Nicola Ciocia-De Tormentis: Francesca Pilla del “manifesto”, da che parte stai?

Sul manifesto di ieri, 17 febbraio, in apertura di pagina 8 è apparso un’articolo della corrispondente da Napoli Francesca Pilla dedicato a Nicola Ciocia, alias al professor De Tormentis, dal titolo «il dr. De Tormentis ha un nome» che i lettori di questo blog conoscono molto bene. Sorpreso dal reiterato silenzio su questa vicenda dell’unico giornale della sinistra comunista, radicale (le anime sono tante, non sto a soffermarmi) rimasto in edicola dopo la sopensione delle pubblicazioni di Liberazione, che sulla questione era intervenuta per ben due volte a dicembre, la scorsa settimana avevo chiamato più volte alcuni redattori per sollecitare la loro attenzione. Oltre a non aver recensito l’apparizione del libro di Nicola Rao, Colpo Al cuore, Sperling&Kupfner, che raccoglie la testimonianza dello stesso Ciocia, sotto copertura dello pseudonimo De Tormentis, e di Salvatore Genova, l’altro funzionario che racconta la stagione delle torture ordinate dal governo, il manifesto aveva mancato di riprendere l’argomento anche dopo la puntata di Chi l’ha visto? e l’uscita dell’articolo del Corriere della sera che rompeva il muro di silenzio dei grandi quotidiani nazionali divulgando il nome anagrafico di De Tormentis, già accessibile da diverso tempo su questo blog e quello di Baruda.
Alla fine, addirittura ad un giorno di distanza l’uno dall’altro, forse anche grazie all’effetto d’accredito (se fosse così ci sarebbe molto da pensare) prodotto dall’intervento di Sofri su Repubblica, sono usciti due articoli: quello di Francesca Pilla e il contributo importante di Mauro Palma, presidente fino allo scorso dicembre del Comitato europeo per la prevenzione e contro l’uso della tortura. Un’ente che ha poteri di sindacato ispettivo su mandato dell’Unione europea.

Nonostante l’attività di documentazione sulle torture contro i militanti della lotta armata svolta da questo blog, che accompagna quella d’inchiesta e riflessione, tra i post in archivio non troverete l’articolo di Pilla. Chi vuole può andarselo a leggere sul sito del manifesto. La ragione? Il pezzo di cronaca è una rimasticatura dei pezzi usciti sul Corriere della sera e sul Corriere del Mezzogiorno. Dal manifesto ci si aspettava qualcosa di più, anche perché in rete c’è già molto materiale. Ma non stiamo qui a fare le bucce. Il vero problema è un’altro: Francesca Pilla conclude il suo articolo con un bizzarro interrogativo il cui succo è: ma perché Salvatore Genova, che è stato accusato di aver partecipato alle torture di Di Lenardo (e si salvò grazie all’immunità parlamentare ottenuta con l’elezione in parlamento tra le file del partito del piduista Pietro Longo), accusa Ciocia solo ora che i fatti sono prescritti? Insomma cosa c’è dietro di losco?
Cito:
«Ma perché ora dovrebbe accusare proprio Ciocia (e non solo) e dopo più di trent’anni, quando quei reati non sono nemmeno perseguibili in quanto ormai prescritti? Di regola – conclude la giornalista – non si dovrebbe mai terminare un articolo con punto di domanda, ma purtroppo su questa faccenda sono ancora tanti i silenzi e le responsabilità da accertare»
.

Cara Francesca, questa domanda la potevi rivolgere direttamente a Salvatore Genova. La cultura giustizialista ha roso l’anima della Sinistra, gli ha mangiato il cervello. Tutta questa premura per il professor De Tormentis-Nicola Ciocia sorprende e guarda caso ricalca le parole dei pm napoletani, gli immacolati Libero Mancuso, Lucio Di Pietro, Felice Di Persia e Diego Marmo, che hanno subito fatto quadrato attorno al suo operato. Istillare il dubbio, far balenare il sospetto sulla presenza di chissà quali dietrologiche ragioni… serve in questo caso solo a screditare testimonianze imbarazzanti. E’ una vecchia tecnica e Francesca Pilla ci casca con tutte le scarpe, anzi i tacchi. Invece di chedersi perché i magistrati napoletani difendano il loro collaboratore prediletto Nicola Ciocia – che gli portava le confessioni degli arrestati su un piatto d’argento sciacquato con acqua e sale senza che loro, mai e poi mai, avessero percepito la benché minima irregolarità – con tanto fervore malgrado le evidenze, le ammissioni stesse di Ciocia che si è accusato da solo quando ha detto di aver torturato Enrico Triaca, quando sotto l’eteronimo di De Tormentis ha seminato una infinità di dettagli sulla sua persona e carriera? Non pensi che forse la latrina della Repubblica che si sta scoperchiando, il fetore purulento che emana stia infastidendo se non preoccupando qualcuno?

A raccontare delle torture furono già nel 1982 Gianni Trifirò, sovrintendente di polizia e il capitano Riccardo Ambrosini che riferirono a PierVittorio Buffa dell’Espresso e Luca Villoresi di Republlica. Salvatore Genova iniziò a farlo pubblicamente nel 2007, ben cinque anni fa, a ridosso dei processi per i fatti della Diaz e di Bolzaneto dopo la testimonianza del funzionario di polizia Michelangelo Fournier che parlò di «macelleria messicana». Leggete questa intervista e capirete le dinamiche psicologiche da lui ribadite anche nell’intervista rilasciata a Chi l’ha visto? E probabile che la prescrizione penale dei fatti-reato raccontati l’abbia anche sollevato dal timore di suscitare guai giudiziari ai suoi colleghi. E’ noto che l’ipoteca penale sia il più grande viatico alla sepoltura della verità, per questo lo Stato italiano ha sempre avuto paura di un’amnistia sugli anni 70 perché in questo modo poteva mantenere il monopolio della verità.

Detta in modo brutale: Salvatore Genova fa capire di non voler passare alla storia come l’unico funzionario macchiato dall’infamia di essere stato un torturatore. Vuole condividere questa responsabilità con chi insieme a lui partecipò anche con gradi gerarchici più alti all’operazione torture che si protrasse per tutto il 1982.
C’è rivalsa e risentimento in questo atteggiamento? Molto probabile.
Si tratta di sentimenti poco nobili? Scusate, ma ai fini della verità storica a noi cosa interessa. Misurare le intenzioni a cosa serve? Il giudizio morale sui protagonisti di questa vicenda c’è già. E non cambia.
A preoccuparci semmai deve essere la ricostruzione completa dei fatti, delle responsabilità di governo, delle complicità della magistratura, provati in modo circostanziato, documentato, inappuntabile.

Allora, cara Francesca Pilla, davvero non si capisce il senso della tua domanda e quel che è peggio non si capisce nemmeno da che parte stai.


Cosa accomuna Marcello Basili, pentito della lotta armata e oggi docente universitario, a Nicola Ciocia (alias professor De Tormentis), ex funzionario dell’Ucigos torturatore di brigatisti?

mercoledì 1 febbraio 2012

Professore-BRLa voglia d’oblio. Il tentativo di restare anonimi, di nascondersi tra le rughe del passato sperando di poter cancellare la propria storia. A Marcello Basili, oggi professore associato di Economia politica presso l’Università di Siena, il passato pesa come un macigno.
Nel 1982 fu arrestato per appartenenza alle Brigate rosse, brigata di Torre spaccata. Non attese molto per pentirsi. Vestì subito i panni del collaboratore di giustizia e da bravo «ravveduto» si adoperò nell’arte dell’autocritica degli altri scaricando sui suoi coimputati accuse e chiamate di correo. Mentre parlava molti dei suoi ex compagni venivano torturati con le stesse modalità impiegate da quel Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, capo di una squadra (i cinque dell’Ave Maria) specializzata negli interrogatori con l’acqua e sale, la tecnica del waterboarding impiegata per estorcere dichiarazioni.

Il pentito che vuole farsi dimenticare
Scrive Giovanni Bianconi sul Corriere della sera di oggi, 1° febbraio, che Basili ha chiesto attraverso il suo avvocato che il suo passato di militante della lotta armata sia cancellato dagli archivi telematici, invocando la legge sulla privacy e il «diritto all’oblio» per «non vedere incrinata o distrutta la propria riconquistata considerazione sociale».
Questione seria quella del diritto all’oblio che avrebbe meritato ben altro dibattito ma che appare del tutto inappropriata in casi come quello di Marcello Basili o di Nicola Ciocia.
Sempre secondo quanto rivela il Corriere, Basili si è rivolto al Centro di documentazione della Fondazione Flamigni intimando di eliminare il suo nome dagli indici e comunicando di opporsi «al trattamento dei dati» connessi ai suoi trascorsi sovversivi. Precedenti che, sostiene sempre l’insegnante universitario, «appartengono ormai al passato, sono già stati resi noti all’epoca e hanno perso quel carattere di attualità che ne potrebbe giustificare l’ulteriore pubblicazione».
A dire il vero la Fondazione Flamigni andrebbe stigmatizzata per altre ragioni, essendo il più grande collettore delle teorie del complotto, la più grande banca dati della menzogna storica sulla lotta armata per il comunismo.
Ma torniamo a Basili: se i dati in questione fossero impiegati con uno scopo discriminatorio, il docente dell’università di Siena avrebbe tutte le ragioni per lamentarsene. Tuttavia non sembra, fino a prova contraria, che Basili ne abbia ricevuto fino ad oggi un qualche svantaggio. I reati per cui subì un processo e la condanna prevedono, per chi non collabora con la giustizia, oltre ad una lunga reclusione in carceri speciali anche l’interdizione automatica dai pubblici uffici una volta terminata la pena.
Basili al contrario, grazie allo status di pentito che gli ha permesso di esportare ogni responsabilità sulle spalle altrui, mandando in galera altri, ha avuto da parte dello Stato un trattamento di tutto favore: una reclusione breve e l’interdizione venuta meno. Circostanze che gli hanno consentito di svolgere una brillante carriera universitaria mentre i suoi compagni di brigata erano, e in alcuni casi sono tuttora, in carcere.
Certo Basili potrebbe ricordare le tante amnesie e rimozioni che hanno avvolto e avvolgono le biografie dei molti padri della patria, la lunga fila di redenti con militanze giovanili infrequentabili che riempiono i ranghi della prima e della seconda Repubblica, compreso il nostro attuale capo dello Stato. Ma l’essersi buttato pentito, purtroppo per lui, non gli dà comunque il diritto di vantare un posto di prima classe sul carro dei vincitori.

La storia non si imbavaglia e tantomeno si rimuove: si elabora
La richiesta avanzata da Basili, anche se ha qualcosa di abietto, non deve tuttavia sorprendere più di tanto perché resta coerente con quella cultura del ravvedimento contenuta nella legislazione premiale introdotta dallo Stato per fronteggiare i movimenti sociali sovversivi. Nel corso degli anni 80 e 90 pentiti e dissociati ricevettero il mandato di amministrare la memoria degli anni 70, scritta e divulgata attraverso un fiume di delazioni, ricostruzioni ammaestrate e testimoninaze ammansite.
La magistratura, che ha gestito in Italia lo stato di emergenza, si è servita di questo personale fatto di ex militanti ravveduti e collaboranti trasmettendo loro un irrefrenabile sentimento d’impunità che oggi porta quelli come Basili, o i funzionari di polizia addetti al lavoro sporco come Ciocia, privi del coraggio delle loro idee e delle loro azioni, a pretendere che la storia resti muta, senza traccia del loro passaggio.
Questa richiesta di trasformare un passato pubblico in un fatto privato è la conseguenza anche di quel processo di privatizzazione della giustizia che ha portato nell’ultimo decennio magistratura e sistema politico a delegare, sovraccaricare sulle spalle delle parti civili, la gestione della sanzione penale nei confronti dei prigionieri politici.

Il torturatore di Stato che continua a nascondersi
Esiste un parallelo tra l’atteggiamento di Marcello Basili è il comportamento di Nicola Ciocia, già funzionario dell’Ucigos e capo del gruppo di torturatori che per tutto il 1982 (ma anche prima per sua stessa ammissione, vedi il caso di Enrico Triaca nel maggio 1978 e ancora prima quello di Alberto Buonoconto nel 1975), ha imperversato tra caserme, questure e chiese sconsacrate d’Italia praticando l’acqua e sale contro persone arrestate con imputazioni di banda armata.
Questo signore, ora pensionato settantasettenne, nonostante sia stato chiamato in causa da un suo collega (Salvatore Genova), nonostante diversi articoli e un libro recente che ne hanno raccontato l’attività di seviziatore agli ordini dello Stato, indicandolo sotto l’eteronimo di professor De Tormentis, copertura sotto la quale lui stesso ha riconosciuto a mezzabocca le sevizie commesse, pur non rischiando più nulla sul piano penale non vuole venire allo scoperto.
Recentemente, dopo un esposto inviato all’ordine, il suo nome è scomparso anche dall’albo degli avvocati napoletani (attività a cui si era dedicato dopo aver lasciato il ministero dell’Interno con la qualifica di questore), dove compariva regolarmente fino a poche settimane fa.
Di “Nicola Ciocia-De Tormentis” ci siamo diffusamente occupati in questo blog (per gli approfondimenti rinviamo ai diversi link) e continueremo a farlo ancora. C’è infatti molto da raccontare: dall’organigramma delle torture, alla filiera di comando, al decisivo ruolo di copertura svolto dalla magistratura fino ad un illuminante dibattito sull’opportunità del ricorso alla tortura e sulla particolare forma di stato di eccezione che si è avuto in Italia sul finire degli anni 70. Discussione che si è tenuta alcuni anni fa sui maggiori quotidiani italiani.
La vicenda Basili-Ciocia (alias De Tormentis) dimostra come l’Italia abbia dato forma ad un singolare paradosso: alla memoria storica svuotata dei fatti sociali è stata sostituita la memoria giudiziaria; all’oblio penale si è sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. Così un decennio di speranze e di lotte è divenuto l’icona del male contemporaneo, un simbolo negativo che cristallizza odii e risentimenti, sofferenze e malintesi.

Per saperne di più
Le torture contro i militanti della lotta armata