Il 45° rapporto del Censis descrive un Paese «fragile, isolato e eterodiretto», depoliticizzato dal berlusconismo e annichilito dall’antiberlusconismo
Paolo Persichetti
Liberazione 3 dicembre 2011

Un Paese ostaggio di poteri finanziari interessati ad imporre solo un rigore senza futuro, incapace di fare da volano per qualsiasi sviluppo. E’ questo il giudizio durissimo che il Censis ha stilato nel 45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato ieri mattina nella sede del Cnel a Roma. «In questi mesi – scrivono gli estensori nella parte dedicata alle “Considerazione generali” – la società italiana si è rivelata fragile, isolata e eterodiretta». Una valutazione tratta dal forte processo di marginalizzazione subito dall’Italia sul versante internazionale e che l’ha relegata nelle retrovie dello scacchiere geopolitico. La crisi attuale, che i ricercatori del Censis individuano nel «mancato governo della finanza globalizzata», ci ha reso fragili e soprattutto ha «isolato» il Paese tagliandolo fuori dai «grandi processi internazionali». Non solo nell’Unione europea o all’interno delle alleanze occidentali, ma anche rispetto ai mutamenti intercorsi nell’area Mediterranea, dove in precedenza l’Italia esercitava la sua zona d’influenza. L’esempio più eclatante è venuto dall’incapacità dimostrata nel fronteggiare all’interno della Nato l’interventismo franco-britannico in Libia. Una debolezza che l’ha costretta ad inseguire e accodarsi agli alleati-concorrenti ma soprattutto a divenire un Paese «eterodiretto», che ormai deve sottostare alla «propensione degli uffici europei a dettarci l’agenda».
Una subalternità non solo politica ma che è divenuta anche culturale, visto che «Viviamo – osservano sempre gli autori del rapporto – esprimendoci con concetti e termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva (basti pensare a quanto hanno tenuto banco negli ultimi mesi termini come default, rating, spread, ecc.) e alla fine ci associamo – ma da prigionieri – alle culture e agli interessi che guidano quei concetti e quei termini».
Le cause di questa decadenza trovano una ragione non solo nei processi economici colpiti dalla crisi finanziaria ma anche nel deficit di governo e più in generale di una politica «prigioniera del primato dei poteri finanziari». La verticalizzazione e la personalizzazione del potere che hanno spadroneggiato negli ultimi vent’anni, lungi dall’aver rafforzato quella capacità di decisione che fino a poco tempo fa veniva indicata come l’elisir della buona politica che doveva privilegiare la governabilità sulla rappresentanza, avrebbero «impoverito nel tempo la nostra forza di governo», accentuando un deficit politico che «ha favorito una logica di polarizzazione decisionale: in basso vince il primato del mercato, in alto il primato degli organismi apicali del potere finanziario». Una situazione avvertita come un rischio troppo grande per «una società complessa che non può vivere e crescere relegando milioni di persone a essere una moltitudine egoista affidata a un mercato turbolento e sregolato, e affidando la tenuta dell’ordine minimale a vertici e circuiti ristretti e non sempre trasparenti».
«Ognuno per sé Francoforte per tutti»
Ancor più della stagione berlusconiana, il rapporto sembra prendere di mira, nemmeno tanto velatamente, il governo-direttorio dei tecnici guidato da Mario Monti quando afferma che «la dialettica politica sembra prigioniera del primato, anche lessicale, della regolazione finanziaria di vertice, che però può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita». Lo sviluppo – e qui c’è tutto il pensiero della tradizione democristiana incarnata da Giuseppe De Rita – è spiegato nella relazione, si fa coinvolgendo «energie, mobilitazioni, convergenze collettive», definito «governo politico della realtà». I corpi intermedi non possono essere scavalcati dall’illusoria speranza che il potere demiurgico della finanza generi sviluppo anche perché – presagisce il Censis in modo abbastanza scontato – «nel prossimo futuro potrebbero essere incubati germi di tensione sociale e di conflitto a causa della tendenza all’aumento delle disuguaglianze e dell’emarginazione».
A questo punto però l’analisi ridiscende le profondità sociali per spiegarci che in Italia esiste un deficit dei gruppi dirigenti, le cui ragioni sono probabilmente legate ai quei processi di verticalizzazione prima descritti che hanno impoverito la partecipazione politica, la vita democratica. I vertici decisionali si sono ridotti di oltre 100 mila unità tra il 2007 e il 2010, passando da 553 mila a 450 mila, cioè dal 2,4% al 2% degli occupati. Una scrematura significativa che non ha intaccato la supremazia maschile, le donne sono solo 1/5 del totale e la loro incidenza è diminuita dell’1,3%. Poche donne, età media elevata (gli under 45 sono meno del 40% mentre tra gli occupati sono il 60%) e qualificazione formativa non certo brillante (solo il 36,4 è laureato), segnalano una «inadeguatezza della leadership», il che riduce «le stesse possibilità di ricambio».
Il rapporto registra una sorta di rassegnazione generalizzata, una incapacità di reazione collettiva che trova una via di fuga «nella ricerca di nuovi format relazionali», come i social network, le aggregazioni spirituali o amicali-comunitarie (a livello di quartiere urbano o area agricola, il fenomeno dei borghi medioevali risistemati che investe il ceto medio), capaci su supplire alle carenze del welfare pubblico. Ancora più forte è il mutamento dell’autopercezione identitaria: crollano le categorie legate alla classe socio-economica (4,5%), all’appartenenza religiosa (3,7%) o politica (1,1%), che però non scompaiono del tutto ma vengono recuperate all’interno dell’eredità culturale familiare (43,2%), il che dimostra come i valori identitari si trasmettano in una forma non più pubblica e all’apparenza non ideologica a vantaggio di modelli autoreferenziali come l’esperienza del singolo (44,6%) o il carattere (42,3%).
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nuovo della Renault, anche questo stimato per un valore analogo, se entro il 31 luglio Renault e Peugeot-Citroën, principali committenti della fabbrica per circa il 90% dell’intera produzione, non verseranno un’indennità di 30 mila euro per ogni dipendente. «Tutto è pronto, le bombole di gas sono state collegate tra loro. Basta solo accendere l’innesco per provocare l’esplosione», ha dichiarato all’Afp il delegato sindacale della Cgt e segretario del consiglio di fabbrica Guy Eyrmann. In questo modo verrà ridotto in fuochi d’artificio l’intero stock di pezzi che le due case automobilistiche devono ancora ritirare. La crisi si fa sempre più dura e le sue conseguenze diventano devastanti per l’occupazione. La tensione monta perché il futuro si fa sempre più nero. I lavoratori allora cercano di strappare il possibile e non rinunciano ad escogitare sempre nuove forme di lotta. Se le tradizionali proteste sindacali passano inosservate, se scioperi e occupazioni risultano armi spuntate perché la produzione è ferma e le tasche del padronato non subiscono danni, allora le maestranze danno libero sfogo alla fantasia. Bossnapping (trattativa forzata), e se ancora non basta, distruzione degli impianti e delle merci, devastazione dei locali della prefettura. Tutto va bene purché si riesca a stanare il padronato, costringerlo a negoziare. Se gli amministratori delegati latitano, gli operai vanno a cercarli e li bloccano ad un tavolo di trattativa; se le autorità fanno orecchie da mercante, in massa si va nei loro uffici. Insomma, a situazioni estreme, estremi rimedi. Non sono gli operai che drammatizzano il conflitto, ma la realtà che lo rende drammatico. Alla New Fabris gli stabilimenti sono occupati dal 16 giugno scorso, quando l’azienda è stata messa in liquidazione dal tribunale del commercio di Lione. Già nel 2008 la fabbrica era stata rilevata nel corso di un’altra procedura di fallimento dal gruppo italiano Zen, 600 dipendenti con sede a Padova, specializzato nella meccanica di precisione e in prodotti per l’indotto automobilistico. Solo 380 degli iniziali 416 salariati avevano conservato il posto di lavoro. Per reclamare gli attuali 30 mila euro d’indennizzo a testa, il consiglio di fabbrica si è basato sulla somma già versata da Renault e Peugeot-Citroën ai circa 200 licenziati del gruppo Rencast. Azienda satellite, anche questa finita nelle mani del gruppo italiano Zen, poi messa nuovamente in liquidazione nel marzo scorso e ripresa dalla francese Gmd. Il prossimo 20 luglio è previsto un incontro presso il ministero dell’Industria, forse in presenza dello stesso ministro Christian Estrosi. Intanto la settimana scorsa circa 150 operai si sono recati in pulman presso la direzione della Psa (gruppo Peugeot-Citroën). Un incontro analogo è previsto giovedì prossimo con la direzione di Renault che tuttavia contesta il pagamento d’indennizzi che non rientrano nelle normative e il principio dell’equiparazione dei premi di licenziamento tra ditte appaltatrici. Come se il lavoro prestato non fosse identico. Ma «se noi non avremo nulla, anche loro non avranno niente», ha ricordato il segretario del consiglio di fabbrica.