Tratto dalla prefazione a, Esilio e Castigo, retroscena di una estradizione, Paolo Persichetti, La città del sole edizioni, 2005
di Erri De Luca
A un prigioniero,
Regalerei un binocolo, un atlante,
un altoparlante,
una bussola, una canna da pesca, un portachiavi,
un cane, la figura di un tango,
un’edizione della Costituzione,
diritti e doni persi dai rinchiusi.
È fatta di piccoli pezzi la libertà, di biglie colorate, di una gonna increspata da un valzer, di riposare gli occhi davanti alla prateria del mare. La cella addosso a Paolo Persichetti è saldata con la fiamma fredda del rancore. Prima il raggiro, la truffa di una finta accusa per poterlo estradare, e la complicità dei funzionari che si sono prestati a trafugare un corpo in libertà per consegnarlo ai carcerieri. Poi la penitenza di scontare pene per le rivolte politiche del 1900, quelle scoppiate assai prima della già remote guerre di Bosnia, Kossovo, Afganistan.
Rancori: in Italia non si perdona l’azione di chi andò allo sbaraglio senza alcun tornaconto personale. Chiamano volentieri terrorismo qualunque azione non abbia un riscontro economico. Da noi si perdona tutto, purché commesso per arricchimento. Per i Cecchi-Gori, i Tanzi sono concessi gli arresti domiciliari, qualche settimana di convalescenza. Incomprensibile e perciò imperdonabile è la generazione politica della quale Paolo Persichetti è stato uno degli ultimi iscritti, il più giovane dei noialtri di allora. Li chiamano irriducibili: ma a cosa? La loro vita non è stata riducibile, riconducibile a un principio di interesse personale. Questa deviazione dalla regola è oggi l’offesa maggiore che si può fare a un paese che ha scelto di farsi governare dall’uomo che meglio ha saputo farsi i suoi affari personali.
Paolo Persichetti e gli altri, gli ultimi compagni di pene infinite sono semplicemente l’antigene, l’opposto. Essi hanno trascurato i propri interessi, le sorti personali in nome di tutt’altro. Se oggi penso alla decaduta parola comunismo, ho in mente solo questo: il tutt’altro.
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