Il 13 luglio la cassazione dovrà dirci se le merci contano più delle persone

Se la gestione dell’ordine pubblico condotta durante il G8 del luglio 2001 è quella riconosciuta appena una settimana fa dalla quinta sezione penale della corte di cassazione, allora vuol dire che esiste un nesso molto forte con il verdetto che un’altra sezione della cassazione dovrà pronunciare il prossimo 13 luglio.
I giudici sono chiamati a decidere sulla pertinenza del reato di “devastazione e saccheggio” contestato nei confronti di dieci manifestanti condannati a pene molto pesanti per un totale di quasi 100 anni di reclusione.
Dagli atti processuali emerge come la contestazione di questo reato sia stata il  frutto di una scelta politica fatta a tavolino dai vertici dell’ordine pubblico. Quegli stessi vertici condannati e rimossi pochi giorni fa dagli incarichi di direzione investigativa più importati del Viminale per il ruolo svolto nella catena di comando che portò all’assalto e al massacro dentro la Diaz e alla successiva attività di falsificazione delle prove nel tentativo di depistare e coprire le brutali violenze commesse.
All’indomani dei fatti di Genova il capo della Polizia diede incarico a tre prefetti di condurre un’inchiesta amministrativa sul comportamento delle forze di polizia. Da questa ricostruzione si venne a sapere che Francesco Gratteri, allora capo dello Sco, su incarico diretto dello stesso De Gennaro dalla mattina del 21 luglio smise di occuparsi della sicurezza dentro la zona rossa per seguire in prima persona ciò che accadeva all’esterno. Le nuove direttive erano molto chiare: «bisognava fare più arresti, si chiedeva un cambio di passo, una maggiore incisività nella gestione della piazza». In fondo il giorno prima c’era stato solo un morto. Evidentemente non bastava, dalla politica giungevano altre pressioni.
Ricevuto il nuovo mandato, Gratteri mette subito in campo una strategia molto più aggressiva: fin dal mattino dirige personalmente la perquisizione nella scuola Paul Klee, dove vengono effettuati 23 arresti. «Si tratta di un episodio fondamentale per comprendere l’esito successivo degli eventi», spiega l’avvocato Francesco Romeo. E’ la prova generale del dispositivo che verrà impiegato in serata con la famigerata irruzione nelle scuole Diaz e Pascoli. «Le persone fermate alla Paul Klee vengono arrestate utilizzando lo stesso schema di accusa che sarà poi impiegato per la Diaz: ovvero associazione a delinquere finalizzata alla devastazione saccheggio». A dimostrazione che fin dal mattino era stato congeniato un modello operativo che prevedeva la contestazione di un capo d’imputazione confezionato ancora prima che alcuni degli episodi contestati dovessero accadere. Altre contestazioni – come fu per le molotov e le armi improprie rinvenute alla Diaz – vennero inventate di sana pianta.

L’indeterminatezza e la geometria variabile del capo d’accusa
Il reato di devastazione e saccheggio è una eredità dal codice Zanardelli. Faceva parte delle imputazioni che attentavano alla sicurezza interna dello Stato, tant’è vero che in un unico articolo erano previste insieme «guerra civile, devastazione, saccheggio e strage». Reato politico per definizione, la sua applicazione richiedeva una violenza politica organizzata sotto il profilo associativo. Con il varo del codice Rocco, “devastazione e saccheggio” perde una parte della sua estensione e politicità. Le condotte incriminate vengono suddivise: alla vecchia “devastazione, saccheggio e strage finalizzati alla sovversione dello Stato”, reato punito con l’ergastolo si affianca il semplice danneggiamento. In mezzo c’è il 419 cp, ovvero la sola “devastazione e il saccheggio”, punita con pene che oscillano da 8 a 15 anni. Si tratta di un reato contro l’ordine pubblico, privo però di una precisa definizione per quanto riguarda l’estensione, l’intensità e la gravità dei fatti incriminati.
Indeterminatezza che contrasta con l’esigenza, prevista dalla costituzione, di indicare condotte «determinate e precise» per ogni reato. «Lo strumento era pronto e predisposto dal regime fascista – spiega sempre l’avvocato Romeo – ma chi lo ha raffinato e reso efficiente ai fini della repressione dei movimenti sociali di piazza è stata certamente la magistratura repubblicana che ha ridotto l’ambito di estensione delle condotte di danneggiamento e di furto per poter ritenere compiuto il reato più grave di devastazione, anche di fronte ad episodi circoscritti sia nel tempo che nello spazio». Tutto ciò in totale contrasto con il significato letterale dei due termini: devastazione vuole dire rendere deserto, distruggere totalmente; saccheggio significa depredazione totale. Per cui si è arrivati al punto di qualificare come atti di devastazione e saccheggio anche leggeri danneggiamenti, vetrine rotte o bancomat danneggiati, allineandosi in questo modo alle direttive europee che fin dal 2001 raccomandavano di introdurre i tradizionali scontri di piazza all’interno di una definizione estensiva dellla nozione di terrorismo.
Questa incertezza ha lasciato ampio spazio alle interpretazioni arbitrarie degli investigatori e della magistratura, come è accaduto per Genova. Tant’è che a parità di comportamenti altri manifestanti coinvolti in scontri, anche più duri, avvenuti in altre zone della città hanno visto derubricata la devastazione a semplice danneggiamento. E’ avvenuto per il corteo delle Tute bianche. Tuttavia lo stesso giudizio non è stato applicato per questi dieci manifestanti. Perché? La brutta sensazione è che si sia utilizzato un metro politico: i buoni da una parte e i cattivi, i soliti Black bloc, dall’altra (anche se alcuni di loro nemmeno vi facevano parte).

Le merci valgono più delle persone?
La Cassazione dovrà dirci anche se ritiene ammissibile un diritto processuale asimmetrico e diseguale. Per esempio tra il trattamento riservato al personale di polizia coinvolto nelle brutali violenze di Bolzaneto, e quello toccato agli imputati di devastazione e saccheggio. Perché i manifestanti che si trovavano nelle vicinanze di una vetrina rotta hanno dovuto rispondere di “compartecipazione psichica” con le violenze commesse contro le cose, mentre il personale di polizia che ha assistito alle sevizie contro i fermati dentro la caserma di Bolzaneto non si è visto contestare nessuna compartecipazione, nonostante il loro status di pubblici ufficiali imponesse l’obbligo di intervenire per interrompere la consumazione di qualsiasi reato?
Alla fine le violenze e le sevizie fisiche e morali esercitate contro le persone, con l’aggravante del loro stato di fermo, derubricate in assenza del reato di tortura a semplici lesioni e abuso di autorità sono cadute in prescrizione mentre il danneggiamento di vetrine, bancomat ed autovetture rubricati come atti di devastazione e saccheggio restano tuttora passibili di condanne che oscillano tra gli 8 e i 15 anni. La cassazione dovra dirci anche questo: se l’integrità delle merci conta più di quella delle persone.

Link
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Il terrorista urbano: ecco il nuovo nemico politico. Dopo il 15 ottobre in arrivo una nuova legislazione speciale contro il diritto di manifestare: mano libera ai picchiatori della polizia, come a Genova

Libertà costituzionali sotto attacco: dopo i daspo politici, la creazione di un nuovo reato associativo, l’arresto in flagranza differita e la richiesta di garanzie patrimoniali per poter svolgere le manifestazioni, il ministro dell’Interno Maroni annuncia un decreto legge che garantisce l’impunità ai poliziotti che picchiano nei cortei

Una polizia al di sopra della legge. E’ quanto auspica il ministro dell’Interno Roberto Maroni che ha annunciato di voler presentare al consiglio dei ministri una norma che metta le forze di polizia, coinvolte in eventuali comportamenti illegali durante le attività di ordine pubblico, al riparo da inchieste della magistratura. «È protezione quella che voglio dare alle forze di polizia – ha detto il ministro in un intervento pronunciato venerdì scorso a Salerno – in modo che non ci sia un pm che le mandi in galera. Sono misure che porterò al consiglio dei ministri chiedendo un decreto legge perché quello che è accaduto a Roma non accada più». La decisione arriva dopo le forti sollecitazioni esercitate dei vertici di carabinieri, polizia e finanza e dalle rispettive rappresentanze sindacali in favore di una norma ad cetum, che a differenza degli altri cittadini manifestanti renda la polizia immune di fronte alla legge. La norma farebbe da corollario agli altri dispositivi speciali anticipati nei giorni scorsi: creazione di un nuovo reato associativo, arresto in flagranza differita, limitazioni al diritto personale di manifestare (Daspo politici) e richiesta di garanzie patrimoniali tramite fideiussioni bancarie per ottenerne l’autorizzazione. Tra le “tutele” evocate da Maroni l’ipotesi di filtri amministrativi interni ai corpi di polizia che valutino gli eventuali illeciti, come la costituzione di un ufficio disciplinare, o l’autorizzazione del procuratore generale per l’avvio delle indagini.


Cortei per ricchi e Daspo per tutti. Viminale e sindaco di Roma limitano il diritto di manifestare

Paolo Persichetti
Liberazione 19 ottobre 2011

Quando in Italia si manifesta un’emergenza politico-sociale è subito pronta una legge d’eccezione. Un vizio che mette radici nei lontani anni 70. Anni tabù che si ripresentano continuamente sotto forma di spettro. Chi sabato scorso ha risposto ai pericolosi caroselli della polizia in piazza san Giovanni (tre mila secondo il Viminale) è un «terrorista urbano». Il ministro degli Interni Roberto Maroni, dopo l’invocazione venuta da Antonio Di Pietro in favore di una nuova legge Reale (la famigerata normativa sull’ordine pubblico che dal 1975 al 1990 ha provocato 625 vittime, tra cui ben 254 morti per mano delle forze di polizia), ha subito risposto coniando una nuova tipologia criminale (in incubazione da oltre un decennio) che va ad accrescere la lunga lista dei nemici politici dello Stato.
In parlamento il ministro di polizia ha spiegato che sono in cantiere una serie di misure calco dei dispositivi d’eccezione già applicati per reprimere la delinquenza negli stadi: l’arresto in flagranza differita, i Daspo anche per i cortei (in barba all’articolo 21 della costituzione), l’ennesimo specifico reato associativo per chi «esercita violenza aggravata nelle manifestazioni politiche» (oramai gli associativi sono giunti quasi a quota dieci nel nostro codice penale). L’idea cardine contenuta nel nuovo edificio legislativo d’eccezione è quella di anticipare il più possibile l’avvio del reato, e dunque l’intervento penale, sanzionando non più soltanto il fatto compiuto o il suo tentativo ma gli «atti preparatori». Nozione incerta, volutamente fumosa, assolutamente pericolosa poiché apre all’abisso del processo alle intenzioni. Giuristi come Luigi Ferrajoli dissentono profondamente: «occultare l’incapacità del governo e la cattiva gestione dell’ordine pubblico con nuove misure repressive non serve. E’ assurdo che addirittura un sindaco possa introdurre un limite alle libertà costituzionali come quella di manifestare». Per Gianni Ferrara, «una legislazione repressiva di questo tipo è inammissibile perché in contrasto non solo con un sistema costituzionale e una civiltà risultato di secoli di lotte sociali e politiche, ma è soprattutto inutile e dannosa come lo fu a suo tempo la legge Reale».
Prendendo sempre esempio dal laboratorio del controllo sociale che è diventata la normartiva d’eccezione sul tifo calcistico, il Viminale si è ispirato alla «responsabilità oggettiva», prevista nella giustizia sportiva, per ipotizzare l’introduzione di garanzie patrimoniali per ottenere l’autorizzazione a manifestare.
Almeno formalmente l’autorizzazione a manifestare non esiste,  essendo un diritto cardine del sistema costituzionale non può essere sottoposto a discrimine. Chi vuole dare vita ad una manifestazione pubblica non ha bisogno di autorizzazioni preventive, deve solo darne comunicazione alla questura, che ha il potere di vietarla o limitarla, una volta avutane notizia, per ragioni di ordine pubblico. Distinzione  sottile ma dirimente. La richiesta di un deposito preventivo, tramite fideiussione bancaria, è dunque anticostituzionale. Non solo, ma trasformerebbe l’articolo 21 in un diritto patrimoniale, accessibile unicamente ai possidenti. Sui quotidiani in proposito si sono lette delle vere e proprie castronerie, come la proposta di far pagare il biglietto: un ticket per manifestare, un euro, due euro e così via. Ma se così fosse sarebbe un bell’incentivo alla spettacolarizzazione: se devo pagare per scendere in piazza voglio divertirmi, insomma ho diritto ad una bella rappresentazione scenografica… e vai con i botti!
Gli esperti di ordine pubblico già sanno che sarebbe solo un incentivo alle manifestazioni non autorizzate, punto. Tutte queste bizzarrerie coniate dal ceto politico e dai media danno solo la prova di come non esista più una concezione dello spazio pubblico attivo e autonomo. Esiste un’idea proprietaria dello spazio sociale o al massimo un’idea dello spazio collettivo come platea per un pubblico che acquisita un biglietto, paga un tiket.
Invece di discutere di questo si lanciano anatemi contro i cattivi di turno, gli incappucciati di sabato 15 ottobre (che poi tanto travisati non erano se la loro identificazione risulta così facile). Non deve stupire dunque se stavolta questa nuova emergenza giudiziaria non è calata dall’alto dei Palazzi arroccati della politica. L’invocazione di legge ed ordine è venuta dall’interno stesso della manifestazione di sabato 15 ottobre. La reazione scomposta di pezzi ampi di ceto politico, le grida avventate di personaggi e strutture navigate, che hanno recepito le violenze e gli scontri come uno spodestamento del proprio ruolo, insieme all’ambiguo protagonismo di settori crescenti di società civile legati alla multiforme galassia giustizialista, vero must culturale egemone che tiene insieme i vari pezzi di ciò che resta della sinistra, subito pronti a lanciarsi nella rincorsa alla delazione, le dichiarazioni dei vertici del Pd, la campagna di Repubblica (che aveva tentato di mettere il cappello alla corteo amplificando la grottesca dichiarazione dell’estensore della lettera della Bce, Mario Draghi), hanno aperto la strada alla discesa in campo di Di Pietro e alla sortita di Maroni.
Un boomerang clamoroso che ha portato addirittura all’ukaze di Alemanno, il sindaco che ha sospeso per un mese l’applicazione della costituzione a Roma, vietando tutte le manifestazioni. La politica e morta e chi, come Valentino Parlato memore di altre epoche sul manifesto di domenica ha provato a ricordare che «nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici era inevitabile che ci fossero scontri con la polizia e manifestazioni di violenza […]segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile», è rimasto solo.

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Linea dura del governo. Roberto Maroni, “Centri sociali dietro gli scontri”. Tutti in galera e ora “nuclei mobili” di polizia contro i manifestanti

La cittadella della politica è ridotta come la fortezza Bastiani nel Deserto dei Tartari. Il Governo grida ai professionisti della violenza, per bocca del ministro dell’Interno accusa i centri sociali, critica i magistrati che hanno rimesso in libertà (con obblighi vari) i fermati (meno due) di martedì 14 e annuncia nuovi dispositivi di polizia per contenere le prossime manifestazioni. L’opposizione grida agli infiltrati ma è smentita dall’evidenza dei fatti e delle immagini. Lo spettro della Grecia terrorizza tutti. Il mondo delle istituzioni è sempre più scollato e separato dal Paese reale. Intanto una nuova generazione ribelle appare sulla scena

Paolo Persichetti
Liberazione 18 dicembre 2010

 

La piazza e il suo popolo

La relazione sugli scontri di piazza del 14 dicembre a Roma, tenuta ieri dal ministro dell’Interno Roberto Maroni in senato, era molto attesa soprattutto dopo l’intervista rilasciata il giorno prima a l’Unità dal capo della polizia. Si trattava di capire come il governo avrebbe reagito al ragionamento per nulla scontato proposto dal prefetto Antonio Manganelli. Il capo della polizia, infatti, aveva parlato di «un’attività di supplenza sempre più complessa e delicata» a cui le forze dell’ordine sono chiamate a causa delle tensioni sociali «in forte crescita in tutto il paese», provocate da una grave crisi economica e «dall’instabilità anche del quadro politico». Nelle parole di Manganelli e soprattutto nell’uso, certo ben riflettuto, del termine supplenza, è parso di leggere una critica alla politica del governo. La supplenza evoca un’attività di sostituzione, un’assenza riempita da qualcos’altro. I rifiuti di Terzigno, i licenziati Fiat, le aziende che chiudono, i terremotati aquilani, i migranti che salgono sulle gru, i precari che vanno sopra i tetti, insieme agli studenti – spiegava Manganelli – «sono tanti focolai di tensione. Perché i rifiuti di Napoli devono diventare un problema di polizia? Semmai è di pulizia». Il vuoto, lasciava intendere il capo della polizia, è quello della politica. Insomma non tutto può trasformarsi in questione di ordine pubblico: se le volanti sono costrette a scortare gli autocompattatori che si recano nelle discariche, se i reparti mobili devono trasformarsi in ausiliari della nettezza urbana, qualcosa non funziona più. Ebbene, nel suo intervento in aula il ministro dell’Interno si è mostrato totalmente sordo a queste riflessioni. Per Maroni l’unica risposta che offre la politica ai problemi sociali è il ripristino dell’ordine pubblico, cioè la repressione. Il manovratore non va disturbato. In piazza – ha spiegato nella sua relazione – accanto agli studenti che manifestavano c’erano i soliti professionisti della violenza, «gruppi organizzati di militanti antagonisti, che poco o nulla hanno a che fare con la scuola e con lo studio, provenienti da centri sociali autogestiti delle principali città italiane. L’ampia partecipazione dei centri sociali – ha sostenuto – testimonia l’eccezionale mobilitazione che si è voluta imprimere alla protesta degli studenti per inquinarla con la violenza». Maroni ha dunque già individuato i responsabili delineando il teorema incolpativo che con molta probabilità giustificherà alcune retate nelle prossime settimane. Anche qui l’analisi condotta dal responsabile del Viminale diverge da quella proposta dal capo della polizia che invece sottolineava un fatto nuovo, riscontrato dagli organizzatori stessi della manifestazione del 14, sorpresi e scavalcati dalla piazza: la presenza cioè di una nuova composizione sociale scesa in strada. «Il problema – sosteneva Manganelli – è la rabbia sociale che c’è in giro. Giovani e meno giovani che poco o nulla hanno a che vedere con la politica e le ideologie e che sono gonfi di rabbia, disposti a tutto». In queste ore sono state proposte analisi che hanno descritto con maggiore precisione la discesa in strada di nuove leve giovanili provenienti dalle scuole di periferia, molto più agguerrite, abituate al tifo da stadio, orfane delle ideologie post-anni 70 e della cultura della piazza costruita attorno ai social forum e ai controvertici, estranee alle pratiche del “conflitto mimato” e delle “dinamiche concordate” con le forze dell’ordine. Settori giovanili molto più vicini ai loro coetanei delle banlieues francesi o agli studenti londinesi. Giovani che su youtube guardano le immagini della rivolta greca. Una massa d’urto considerevole che suscita notevole inquietudine nella cittadella arroccata del potere. Nel retropensiero del capo della polizia c’è lo spettro greco, per questo affina l’analisi, chiama alle sue competenze la politica prima che il vento di rivolta del Melteni arrivi anche nelle città italiane. In qualche modo non calca la mano, il che spiega in parte la linea morbida di procura e tribunale che ha portato alle scarcerazioni. Ma anche qui Maroni indica un’altra linea, attacca le scelte della magistratura, seguito a ruota dal guardasigilli Angiolino Alfano che ha inviato un’ispezione ministeriale per verificare l’operato dei magistrati romani. Il governo auspica una fermezza simbolica con l’invio in carcere dei ragazzi fermati, a prescindere dalle loro responsabilità reali, anche se i dossier presentati dall’accusa sono fragili. I fermi nella stragrande maggioranza non sono avvenuti in flagranza. Si è trattato per lo più di classici rastrellamenti di piazza. Nessuno di loro aveva caschi o bastoni. Uno scenario ben diverso da quei «gruppi organizzati di violenti» che, secondo il ministro, hanno preso in ostaggio la maggioranza degli studenti. Una suddivisione tra buoni e cattivi proposta anche da Roberto Saviano, uno che in genere non sa mai bene di cosa scrive. Le parole di Maroni accentuano la distanza della politica dal mondo reale e rivelano la sindrome d’assedio che assilla i palazzi delle istituzioni. Timore che indurrà i responsabili dell’ordine pubblico ad introdurre, già dalle prossime manifestazioni contro il ddl Gemini, un nuovo dispositivo di polizia composto da “nuclei mobili”, «per prevenire altre occasioni di guerriglia urbana». Infine il ministro ha avuto buon gioco nel replicare a chi dai banchi dell’opposizione aveva confuso un manifestante, rivelatosi poi un liceale minorenne, con un poliziotto infiltrato. Polemiche che per altro hanno avuto il solo effetto di causare l’arresto del ragazzo, inizialmente riconsegnato ai familiari dopo il fermo a causa della sua minore età.

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Fischia il vento e soffia il Melteni
Grecia, scioperi e proteste contro la politica dei sacrifici
Ma dove vuole portarci Saviano?
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra

Genova 2001, quel passo in più

Una banda armata chiamata polizia

Ciò che legittima il preteso monopolio dello Stato nel ricorso a mezzi coercitivi (vedi la nota definizione di Max Weber) e lo distingue da una qualunque banda, cosca, ‘ndrina, clan, branco è il principio di autolimitazione e automoderazione. Più l’uso della forza è normato, più la violenza è regolamentata, ridotta ai minimi termini, ai momenti più estremi, maggiore è il grado di legittimazione che la forza pubblica acquisisce. Ma nel momento in cui la violenza istituzionale abbandona questi requisiti, lo Stato ed i suoi appparati tornano ad essere una banda come le altre, non la banda legittima ma soltanto la banda più forte… finché dura.


Libri – autorecensione. Rabbia, odio, spirito di corpo. Nel libro di Carlo Bonini, Acab, Einaudi, i duri delle forze dell’ordine raccontati a partire dalle loro discussioni segrete sul Web. Quello che i celerini non dicono ma fanno

di Carlo Bonini
Repubblica
16 gennaio 2009

“Le violenze alla Diaz dopo il G8 di Genova? Non mi vergogno di nulla. L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino”.
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“Cari colleghi, riteniamo giusto rammentare, per senso di responsabilità, che DoppiaVela è uno spazio per i poliziotti messo a disposizione dalla polizia di Stato. Le critiche, le lamentele, le segnalazioni di disservizi, anche se esternate in modo aspro ma corretto, fanno parte delle normali dinamiche di dialogo tra l’amministrazione centrale e i singoli dipendenti. Trovano dunque una sede naturale all’interno del portale che non può, però, garantire spazi che la normativa vigente attribuisce ad altri soggettii”.
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Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po’ ingessato – DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio – e dal post politicamente corretto che metteva sull’avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po’ guardoni e un po’ scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l’illeggibile o scrivendo l’inconfessabile. Divorarsi a vicenda – sì, proprio come scorpioni in bottiglia – soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia. Finita sulle prime pagine dei giornali con sei rotondi anni di ritardo, la “macelleria messicana” del dottor Fournier era stato un potente lassativo. Il forum era impazzito. Genova, troppo lontana e spaventosa per sembrare ancora vera, era diventata solo l’occasione per un outing collettivo. La prova, ammesso ce ne fosse bisogno, che il tempo era stato una pessima medicina. Che odio chiama odio.
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G. DA ROMA Ecco che spunta fuori un nostro bel funzionario, che da buon samaritano riaccende fiamme polemiche e propositi dinamitardi. Che, sicuramente, nelle prossime manifestazioni gli antiglobal metteranno in atto perché più autorizzati che mai. Ma quando la finiremo di fare sempre queste mere figure e inizieremo a tenere la bocca chiusa?
Per Aspera ad astra.
N. DA ANZIO Fournier poteva e doveva risparmiarsi la frase a effetto, “macelleria messicana”. Adesso, per i colleghi ci sarà la solita Santa Inquisizione mediatico-politica.
Unus sed leo.
I. DA GENOVA Ma questo Fournier dov’era durante gli scontri? Ancora non l’ho capito. Era fra i manifestanti? Ha respirato lacrimogeni? O aveva una mascherina? Secondo me si è messo a cantare perché non gli hanno dato nessuna promozione.
P. DA BARI È ancora in polizia o ha chiesto di passare alla politica?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
D. DA LA SPEZIA Colleghi, basta di parlare di questo soggetto. È penoso e noi lo stiamo aiutando nella sua viscida campagna elettorale.
A. DA CAGLIARI Genova, presente con orgoglio e senza nulla da nascondere. Posso testimoniare di Bolzaneto! Non si tratta di essere grandi e non è veramente falsa modestia è solo servizio! Ero al VI reparto mobile di Genova.
L. DA SALUZZO Io c’ero. VI reparto mobile. Tanto orgoglio, tanta rabbia!
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(…)
C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente:
I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?
I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?
I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?
La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?
Su queste cose non ci può essere ambiguità!!!
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
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E bravo il nostro C., pensò Drago. Stai a vedere che ora gli vanno addosso i padovani. Se ne stanno zitti da troppo tempo. Ma è più forte di loro. Se c’è da far vedere chi ce l’ha più duro, loro non sanno resistere. Rinfrescò la chat. Solo per vincere una scommessa troppo facile.
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E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande:
“I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?”
No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!
“I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?”
No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l’attaccamento all’igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!
“I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?”
No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l’unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un “povero illuso pacifista” o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c’erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!
“La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?” No. Ma come si dice a Roma, sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un’aula all’imbecille!
Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l’aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno.
Once in the Celere, always in the Celere.
C. DA ROMA Quindi, per te, avere al fianco un cretino non è un problema?
Lo dico serenamente: due che tengono e uno che mena non mi sembra da eroi. E poi ti rispondo da romano: “sti cazzi un par di palle”. Tu non lavori nel Cile di Pinochet e non ti pagano con lo stipendio in pesos messicani (forse è di cattivo gusto visto il titolo del thread di discussione, “macelleria messicana”, e me ne scuso con quanti si sentono feriti). Il giuramento che hai prestato parla di far rispettare le leggi, non di fartene di tue. In quanto al rischio della “figura”, mi pare che l’abbiamo fatta e basta. E le responsabilità, lo dico da mesi, non sono di chi stava in strada, ma di chi ha permesso che si arrivasse a questo. Siamo stati mandati lì, sapendo quello che ci avrebbero fatto e sapendo come avremmo reagito. Ti piace questo? Ti piace essere una pedina e poi pagarti l’avvocato? Io questo vorrei evitare. Vorrei capire come si può evitare che un collega mandato a fare il proprio dovere si ritrovi indagato in due processi e, dopo la Maddalena, forse anche nel terzo. Scusate la lunghezza.
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
P. DA BARI Scusate, il Sig. Dott. Funz. Uff. Fournier quando lo faranno santo?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
E. DA FIUMICINO Io penso che questi degni eredi di quei cattivi maestri che dicevano in piazza “Uccidere uno sbirro non è reato” ci considererebbero picchiatori fascisti anche se andassimo in servizio di Op vestiti di rosa e con un mazzo di fiori in mano.
B. DA PADOVA Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa!
L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.
Clic.

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Violenza di Stato non suona nuova
G8 massacro alla Diaz, per i giudici d’appello il blitz fu ordinato da Ge Gennaro