebra, un qualsivoglia senso strategico o tattico, anche nel più puro pragmatismo utilitarista, opportunista e anetico… Battisti sembra vivere nella trama dei suoi romanzetti.

C’è un altro aspetto
Battisti a partire da un certo momento si è convinto, o lasciato convincere, che la logica della rivendicazione e della difesa “con le unghie e coi denti” di un asilo indiscriminato, per tutti e ciascuno lo avesse danneggiato. 497ed96b7c266_zoom
Dimenticando che senza quella morale provvisoria (nel senso della frase di Deleuze: «Cercare di essere all’altezza di ciò che ci capita»), senza quella “divisa” e le linee, le deontologìe, le condotte pratiche che ne discendevano, un esemplare tipologico quale quello definito dal suo profilo giudiziario e penale, non avrebbe mai potuto rientrare in Francia dalla lunga fuga, in Messico, affrontare una procedura d’estradizione e vincerla, com’era accaduto nel 1991. E poi come fruitore, come tutti noi, di un asilo di fatto, restare in Francia, divenirvi scrittore e di successo…

I girotondini di Francia
Frastornato dalle vociferazioni di una campagna promossa da scrittori,e giallisti, in cui una lettura dei fatti storico-sociali nella chiave del giallo poliziesco, inevitabilmente “dietrologica”, veniva – senz’altro con la buona intenzione di salvare un collega e amico – trasformata in fragile, inesatto, grottesco argomentario di campagna.
La Vulgata “girotondista” del delirio della restaurazione della Legalità (considerata il potere dei senza-potere) come orizzonte del desiderio; la scenarizzazione dell’Italia come «Paese mai uscito dal fascismo», come anomalia e merdaio del mondo, come “caso” di una società la cui dominante, la sua natura, sarebbe data da trame, complotti, “strategie della tensione” in perenne divenire, mene di servizî segreti deviati, fascisti, grigî, bianchi, amerikani.
Questa subcultura da disinformacjia kgbista, da nuovalingua nel senso orwelliano, speculare a quelle del “Mondo Libero”, ma con in peggio – dal nostro punto di vista – di attaccare come una peste i cervelli e i cuori nostri, di devastare ogni ragione critico-sovversiva, non una razionalità, che so, liberale…), era stata esportata a piene mani in Francia da un’intellighentzsjia di sinistra dello Stato, che poi è stata la prima, quando l’ha vista usata per difendere un fuggiasco dalla caccia all’uomo, a sparare addosso a chi a questo fine la usava, e a chi ne era il beneficiario: ridicolizzando gli uni, mostrificando l’altro.
Per orgoglio diabolico, degno di miglior causa, i romanzieri francesi, di fronte a questo voltafaccia, non sono stati sfiorati dal dubbio sulla qualità del loro argomentario, nel merito, e sul rischio che questa propaganda travestita da pensiero finisse per esser controproducente come un “fuoco amico”. Macché! Semplicemente, hanno pensato che i Maîtres à penser, gli Opinion-makers italiani fossero dei voltagabbana “vendutisi a… Berlusconi”.
Mescolando a questa delegittimazione caricaturale di un’intera storia (dove ovviamente non poteva più trovare posto il Maggio strisciante, l’Italia anello forte delle lotte operaie autonome, laboratorio sociale di una nuova autonomia sovversiva nella metropoli capitalistica, se l’Italia era quella dei “girotondisti”? Non a caso ogni gesto di rivolta, dalla sassata alla molotov in sù, diventava impensabile se non come provocazione! Il legalitarismo diventava integristico, totale, cosmico…), l’errore di pensare di poter centrare la difesa su una rivendicazione d’innocenza non solo in punto di fatto, ma anche di tipologia, di proprio modo d’essere.

Nessuno ha fatto contestazioni “moralistiche” a questa svolta sostanzialista: semmai, si è ricordato che, in materia d’estradizione, non appena si accenna a questo terreno, i magistrati della Chambre ricordano di non essere «un grado ulteriore di giudizio» («Qui non siamo in sede di revisione di un processo, qui giudichiamo dell’estradabilità in punto di diritto. L’innocenza, l’imputato la farà, per l’appunto, valere in Italia, che è luogo e sede propria…»).
Ma Battisti si dev’esser convinto – o comunque ne ha fatto mostra – che il suo grido d’innocenza gli era stato impedito da una sorta di lobby che (per moralismo ideologizzato e per imporre una sorta di egualitarismo al ribasso, a favore di quanti non erano entrati nella dialettica dell’innocenza e della colpa e avevano rivendicato, come i “brigatisti”, una corresponsabilità etica “in solido” con tutte le scelte e gli atti dell’organizzazione a cui liberamente, e non “coscritti”, avevano aderito) lo avrebbe tenuto in una sorta di soggezione da ricatto morale.
Così ha dipinto, in Ma cavale (La mia fuga), l’ultimo suo libro uscito in Francia quelli che definisce gli «ex compagni». Ecco, 6_dossiers_lecture_battisti1pensiamo che questa delirante logica del «tutto o niente», che si è posta come obiettivo il riconoscimento di un’innocenza non solo in punto di verità storica, ma anche e soprattutto di identità – innocenza come non-colpevolezza anche in senso agostiniano, innocenza quella vera, quella dell’anima –, lo ha perduto come ha perduto già altri. In buona logica, la presunzione d’innocenza e l’onere della prova all’accusa, è motivato dal fatto che l’innocenza, come la non-esistenza di un fatto o una cosa, non è quasi mai dimostrabile. Di fronte a questi nodi, Battisti dev’essere affondato nelle sabbie mobili di un misto di “legittimismo”, di vittimismo, che si gonfia di risentimento mortale. Solo così si spiega l’odio riversato in certe interviste, prima contro “i brigatisti”, poi “gli ex-compagni”; e da ultimo – nell’intervista a Isto è – dove si taglia col coltello una sorta di sordo rancore contro Marina Petrella, come di gelosìa perché la battaglia su di lei ha avuto successo… Non voglio parlare di invidia, o cosciente malanimo. Parlo della sensazione di esser stato proditoriamente usurpato di un qualcosa che gli era dovuto: questo è rivelato da formule del tipo «io l’unico ancora perseguito…». Naturalmente, in una sindrome di questo tipo, non si guarda a chi sta peggio – basti evocare la vicenda di Paolo Persichetti o Rita Algranati, che, loro sì, potrebbero ritenersi gli unici capri espiatori. Battisti – credo che la cosa più terribile sia che se ne sia autoconvinto – si considera, nel picco, nella fase “ipomaniaca”, megalomane di una sua sorta di bipolarità: essere il “Nemico pubblico numero uno” insieme al suo irovescio “down”, depressivo, cioè considerarsi Il perseguitato numero uno, L’innocente assoluto: l’unico, e per questo il più conculcato.
Atteggiamento psicologico pericolosissimo, distruttivo per lui e per gli altri, perché ne nasce una sindrome del “C’è tutto per tutti, e niente per me”. Che può passare, prima al “Tutto anche per me, o niente per nessuno”, e poi nel “Adesso, tutto per me e niente per tutti gli altri!”.

Tutto questo è terribile, ma può dare una spiegazione. Tutto questo è talmente terribile, da evocare, più che lo scandalo e il disprezzo, un turbamento profondo e tanta pena per il suo carattere malato e il suo esito, in ultima analisi e prima di tutto, autodistruttivo, a cominciare dal suicidio morale che ha intrapreso.
Se la coppia Battisti-Vargas dovesse andare avanti in quella che sembra una pulsione distruttiva, dovremmo pensare che questo far terra bruciata di quel che resta del mitterrandiano “asilo di fatto” potrebbe esser la contropartita richiesta, inseguendo la balena bianca di un riaccoglimento nelle braccia della Marianna di oggi!
Comunque: resta da aggiungere (e ci ritorneremo altrove) che tutto questo rende più, non meno, delirante la caccia all’uomo, l’immagine che si vuol dare della rivolta di un intero Paese, di una società, un “Popolo” intero contro uno (e di che spessore…).

Battisti non vale un low cost
Di che pasta queste urla patriottarde e forcajole, i loro argomenti che si drappeggiano nel dolore dei familiari delle vittime, sia fatta, lo mostra l’evento grottesco della votazione di una mozione di sostegno all’Italia versus la decisione brasiliana di non estradare Battisti: dell’ottantina di parlamentari italiani al Parlamento europeo, solo sette hanno ritenuto che la Causa valesse il costo di un biglietto d’aereo low cost… Il loro “Onore” vale meno di un sovrapprezzo – ed è detto tutto.

Sarkozy, il primo sceriffo di Francia in sella grazie alla (doppia) paura

Libri – Nicolas Sarkozy ritratto senza compiacenze: i libri di Yasmina Reza, L’aube, le soir ou la nuit e Alain Badiou, Sarkozy de quoi est-il le nom?

Paolo Persichetti

Liberazione 7 agosto 2008

«Un antieroe cupo che rincorre la sua ambizione. Tradito dai tic, in agitazione perpetua mentre divora cioccolata e caramelle e si dondola nell’attesa infantile dell’ennesima approvazione». È questo il Nicolas Sarkozy raccontato da Yasmina Reza, la scrittrice che l’ha seguito lungo tutta la campagna presidenziale fino all’incoronazione del 16 maggio 2007, come presidente della Repubblica. L’aube, le soir ou la nuit (Flammarion 2007) è il ritratto senza compiacenze di un personaggio che sembra uscito da una versione aggiornata della comédie humaine di Balzac.

«Se ne frega della gente e indirizza la sua collera contro quei coglioni degli ambasciatori, quei fregnoni dei parlamentari e quei rompipalle di militanti che l’acclamano». I modi sono spicci, tutto vola in superficie come quando la commediografa sente confessare da un membro della sua équipe che ormai «la realtà non ha più alcuna importanza, soltanto la percezione viene presa in considerazione». Reza riporta alcuni aneddoti che rendono l’opportunismo arrembante dell’uomo politico in tutta la sua «genuina antipatia» e «brusca crudeltà». Prima di pronunciare un importante discorso sulla «Francia che soffre», il candidato Sarkozy si ritrova tra le mani una copia del Figaro che gli ha consacrato la prima pagina. Ad attirare la sua attenzione però non è quello che il giornale scrive di lui ma la pubblicità di un orologio di marca. Estasiato esclama: «È davvero bello questo Rolex!…». Tempo dopo, presagendo la vittoria contempla con autocompiaciuta soddisfazione il suo successo: «Mi ritroverò con un palazzo a Parigi, un castello a Rambouillet e un forte a Brégançon. Questa è la vita!». Colmo di sé conclude: «Se non fossi esistito avreste dovuto inventarmi».
Chi è dunque questo Nicolas Sarkozy figlio di un nobile ungherese fuggito dal comunismo? O meglio, come recita il titolo originale di un libro che ha avuto molto successo in Francia, pubblicato nel 2007 dal filoso Alain Badiou e da poco uscito in Italia per le edizioni Cronopio ( Sarkozy, pp.140, euro 14,50), di cosa Sarkozy è il nome?

Quale fenomeno emerge dietro la sua vittoria elettorale? Preso dalla vena polemica Badiou non risparmia feroci definizioni che ricordano da vicino un altro famoso ritratto, quello in cui Karl Marx descrive la vittoria di Luigi Napoleone Bonaparte alle elezioni presidenziali del dicembre 1848. Personaggio goffamente astuto – scriveva Marx – «furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione calcolata, farsa poetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata della storia mondiale, geroglifico inesplicabile» che «appunto perché non era nulla poteva significare tutto…» ed essere così reinventato da ogni ceto sociale o individuo a propria immagine e somiglianza. Dunque Sarkozy come un «Napoleone piccolo piccolo» divorato dal desiderio d’affermazione personale, parvenu senza vergogna e vassallo fino alla piaggeria dei poteri forti? Anch’egli risultato di una grande sconfitta del mondo del lavoro, rivelatore di uno sfaldamento strutturale che sta trascinando rovinosamente l’intero sistema d’orientamento politico ereditato dalla seconda guerra mondiale?
Secondo Badiou sarebbe la stessa distinzione destra/sinistra ad essere venuta meno. Ciò spiegherebbe anche perché appena eletto il sindaco di Neuilly-sur-Seine sia «potuto andare a brindare al Fouquet’s e partire per Malta su uno yacht di miliardari. Un modo per dire: la sinistra non fa più paura a nessuno, viva i ricchi, abbasso i poveri!… d’ora in poi non c’è niente di meglio che il guadagno personale». La sua ascesa alla carica presidenziale ha aperto la strada ad una sorta di totalitarismo morbido che l’autore preferisce chiamare «petenismo trascendentale» per distinguersi da quelle che ritiene «definizioni deboli, qualifiche di “sinistra” come antidemocratico o bonapartista o di “estrema sinistra”, come fascista o prefascista», considerate eccessive.
Questo neopetenismo si nutre, al pari di quello originario, di alcuni temi come la designazione di un nuovo gruppo sociale pericoloso (i migranti al posto degli ebrei), la volontà di sradicare l’eredità di un avvenimento passato ritenuto catastrofico (l’odio per il 68 che sostituisce quello per il “fronte popolare”), il sentimento di decadenza della nazione che impone l’adozione di modelli stranieri ritenuti più avanzati (il nordamerica che rimpiazza la Germania nazista e l’Italia fascista), la sostituzione della politica con la questione morale. Tendenza che prende avvio nella seconda metà anni 70, in Francia con l’offensiva ideologica dei nouveaux philosophes e in Italia con la forte influenza esercitata dal cattocomunismo. Una crisi degli strumenti di critica politica e sociale del mondo a tutto vantaggio di categorie etiche che rappresentano la storia come una mera lotta tra bene e male, il tutto declinato attraverso il linguaggio della messa al bando, della difesa della società con conseguenze devastanti. Il suo primo effetto è quello di rafforzare i rapporti di forza esistenti, che in questo modo sfuggono a qualsiasi rimessa in discussione anche perché l’irrilevanza dei giudizi morali affievolisce la capacità di leggere la società. Ne traggono giovamento solo i discorsi sulla legalità e la tutela dell’ordine esistente, col risultato di «consolidare il sistema capitalista». Questa atmosfera avalla anche un’idea assolutamente privatistica della libertà, intesa solo come «il diritto di fare affari e mescolare i propri interessi con quelli dello Stato». Una nuova dittatura del profitto e del privilegio che incita ad ogni sorta di speculazione, alla difesa dei grandi patrimoni e della loro trasmissione ereditaria, il tutto giustificato da una nuova apologia del merito utilizzata per legittimare il privilegio contro la fatica di chi lavora. Con Sarkozy «la necessità della corruzione, cioè la pretesa armonia tra gli interessi privati e il bene pubblico, non ha più bisogno di essere dissimulata ma diventa persino qualcosa da ostentare». Con quindici anni di ritardo anche la Francia si è allineata alla rivoluzione passiva berlusconiana.

A spingere in avanti questo «sindaco della cittadina in cui si concentra tutta la ricchezza ereditaria» – prosegue Badiou – sarebbe una nuova passione collettiva che, come ai tempi della rivoluzione francese, potremmo chiamare la «grande paura». Una paura doppia: quella classica, reazionaria, dei possidenti, di chi occupa posizioni di potere e sente che questi vantaggi diventano col passar del tempo provvisori, traballanti, minacciati. Sensazione d’incertezza, insicurezza e declino che si focalizza su dei capri espiatori: gli stranieri, gli operai, il popolo, i giovani delle banlieues, i musulmani, i neri. Paura «conservatrice e crepuscolare» che ingenera il desiderio d’avere un capo che ci protegge e i cui tratti hanno assunto il profilo di «un poliziotto esagitato che fa di tutta l’erba un fascio e delle trovate mediatiche, dell’amicizia con l’alta finanza e degli intrighi di corridoio il segreto della politica». A questa «paura primitiva», come in un gioco di specchi riflessi, risponde una «paura derivata», una paura seconda, la paura degli effetti della prima paura. Il conflitto tra le due paure, la «paura di reazione» contro la «paura d’opposizione», si è risolto con la vittoria della paura primitiva, «cosa che in fondo ha una sua logica. Se proprio bisogna aver paura, tanto vale aver paura di qualcos’altro che della paura stessa». La paura sconfitta è la paura interpretata dalla sinistra, da quelle forze politiche che rivendicano la propria vocazione riformista e un ruolo strutturalmente di governo: i socialisti in Francia, il partito democratico in Italia. Anche se da noi le caratteristiche sociologiche della “prima paura” descritta da Badiou percorrono trasversalmente il panorama politico. Sarebbe difficile negarne la presenza anche dentro il Pd (girotondini e dintorni), mentre sono un elemento identitario delle forze giustizialiste alleate con i democratici, come i dipietristi; la “seconda paura”, invece, inquina pesantemente la stessa sinistra radicale e antagonista tentata dalla scorciatoia populista: basti pensare ai confini labili e alle sovrapposizioni ambigue presenti in quel magma confuso e disorientato che si esprime nell’area dei cosiddetti “grillini” e che sarebbe davvero tragico inseguire.
Scritto durante la campagna elettorale, immediatamente prima e subito dopo l’elezione, il pamphlet di Badiou coglie solo l’avvio della stagione sarkozista. Va precisato che dopo l’insediamento e il calo di consensi seguiti al primo anno di presidenza, Sarkozy è stato costretto a ridurre notevolmente il suo presenzialismo e smussare i toni arroganti di primo sceriffo di Francia che da ministro degli Interni l’avevano spinto a definire «teppaglia» i ragazzi delle periferie. Prosciugato il bacino elettorale lepenista, ha portato avanti il suo progetto postgollista coniugando formule neoliberali e recupero di temi appartenenti alla sinistra. Una grande capacità d’iniziativa e un dosaggio abile di aperture e svolte che ha creato un forte disorientamento, riassunto dall’autore con l’immagine dei “topi” rivolta a quei socialisti che hanno deciso di saltare sul battello dei vincitori. Linguaggio “sprezzante” che ha sucitato non poche polemiche.
Nel deserto di riflessione critica che contraddistingue il nostro paese, le tesi di Badiou aiutano molto a pensare anche la vicenda italiana degli ultimi anni, la crisi verticale in cui sono precipitate le sinistre. Il binomio Sarkozy-Royal denunciato dal filosofo francese assomiglia molto al “veltrusconi” di cui si è a lungo parlato, a quella indifferenza politica che tende ad assottigliare sempre più le diversità tra governo e opposizione. Anche il petenismo trascendentale trova da noi un corrispettivo in quel «regime dolce», nell’autoritarismo morbido dotato di forte consenso sociale, grandi strumenti e capacità di produrre egemonia culturale, contro il quale occorre imparare a misurarsi se non si vuole soccombere. Forse a partire proprio da quella definizione della politica che il filosofo propone in una pagina: «l’azione collettiva organizzata, conforme ad alcuni principi e capace di sviluppare nel reale le conseguenze di una possibilità inedita rimossa dallo stato dominante delle cose». Un’idea della politica che sappia ridimensionare alcuni feticci istituzionali e sia più attenta a quel principio basilare di autonomia smarrito da tempo. Quando si spacciano per democrazia sistemi istituzionali e stratagemmi elettorali che grazie al maggioritario rendono superflue ampie porzioni di voto popolare, riservando la scelta del governo a nuclei sempre più ridotti di cittadini influenti, espressione dei ceti forti, allora diventa infinitamente più importante «costruire una riunione al riparo dalle scadenze dello Stato con quattro operai africani, uno studente, un manovale cinese, due madri di famiglia di borgata e qualche sbandato di periferia che gettare il nome di un indiscernibile politico nell’urna dello Stato».

Permessi all’ex Br? No, se non abiura

Benefici carcerari negati a Persichetti (ex Br-Udcc): non basta «il pluriennale rispetto delle regole», occorre «la condivisione dei valori del sistema». Sotto accusa il suo libro, Esilio e castigo, retroscena di una estradizione, La città del sole 2005

Alessandro Mantovani
il manifesto 9 agosto 2006


Non basta che Paolo Persichetti abbia chiuso con la lotta armata nell’87, a 25 anni, quando fu arrestato per la prima volta come appartenente all’Ucc, l’Unione dei comunisti combattenti nata dà una scissione delle Br-Pcc. Non basta che da allora abbia fatto una vita tranquilla, passando dalla Sapienza occupata nel ’90 dalla Pantera al lungo «esilio» nella capitale francese, dove al momento della cattura e della consegna all’Italia, nel 2002, era professore a contratto di scienze politiche all’università Paris VIII. Non basta che oggi, dal carcere di Viterbo, egli collabori stabilmente con Liberazione, giornale di un partito di governo come Rifondazione. A Persichetti non basta neanche aver scontato quasi otto dei ventidue anni inflittigli in contumacia per banda armata e per concorso nell’omicidio del generale Licio Giorgieri (20 marzo ’87), che pure equivalgono a oltre un quarto della pena ovvero al primo requisito previsto per i permessi cosiddetti «premio».
Come da manuale dello stato etico ci vuole l’autocritica, diciamo pure l’abiura: «All’esclusivo fine della fruizione di benefici penitenziari, occorre che sia avviata una riflessione in termini di effettiva revisione critica dei commessi reati», scrive la giudice che ha negato l’ultimo permesso, spiegando che non è sufficiente «un percorso di risocializzazione» a suo dire meramente «formale» ed «esplicitato – si legge ancora nel provvedimento di diniego – dalla pluriennale adesione alle regole di civile convivenza». Il punto sarebbe «l’adesione ai valori di legalità» e «l’inquadramento in termini etici del commesso delitto».
Con il metro della dottoressa Albertina Carpitella, magistrato di sorveglianza a Viterbo, ai benefici carcerari accederebbero solo pentiti e dissociati, ammesso che sappiano convincerla della sincerità del pentimento e della dissociazione. La giudice ha ritenuto di dover indagare sulle manifestazioni del pensiero di Persichetti, sulla sua «visione istituzionale». Così è andata a leggere il libro scritto da in carcere dal detenuto, Esilio e castigo – Retroscena di un’estradizione (ed. La città del sole), nel quale l’ex militante Ucc denuncia la grottesca persecuzione ai suoi danni da parte della procura di Bologna che lo accusava dell’omicidio di Marco Biagi (ipotesi poi archiviata su richiesta dello stesso pm, ma a suo tempo utilizzata per ottenere l’estradizione, l’unica concessa da Parigi) e scrive peste e corna dei «giustizialisti» e dei «girotondini», di quelli che negli anni 70 e 30 facevano la guerra a tutto ciò che si muoveva alla loro sinistra (non solo a chi sparava) e più tardi pretendevano di cambiare l’Italia a colpi di indagini giudiziarie. Sono le stesse cose che Persichetti, fino all’ultimo arresto, diceva e scriveva a Parigi insieme all’amico Oreste Scalzone, le stesse che peraltro si dicono e si scrivono in certi ambienti del parlamento o sul manifesto. E alla giudice il libro non è piaciuto: «Risulta evidente – osserva la dottoressa Carpitella nel motivare il rifiuto del permesso – che Persichetti si considera appartenente a una parte politica che definisce gli ‘sconfitti’ e che concepisce come controparte rispetto a tutte le istituzioni pubbliche, accusate di riscrivere la storia da vincitori, assumendo atteggiamenti vendicativi attraverso le relazioni delle commissioni parlamentari, le sentenze della magistratura ecc…».
Di qui il verdetto: nonostante «una maturità che gli consente di esporre le proprie idee in modo da rispettare le regole sociali», come indicato nella relazione degli operatori del carcere, Persichetti «non condivide i valori fondanti del sistema giuridico-democratico italiano».
Insomma l’ex brigatista finge di essere cambiato. Simula e dissimula. Ma è sempre un terrorista, almeno potenzialmente. La giudice è senz’altro convinta di applicare la legge che le richiede una valutazione prognostica della «pericolosità sociale» del condannato, ma nel provvedimento si ritrova proprio l’atteggiamento «vendicativo» che Persichetti rimprovera a larga parte della magistratura e della sinistra.
In realtà tra l’ex Ucc e la sua giudice c’è lo stesso dibattito che attraversa, o dovrebbe attraversare, larga parte della società italiana. Tra coloro che anche oggi imbracciano le leggi speciali antiterrorismo contro gruppetti innocui o contro la libera espressione dei movimenti – a Bologna la procura contesta l’aggravante di eversione anche per l’autoriduzione al cinema o alla mensa universitaria – e coloro che da anni reclamano una «soluzione politica» per una storia, quella in cui rimase impigliato Persichetti, che è finita da un pezzo. E non è ricominciata neanche quando un gruppuscolo fuori dal tempo, subito identificato come «nuove Br» e poi liquidato dalla polizia, ha ricominciato a uccidere utilizzando la stella a cinque punte, senza trovare alcuna indulgenza in Persichetti. Per numerosi e autorevoli ex brigatisti quella era anzi un’«appropriazione indebita» di nome e simbolo.

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Exil et chatiment
Esilio e castigo

Negato il permesso all’ex Br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto
La polizia del pensiero – Alain Brossat
Kafka e il magistrato di sorveglianza di viterbo