Stefano Cucchi, “non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte”

Il libro di Ilaria Cucchi sulla morte del fratello Stefano: «Nessuno deve più morire in un carcere o in una caserma». Ostacoli e retroscena su una verità che fa paura alle istituzioni. Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli 2010

Paolo Persichetti
Liberazione 22 ottobre 2010

«Noi non c’entriamo, la divisa non ha colpa». Si congeda con queste parole il maresciallo dei carabinieri che aveva portato alla madre di Stefano Cucchi la notizia del decesso del figlio, esattamente un anno fa nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini. Non una imbarazzata frase di circostanza ma l’annuncio di una programmatica impunità. L’episodio è rivelato da Stefania Cucchi nel libro scritto insieme al giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli. Di frasi del genere in questa terribile storia che racconta l’oscenità del potere che si impossessa dei corpi, se ne trovano altre, come quella pronunciata da un’altro uomo in divisa davanti al reparto dove Cucchi è morto, «Ci sono tutte le carte a disposizione. Se volete potete controllare, noi siamo tranquilli». L’accesso alle carte sarà invece un percorso labirintico, per nulla spontaneo, dovuto unicamente all’attenzione politico-mediatica accesa sul caso dalla pubblicazione delle foto del corpo straziato di Stefano sul tavolo dell’obitorio e dalla caparbietà della famiglia costretta a rinunciare all proprio lutto privato. Le denunce pubbliche innescheranno una doppia inchiesta, parlamentare e amministrativa, arrivando lì dove l’indagine penale da sola non sarebbe mai giunta senza tuttavia dissolvere le molte ombre. L’autoassoluzione preventiva appartiene alle caratteristiche peculiari delle burocrazie repressive. E’ parte del patto tacito stipulato con le gerarchie in cambio della fedeltà e dei servizi prestati, spesso inconfessabili. Non a caso a sancire l’irresponsabilità è arrivato anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che a conclusione dell’inchiesta ministeriale affermava, «Gli accertamenti amministrativi hanno rilevato fin qui l’assenza di responsabilità da parte della polizia penitenziaria», nonostante l’indagine interna redatta dal numero due del Dap, Sebastiano Ardita, traesse ben altre considerazioni. «Quando ho potuto leggerla – afferma Ilaria Cucchi – mi sono resa conto che si stava tentando di celare perfino quanto scoperto dalle stesse istituzioni». A fargli compagnia le dichiarazioni preventive del ministro della Difesa Ignazio La Russa in favore dell’Arma dei carabinieri, quando le indagini erano ancora al punto di partenza, e la sortita ignobile del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al lotta contro le tossicodipendenze, Carlo Giovanardi, per il quale Cucchi se l’era cercata. In questa gara all’esportazione delle responsabilità non è stata da meno neanche la Asl competente per territorio sull’ospedale Pertini, che appena dieci giorni dopo il trasferimento in via cautelare reintegrava il personale sanitario indagato. Eppure nei sei giorni che l’hanno separato dall’arresto fino all’ultimo respiro Stefano Cucchi non ha fatto altro che passare di mano da una divisa e l’altra attraverso caserme, camere di sicurezza, carceri, reparti penitenziari di ospedali. In realtà le divise e i camici, inquadrati da altre divise, nella sua morte c’entrano eccome. «In tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici, emerge una incredibile continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti», afferma il rapporto interno del Dap che riassume così il calvario del giovane: «Assenza di comprensione del disagio, mancata assistenza ai bisogni, trattazione burocratica della tragica vicenda personale e in alcuni casi assenza del comune senso di umanità, si sono susseguiti in un modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti fra loro, ma con inesorabile consequenzailità». Il tutto condito da tante violenze, prima durante e dopo, testimoniate da un corpo fratturato e pieno di ematomi. A Cucchi, come recita la canzone di De André, non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte. Il libro è la testimonianza dolorosa del percorso di una famiglia legata a valori tradizionali, «religione, legge e ordine», che proprio per questo scopre il tradimento delle istituzioni in cui ha sempre creduto. Una presa di coscienza che fa dire a Ilaria, “sorella coraggio”, di aver sentito dire in giro che la morte del fratello fa parte di quegli incidenti «inevitabili conseguenze di pratiche e comportamenti che servono a tutelare la sicurezza della collettività. Forse anch’io, un tempo, mi sarei lasciata andare a cose simili ma oggi so che sono inaccettabili. Perché non ci può essere un motivo valido per cui un ragazzo debba morire in un carcere o in una caserma. Non deve accadere, né deve accadere che l’opinione pubblica lo giustifichi come uno sgradevole inconveniente». Ad Ilaria e alla famiglia diciamo una cosa sola: non vi lasceremo mai soli.

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Tullia Fabiani
L’Unità 21 ottobre 2010


È come se fossimo noi gli imputati. Io e i miei genitori, i colpevoli. L’atmosfera che abbiamo percepito in Aula è ostile, come se accusa e difesa fossero coalizzate contro di noi. Forse ci si dimentica che io e i miei genitori stiamo lì perché è morto mio fratello. O forse siamo quelli che stanno dando fastidio solo perché chiediamo, senza tregua, che venga riconosciuta la verità». Ilaria Cucchi è molto amareggiata: due giorni fa è stata scortata dai carabinieri fuori dal tribunale. Era in corso l’udienza del processo che vede imputate 13 persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici dell’ospedale romano Sandro Pertini, dove suo fratello Stefano è morto un anno fa, il 22 ottobre, dopo una settimana di agonia. «Mi hanno detto che dovevo uscire dal tribunale per motivi di ordine pubblico e mai avrei immaginato di creare un simile problema. Mi sento umiliata e molto triste, anche perché dover sentire certe cose…» 



Quali cose?
«Ho sentito dire da uno dei legali della difesa: “Adesso oltre il libro faranno anche il film”. Ecco, questo è l’atteggiamento nei nostri confronti, come se nel raccontare quanto accaduto a mio fratello avessimo chissà quale secondo fine. Come posso sentirmi di fronte a certe affermazioni? È una grande mortificazione; ripeto, la sensazione è di essere gli imputati». 



E dipende dal fatto che va in tv, rilascia interviste, scrive libri su quanto accaduto?
«Si, anche. Penso che certi atteggiamenti, come l’allontanamento dal tribunale, dipendano dai miei interventi. Evidentemente non vorrebbero tutta questa attenzione mediatica». 



Chi non la vorrebbe?
«I soggetti coinvolti: accusa e difesa. Però se i pm si sentono sotto pressione possono sempre farsi sostituire».

La procura ha chiesto comunque che dalla prossima udienza siano ammessi in aula stampa e tv.
«Sì. Ci sarà un’udienza martedì 26 e vedremo cosa decide il gup. Per me non c’è alcun problema, anzi. È importante che i giornalisti possano seguire ciò che avviene in aula, vedere come procede l’udienza e qual è il rapporto tra le parti. Che ci sia o meno la stampa la mia impressione sull’atmosfera che respiriamo quando siamo lì non cambia». 



Ce l’ha con loro perché è stata respinta la vostra richiesta di una super perizia su Stefano?
«No, non è questo. So bene che ci sono motivazioni precise e che è stata rigettata non perché infondata, ma perché, come ha spiegato il nostro avvocato, è inammissibile in questa fase processuale. La questione è un’altra: l’episodio dell’altro giorno, venire allontanati dal tribunale, vietare a mia madre di andare sul piazzale per fumare una sigaretta e dare così tanto fastidio al pm da costringerlo a lamentarsene davanti al giudice. E poi subire ad esempio dichiarazioni da parte del pm che dice ai miei avvocati “Non santifichiamo questa famiglia”. Che significa? Che non siamo dei santi e allora non possiamo chiedere giustizia per la morte di mio fratello? È assurdo. Ed è la dimostrazione che la battaglia che stiamo portando avanti è una battaglia ímpari». 



Perché ímpari?
«Oggi sento che questa giustizia non è per tutti. Sento una forte ostilità e un’ostinazione nel voler continuare a negare la realtà. Ma come si fa a continuare a parlare di lesioni lievi quando queste “lesioni lievi” hanno causato la morte di Stefano?. La verità ci è dovuta e io la pretendo». 



Domani, 22 ottobre, sarà un anno dalla morte di suo fratello. Come passerete questa giornata e cosa vi aspettate dopo?
«Per i giorni che verranno vorrei solo che si mettesse finalmente fine all’ipocrisia. E che cominci un’altra storia. È stato un anno tremendo, ci siamo trovati a combattere una battaglia al di sopra delle nostre capacità e delle nostre forze, con la disperazione di non avere risposte. Abbiamo passato giornate drammatiche e solo oggi, dopo un anno, sembra che stiamo cominciando a realizzare l’assenza di Stefano. Domani ci sarà una messa nella nostra parrocchia, alle 15.30 a Santa Giulia Billiart, al Casilino. Poi seguirà un incontro, uno spettacolo teatrale, e la presentazione del libro “Vorrei dirti che non eri solo”. Perché al di là delle allusioni e delle mortificazioni per me anche un libro è un mezzo buono per denunciare l’uccisione di mio fratello e per continuare a chiedere ancora, un anno dopo, verità e giustizia».

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Il libro di Ilaria Cucchi: “Nessuno deve più morire in carcere o in una caserma”