Mario Calabresi ha sbagliato titolo

Recensione – Carlo Saronio 45 anni dopo. “Quello che non ti dicono”, di Mario Calabresi (Mondadori, 2020)
«Quello che non ti dicono» sarebbe stato il titolo perfetto per raccontare la morte di Giuseppe Pinelli, l’anarchico che il padre di Mario Calabresi fermò e poi trattenne illegalmente in questura da dove l’anarchico ferroviere uscì morto, defenestrato. Mario Calabresi ha invece preferito parlarci d’altro penetrando nella squallida vicenda del rapimento di Carlo Saronio, senza però pronunciarsi sull’abiezione profonda rappresentata dalla legislazione premiale che ha creato la figura giuridica del “pentito”, il collaboratore di giustizia. Soggetto umano disgustoso ma comunque apprezzato per i suoi servigi

di Davide Steccanella

Carlo Saronio, figlio 26enne dell’industriale chimico Piero Saronio, venne sequestrato a Milano il 15 aprile 1975 ma non verrà mai liberato nonostante il pagamento di un riscatto di 470 milioni, e il suo corpo verrà ritrovato tre anni dopo su indicazione di uno dei responsabili nel corso del processo di primo grado.
Nel suo ultimo libro, Quello che non ti dicono (Mondadori, 2020), Mario Calabresi torna a parlare a distanza di 45 anni di quella tragica vicenda dopo essere stato contattato dal cugino Piero Masolo, prete missionario in Algeria, e da Marta Saronio, la figlia “nata otto mesi e dieci giorni dopo la morte di mio padre”, un padre che non ha mai conosciuto e che l’aveva concepita con Silvia Latini pochi giorni prima di quel 15 aprile 1975.
La complicata storia processuale di quella vicenda è stata ricostruita in modo impeccabile da
Antonella Beccaria nel libro, Pentiti di niente, pubblicato nel 2008 da Stampa Alternativa, e di cui consiglio la lettura, perché, come riconosce Calabresi a pag. 70: «dal punto di vista della cronaca di quel tempo è un gran lavoro che ricostruisce il rapimento di Carlo e i processi».
Le indagini e i relativi processi hanno accertato che: 1) l’azione criminale fu compiuta da un gruppo di persone legate alla malavita su indicazione di un amico del rapito, 2) la morte dell’ostaggio avvenne quasi subito a causa di un tampone letale di toluolo tenuto eccessivamente premuto, 3) per ottenere ugualmente il riscatto vennero utilizzate informazioni fornite sempre da quell’amico che conosceva particolari riservati della casa di famiglia di Corso Venezia 30, per esservi stato ospitato quando era ricercato dalla Polizia.
L’evento ai tempi non destò particolare scalpore poiché in quegli anni Milano era flagellata dal fenomeno dei sequestri di persona a scopo d’estorsione, fino a quando non emerse a maggio, attraverso il sequestro in Svizzera di banconote provenienti dal riscatto, l’identità dell’amico sospettato di aver progettato il rapimento del giovane ingegnere.
Il nominativo di Carlo Fioroni, infatti, insegnante in una scuola media della provincia lombarda, compariva in numerosi atti della Questura come militante della sinistra extraparlamentare e identificato come il soggetto che aveva contratto l’assicurazione del furgone utilizzato da Giangiacomo Feltrinelli per recarsi su quel traliccio di Segrate che tre anni prima gli era risultato fatale.
Attraverso quel collegamento emersero quindi dei rapporti “occulti” del giovane Saronio (e dei quali la famiglia e gli amici non erano a conoscenza) con un gruppo di militanti legati al disciolto Potere Operaio e al mondo milanese dell’Autonomia, che in quegli anni progettavano azioni illegali di autofinanziamento, e si sospettò, quindi, che dietro a quel delitto potesse esservi una matrice “politica”.
Fioroni una volta arrestato finse di essere stato messo al corrente solo dopo il sequestro dal malavitoso Carlo Casirati, e di essersi prestato a fornirgli particolari utili a indurre la famiglia a pagare il riscatto nella speranza che l’amico fosse ancora vivo.
Dopo gli arresti di una serie di personaggi minori a diverso titolo coinvolti nella vicenda (o di altri che non c’entravano nulla), anche Casirati, fuggito con parte dei soldi del sequestro, verrà catturato il 24 febbraio 1976, e una volta estradato, dopo avere ribaltato su Fioroni la paternità del sequestro, farà trovare il 24 novembre del 1978 il corpo di Saronio nel corso del processo di primo grado avanti la Corte d’Assise di Milano presieduta dal giudice Cusumano e che si concluse con la condanna di Fioroni a 27 anni e di Casirati a 25 anni.
Ma nel dicembre dell’anno dopo e in vista del processo di Appello, Fioroni decide di diventare il primo “collaboratore di giustizia” della storia processuale italiana, rendendo dal carcere di Matera una serie impressionanti di dichiarazioni accusatorie ai magistrati Spataro, Caselli e Calogero che comporteranno l’arresto di numerosi militanti.
La matrice “politica” del delitto assumerà ancor più spessore quando verrà accertato che la sera del sequestro Saronio fu prelevato in Largo Quinto Alpini da un’auto con finti agenti, al termine di una riunione in cui si discusse di finanziamenti all’organizzazione Soccorso Rosso a casa dell’insospettabile 50enne professore della Cattolica, Carlo Borromeo, a sua volta prontamente arrestato per partecipazione a banda armata nel blitz del 21 dicembre 1979.
Sulla base delle dichiarazioni di Fioroni anche a Toni Negri, già arrestato nel celebre blitz padovano del 7 aprile 1979, verrà contestato il concorso nel sequestro e omicidio Saronio, e mentre il processo milanese d’Appello si chiuderà il 29 maggio del 1981 con la sensibile riduzione della pena a 10 anni sia per Fioroni che per Casirati in forza della nuova legge sui pentiti, Negri verrà condannato dalla Corte d’Assise di Roma senza che fosse stato possibile alla difesa controinterrogare il “pentito”, che nel frattempo aveva ottenuto un passaporto per l’espatrio.
Le successive sentenze del processo 7 aprile faranno giustizia delle “bufale” di Fioroni, chiarendo che nel delitto Saronio non vi fu alcun coinvolgimento del gruppo politico in cui avevano militato Negri, Fioroni e in parte il Saronio stesso, per cui “caso chiuso” come si direbbe in gergo.
Ma poiché il titolo del nuovo libro, Quello che non ti dicono, induceva a ritenere (a torto) che Calabresi avesse scoperto nuovi elementi in grado di riaprire il caso, l’ho acquistato e al termine della lettura mi chiedo quale possa essere il senso a distanza di 45 anni di questo libro.
Ho trovato interessante la parte in cui riporta i colloqui di oggi con le persone ai tempi maggiormente legate a Carlo, dalla sorella all’amico Gianni Tognoni, dall’allora prete di Quarto Oggiaro alla fidanzata Silvia, e ovviamente i pensieri di chi non ha avuto il tempo di conoscerlo di persona e che ha indotto Calabresi a scrivere questo libro, la figlia Marta e il cugino Piero.
Così pure è interessante la ricerca sui documenti conservati dalla mamma Angela, il ricordo della sua insegnante, i sopralluoghi nelle case e nelle zone cui Carlo era legato, e così pure la storia della fortuna durante il fascismo degli stabilimenti Saronio e degli inquinamenti lasciati, soprattutto se confrontata a quella così diversa del giovane ricercatore Carlo e del suo anno in Usa, e che, da quel che si legge, doveva essere un ragazzo meraviglioso.
Scrive tuttavia Calabresi a pag. 70 che del libro Pentiti di niente «non condivide titolo e tesi di fondo», il che suona un po’ singolare, posto che il libro di Antonella Beccaria non esprimeva nessuna “tesi”, ma si limitava, come appunto dice lo stesso autore, a «un gran lavoro che ricostruisce il rapimento di Carlo e i processi».
Quanto al “titolo”, altro non è che la valutazione oggettiva di un supposto “pentimento”, quello di Fioroni (e Casirati), fatto di false accuse che hanno comportato carcerazioni ingiuste ad opera di chi si era reso responsabile di un atto odioso come tradire la fiducia di un amico, giudizio che non pare discostarsi da quello che del Fioroni ne dà proprio il cugino Piero, il quale, dopo averlo incontrato in Francia, scrive: «ha tenuto la maschera tutto il giorno, non ho trovato un dolore sincero e ho visto una persona piccola. Non provo perdono e nemmeno pietà. Perché Carlo ha aiutato, protetto e finanziato questo venditore di fumo?», (pag. 193).
Cosa «non condivide» dunque Calabresi del libro della Beccaria?
Posso dire io quel che invece non condivido del suo libro, ossia quel continuo ribadire una divisione impenetrabile tra i buoni, tutti i servitori fedeli dello Stato, e i cattivi, tutti i militanti degli anni Settanta, tutti terroristi e mischiati in un unico calderone per una bocciatura finale e senza appello di una Storia che ha coinvolto migliaia di persone per anni in un Paese a capitalismo avanzato e che non era le montagne delle Sierra Nevada.
Cosa c’entra con la tragica vicenda Saronio un incontro avvenuto anni prima tra Renato Curcio e Fioroni nella casa di montagna di Carlo? Oppure il ricordo di Spataro del primo processo milanese alle Brigate rosse due anni dopo la vicenda Saronio? O la vicenda padovana di via Zabarella, o il furto di un quadro in una chiesa attribuito al gruppo di Toni Negri o la rapina di Argelato del 1974 o la lettera di solidarietà scritta da una detenuta per la morte di un nappista più di un anno dopo il sequestro Saronio?
Sembra di essere tornati al “teorema Calogero” di 45 anni fa, tanto che viene il sospetto che quello che oggi Calabresi “non condivide” non sia tanto il libro della Beccaria ma le sentenze dei Tribunali che quel teorema hanno a suo tempo sonoramente bocciato. Posso capire che trattandosi del figlio di un funzionario dello Stato vittima di quegli anni di violenza politica senta l’impulso e il dovere di ribadire a ogni libro la sua ferma condanna di ogni movimento degli anni Settanta, però da buon giornalista dovrebbe anche sapere che quello che oggi non ti dicono è semmai quanto effettivamente è accaduto allora, un gigantesco conflitto sociale che non ha avuto né cattivi né buoni maestri, perché era il Novecento, un secolo del tutto particolare, in cui poteva accadere che anche un ricco ragazzo borghese decidesse di uscire da una casa principesca di corso Venezia per destinare il proprio impegno alle scuole di Quarto Oggiaro.
Il fatto che abbia incontrato sulla sua strada un mascalzone non cambia il corso della Storia e neppure quello della sua storia personale, che merita rispetto, ancor più alla luce di quanto gli è capitato.
In questo non comprendo troppo il giudizio finale del cugino Piero dopo l’incontro con Fioroni quando scrive: «E’ stata una giornata forte e faticosa che mi è servita a togliere lo zio Carlo dal piedistallo su cui l’avevo messo. Ho sempre pensato che avesse abbracciato quel bisogno di cambiamento sociale che era lo spirito del tempo, ma vorrei chiedergli: Carlo ma che compagni di strada ti eri scelto?» (pag. 193).
E proprio per rispetto alla storia di questo ragazzo speravo di non leggere più, a distanza di 45 anni, concetti come «classe opulenta che giocava alla rivoluzione» come scriveva l’estensore della prima sentenza romana del 12 giugno 1984, tanto sbagliata da essere totalmente riformata: «Del resto, anche Borromeo e Gavazzeni, e chissà quanti altri della classe opulenta che giocava alla rivoluzione, erano stati ‘autoespropriati’ di qualche milione. Dopo aver partecipato a delitti, ed esser quindi divenuti ricattabili, sarebbe stato difficile, per chi aveva denaro, rifiutare prestazioni in denaro. L’idea dello sfruttamento massiccio del ‘compagno ricco’ Saronio nasce dunque – a giudizio della Corte – proprio quando egli non può essere più utile nelle strutture clandestine della lotta armata allo Stato borghese e nasce come ‘autosequestro’ al quale la sua ricattabilità, magari machiavellicamente coltivata, non avrebbe potuto – come si era sicuramente calcolato – sottrarsi. In fin dei conti, non aveva egli stesso collaborato sul piano informativo al progetto del sequestro Invernizzi e dell’attentato alla Sit Siemens? II delitto Saronio, dunque, è cosa tutta dell’organizzazione, nato e concluso nella e per l’organizzazione, per finanziare le finalità di terrorismo e di eversione propugnate». (pubblicata integralmente sul sito web Misteri d’Italia).
Non era così, non fu così, ma forse è proprio questo “quello che non ti dicono”.
Bella figura comunque quella di Carlo Saronio, in questo direi che Calabresi e il suo libro hanno pienamente assolto al desiderio della figlia: «Mi aiuti a scoprire chi era mio padre? Non l’ho mai conosciuto ma è sempre con me».

Irriducibili a cosa?

Dieci anni fa, la mattina del 14 gennaio 2013 moriva Prospero Gallinari mentre si stava recando al suo posto di lavoro. Nato a Reggio Emilia nel 1951 in una famiglia contadina di forte tradizione comunista si era accostato giovanissimo alla politica. Entrò nella Federazione giovanile comunista dove fece le sue prime sperienze quindi si avvicinò al gruppo dell’«Appartamento», dove un gruppo di giovani comunisti di Reggio Emilia inizia a porsi domande, studiare, guardarsi intorno per uscire dalle secche del togliattismo, scoprire l’onda di rivolta del 68, la ricchezza dei nuovi pensieri del neomarxismo. Entra così nel Collettivo politico metropolitano, poi Sinistra proletaria. Due concezioni diverse dell’organizzazione e del modo di fare lotta armata portarono alla divisione del gruppo. Gallinari andò a lavorare a Torino e seguì i militanti che verrano poi ricordati come quelli del «Superclan», mentre gli altri fondavano le Brigate rosse. Una scelta che poi definita «sbagliata». Due anni dopo ritroverà i suoi vecchi compagni emiliani che avevano dato vita all’esperienza brigatista. Verrà mandato a lavorare alla Montedison di Marghera dove si stava mettendo in piedi la prima colonna veneta. Nella estate del 1974 giunse a Roma con Alberto Franceschini e Fabrizio Pelli per  mettere in piedi una nuova colonna e organizzare il sequestro di un politico democristiano. E’ la prima discesa della Br nella Capitale. L’esperienza terminò presto perché Franceschini fu arrestato insieme a Curcio l’8 settembre successivo, a Pinerolo, a seguito della trappola messa in piedi dai carabinieri con Silvano Girotto. Lasciata Roma, tornò al Nord con Pelli per riorganizzare il gruppo: destinazione Torino dove però, nel novembre del 1974, viene arrestato in compagnia di Alfredo Bonavita. Due anni più tardi riuscì ad evadare dal carcere e raggiungere di nuovo le Brigate rosse. Dopo un primo soggiorno a Firenze, tornò di nuovo nella Capitale dove prese la guida della colonna romana appena costituita e partecipò al sequestro Moro. Nel settembre del 1979 viene arrestato durante un conflitto al fuoco nel quale rimase gravemente ferito alla testa. Riesce a sopravvivere e riacquistare le sue capacità nonostante la grave lesione. Condannato a tre ergastoli, dopo diciassette anni di carcere, perlopiù trascorsi in sezioni speciali, ottenne una iniziale sospensione pena per gravissime condizioni di salute e una successiva detenzione domiciliare, sempre per motivi di salute dovuti alle conseguenze ma superate per la ferita al capo, con la possibilità di lavorare part time in una tipografia. 
I suoi funerali scatenarono polemiche e censure nel mondo politico, sui giornali e la Tv, addirittura venne aperta una inchiesta dalla magistratura. Ci furono persone identificate e fermate dopo la cerimonia mentre rientravano nei loro luoghi di provenienza.
Sabato prossimo in occasione dell’uscita della nuova edizione del suo libro di memorie, Un contadino nella metropoli, editore Pgreco, si terra una iniziativa in suo ricordo presso l’ex Csoa ex Snia, via Prenestina 173.


Irriducibili a cosa? Una risposta a Benedetta Tobagi…


In nome di quale presente abbiamo il diritto di giudicare il nostro passato?

Roland Barthes

di Paolo Persichetti

C’è una parola che mette molta paura: quella di «irriducibile». Si è scritto tanto attorno a questo termine nei giorni scorsi, dopo la morte e la cerimonia di saluto a Prospero Gallinari, momento in cui i cosiddetti irriducibili, cioè quelli che sono stati descritti come gli indefessi, gli ostinati e gli irremovibili, altrimenti detto «coloro che non hanno mai fatto i conti col passato», e dunque per questo ritenuti ottusi e tetragoni testimoni della stagione rivoluzionaria degli anni 70, sarebbero sorprendentemente riemersi – cosa ancor più preoccupante – in folta compagnia.
Ne ha scritto su Repubblica in due occasioni, il 15 (qui) e il 24 gennaio (qui), Benedetta Tobagi, di fresca nomina al cda della Rai e proiettata, forse un po’ troppo in fretta, nel ruolo di amministratrice della memoria di quel decennio.

Irriducibile: un termine estraneo al lessico della lotta armata
Eppure contrariamente a quanto si è scritto in passato e si continua a scrivere, l
a parola «irriducibile» non appartiene al lessico brigatista. La diffusione di questa etichettatura ha contribuito non poco a fornire una immagine distorta della cultura politica dei militanti che hanno preso parte alla lotta armata. Proviamo a vedere perché.
Il lemma, in realtà, ha svolto una funzione centrale nel vocabolario dell’emergenza giudiziaria e penitenziaria. E’ un conio dello stato di eccezione italiano, impiegato dalla magistratura, utilizzato dai corpi di polizia e dall’apparato carcerario e, in seguito, divenuto di uso comune nel mondo dei media per classificare i prigionieri politici che hanno rifiutato di sottomettersi alla legislazione premiale e differenziale: la delazione remunerata dei collaboratori di giustizia (i cosidetti “pentiti”) e l’abiura, anch’essa remunerata, la cosidetta dissociazione.
Irriducibile, era e resta, chi ha rifiutato di accedere a queste due categorie. Un’area, quella della «irriducibilità», che include figure e generazioni molto diverse tra loro per opinioni politiche e atteggiamenti (sul perdurare o meno dello scontro armato e sull’analisi della società).
Per intenderci: sono considerati irriducibili i cosidetti “continuisti”, cioè coloro che hanno mantenuto ferma la convinzione nel proseguimento della lotta armata anche di fronte ai radicali mutamenti sociali e geopolitici intervenuti nel corso degli anni 80, al pari di quelli che si sono pronunciati in favore di una discontinuità, di un oltrepassamento dell’esperienza armata, o di quelli che in forme varie, anche meno visibili pubblicamente, hanno ritenuto conclusa l’esperienza della lotta armata avviando altri percorsi non più, o non sempre, politici, ricollocando il loro impegno – quando hanno pututo – su terreni civili, sociali e culturali.
Ciò che accumuna quest’area pluriversa, etichettata comunque come “irriducibile”, è dunque il rifiuto delle logiche inquisitoriali dell’emergenza giudiziaria. Nulla a che vedere con lo stereotipo riportato da Benedetta Tobagi nei suoi articoli (ma anche da altri), ovvero: «significato storico assunto dall’aggettivo, sostantivato per designare il terrorista o detenuto politico “che non recede dalle proprie convinzioni”». Lì dove per «recedere» – è bene sottolineralo – non si deve intendere una libera azione riflessiva, una disposizione dell’animo, un afflato della coscienza, un soprassalto dello spirito, che potrebbe ispirare e accompagnare nobili percorsi di distacco interiore, momenti d’autocritica assolutamente disinteressati, autonomi e genuini, ma l’adesione ai dispositivi di assoggettamento previsti in sede penale e penitenziaria, attraverso una lunga serie di decreti e dispositivi legislativi di tipo premiale, varati tra il 1979 e il 1987, che introducendo trattamenti differenziali hanno incrinato il principio di eguaglianza di fronte alla legge e trasformato l’inchiesta, il processo e il carcere, da sedi di verifica e ricerca della prova o di svolgimento della pena, in mercati delle indulgenze, fiere dello scambio politico, luoghi dove si riceve un po’ di futuro in cambio del proprio passato. Qualcosa di assolutamente opposto ad ogni storicizzazione o esercizio libero ed autonomo della critica.
Diceva a tale proposito Jeremy Bentham che «la sfera della ricompensa è l’ultimo asilo dove si trincera il potere arbitrario».
Se ancora le parole hanno un senso, in questa epoca dove ormai il senso sembra aver perso ogni parola, la nozione di irriducibilità dovrebbe designare l’emergenza giudiziaria, il protrarsi ad oltre tre decenni di distanza degli irrisolti penali, degli ergastoli, degli esiliati, gli ukaze contro la parola degli ex militanti di allora. Irriducibile è la memoria giudiziaria che dopo tanti decenni ha sovrapposto all’oblio penale l’oblio dei fatti sociali e alla memoria storica la memoria giudiziaria.

«Negli ultimi dieci anni l’Italia aveva subito la più radicale trasformazione socio-economica dal dopoguerra ed erano cambiati sia i soggetti sociali e politici delle lotte da cui erano nate le Br, sia i presupposti della nostra strategia rivoluzionaria. Prendere atto di queste trasformazioni era una necessità storica che valeva per me, quanto per chi desiderava seriamente interrogarsi sul significato di ciò che era successo. A quel punto la parola “irriducibile” non connotava nessuna realtà sociale. Era un trucco del linguaggio. A cosa si sarebbe dovuti essere “riducibili”? Secondo il potere, alla dissociazione: nel senso che non si era più irriducibili se si diventava dissociati!».

Renato Curcio (intervistato da Mario Scialoja), A viso aperto, Mondadori 1993, p. 209

«L’abiura è come un’eco lunga, un discorso che ricomincia sempre dallo stesso punto, un rimbombo senza fine. Essa nasconde, non svela. Dirò una cosa che vorrei provocasse quelli della mia generazione. Quel che è avvenuto negli anni Settanta è roba nostra, non puoi glissare. I dissociati glissano. Mentre sarebbe stato possibile – difficile ma possibile – fare tutti assieme una riflessione vera, completa, senza rimozioni, dichiarando che era finita. Perché il progetto era realmente fallito, questo era chiaro, anche a quelli che continuarono non potendo far altro.[…] Fare questo dibattito sul serio e fino in fondo significava assumersi la responsabilità politica di tutto mentre si chiudeva tutto. E quanti erano disposti a farlo? Fra di noi e fuori di noi? Appena si fosse arrivati a una discussione seria anche sul modo con il quale si reagì al fenomeno Br e lo si combatté, coloro che non vogliono fare i conti con quegli anni, avrebbero inchiodato la discussione con i soliti falsi misteri che servono a impedire che se ne parli. Avrebbero fatto e detto di tutto contro di noi – nella sconfitta, ci ricorda la scuola dei cinici, chi ha perso non solo ha perso, ma deve essere cancellato, deformato, annichilito».

Mario Moretti (intervisatto da Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate rosse, una storia italiana, Abanasi 1° edizione 1994, pp, 252 e 254

«Siamo al culto della delazione, alla canonizzazione dei collaboratori di giustizia. E in parte è colpa mia. Le confesso una cosa: ogni sera io recito un atto di dolore per aver contribuito, negli anni Settanta, alla diffusione di questo modo di fare giustizia […] Sa, sto pensando di presentare un disegno di legge per cambiare le cose: prendo le regole dell’Inquisizione di Torquemada e le traduco in italiano moderno. Ci sono più garanzie in quelle che nel nostro codice di procedura penale».

Francesco Cossiga, La Stampa, 19 aprile 1995

Che cosa vuol dire irriducibile?
Il primo significato suggerito dal vocabolario online della Treccani (qui) e ripreso anche dalla Tobagi nel suo articolo è, «Che non si può ridurre, cioè rimpiccolire, restringere, ricondurre a una forma più semplice». Altrimenti detto schiacciare. D’altronde l’etimologia è chiara: la particella prefisso “ir”, davanti a parole che inizano con “r” – spiega il dizionario etimologico – assume valore di negazione del significato positivo del termine corrispondente all’interno del quale è comunque ricompreso, a meno che il lemma non abbia assunto una sua rilevanza ed autonomia significative. Esempio: raggiungibile/irraggiungibile; razionale/irrazionale; resistibile/irresistibile, riguardoso/irriguardoso; rilevante/irrilevante.
Per esser chiari: irriducibile vuol dire «non riducibile», dunque che non può essere o non si lascia ridimensionare, che non può essere semplificato, banalizzato, appiattito, livellato. Per estensione: omologato, adattato, limitato, forzato, formattato, obbligato, impoverito.
E siccome le parole hanno senso solo se calate nel contesto in cui sono state coniate per fornire una definizione, in carcere irriducibile è colui che non si lascia piegare dalla disciplina punitiva dell’emergenza, è colui che resiste e oppone al tentativo di riduzione, di adattamento e formattazione ai valori dominanti, all’omologazione della norma, la ricchezza della propria esperienza, della storia dai cui proviene. In questo contesto irriducibile è sinonimo di complessità, estensione, espansione, molteplicità, stratificazione, sfumatura.
Irriducibile è quando ti si vuole imporre una forma e tu ti opponi perché ne contieni mille altre. Non a caso Benedetta Tobagi per contestare una cosa del genere è costretta a definire l’irriducibile, colui che «non depone l’armamentario ideologico per riconoscersi nei principi dello Stato costituzionale», come se lo Stato costituzionale – stando a quelli che sono i suoi postulati teorici – possa conciliarsi con il suo contrario, un assoluto etico a cui tutti devono uniformarsi, dove non c’è spazio sociale o pubblico autonomo e separato dallo spazio statale e quindi tutto ciò che è autonomia, figuriamoci critica, diventa immediatamente una forma di sovversione dell’etica istituzionale costituita.
Di irriducibili è piena la storia, pensate a Galileo e Giordano Bruno.

«La storia, si è già detto, è stata sempre quella narrata dai vincitori. Bisognerebbe aggiungere e precisare che i suoi scrittori sono spesso reclutati fra gli sconfitti o i trasfughi, i quali in tal modo si trasformano in uomini vinti. A quanto pare, la lezione fornita dall’uomo vinto è alla base della nostra memoria. E oggi, per tanti aspetti, è come se ci trovassimo in una situazione fondativa, analoga a quella dei primi secoli della nostra era.
La storia degli eretici, per esempio, ci è stata raccontata soprattutto dai loro grandi nemici, gli eresiologi, e sulla visione di costoro si è fondata l’ortodossia; ma bisogna ricordare che la maggior parte di questi eresiologi furono degli eretici o dei pagani pentiti come l’ex manicheo sant’Agostino, così diventato potente vescovo di Cartagine, o l’ex pagano sant’Ireneo vescovo di Lione, autore di un testo – Contro le eresie – d’importanza fondamentale per la storia dell’ortodossia cristiana. Si potrà ricordare lo storico degli ebrei Flavio Giuseppe. Egli e i suoi compagni rimasero accerchiati dai romani e decisero di suicidarsi per non consegnarsi al nemico. Per ultimo rimase proprio Giuseppe; cambiò idea, passò dalla parte dei romani e si mise a scrivere la storia degli ebrei… per i romani, benignamente trattato dall’imperatore Vespasiano e aggiungendosi il nome Flavio».

Vincenzo Guagliardo, Dei dolori e delle pene, Sensibili alle foglie 1997, p. 89

Fare i conti?
Una delle caratteristiche dell’irriducibile, scrive Benedetta Tobagi, è la sua incapacità di saper fare i conti col passato.
Ma cosa vuol dire “fare i conti” ? Un giurista tedesco, Helmut Quaritsch (Giustizia politica, Giuffré 1995) lo spiegava all’incirca in questo modo:

«Fare i conti» va inteso come espressione che contiene un concetto comprensivo che include in sé la nozione di elaborazione e di superamento del passato. Processo non conclusivo, lì dove esso è legato al problema della ricerca storica, della coscienza della memoria, ma anche chiusura lì dove la riflessione giuridica configura la presenza di una componente formale di decisione e procedura del superamento del passato che si esprime nelle sentenze ma anche nelle amnistie».

Tobagi irr

Per saperne di più
Prospero Gallinari, il saluto, la storia. Interventi e riflessioni

Cosa accomuna Marcello Basili, pentito della lotta armata e oggi docente universitario, a Nicola Ciocia (alias professor De Tormentis), ex funzionario dell’Ucigos torturatore di brigatisti?

mercoledì 1 febbraio 2012

Professore-BRLa voglia d’oblio. Il tentativo di restare anonimi, di nascondersi tra le rughe del passato sperando di poter cancellare la propria storia. A Marcello Basili, oggi professore associato di Economia politica presso l’Università di Siena, il passato pesa come un macigno.
Nel 1982 fu arrestato per appartenenza alle Brigate rosse, brigata di Torre spaccata. Non attese molto per pentirsi. Vestì subito i panni del collaboratore di giustizia e da bravo «ravveduto» si adoperò nell’arte dell’autocritica degli altri scaricando sui suoi coimputati accuse e chiamate di correo. Mentre parlava molti dei suoi ex compagni venivano torturati con le stesse modalità impiegate da quel Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, capo di una squadra (i cinque dell’Ave Maria) specializzata negli interrogatori con l’acqua e sale, la tecnica del waterboarding impiegata per estorcere dichiarazioni.

Il pentito che vuole farsi dimenticare
Scrive Giovanni Bianconi sul Corriere della sera di oggi, 1° febbraio, che Basili ha chiesto attraverso il suo avvocato che il suo passato di militante della lotta armata sia cancellato dagli archivi telematici, invocando la legge sulla privacy e il «diritto all’oblio» per «non vedere incrinata o distrutta la propria riconquistata considerazione sociale».
Questione seria quella del diritto all’oblio che avrebbe meritato ben altro dibattito ma che appare del tutto inappropriata in casi come quello di Marcello Basili o di Nicola Ciocia.
Sempre secondo quanto rivela il Corriere, Basili si è rivolto al Centro di documentazione della Fondazione Flamigni intimando di eliminare il suo nome dagli indici e comunicando di opporsi «al trattamento dei dati» connessi ai suoi trascorsi sovversivi. Precedenti che, sostiene sempre l’insegnante universitario, «appartengono ormai al passato, sono già stati resi noti all’epoca e hanno perso quel carattere di attualità che ne potrebbe giustificare l’ulteriore pubblicazione».
A dire il vero la Fondazione Flamigni andrebbe stigmatizzata per altre ragioni, essendo il più grande collettore delle teorie del complotto, la più grande banca dati della menzogna storica sulla lotta armata per il comunismo.
Ma torniamo a Basili: se i dati in questione fossero impiegati con uno scopo discriminatorio, il docente dell’università di Siena avrebbe tutte le ragioni per lamentarsene. Tuttavia non sembra, fino a prova contraria, che Basili ne abbia ricevuto fino ad oggi un qualche svantaggio. I reati per cui subì un processo e la condanna prevedono, per chi non collabora con la giustizia, oltre ad una lunga reclusione in carceri speciali anche l’interdizione automatica dai pubblici uffici una volta terminata la pena.
Basili al contrario, grazie allo status di pentito che gli ha permesso di esportare ogni responsabilità sulle spalle altrui, mandando in galera altri, ha avuto da parte dello Stato un trattamento di tutto favore: una reclusione breve e l’interdizione venuta meno. Circostanze che gli hanno consentito di svolgere una brillante carriera universitaria mentre i suoi compagni di brigata erano, e in alcuni casi sono tuttora, in carcere.
Certo Basili potrebbe ricordare le tante amnesie e rimozioni che hanno avvolto e avvolgono le biografie dei molti padri della patria, la lunga fila di redenti con militanze giovanili infrequentabili che riempiono i ranghi della prima e della seconda Repubblica, compreso il nostro attuale capo dello Stato. Ma l’essersi buttato pentito, purtroppo per lui, non gli dà comunque il diritto di vantare un posto di prima classe sul carro dei vincitori.

La storia non si imbavaglia e tantomeno si rimuove: si elabora
La richiesta avanzata da Basili, anche se ha qualcosa di abietto, non deve tuttavia sorprendere più di tanto perché resta coerente con quella cultura del ravvedimento contenuta nella legislazione premiale introdotta dallo Stato per fronteggiare i movimenti sociali sovversivi. Nel corso degli anni 80 e 90 pentiti e dissociati ricevettero il mandato di amministrare la memoria degli anni 70, scritta e divulgata attraverso un fiume di delazioni, ricostruzioni ammaestrate e testimoninaze ammansite.
La magistratura, che ha gestito in Italia lo stato di emergenza, si è servita di questo personale fatto di ex militanti ravveduti e collaboranti trasmettendo loro un irrefrenabile sentimento d’impunità che oggi porta quelli come Basili, o i funzionari di polizia addetti al lavoro sporco come Ciocia, privi del coraggio delle loro idee e delle loro azioni, a pretendere che la storia resti muta, senza traccia del loro passaggio.
Questa richiesta di trasformare un passato pubblico in un fatto privato è la conseguenza anche di quel processo di privatizzazione della giustizia che ha portato nell’ultimo decennio magistratura e sistema politico a delegare, sovraccaricare sulle spalle delle parti civili, la gestione della sanzione penale nei confronti dei prigionieri politici.

Il torturatore di Stato che continua a nascondersi
Esiste un parallelo tra l’atteggiamento di Marcello Basili è il comportamento di Nicola Ciocia, già funzionario dell’Ucigos e capo del gruppo di torturatori che per tutto il 1982 (ma anche prima per sua stessa ammissione, vedi il caso di Enrico Triaca nel maggio 1978 e ancora prima quello di Alberto Buonoconto nel 1975), ha imperversato tra caserme, questure e chiese sconsacrate d’Italia praticando l’acqua e sale contro persone arrestate con imputazioni di banda armata.
Questo signore, ora pensionato settantasettenne, nonostante sia stato chiamato in causa da un suo collega (Salvatore Genova), nonostante diversi articoli e un libro recente che ne hanno raccontato l’attività di seviziatore agli ordini dello Stato, indicandolo sotto l’eteronimo di professor De Tormentis, copertura sotto la quale lui stesso ha riconosciuto a mezzabocca le sevizie commesse, pur non rischiando più nulla sul piano penale non vuole venire allo scoperto.
Recentemente, dopo un esposto inviato all’ordine, il suo nome è scomparso anche dall’albo degli avvocati napoletani (attività a cui si era dedicato dopo aver lasciato il ministero dell’Interno con la qualifica di questore), dove compariva regolarmente fino a poche settimane fa.
Di “Nicola Ciocia-De Tormentis” ci siamo diffusamente occupati in questo blog (per gli approfondimenti rinviamo ai diversi link) e continueremo a farlo ancora. C’è infatti molto da raccontare: dall’organigramma delle torture, alla filiera di comando, al decisivo ruolo di copertura svolto dalla magistratura fino ad un illuminante dibattito sull’opportunità del ricorso alla tortura e sulla particolare forma di stato di eccezione che si è avuto in Italia sul finire degli anni 70. Discussione che si è tenuta alcuni anni fa sui maggiori quotidiani italiani.
La vicenda Basili-Ciocia (alias De Tormentis) dimostra come l’Italia abbia dato forma ad un singolare paradosso: alla memoria storica svuotata dei fatti sociali è stata sostituita la memoria giudiziaria; all’oblio penale si è sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. Così un decennio di speranze e di lotte è divenuto l’icona del male contemporaneo, un simbolo negativo che cristallizza odii e risentimenti, sofferenze e malintesi.

Per saperne di più
Le torture contro i militanti della lotta armata

 

 

Franz Kafka e i professionisti della correzione

Michael Löwy, Franz Kafka. Rêveurs insoumis, Paris 2004

Riflessioni quanto mai attuali sull’uso della pena. Un’anticipazione dei moderni strumenti d’interiorizzazione della colpa introdotti nell’ordinamento penitenziario con i dispositivi premiali previsti dalla legislazione in favore dei dissociati e successivamente dalla Gozzini. Oggi ulteriormente sviluppati dopo che la figura della vittima è divenuta il perno del sistema penale. Il diritto alla riparazione simbolica dell’offeso è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Questo processo di privatizzazione della giustizia trae origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica. Il sistema giudiziario perde il proprio ruolo di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di riparazione psicologica della persona offesa. In questa prospettiva la ricerca della verità giudiziaria non offre scampo. Essendo un momento necessario all’elaborazione del lutto, la dichiarazione di colpevolezza e l’ostracismo perpetuo resta l’unica soluzione accettabile, perché il proscioglimento o la reintegrazione civile dell’accusato ostacolerebbero la guarigione mentale della vittima.
L’uso strumentale della retorica vittimistica ha così legittimato il capovolgimento dell’onere della prova, il passaggio alla presunzione di colpevolezza, l’aggravamento delle sanzioni, la limitazione dei diritti dell’accusato e l’immoralità delle amnistie, fino al paradossale esercizio di un’etica selettiva che perde improvvisamente tutta la sua intransigenza di fronte a quella ragion di Stato che ha premiato pentiti e dissociati


In un brano, conosciuto sotto il nome di frammento del sostituto, e ritrovato nei suoi quaderni postumi, Franz Kafka si diverte a mettere in scena il ragionamento servile e ottuso di un sostituto procuratore incaricato di sostenere l’accusa nei confronti di un uomo incolpato di lesa maestà.
Secondo il magistrato le cose del mondo dovevano attenersi ad una curiosa geometria dell’autorità che vede la vita assumere sempre una linea ricurva, nella quale la postura dell’essere ha senso unicamente se rivolta in posizione arcuata, prona, reclina, flessa, prostrata, accucciata, soprattutto mai dritta: «Egli credeva che se tutti avessero collaborato con il Re e il Governo nella calma e nella fiducia, si potevano superare tutte le difficoltà[…] più grande era la fiducia, e ancora di più si doveva curvare la schiena, ma in virtù di principi naturali, senza bassezza. Ciò che impediva uno stato di cose così auspicabile, erano personaggi della risma dell’accusato che, usciti da non si sa quali bassi fondi, venivano a disperdere con le loro grida la massa compatta delle brave genti». L’obiettivo della macchina giudiziaria non era più quello d’applicare un semplice castigo ma di spingere a collaborare attivamente alla propria punizione affinché la condanna assumesse il senso di una vera correzione, o piuttosto l’ossimoro della correzione, cioè il raddrizzamento, la messa in riga attraverso la curvatura dell’individuo. L’essenziale della pena diventa il processo d’interiorizzazione del sentimento di colpa. Senza una vera adesione alla propria penitenza, non c’era alcuna salvezza possibile. L’infrazione penale prendeva allora le sembianze di una colpa teologica, nella quale crimine e peccato appaiono indissolubilmente intrecciati.

Corriere della sera: La coppia Battisti-Vargas e la guerra di pollaio

Corriere della sera dell’8 febbraio 2009

di Giovanni Bianconi

“Dove vuole arrivare la coppia Battisti-Vargas?”. La domanda viaggia su Internet, nel Blackblog di Oreste Scalzone e nel sito Insorgenze di Paolo Persichetti. Icona storica dei ‘rifugiati’ italiani in Francia il primo, unico estradato da Parigi il secondo, tuttora detenuto in semilibertà.
Sotto quel titolo, un lungo elenco di dubbi, interrogativi inquieti e critiche sull’ergastolano dei “Proletari Armati per il Comunismo” al quale il Brasile ha concesso asilo politico (ma si trova ancora in prigione); le sue ultime mosse non sono piaciute affatto alla ‘comunità’ degli ex militanti della lotta armata che hanno trovato ospitalità oltralpe, com’è stato per Battisti fino al 2004. Cinque anni fa, quando il governo di Parigi stava per rispedirlo nelle patrie galere, scappò in Sud America, e ora rivela che ad aiutarlo furono i servizi segreti francesi. “L’abbiamo letto con turbamento”, commenta Scalzone che nel 204 brindò alla sua fuga. Oggi non rinnega ma scrive: ” Le nostre reazioni oscillano tra incredulità e qualche domanda: perchè mai lo avrebbero ‘esfiltrato’? In cambio di che? E perchè mai, vero o fiction che sia, viene a dirlo come se fosse la cosa più normale del mondo, offrendo sponda alle calunnie “pistaiole”, in particolare stalino-fasciste, che da sempre ci propinano in materia?”

Subito dopo ce n’è per la scrittrice Fred Vargas, collega ‘giallista’ e amica di Battisti. Che ha confermato l’aiuto di Carla Bruni in Brasile, nonostante la pubblica smentita della signora Sarkozy, e fornito particolari sulla ‘persona servizievole’ che avrebbe fornito il passaporto falso al fuggiasco: “non esattamente un agente dei servizi ma una personalità molto vicina ai governi della presidenza Mitterand”, riassume Scalzone.
Tra gli ‘esiliati’ italiani Cesare Battisti, divenuto scrittore di successo in Francia, non ha mai goduto grandi simpatie. Anche perchè lui per primo assunse atteggiamenti distaccati dal resto della ‘compagneria’. Ma la battaglia per la sua libertà aveva rinsaldato la solidarietà. Scalzone intonava in piazza canti rivoluzionari accompagnati dalla fisarmonica, ma oggi accusa: “Manca solo che Battisti e Vargas lancino un altro strale contro qualche figura che si sia particolarmente impegnata verso la France terre d’asile e nella cosiddetta dottrina Mitterand”.
Poco meno che un traditore, insomma.
Paolo Persichetti, che nel 2002 fu riportato in Italia nel giro di una notte, unico risultato dei “patti” tra i governi di destra di Roma e Parigi, non crede al ruolo dei servizi segreti in favore di Battisti e dice: “Niente torna in questa storia. Il rancore dei suoi ex coimputati che lo stigmatizzano solo perchè a loro non è riuscito di fuggire; il fatto che per discolparsi Battisti stesso faccia il loro nome facendo passare per pentiti dei semplici ‘ammittenti’ che non avevano fatto dichiarazioni su terzi; una guerra di pollaio che vede i politici fare le dichiarazioni più astruse e insensate”.
Che ora l’ergastolano dei Pac abbia diritto di tornare libero in Brasile, per Scalzone, Persichetti e gli altri ‘rifugiati’ è un dato scontato. Ma “lo stillicidio di rivelazioni centellinnate e in crescendo sembrano uscite dalla mentalità contorta di chi, a furia d’inventare intrecci polizieschi, finisce per vedere la vita come un vortice di complotti. Battisti sembra vivere nella trama dei suoi romanzetti.”
E se gli amici dello scrittore, dalla Vargas e Bernard-Henry Levy, vengono bollati come “girotondini di Francia, con la loro vulgata sull’Italia ‘mai uscita dal fascismo’ “, l’ex militante dei Pac, “dev’essere affondato in un misto di ‘legittimismo’ e vittimismo: solo così si spiega l’odio riversato prima contro i ‘brigatisti’, poi ‘gli ex compagni’ fino a una sorta di sordo rancore contro Marina Petrella, come di gelosia perchè la battaglia du si lei ha avuto successo…”
Il finale è riservato al ‘terribile sospetto’ che la coppia Battisti-Vargas arrivi a fare “terra bruciata di quel che resta del mitterrandiano ‘asilo di fatto’ “, come fosse “la contropartita richiesta.”
In ogni caso, “tutto quel che rende ancor più delirante, non meno, la caccia all’uomo e l’immagine che si vuol dare della rivolta con un intero Paese (l’Italia) contro uno (e di che spessore…)”

Università della Sapienza, salta il seminario suggerito dalla Digos

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Lapsus…

Il Br dissociato Valerio Morucci era stato invitato, nella veste di ventriloquo del ministero dell’Interno, a tenere il 12 gennaio 2009 una lezione nell’università La Sapienza di Roma.
Questa vicenda segnala un rischio per la libertà di ricerca, di insegnamento, di studio, per la cultura di questo paese che sembra aver perso ogni germoglio critico, sprofondato nel sonno della ragione.
Che storia può mai essere quella promossa dal ministero dell’ordine e della sicurezza? Da quando in qua la polizia di Stato si occupa dei programmi universitari?
Il rettore della Sapienza, prof. Luigi Frati, ha provocatoriamente dichiarato che l’unico luogo per tenere una lezione di storia degli anni 70 sarebbe via Fani, come a dire che gli anni 70 possono essere studiati solo sui marciapiedi o gli angoli di strada dove sono avvenuti gli attentati (a dire il vero, un’altro dissociato, Alberto Franceschini, ebbe la “geniale idea” di farsi intervistare da Claudio Martelli proprio in via Fani, suscitando lo sdegno generale degli stessi che oggi invece, all’improvviso, hanno cambiato idea). In realtà potremmo anche accettare questa proposta, a patto che si possa fare altrettanto nelle piazze e nelle stazioni dove sono avvenute le stragi  di Stato, nelle carceri dove sono state represse le lotte dei detenuti, sulle strade, nelle fabbriche, le università, le campagne dove sono stati uccisi manifestanti, scioperanti, semplici cittadini, giovani militanti, sindacalisti, operai, braccianti, dalle forze di polizia in assetto di ordine pubblico. Oltre 200 morti solo dal 1945 al 1969… dopo vennero gli anni 70. Ma forse – si potrebbe obiettare – i luoghi migliori sarebbero quei cantieri e quelle fabbriche dove si muore di lavoro: come il petrolchimico di Porto Marghera, l’Icmesa di Seveso o la Thyssenkrupp. Già, il lavoro salariato, questo perfetto rimosso del nostro tempo. È lì dentro che sta l’arcano della rivolta armata che mette ancora tanta paura.


Università della Sapienza, salta il seminario suggerito dalla Digos

Paolo Persichetti
Liberazione
3 gennaio 2009

È stata annullata la conferenza che l’ex brigatista Valerio Morucci doveva tenere il 12 gennaio presso l’università La Sapienza di Roma. La decisione è stata presa dal preside della facoltà di Scienze Umanistiche Roberto Nicolai. Morucci doveva tenere un seminario su «Cultura, violenza e memoria» all’interno di una delle lezioni del prof. Giorgio Mariani, ordinario di Letteratura angloamericana e promotore dell’iniziativa. Morucci non è nuovo ad incontri del genere, come quello tenuto al liceo Giulio Cesare tempo addietro per discutere uno dei suoi ultimi libri. Niente di veramente nuovo, dunque; come abbastanza scontato è stato il vespaio di polemiche suscitato dalla notizia. La vera novità (questa sì piuttosto grossa) si trova, invece, nelle giustificazioni addotte dal prof. Mariani per spiegare le ragioni dell’invito. In una lettera, scritta il 28 dicembre, inviata ai colleghi di facoltà, Mariani sostiene d’aver invitato Morucci «perché sollecitato da un ufficiale della polizia di Stato che segue il percorso post-carcerario di alcuni ex terroristi». Le autorità di polizia e di giustizia – prosegue il docente – «vedono con favore questi incontri che aiutano le nuove generazioni a scansare la tentazione di ripetere scelte sbagliate, in particolare in un momento in cui la protesta legittima di studenti e giovani si fa sentire nuovamente». Capita l’antifona, studenti dell’ Onda?

Università La Sapienza di Roma

Università La Sapienza di Roma

Il funzionario in questione, stando alle parole del rettore della Sapienza Luigi Frati, sarebbe un importante funzionario della Digos (anche se in serata è poi giunta la smentita di rito da parte di questo ufficio della questura). Da tempo va di moda la polemica contro il «presenzialismo mediatico» degli ex militanti della lotta armata. Ora apprendiamo, però, che dietro alcuni di loro – perlopiù ultradissociati e collaboratori di giustizia – agiscono come veri e propri agenti editoriali e addetti alla pubbliche relazioni dei funzionari del ministero degli Interni. Circostanza che chiarisce la reale natura della narrazione degli anni 70 che costoro portano avanti. A questo punto non si comprendono nemmeno i motivi della polemica da parte di chi ne dovrebbe ricavare solo vantaggio. Ma la stupidità è un tratto tipico di molti reazionari attuali. Tempo fa Morucci ha rivendicato il diritto di parola, evocando l’articolo 21 della costituzione. Per farne cosa? Adesso lo sappiamo: diffondere la verità ufficiale del ministero degli Interni, alla faccia della libertà di pensiero.
Solo in un paese dove le parole hanno perso senso e il senso le parole può accadere una cosa del genere. Tutto questo perché sugli anni 70 incombe tuttora l’ipoteca dell’emergenza. A quando una storia libera di essere studiata e discussa senza discriminazioni e senza funzionari di polizia che vengono a suggerirci i testi e gli autori?


L’intervista: il prof dell’invito: «
Era utile ascoltare i suoi tragici errori»

Carlo Piccozza
la Repubblica del 3 gennaio 2009

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Quando la storia la scivevano dagli uffici del governo

Roma – Professor Giorgio Mariani, perché una lezione alla Sapienza di un ex brigatista rosso?
«L’idea era di avere un dialogo con lui, non di farlo salire in cattedra. L’esperienza di chi, come Valerio Morucci, dopo scelte tragicamente sbagliate, valuta criticamente il suo passato, può essere di insegnamento, soprattutto ai giovani. Mentre gli studenti tornano all’impegno politico, avverto la necessità di aiutarli ad acquisire le armi della critica che sono l’antidoto più efficace contro la tentazione macabra delle armi vere».

Ma alcuni suoi colleghi l’hanno criticata sostenendo che non può mettere in relazione la protesta degli studenti con la pratica terroristica.
«Non c’è relazione, infatti, ma la biografia di Morucci nel racconto Schegge di memoria, pomo della discordia dell’incontro da me annullato, non è un recupero romantico né una demonizzazione del movimento studentesco. Solo un’analisi. Una interpretazione critica, forte della memoria sugli errori consumati nel percorso del dopo ’68. Perché scandalizzarzi? Dare la parola a chi ha fatto scelte tragicamente sbagliate, per me non significa legittimare chicchessia. E poi quell’iniziativa mi era stata suggerita da un funzionario di polizia che segue il percorso post-carcerario di alcuni ex terroristi e che sarebbe stato presente all’incontro».

La questura di Roma smentisce, però, che l’incontro sia stato suggerito da qualche funzionario della Digos.
«Non so se fosse della Digos. Ma che fosse un funzionario di polizia, sono certo. D’altro canto quando Morucci si incontrò con gli studenti del liceo Giulio Cesare, lo fece accompagnato da agenti di polizia».

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I Ravveduti
Sbagliato andare a Casapound, andiamo nelle periferie
Le veline del manifesto


Le veline del Manifesto

C’era una volta un giornale comunista. Al manifesto piace la storia raccontata dal ministero degli Interni
Per Morucci, porte chiuse alla Sapienza

Iaia Vantaggiato
il manifesto
2 gennaio 2009

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Lapsus...

“Certo, fa una certa impressione pensare che a Rabin e Arafat abbiano potuto dare il nobel per la pace e in Italia fa scandalo anche solo il fatto che un  ex-terrorista vada a parlare all’università della sua storia”, commenta Valerio Morucci, ironico ma anche furibondo. Sull’esito dell’ennesimo “scandalo” che lo ha coinvolto, Morucci si fa poche illusioni: è pronto a scommettere che la “lezione” che avrebbe dovuto tenere il 12 gennaio all’università “La Sapienza” di Roma – titolo Schegge di memoria – non ci sarà. La levata di scudi di studenti e docenti, spalleggiata dallo stesso rettore Luigi Frati è bastata e avanzata per convincere il professor Giorgio Mariani, docente di letteratura anglo-americana alla facoltà di Scienze umanistiche, a ripensarci. Dopo le proteste, in questi casi inevitabili, Frati non ci era andato giù leggero. Aveva convocato il preside della facoltà, Nicolai, per esprimergli i sensi del suo più totale disaccordo. Nel caso la sua posizione non risultasse abbastanza chiara aveva aggiunto un truculento testata-manifesto consiglio, quello di “tenere il seminario nello stesso luogo e alla stessa ora in cui il gruppo di fuoco delle Br ha massacrato gli innocenti che facevano da scorta ad Aldo Moro”. Valerio Morucci, ex Potere operaio, ha fatto effettivamente parte del commando Br di via Fani ed è stato poi, con l’allora compagna Adriana Faranda, il “postino delle Br”, incaricato di consegnare tutti i messaggi copj13 brigatisti, nei 55 giorni del sequestro. Sua, tra l’altro, l’ultima telefonata, quella a professor Franco Tritto, in cui le Br annunciavano l’uccisione di Moro e indicavano il luogo dove ritrovare la salma. Uscito dalle Br anche in seguito al dissenso sull’esito di quella tragica vicenda (Morucci era contrario all’uccisione di Moro) è stato tra i primi terroristi a dissociarsi dalla lotta armata. Uscito di prigione, ha scritto numerosi libri sia di narrativa che di analisi storico politica sulle vicende che lo hanno visto protagonista, ed è probabile che anche in questa veste fosse stato invitato a tenere il seminario incriminato da un professore di letteratura  angloamericana. Nel seminario, Morucci avrebbe parlato del suo percorso politico e individuale, dal ’68 alla militanza in Potere operaio allo stretto rapporto con Giangiacomo Feltrinelli, l’editore guerrigliero capo dei Gap. Non avrebbe giustificato nulla ma spiegato molto, come ha già fatto nei suoi molti e apprezzati libri. Avrebbe aiutato a capire, senza indulgenze e senza sciocchi anatemi, come e perché in Italia, non molti anni fa sia nato e cresicuto un fenomeno armato senza pari in occidente. Quello che dovrebbe fare un paese deciso a capire e non a demonizzare. Quello che dovrebbero fare università e rettori degni del nome.

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Universita della Sapienza, salta il seminario suggerito dalla digos
I Ravveduti
Sbagliato andare a Casapound, andiamo nelle periferie


Gli angeli e la storia

Libri – Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta a oggi, Odradek 1999

di Paolo Persichetti e Oreste Scalzone

 1. Il processo Sofri è il risultato di un inusitato errore giudiziario? Oppure la prova ennesima di un modello giudiziario, di un nuovo paradigma indiziario che è presente nella società italiana ormai da un ventennio? Il primo omicidio politico di sinistra in Italia è stato l’attentato al commissario Calabresi. Un’azione che anticipa di quattro anni la decisione delle Br di «alzare il tiro» (1976).(1) L’attentato Calabresi impedisce di separare la storia degli anni 70 in due momenti distinti e, inamovibile come una montagna, è li a ricordare che a praticare livelli illegali e armati non c’erano solo i gruppi dichiaratisi combattenti fin dall’inizio. Per questo motivo Ovidio Bompressi(2), Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri sono gli ostaggi della cattiva coscienza di un’intellighenzia di sinistra che ha condotto fino al parossismo l’occultamento di una parte della storia degli anni 70. Sacrificati sull’altare di una innocenza assoluta, necessaria al bisogno d’innocenza di altri, sono vittime della linea di difesa scelta, e dell’arroganza della campagna di sostegno condotta in loro favore.

2. Poco dopo la sentenza definitiva della Cassazione(3) e l’incarcerazione di Bompressi e Sofri (Pietrostefani stava preparando il suo rientro dalla Francia)(4), l’italianista Jacqueline Risset invitava gli intellettuali francesi a intervenire sul caso Sofri. Nel suo articolo citava il giudice di Cassazione, Alfonso Malinconico, il quale aveva invitato a esaminare il caso Sofri «con molta attenzione», perché «situato socialmente e storicamente in una visione che non ha niente a che vedere con quella dei magistrati». Nel tentativo di delucidare il contesto in cui si era svolto, nel 1972, l’omicidio del commissario Calabresi, per il quale Sofri è stato condannato, Risset ricordava la «strategia della tensione»(5). Nessuna parola era impiegata per descrivere la dimensione radicale e l’estensione dei movimenti sociali di quel periodo, nelle fabbriche (occupazione della Fiat), nei quartieri popolari delle grandi città. Tuttavia, Lotta continua, all’inizio degli anni 70, era tra i protagonisti di queste lotte. Nessun cenno, inoltre, sull’uso generalizzato e sistematico che dei pentiti è stato e viene fatto, nella quasi totalità delle inchieste e dei processi, e sul modello giudiziario d’eccezione, di cui lo stesso Sofri ha finito per essere un’ulteriore vittima. La breve ricostruzione fatta da Risset gettava un’ombra che faceva apparire il caso Sofri come il risultato di una macchinazione: ultimo soprassalto di qualche rete residuale dei servizi segreti della prima Repubblica, paradossalmente presentata come alleata di quella stessa magistratura che l’ha affondata a colpi d’inchieste anticorruzione.

3. Lo storico Carlo Ginzburg, nel suo libro(6) sull’argomento, non esclude completamente l’ipotesi del complotto, ma in assenza di prove si attiene all’errore giudiziario, poiché non vuole avanzare «sul terreno delle congetture». Come egli stesso ammette: «Per parlare di dolo (che in questo caso implicherebbe anche, necessariamente, un complotto), ci vogliono delle prove irrefutabili. Io non ne ho».(7) “Insostenibile” però non vuole dire “impensabile”. E nel libro vi è ben più che un’allusione all’ipotesi del complotto, tant’è che Ginzburg stesso riferisce del dissenso che sul tema ha con Adriano Sofri.(8) Il complotto, la «teoria dei complotti», è per Ginzburg un modello ontologico valido seppur solo a certe condizioni.(9) Dimostrando efficacemente le «inquietanti coincidenze» del processo Sofri con i procedimenti dell’inquisizione, anch’egli rifiuta di trarre delle più ampie conclusioni sul sistema giudiziario dell’emergenza. Le frequentazioni con le «radici del paradigma indiziario» non lo hanno reso avvertito del fatto che un procedimento può essere l’indizio di un sistema ben più ampio. Per Ginzburg il solo «processo alle streghe» dell’Italia moderna è quello Sofri.(10)

4. Ma tra le differenti caratteristiche che distinguono l’attività dello storico da quella del giudice vi è l’analisi del «contesto», ovvero la presa in considerazione della dimensione storico-sociale da cui la ricerca storica non può in alcun momento prescindere, a differenza dell’attività giudiziaria che si occupa prioritariamente dell’azione individuale, cercando di definirne le singole responsabilità e i relativi risvolti penali, e solo secondariamente – in modo del tutto discrezionale – della dimensione storico-sociale (con strumenti di conoscenza e comprensione che restano largamente inadeguati). Perché, dunque, questa ossessiva reductio ad unum dell’intera impalcatura politico-giudiziaria che ha dato luogo al processo e alla condanna di Sofri e compagni? Perché questa volontà di circoscrivere la vicenda del processo Sofri alla dimensione del semplice errore giudiziario? Perché altrove il lavoro di analisi dei meccanismi dell’inquisizione del Cinquecento e del Seicento porta Ginzburg a non soffermarsi di fronte alle sole implicazioni metodologiche ma a indagare oltre, per ricercarne le implicazioni politiche, le complesse e profonde interrelazioni con la dimensione delle mentalità, per arrivare così a descrivere i meccanismi di una struttura che agisce come sistema e che svolge una decisiva funzione di controllo e repressione sociale? Sarebbe esatto considerare l’inquisizione come la semplice addizione di un gran numero di processi a streghe, maghi ed eretici impenitenti? Una somma incredibile di errori giudiziari che traversarono due secoli e diversi paesi d’Europa senza legami l’uno con l’altro? Sarebbe giusto considerare questa dimensione spaziale e temporale comune come un fatto puramente accidentale? Tutte le ricerche degli storici in materia, oltre che quelle pregiate di Ginzburg(11), mostrano il contrario. Allora, perché di fronte a un fatto come il processo Sofri, uno storico così avvertito viene meno, in modo tanto palese, al rigore del suo mestiere? Alla fine del suo libro, Ginzburg, districandosi tra storici e giudici che cercano la prova delle streghe, arriva soltanto a scoprire l’esistenza degli angeli. Angeli speciali che hanno sorvolato la storia degli anni 70.

5. La ragione la si ritrova nella scelta differenzialista che si iscrive dentro una lunga polemica sull’interpretazione e la legittimità delle anime politiche e culturali protagoniste del 68, nel tentativo di affermare una sorta di “qualità”, di “essenza”, di “specificità intrinseca”, che avrebbe fatto di Lotta continua una formazione oggettivamente incompatibile con la violenza politica e l’omicidio, in un contesto storico dove altri a sinistra, al contrario, hanno riconosciuto o rivendicato questo tipo di compatibilità. Tra i molti sostenitori di questa tesi vi sono Jean-Luis Fournel et Jean-Claude Zancarini, che in un articolo uscito su Les Temps Modernes,(12) si preoccupano degli effetti storiografici che il processo Sofri provoca nell’interpretazione delle vicende degli anni 70. Essi denunciano l’amalgama tra «terrorismo rosso» e «i gruppi radicali e contestatari, nati negli anni della rivolta studentesca del 67-68, oltre che l’accostamento con le lotte operaie dell’autunno caldo, del 1969». Ancora una volta si ripropone una lettura che separa l’origine delle formazioni sovversive dai movimenti sociali dei primi anni 70, riprodotti in forma caricaturale come fenomeni legalitari e pacifici. «Attribuendo a Lotta continua la responsabilità del primo omicidio politico dell’estrema sinistra – scrivono – si può giustificare la tesi degli “opposti estremismi” e spostare al 1972 il processo di costituzione del “terrorismo rosso”».(13) Ciò avvantaggerebbe «tutti coloro che vorrebbero cancellare le responsabilità dell’estrema destra e di una parte dell’apparato dello Stato in quella che fu chiamata la “strategia della tensione”».(14) Come si può già intuire, gli autori non vanno molto lontano e ripropongono la ritrita tesi del complotto, che vede i responsabili dell’attentato Calabresi situati negli ambienti dello stragismo e dei servizi deviati. A sostegno di questa loro tesi, essi affermano di poter escludere che «nella situazione politica italiana di quegli anni [primi anni 70] Lotta continua (come tutte le altre organizzazioni di estrema sinistra, anche quelle che da allora praticarono una pedagogia del passaggio alla lotta armata) possa aver potuto prendere la decisione di realizzare un assassinio politico». Argomento che costringe i due autori a rappresentare le stesse Br come una formazione «che allora non si considerava un gruppo armato clandestino», che «le Br dei primi anni 70 non dovevano forzatamente dare luogo a un gruppo armato clandestino che, dopo aver abbattuto Moro, si lancia in una fuga in avanti che le conduce a “colpire il cuore dello Stato”». Incidentalmente, per necessità logica, essi sono costretti a smentire il loro assunto iniziale e riportare le Br nell’alveo delle formazioni di estrema sinistra e non vedere in esse qualcosa di dissimile ed esterno ai gruppi politici che nascevano in quegli anni. Ma resta il mistero della morte di Calabresi, e qui, Fournel e Zancarini, dopo aver evocato «l’impossibilità di escludere l’ipotesi teorica dell’azione isolata di alcuni militanti di estrema sinistra», ci fanno comprendere che la vera pista da seguire, come in un bel giallo pieno di spie, doppiogiochisti, denaro sporco, commerci illeciti, mafiosi e politici corrotti, è quella di «un’azione dell’estrema destra per liberarsi di un commissario scomodo che indagava sui traffici d’armi». Ci spiegano inoltre che l’unica analogia possibile tra il processo Sofri e l’inchiesta 7 aprile (presa come emblema dei processi degli «anni di piombo») è l’utilizzo della «prova logica» a scapito delle prove fattuali. «Ma il paragone si ferma qui. La congiuntura politica nel 1972 […] non è la stessa di quella del 1979, quando, dopo il rapimento e l’assassinio di Moro, una parte dei militanti dell’estrema sinistra ha fatto la scelta della lotta armata contro lo Stato». Dovremmo intendere, dall’ambiguità di questa frase, una giustificazione del prevalere della «prova logica» su quella «fattuale», consentita dall’introduzione della giustizia d’eccezione? In ogni caso, Fournel e Zancarini fanno male a dimenticare che Bompressi, Pietrostefani e Sofri sono stati inquisiti nell’88, in un’epoca in cui la legislazione speciale, il ricorso al pentitismo, la giustizia d’emergenza, erano una prassi ben rodata da oltre un decennio. Non è forse questa l’analogia decisiva da considerare come una delle ragioni fondamentali delle successive condanne? O anche il sottoporre a critica la giustizia d’eccezione comporta un rischio di amalgama con la sovversione armata di sinistra?

6. Anche il premio Nobel Dario Fo, che ha scritto una commedia sulla vicenda(15), si è lanciato con tutte le sue forze in favore della tesi del complotto di servizi e fascisti, attribuito a dei giudici in realtà clerico-demo-sinistri (ex catto-comunisti), come Borrelli e D’Ambrosio, capi del «pool di mani pulite». Tutto ciò senza mai essersi reso conto della flagrante contraddizione che rappresenta il fatto di continuare a colmarli, altrove, di lodi per i loro meriti nella campagna anticorruzione. Questa rodomontesca entrata in scena, che ha portato fino al parossismo tutti i sofismi diffusi su questo caso giudiziario, si è rivelata un boomerang per lo stesso Sofri, alla stregua di una medicina che uccide il malato. Il presidente della Repubblica Scalfaro si è precipitato a rifiutare la grazia a Sofri e ai suoi coimputati, mentre un brillante editorialista lanciava l’allarme, titolando un suo articolo con una ironia glaciale: «Salvate Sofri da Dario Fo».(16) L’allusione al complotto, iscritta in una lettura fatta di pura dietrologia, non aiuta la comprensione di ciò che è accaduto in Italia durante gli anni 70 e ancora meno dell’attuale persistere delle sue conseguenze giudiziarie. Un complotto? Dopo 16 anni? Per vendicarsi di cosa e contro chi? Un gruppo sociale, i quadri e la struttura dirigente di Lotta continua, che nel 1976, dopo lo scioglimento dell’organizzazione (sotto la spinta della radicalizzazione e della militarizzazione del movimento del 77 che si avvicinava), ha iniziato la sua lunga marcia verso l’assimilazione nell’élite sociale (soprattutto dei media e della politica)? Molti dei vecchi aderenti a Lotta continua, dopo aver rotto con l’estremismo, sul modello dei nouveaux philosophes (scoperta dell’ideologia della «fine delle ideologie» e abitudine a fare l’autocritica degli altri), hanno stabilito, in questi ultimi quindici anni, una rete di relazioni trasversali, che ha permesso loro di frequentare senza problemi il potere, quale che fosse la maggioranza dominante, e di restare in permanenza con tutti i vincitori del momento. Gli anni 80, sulla scia del neoyuppismo ultraliberale, furono il momento degli uomini della stagione craxiana, all’ombra del potente impero mediatico di Berlusconi;(17) nella seconda metà degli anni 90, cavalcando l’ondata giustizialista, è venuto il turno dell’Ulivo e del Pds-Ds. Questo valzer ha attraversato indenne il terremoto politico-istituzionale delle inchieste sulla corruzione. Parlare di «complotto» in queste condizioni è piuttosto di cattivo gusto e assomiglia troppo allo scenario di un giallo scritto male.

7. Altri intellettuali sono intervenuti: tra questi il semiologo Umberto Eco, che nella rivista MicroMega, ha parlato di un «nuovo affare Dreyfus»(18), oppure lo scrittore Antonio Tabucchi, che ha indirizzato una lettera aperta al prigioniero Adriano Sofri(19), in risposta alla provocazione rivolta dallo stesso Eco (agli altri intellettuali) di «restarsene silenziosi quando non servono a niente». Un precedente scontro con Alberto Arbasino(20) aveva anticipato i contenuti di questa nuova polemica. Arbasino se la prendeva con gli intellettuali francesi che avevano manifestato contro l’obbligo di denunciare i sans-papiers(21), e con i pochi intellettuali italiani che, a dire il vero in modo molto più blando e sparso, avevano preso le parti dei rifugiati albanesi.(22) Tabucchi allora aveva difeso il ruolo dell’intellettuale presente al suo tempo; da qui la scelta a effetto di rivolgersi a un altro intellettuale, questa volta imprigionato, per parlare – malgrado le buone intenzioni – solo d’intellettuali, realizzando una paradossale caricatura di un impegno incapace di manifestarsi all’esterno di una cerchia ristretta e separata, intenta solo a polemizzare. Ritratto di uno specchio di narcisi che parlano di loro, tra loro. Tutti questi intellettuali hanno avuto come unica preoccupazione il fatto d’isolare il caso Sofri dagli avvenimenti storici degli anni 70, presentandolo come un ingiusto accidente giudiziario, senza mai mettere in causa il sistema della giustizia d’eccezione costituitasi come procedura ordinaria del sistema giudiziario.

8. In questo panorama di prese di posizione, tra intellettuali accreditati, Franco Fortini è stato il solo – poco dopo la messa in stato d’accusa di Sofri nel 1988 – ad avere criticato, in un articolo pubblicato dal Manifesto(23), questa ipocrisia generale. Una «congiura»(24) fondata su un arrogante pregiudizio d’innocenza assoluta e metafisica, che concerne – ben al di là dell’innocenza specifica sui fatti rimproverati a Sofri e ai suoi compagni – la perfetta e implacabile innocenza intellettuale e morale di tutta l’intellighenzia di sinistra. In realtà, quell’ambiente intellettuale che negli anni 70 ha vissuto in promiscuità con un certo fervore rivoluzionario, dietro l’icona immacolata di Sofri ha cercato di mostrare la propria innocenza e intoccabilità. Sofri è diventato obbligatoriamente l’angelo(25) che dietro le sue grandi ali deve nascondere la cattiva coscienza dell’epoca. La visione riduttiva del caso Sofri contiene l’occultamento di una parte decisiva della storia degli anni 70, del conflitto durissimo che ha opposto lo Stato e il padronato alla radicalità sovversiva dei movimenti sociali rimasti soli all’opposizione. Un occultamento che conduce direttamente alla falsificazione storica e facilita la rimozione di un passato scomodo per molti. Come ricordava Joyce Lussu, molti tra gli intellettuali e i vecchi dirigenti dell’estrema sinistra, che «la sera della morte di Calabresi avevano stappato lo champagne»,(26) cercano oggi attraverso questa rimozione una autoassoluzione post festum. Nel novembre 1980, sull’Espresso, Franco Piperno(27) scriveva: «la verità è che l’omicidio di Calabresi è l’inizio del terrorismo di sinistra in Italia», e aggiungeva: «interrogarsi radicalmente, riconoscere gli errori, rimettere tutto in discussione è operazione dolorosa ma saggia. Niente è più pericoloso che la tentazione di fare come se niente fosse accaduto. La verità, diceva Trotzki, conviene onorarla non per moralismo, ma per intelligenza: perché lascia nei fatti tracce multiple e indelebili, sicché occultarla diventa impresa che ingoia tutto, e alla fine ci si ritrova nella necessità di occultare perfino se stessi, la propria storia […] Il salto da vittime a carnefici è anche un salto culturale che lascia senza fiato; perché, al di là dell’identità personale dei terroristi che avevano sparato, la responsabilità politica di quella morte era interamente addebitabile al movimento extraparlamentare, non v’erano dubbi su questo».

9. Corollario di questo occultamento è l’incapacità di vedere negli effetti perversi del prolungamento dell’«emergenza» in Italia, la causa dell’affare Sofri. Parlare di errore giudiziario come di una fatalità del destino, o peggio, di un complotto e rifiutarsi di guardare la fabbrica che produce questi errori giudiziari, per paura di una pericolosa contaminazione con i gruppi sovversivi nel nome di una «incompatibilità culturale» della generazione di Lotta continua con gli «anni di piombo», non è stata finora una strategia di difesa molto efficace. Spostare il dibattito sulla «dimensione culturale», come è stato fatto nella campagna per la difesa di Sofri, significa accettare di esser giudicati sugli stati di coscienza piuttosto che sull’esistenza di prove. Non solo, ma questa posizione non sta in piedi storicamente, sia per il commento che il giornale Lotta continua diede dell’attentato Calabresi: «un atto nel quale gli sfruttati riconoscono la loro volontà di giustizia»;(28) che per gli avvenimenti successivi, i quali hanno dimostrato come molti militanti provenienti da Lotta continua abbiano dato vita a dei gruppi armati, come i Nap (Nuclei armati proletari), Prima linea, o siano entrati nelle Br. Se gli imputati avessero riconosciuto quello che era il clima politico del tempo, piuttosto che trincerarsi dietro un ipocrita «ma quando mai!», se avessero ricostruito quell’universo desiderante di decine di migliaia di militanti dell’estrema sinistra, che non avrebbe versato una lacrima per la morte di un qualunque Calabresi, dopo la strage di piazza Fontana e soprattutto dopo la morte dell’anarchico Pinelli,(29) l’argomento della plausibilità, della verosimiglianza di un atto, che sul piano storico valeva per almeno duecentomila persone che avevano sognato quel gesto, per alcune centinaia di dirigenti dei gruppi extraparlamentari, sul piano giudiziario sarebbe rimasto un puro argomento tipologico, fondato sulla teoria del «tipo d’autore».

10. Luigi Bobbio scrive nella sua storia di Lotta continua(30) della «svolta militarista di Rimini» del 1972. Il 4 marzo 1972, l’esecutivo milanese di Lc commentò positivamente il sequestro, avvenuto il giorno precedente, di Hidalgo Macchiarini, responsabile del personale Fiat, a opera delle Br. Nel 1971, l’allora Lotta continua settimanale inaugura la rubrica «I dannati della terra», con l’obiettivo di promuovere le lotte carcerarie. Attorno a questa esperienza si coagulano le forze che daranno vita, dopo il 1973, ai Nap.(31) Il 29 ottobre 1974, muoiono nel corso di un esproprio in una banca a Firenze Luca Mantini e Giuseppe Romeo, ex militanti di Lc divenuti nappisti. Lotta continua concluse la sua esperienza organizzativa al congresso di Rimini, tenutosi dal 31 ottobre al 5 novembre 1976, a causa delle lacerazioni profonde e delle istanze pressanti provenienti dal suo interno verso la lotta armata. Il problema della violenza politica fu in quel frangente la reale posta in gioco. Un indizio che può fornire l’idea di quella che era la temperatura al suolo è dato dal dibattito che si sviluppò sulle pagine dei Quaderni piacentini tra il 1972 e il 1973, ripreso sull’Espresso del 5 settembre 1996, pagine 73-74. Sul n. 47 datato luglio 1972, comparve un articolo intitolato «Contro il terrorismo» firmato da un certo Giancarlo Abbiati (presentato come «militante della sinistra rivoluzionaria»), pseudonimo sotto il quale si nascondeva l’identità di Luciano Pero, dirigente milanese di Lc ed esponente della linea moderata e legalista. Nel successivo n. 48-49, datato gennaio 1973, apparve la risposta inviata da un «compagno di Lotta continua» che si firmava Marcello Manconi, pseudonimo di Luigi Manconi, oggi senatore e portavoce dei Verdi. Riportiamo qui alcuni estratti dello scritto ripresi dall’Espresso che a sua volta cita parti della versione sintetizzata da Luigi Bobbio nel suo Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria. Manconi scriveva: «L’uso del terrore e l’azione partigiana come forma organizzata e armata sono strumenti insostituibili della lotta di classe quando ne rispettano le esigenze […] Il terrorismo o è una degenerazione di questi strumenti (laddove violi queste condizioni) o è la risposta scorretta a una domanda corretta». Respingendo le critiche mosse alla posizione assunta da Lotta continua sull’attentato Calabresi, che partivano «da un presupposto indimostrato che l’omicidio politico appartenga al purgatorio premarxista», Manconi sosteneva ancora che «l’azione partigiana non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse dal dominio capitalistico, così come l’azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che noi attraversiamo». Ma «l’arsenale del movimento rivoluzionario» spiegava «è ricco e duttile […] La violenza d’avanguardia è stata ed è puramente e semplicemente una necessità materiale, e non una compiaciuta scelta morale. Essa contribuisce a dare al programma proletario la certezza e la concretezza della sua realizzabilità […] Il proletariato […] non può fare a meno, per non restare schiacciato, in uno scontro che inevitabilmente procede verso la guerra di classe, di avere dei propri reparti avanzati che gli consentano di affrontare il nemico su ogni terreno […] A ogni fase dello scontro fra le classi corrisponde un grado specifico di violenza esercitata dalle masse, ed è questo che impone anche alle avanguardie l’esercizio di una quota determinata di violenza organizzata e diretta». Molti militanti del servizio d’ordine e della componente operaia si ritroveranno nei gruppi combattenti, soprattutto nel «mucchio selvaggio» di Prima Linea, altri nelle Br e ancora in altri gruppi. Renato Curcio, nel suo libro-intervista A viso aperto racconta, senza mai essere stato smentito, la storia di un incontro richiesto da alcuni esponenti di Lotta continua alle Br: «Nel 71, quando avevamo cominciato da poco le nostre azioni contro i capi reparto della Pirelli e della Sit-Siemens, diversi compagni di Lotta continua – che era allora il gruppo più attivo nelle fabbriche di Milano – si avvicinarono a noi e alcuni di loro entrarono nella nostra organizzazione. Un travaso che preoccupò non poco i dirigenti della formazione extraparlamentare. Al punto che a un certo momento, ci domandarono un incontro […] Mi vidi con due loro dirigenti, Giorgio Pietrostefani, responsabile del servizio d’ordine, e Ettore Camuffo, un compagno di Trento che avevo conosciuto all’epoca dell’università. Volevano sondare la possibilità di un’eventuale ipotesi di “fusione”. O più esattamente, la nostra disponibilità a integrarci nel loro gruppo. Lotta continua è un’organizzazione politica forte a livello nazionale, mi dissero in sostanza, mentre le Br sono un gruppuscolo senza grandi possibilità di sviluppo. Venite con noi e fate quello che sapete fare meglio: organizzate il nostro servizio d’ordine. Ci proponevano, in pratica, di diventare il loro “braccio armato”». Offerta assai maldestra che le Br rifiutarono bruscamente. (32)

11. Lo scrittore Erri De Luca, ex responsabile per la città di Roma del servizio d’ordine di Lotta continua e accusato di reati connessi, poi caduti in prescrizione, nel processo per la morte del commissario Calabresi, ha fatto sentire la sua voce discordante rivolgendosi a Ovidio Bompressi, in uno scambio di lettere pubblicate su MicroMega e riprese in parte dal Corriere della Sera, con il titolo «Tutti noi potevamo uccidere Calabresi».(33) De Luca sottolinea di parlare in difesa di Bompressi e non «degli altri due, imputati di essere due padrini, mandanti con le mani in tasca»; e più in là aggiunge: «La linea del “ma quando mai?”, la linea dei trasecolati, era buona per i mandanti che così non si dichiaravano dirigenti di un’organizzazione compatibile con un omicidio, ma non era buona per te, perché ti isolava dal mucchio di tutti noi, da cui eri stato estratto come nostro esempio […] Quella difesa ti metteva in croce. Tagliava il tuo legame col mucchio in cambio della rispettabilità di tutti i non imputati. Così fu scelto e tu hai acconsentito: per rispetto dei capi di allora, per tua dannata modestia, per tuo bisogno di sentirti ancora parte di quella comunità, dodici anni dopo che si era sciolta […]. Il mio chiodo era che si doveva ammettere l’evidenza che quell’accusa era compatibile con ognuno di noi, con la febbre da insorti che avevamo. Ma a dire questo, qualcuno e molti che nel frattempo avevano addomesticato il loro passato a sbronza di stagione sarebbero arrossiti, sarebbero stati in difficoltà sulle sedie imbottite che si erano intanto procurati. Compatibili con un omicidio: che guaio per la carriera […]. Lascia che ti condannino, Ovidio, che la tua vita si inchiodi sulla loro porta, sulla loro vendetta di esecutori di una rappresaglia […]. Tu sei estraneo all’accusatore e all’accusa, ma non sei innocente. Dal lancio della prima pietra non siamo stati più innocenti […]. E, non c’è più tempo né voglia di un’altra inutile linea di difesa, ma fai ancora in tempo a non sentirti solo, perché non lo sei. Tutte le persone che furono quella comunità e che poi ebbero esilio nell’Italia degli anni Ottanta, hanno te per orgoglio e per sipario sugli anni migliori della loro vita. E questa lettera io voglio lasciarla aperta perché la leggano loro, quelli che non hanno più avuto voglia di parlare: perché, la sottoscrivano o la straccino, ti facciano avere il loro: “come te anch’io”».

12. Nello sforzo di riscrittura e angelicazione della storia politica di Lotta continua vi è stata una riuscita operazione di captatio benevolentiae nei confronti del sistema politico. A partire dal 1976, Lc è divenuta il grande «convertito collettivo», il «pentito sociale» contro la sovversione e la lotta armata.(34) Una riscrittura mistificata di una parte del passato, dove demoni e cattivi stavano tutti da una parte, sembrava sufficiente per non sentirsi implicati nella spirale della giustizia d’eccezione. Ma così non è stato. La generazione degli ex dirigenti di Lc si è trovata in qualche modo in contropiede per aver pensato di averla scampata con l’emergenza. Credevano che essa avrebbe riguardato sempre e solo gli altri. Se ne sentivano al riparo. Avevano fatto della differenziazione una carta di rispettabilità. Un passato rimosso li ha recuperati.

NOTE
1– L’8 giugno 1976, il giudice Francesco Coco e la sua scorta subiscono un attentato mortale a Genova.
2– Nell’aprile 1998, Ovidio Bompressi ha ottenuto la sospensione della condanna per motivi di salute.
3– 22 gennaio 1997.
4– In alcune interviste rilasciate nei giorni immediatamente precedenti alla sua decisione di rientrare, Pietrostefani si era lasciato andare ad alcune dichiarazioni piuttosto infelici: «chi fugge è colpevole». Allora, l’editorialista Giorgio Bocca, forse perché scrive su Repubblica, si è preso per Platone e non ha esitato a scrivere l’apologia di un “novello Socrate” che rinuncia alla fuga, per bere la cicuta. Ma Socrate non è fuggito di fronte alla condanna perché sottraendosi a essa pensava di confermare la sua colpevolezza, al contrario, con la forza drammatica del suo gesto sacrificale auspicava un cambiamento della legge ingiusta. Non voleva singolarizzare il suo dramma personale, ma, con lo scandalo di quel suo gesto, sottomettendosi al principio della legge, voleva spingere il paradosso fino a un punto estremo che portasse gli ateniesi a cambiare quella legge ingiusta. Ma nel rientro di Pietrostefani non vi è stato nulla della nobiltà tragica del dialogo con Critone. L’imponente fronte massmediatico e le larghe simpatie nel ceto politico istituzionale in favore dei tre condannati hanno, al contrario, accentuato alcuni loro toni arroganti e di sfida fino al delirio di potenza, all’azzardo pockeristico miserabilmente sbriciolatosi nei mesi successivi di fronte ai cancelli della prigione rimasti chiusi. Pietrostefani non ha mosso parola contro la legislazione sui pentiti, ha parlato per sé mettendo in dubbio soltanto il valore delle dichiarazioni di Marino e dimenticando il resto ha aggiunto: «chi scappa è un crumiro». Allora il Critone si è rivelato un cretino. Che vuol dire «crumiro»? Lavoratore che rifiuta di scioperare o accetta di lavorare in luogo degli scioperanti. Il crumiro abbassa il potere di ricatto dello sciopero, la sua forza collettiva. Se uno della banda del cavalcavia avesse rifiutato di lanciare pietre sarebbe stato un crumiro? Nel caso ipotetico in cui il monte pena, all’uopo di essere individuale, fosse stato collettivo, cioè cumulato sulle spalle dei soli imputati detenuti, allora non rientrare sarebbe stata una forma di crumiraggio. In tal caso, Pietrostefani sottraendosi avrebbe lasciato soli i suoi due compagni a scontare i complessivi sessanta anni di reclusione divisi per due e non per tre, cioè trenta a testa. Ma così non è, e rientrando nessuno dei suoi due compagni vede la sua pena ridotta. Venti anni ciascuno erano e venti anni restano. Se no, perché non fare un appello agli altri ex-Lc, affinché si presentino tutti davanti alle porte del carcere, così quei 21.900 giorni ripartiti per tutti quanti diventerebbero un giorno o un’ora a testa? E comunque, se il dibattito si sposta sul costituirsi o sottrarsi: il senatore a vita Giulio Andreotti non si è dato latitante, dunque solo per questo ne dovremmo dedurre che è innocente! Mentre Mazzini, Pertini, i fratelli Rosselli, Bertolt Brecht, sono stati tutti dei crumiri.
5– Definita come uno strumento usato dalla «classe dirigente dell’epoca con la complicità dei servizi segreti, degli estremisti di destra e di poteri occulti di diversa origine, con delle alleanze internazionali segrete». Risset aggiungeva che «non esisteva allora uno Stato neutrale, ma un “governo invisibile” (secondo l’espressione di Norberto Bobbio) più forte del governo ufficiale», Le Monde, 29 gennaio 1997.
6Le juge et l’historien, Paris, Verdier, 1997, trad. dall’edizione italiana, Einaudi, 1991, con una nuova prefazione dell’autore.
7– Ibidem, cap. XVII, p. 101.
8– Nella Memoria presentata ai giudici e pubblicata dall’editore Sellerio sotto lo stesso titolo, Adriano Sofri scrive a p. 139: «Bisogna stare attenti alla teoria del complotto perché offusca l’intelligenza, e sfocia spesso in una spiegazione comoda».
9Le juge et l’historien, op. cit.; trad. italiana, 1991, cap. XIV, pp. 64-68.
10– Un episodio per tutti: al Salon du Livre di Parigi, presentando l’uscita del suo libro, Carlo Ginzburg ha risposto a Toni Negri (il quale faceva notare di avere anch’egli «subito un processo alle streghe»), che non c’era ragione di comparare i due casi, poiché «Sofri era veramente innocente e Negri colpevole». Per quello specchio distorto della realtà che è la «verità giudiziaria» i due sono colpevoli allo stesso modo, ma Ginzburg frequentando l’universo delle streghe ha appreso l’arte magica che permette, a lui solo, di essere partecipe dei segreti della «verità storica».
11– Carlo ginzburg, «Traces. Racines d’un paradigme indiciaire» (1979), Mythes, emblèmes, traces: morphologie et histoire, tr. fr. M. Aymard et al., Paris, Flammarion, 1989, p.139-180; «Prove e possibilità», prefazione ed. italiana di N. Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre, Torino, 1984; «Montrer et citer», Le Débat, n° 56 (settembre-ottobre 1989), pp. 43-54.
12– “Des historiens peu prudents, l’enjeu historiographique de l’affaire Bompressi, Pietrostefani, Sofri”, Les Temps Modernes, n. 586, nov.-dec. 1997.
13– Perché tanta paura? È storia largamente assodata che il discorso combattente e il processo di costituzione dei primi gruppi armati abbia avuto inizio ben avanti il 1972.
14– Per paura che la «strategia della tensione» venga giustificata a posteriori come reazione alla presenza della lotta armata di sinistra – in questa variante gauchista della riscrittura della storia –, si pretende di dimostrare che la lotta armata sia nata come reazione alla «strategia della tensione». A parte Giangiacomo Feltrinelli, che aveva costituito i Gruppi armati partigiani (Gap) per prevenire l’approssimarsi del rischio di un golpe, la propaganda armata delle Br, l’attività combattente dei Nap o la concezione insurrezionalista di gruppi interni all’area di potere Operaio, offrivano al contrario una visione completamente offensiva e non reattiva della sovversione. Propaganda armata e altre tendenze militari si svilupparono a prescindere dalla «strategia della tensione» e dalle stragi. Esse avevano tutt’al più svolto un ruolo sul piano della ragione etica dei singoli militanti, resi consapevoli del livello elevato di scontro militare imposto dallo Stato e che faceva della vita umana, ancor più che in passato, carne da macello. I movimenti sociali dell’«autunno caldo» e gli scioperi operai erano ampiamente sufficienti a quei settori atlantici, interni ed esterni all’apparato statale, per scatenare la strategia del terrore contro le moltitudini.
15– Dario Fo, Liberate Marino. Marino è innocente, Torino, Einaudi, 1998. Leonardo Marino è il pentito che accusa Sofri.
16– Francesco merlo, Corriere della Sera, 27 ottobre 1997.
17– Negli anni 80, Silvio Berlusconi era stato il mecenate di Reporter, giornale che ha vissuto lo spazio di un mattino. Il suo direttore era Enrico Deaglio, già alla guida del giornale Lotta continua, oggi direttore di Diario, settimanale lanciato come inserto dell’Unità, ex giornale del Pci-Pds. Adriano Sofri (che ha collaborato anch’egli a Reporter) è stato uno stretto consigliere di Claudio Martelli, delfino di Craxi e cambusiere del psi. Al momento dell’apertura dell’inchiesta e del provvisorio arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, Martelli cumulava le cariche di vicesegretario del Psi, di vice primo ministro e di guardasigilli. Più tardi anch’egli è stato implicato e inquisito in numerose inchieste di «mani pulite».
18– Se le parole hanno un senso (chi meglio di Umberto Eco può saperlo?), richiamare l’affare Dreyfus conduce a evocare inevitabilmente qualche cosa che va oltre il semplice errore giudiziario. Attorno all’affare Dreyfus si è costituito in Francia l’antisemitismo moderno, un paradigma storico che ha condotto ad Auschwitz. Pretendere, come fa Eco, ma anche altri come Giuliano Ferrara, che il processo Sofri contenga un paradigma della stessa forza dell’affare Dreyfus, dovrebbe portare quantomeno a denunciare le aberrazioni del sistema dello stato d’emergenza in Italia. Conseguenza che Eco, e gli altri, evitano accuratamente di trarre.
19La gastrite de Platon, Mille et Une Nuits, Paris, 1997.
20– Alberto Arbasino, sofisticato scrittore, modello d’intellettuale cortigiano, un po’ dandy, sempre infastidito dai rumori e forse dagli odori provenienti dalla vita reale delle moltitudini, che arrivano talvolta fin nei salotti dei piani alti del Palazzo.
21– Immigrati clandestini, dunque senza documenti.
22– In occasione della manifetazione tenutasi a Parigi il 22 febbraio 1997 contro le leggi Debré-Pasqua-Méhaignerie. L’articolo di Arbasino è apparso su Repubblica del 15 marzo 1997. Tabucchi risponde il 1° aprile 1997 sul Corriere della Sera (“Intellettuali copritevi, ora piovono pietre”), Arbasino replica su Repubblica e Corriere della Sera, il 2 e 3 aprile 1997 (“Ma non chiedeteci anche la predica”). Tabucchi risponde ancora una volta sempre sul Corriere della Sera con un lungo articolo (“L’albanese sono io”), il 7 aprile 1997.
23Il Manifesto dell’agosto 1988. Si veda anche Oreste scalzone nella sua “Lettera aperta a Adriano Sofri”, pubblicata dal Mattino, nell’agosto 1988; e l’intervista al settimanale L’Espresso, del settembre 1988, intitolata: “È anche colpa mia”. Altri testi di riflessione sono stati pubblicati, nel corso degli anni successivi, dal giornale Tempi supplementari. Nel 1997, diverse interviste sull’argomento sono apparse nel Corriere della Sera.
24– Jean Baudrillard, “La congiura degli imbecilli”, in Libération del 7 maggio 1997, definisce in questo modo l’attuale dimensione culturale della sinistra: «mentre la destra incarnava i valori morali, e la sinistra al contrario una certa esigenza storica e politica contraddittoria, oggi, quest’ultima, spogliata di ogni energia politica, è diventata una pura giurisdizione morale, incarnazione dei valori universali, campione del regno della Virtù e detentrice dei valori museali del Bene e del Vero, giurisdizione che può chiedere dei conti a tutti senza dovere rendere conto a nessuno».
25– Fino a ora è stato solo l’agnello sacrificale.
26– Letteralmente: «sabré le champagne», in Libération, 7 febbraio 1997.
27– Fisico, leader del ’68, fondatore con Negri e Scalzone di Potere operaio, nel 1969, condannato ad alcuni anni di prigione durante gli anni 80.
28– Lotta continua, del 18 maggio 1972.
29– 15 dicembre 1969, Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, muore cadendo da una finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, situata al quarto piano della questura di Milano. Egli era illegalmente detenuto e interrogato da tre giorni. La versione ufficiale parla di suicidio dovuto alla disperazione a causa delle prove schiaccianti contro di lui nell’attentato di Piazza Fontana. L’episodio suscita un’enorme emozione. Lotta continua, insieme alla gran parte della sinistra extraparlamentare, è persuasa che Pinelli sia rimasto vittima di un interrogatorio violento e che il suo suicidio sia una messa in scena. Dopo un lungo iter l’inchiesta è chiusa nell’ottobre 1975 dal giudice Gerardo D’Ambrosio, che esclude l’omicidio e il suicidio e introduce la tesi del «malore attivo».
30– Luigi bobbio, Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma, 1979. Nel documento preparatorio al III convegno nazionale di Lc, 1-3 aprile 1972 era scritto: «È necessario preparare il movimento a uno scontro generalizzato, che ha come avversario lo Stato e come strumento l’esercizio della violenza rivoluzionaria, di massa e d’avanguardia».
31– «Dopo la svolta del 1973, in cui Lotta continua rifiutò ogni prospettiva di uscita dalla legalità, molti militanti abbandonarono quella organizzazione. È di questo periodo la formazione delle prime aggregazioni, a Firenze (nel collettivo J. Jackson), e a Napoli, dei militanti che daranno vita ai Nuclei Armati Proletari, organizzazione particolarmente interessata ai movimenti dei soggetti sociali maggiormente emarginati: proletari prigionieri, proletariato marginale e del Sud», in Progetto Memoria. La mappa perduta, cit.
32– Renato curcio, A visage découvert, Lieu Commun, Paris, 1993, “Calabresi tu sera suicidé”, pp. 99-100; A viso aperto, Milano, Mondadori, 1993, intervistato da Mario Scialoja. Contrariamente a quanto venne raccontato negli anni successivi, le br erano molto corteggiate. Lo stesso Toni Negri, dopo la rottura di Potere Operaio e la fine dell’occupazione di Mirafiori, nel 1973, aprì un confronto politico con le br che sfociò nella realizzazione in comune della rivista Controinformazione (si leggano le risposte di Toni Negri a Sergio Zavoli in Id., La notte della Repubblica, Mondadori, Milano, 1992, pp. 262-263).
33Corriere della Sera, del 14 maggio 1996.
34– Argomento che è stato suggerito in filigrana in un articolo di Luigi Bobbio su Repubblica e poi in una intervista a Carlo Panella sul Corriere della Sera del 18 febbraio 1997.

Una storia politica dell’amnistia

Libri – Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, 263 pp, 24 euro

Paolo Persichetti
Liberazione
Sabato 25 agosto 2007

Solo pochi decenni fa l’amnistia era considerata ancora una parola di sinistra. Nata con la democrazia ateniese, era parte del repertorio delle forze che si dicevano democratiche. Fin dalle origini aveva animato le battaglie di libertà del movimento operaio. Convogliava un’idea di società tollerante e progressiva, conteneva una domanda di giustizia moderatrice consapevole dell’importanza che il ricorso a strumenti di correzione politica della fermezza penale, ispirati a quella mitezza tratta dalle vecchie massime latine che richiamano prudenza ed equità nell’applicazione della legge, svolgeva una funzione riparatrice delle ingiustizie. 41jpad5dx5l_ss500_Ma alla fine del Novecento una drastica inversione di tendenza sospinge paesi e società civili occidentali a ripudiare questo strumento di soluzione dei conflitti. Ciò non è vero ovunque, basti pensare alla Gran Bretagna di Blair che, nell’ambito del processo di soluzione politica della questione nord-irlandese, ha amnistiato tutti i militanti coinvolti negli scontri armati. Anche se l’esperienza più innovatrice viene dal Sud Africa di Mandela che, ispirandosi ai principi della giustizia ricostruttiva, ha scartato la via penale tradizionale per istituire un criterio d’accertamento dei fatti in cambio di clemenza e risarcimento pubblico delle vittime. Operazione che però ha messo sullo steso piano la violenza istituzionale che appoggiava il sistema segregazionista e quella antistituzionale che lottava in armi contro l’apartheid. Ipotesi che terrorizzerebbe qualsiasi esponente, passato e presente, dello Stato italiano chiamato a dover rispondere delle stragi della strategia della tensione e delle centinaia di morti che hanno insanguinato la gestione dell’ordine pubblico nei primi decenni della repubblica, quando nessuno a Sinistra aveva ancora scelto la via della violenza. Tuttavia queste due esperienze restano episodi minoritari rispetto ad un diritto penale internazionale sempre più ostile alle istituzioni della clemenza. Proprio dal tentativo di trovare una risposta a questo discredito parte l’opera collettanea curata da Sophie Wahnich, storica e ricercatrice del Cnrs, Une histoire politique de l’amnistie. Il volume, frutto di una ricerca multidisciplinare avviata nel 2003 e condotta su scala comparativa tra diversi paesi europei, poggia sulla convinzione che ormai, date le interdipendenze, una soluzione amnistiale per le insorgenze politiche degli anni 70-80 possa essere trovata unicamente coinvolgendo i livelli istituzionali dell’Unione europea, attraverso nuove forme di clemenza sopranazionale. Storicamente le amnistie sono state sempre accompagnate da dispositivi di riscrittura della storia, spesso opposti tra loro: far dimenticare, accertare la verità o renderla illeggibile. Molto diversa è poi la natura delle clemenze che sanciscono forme d’impunità preventiva, tipiche dei poteri costituiti, come accaduto per le dittature militari sudamericane o per i colpi di spugna sui reati economico-finanziari. In questo caso l’amnistia ha aiutato l’oscuramento dei fatti. Altro significato hanno invece le clemenze che temperano, dopo decenni di carcere, le dure repressioni contro gli oppositori politici, ripristinando quando ormai gli eventi sono ampiamente accertati una situazione di normalità giudiziaria stravolta dalle misure d’eccezione. Ma tutte queste distinzioni scompaiono di fronte all’attuale tendenza a voler confondere qualunque amnistia con l’impunità. È questo l’atteggiamento tenuto in Italia da un ceto politico che ha tutto l’interesse a far dimenticare le proprie ascendenze riversando sui reprobi degli anni 70 le pagine più ingombranti del proprio Novecento. Una rimozione che impedendo la chiusura del decennio 70 riemerge continuamente sotto forma di spettri che agitano fobie, polemiche, grottesche imitazioni del passato, ciniche speculazioni delle agenzie repressive, col risultato di avvelenare lo spazio pubblico. Ma la regressione della clemenza ha altre ragioni ancora più strutturali che investono la mutazione dei sistemi politici occidentali insieme all’emergere impetuoso del paradigma vittimario. Le democrazie occidentali sono ben lontane dal costituire degli esempi di superamento dell’inimicizia politica. E ciò, anche in ragione di un’ideologia umanitaria che attorno al «criterio dell’inerme» ha perso ogni capacità di discernimento tra i crimini di lesa umanità universalmente riconosciuti, come tortura, schiavitù, genocidio, misfatti coloniali, o quell’orrorismo di cui ha recentemente scritto Adriana Cavarero (Feltrinelli 2007), e le infrazioni commesse da chi ha esercitato il diritto di resistenza. In realtà chi dice umanità vuole ingannare, metteva in guardia Proudhon. Il diritto penale umanitario (tragico ossimoro) è divenuto lo strumento di distinzione tra bene e male, tra barbaro e civilizzato, favorendo l’emergere di assoluti etico-morali che depoliticizzano e destoricizzano sistematicamente gli eventi, fino a smarrire la differenza che passa tra l’illegalità degli oppressi e quella dei poteri costituiti. Non stupisce allora che la retorica umanitaria sia diventata la nuova arma ideologica con la quale gli Stati hanno moltiplicato guerre e spogliato della loro veste politica le infrazioni commesse da chi si organizza contro l’oppressione, relegandole a mera fattispecie criminale. Ma non tutti gli assoluti servono per essere rispettati, così nulla impedisce di scendere a patti con i tagliatori di teste Talebani, o chi pratica lo sterminio suicida come Hamas, mentre era assolutamente vietato negoziare con le Br. In questo caso il criterio non è più l’umano e l’inumano ma l’omologia tra le entità statali costituite dell’Occidente e quelle in formazione degli islamisti, radicalmente opposte al demone della rivoluzione sociale. Ciò rende più comprensibile anche quel grande stupro di senso che ha portato ad accomunare in un’unica giornata, non certo per ragioni di pietas, il ricordo delle vittime delle stragi di Stato e quelle della lotta armata. Resta da capire dove collocare i morti ammazzati come Pinelli o le centinaia di manifestanti falciati, dal 1946 fino a Carlo Giuliani, dalle forze dell’ordine. Vicende storiche opposte e inconciliabili sono riassunte in un unico paradigma che nulla c’entra col dolore ma assolve unicamente il potere. Altro che ricerca della verità e tentativo di riconciliazione. Il Sud Africa è lontano e le vittime delle stragi muoiono una seconda volta. L’uso strumentale della figura della vittima è uno dei passaggi centrali di questo processo, a cui è dedicato un intero capitolo nel quale si spiega che il diritto alla riparazione simbolica dell’offeso è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Questo processo di privatizzazione della giustizia trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica. Il sistema giudiziario perde il suo ruolo di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di riparazione psicologica della persona offesa. Una svolta culturale cui sembra aver contribuito la nozione di «stress post-traumatico» introdotta dalla psicologia clinica anglosassone dopo la guerra del Vietnam. Ma può un eventuale sentimento d’ingiustizia considerarsi una «ferita psicologica» sanabile per il mezzo di una condanna penale? In questa prospettiva la ricerca della verità giudiziaria non offre scampo. Essendo un momento necessario all’elaborazione del lutto, la dichiarazione di colpevolezza e l’ostracismo perpetuo restano l’unica soluzione accettabile perché il proscioglimento o la reintegrazione civile dell’accusato ostacolerebbe la guarigione mentale della vittima. L’uso strumentale della retorica vittimistica ha così legittimato il capovolgimento dell’onere della prova, il passaggio alla presunzione di colpevolezza, l’aggravamento delle sanzioni, la limitazione dei diritti dell’accusato e l’immoralità delle amnistie, fino al paradossale esercizio di un’etica selettiva che perde improvvisamente tutta la sua intransigenza di fronte a quella ragion di Stato che premia pentiti e dissociati.