Quando su richiesta del generale Dalla Chiesa il Pci infiltrò un proprio militante nelle Brigate rosse

Estratto dal libro La polizia della storia (pp. 173-176).
La vicenda venne raccontata per la prima volta nel giugno del 2017 dall’ex responsabile della sezione speciale antiterrorismo dei carabinieri di Roma, Domenico Di Petrillo, durante la sua audizione davanti alla seconda Commissione parlamentare che indagava sul sequestro Moro e poi riportata nel libro, scritto sempre dall’ex colonnello, Il lungo assedio al terrorismo nel diario operativo della Sezione speciale anticrimine Carabinieri di Roma, Melampo 2018. Fatto singolare la Commissione presieduta da Giuseppe Fioroni, impegnatissima nella ricerca di infiltrati, spie, agenti d’influenza dentro e attorno alle Brigate rosse durante il sequestro Moro, ignorò completamente le rivelazioni. Nessun approfondimento venne disposto: i suoi solerti consulenti, i magistrati Donadio e Salvini, l’ufficiale dei Cc Giraudo, impegnatissimi a sfornare piste, creare e inventare nessi con Servizi di mezzo mondo, mafie e ‘ndranghete varie, snobbarono l’informazione troppo imbarazzante. Eppure sarebbe stato utile accertare modalità, tempi e modi di questa interazione tra Antiterrorismo dei carabinieri e vertici del Partito comunista dell’epoca, conoscere come si svolse questa operazione di intelligence. Niente di tutto ciò. L’unica versione dei fatti ad oggi conosciuta è quella fornitaci dall’ex carabiniere che dice fino ad un certo punto, omette, confonde per tutelare la sua fonte. Fonte, nome in codice «Fontanone», che, a distanza di oltre quarant’anni, si guarda bene dal farsi avanti e raccontare al Paese quella esperienza di cui probabilmente deve provare vergogna se preferisce rimanere celato nelle pieghe del passato. Questa vicenda è raccontata anche nella docuserie che sta andando in onda su Sky in queste settimane Roma di piombo, diario di una lotta.
Nel volume la Polizia della storia potete trovare invece un capitolo interamente dedicato al lavoro di contrasto svolto dalle forze di polizia contro le Brigate rosse, dal titolo «L’uso di esche, infiltrati e rami verdi nell’azione di contrasto alle Brigate rosse» nel quale per la prima volta, documenti alla mano, si ricostruiscono i pochi casi in cui le forze di polizia riuscirono ad impiegare delatori e provocatori. Non emergono casi di infiltrazione di membri dei Servizi o delle Forze dell’ordine, frequente invece è l’uso di esche, in particolare dopo la discesa in campo diretta del Pci che fornì propri militanti, mentre il nome più noto è quello di Girotto. Risultano arruolati due delatori: uno storico proveniente dalla Brigata Ferretto in Veneto, che fu all’origine di numerosi arresti, il secondo di Curcio, della Mantovani, di Semeria; l’altro a Milano che provocò l’arresto di Fenzi e Moretti. Infine c’è la storia di «Fontanone» che permise di agganciare nei primi mesi del 1980, dopo due anni di indagini a vuoto, la colonna romana.

L’operazione Olocausto, il Pci infiltra un proprio militante
Dopo la morte di Guido Rossa il Pci decise di cambiare la propria strategia di contrasto alla lotta armata. Il sindacalista della Cgil era stato ucciso dalla colonna genovese delle Brigate rosse che gli contestava il lavoro informativo svolto all’interno dell’Italsider di Cornigliano per conto del Partito comunista italiano (1). I vertici del Pci non ritennero più sufficiente la semplice attività informativa e il controllo dei luoghi di lavoro più caldi, delle scuole e del territorio, condotta dal proprio apparato di sorveglianza: una struttura riservata coordinata a livello centrale dalla Sezione Affari dello Stato che si appoggiava sulle singole Federazioni. Attività che ormai, come era accaduto per Rossa, esponeva a rischi eccessivi i propri militanti. Una volta individuato Francesco Berardi, operaio dell’Italsider che distribuiva opuscoli e volantini delle Br all’interno della fabbrica, Rossa non esitò a denunciarlo ai carabinieri presso gli uffici della sorveglianza nonostante l’esitazione del Consiglio di fabbrica, dove alcuni non erano convinti di quel gesto e avrebbero voluto affrontare in modo diverso il problema. Nella cultura politica del mondo operaio era piuttosto innaturale un atto del genere, in «The Making of the English Working Class», Edward P. Thompson evoca il concetto di «opacità operaia» per descrivere la tendenza della comunità proletaria a opporre una coltre di riservatezza per tutelare quel che avveniva al proprio interno: forme di illegalità, sabotaggio ma anche divergenze che non venivano risolte chiedendo aiuto all’esterno (2). Rossa aveva infranto questo tradizionale scudo, ma lo aveva fatto seguendo alla lettera le indicazioni del suo partito. Un recente lavoro di Sergio Luzzato ci offre un suo ritratto che aiuta a comprendere meglio le ragioni di quel comportamento: un aspetto caratteriale intransigente, un passato giovanile votato all’alpinismo agonistico animato da ideali nicciani e superomisti. Rossa era stato paracadutista nella brigata Folgore e per una di quelle strane coincidenze della storia uno dei suoi addestratori era stato il “guastatore” Oreste Leonardi, il maresciallo divenuto fedele guardia del corpo di Aldo Moro, morto in via Fani. Anni dopo, la tragica morte del figlioletto muta profondamente il suo sguardo sulla vita, Rossa si avvicina all’impegno sociale, abbandona la precedente visione individualistica e competitiva del mondo anche se, probabilmente, non riuscì a liberarsi della vecchia traccia normativa (3).
La svolta arriva nel settembre 1979 – racconta Domenico Di Petrillo, per molti anni a capo della Sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Roma – quando Ugo Pecchioli, il responsabile della sezione Affari dello Stato del Pci (una sorta di Ministero dell’Interno ombra del Partito comunista) comunica a Dalla Chiesa la disponibilità a infiltrare un militante del partito all’interno delle Brigate rosse con l’intento di destabilizzarle. L’unica condizione posta dai vertici di Botteghe Oscure – riferisce sempre Di Petrillo – «era che il militante da infiltrare fosse gestito da un ufficiale del Nord Italia per renderne il più possibile difficile l’individuazione». L’incarico venne affidato al Comandante della Sezione speciale anticrimine di Milano, Umberto Bonaventura, che incontrò per la prima volta la spia del Pci nei pressi della fontana del Gianicolo, circostanza che portò ad attribuirgli il nome in codice «Fontanone». In realtà, stando al racconto della vicenda – fatto sempre da Di Petrillo, prima nel corso della sua audizione del 19 giugno 2017 davanti alla Commissione Fioroni e successivamente in un volume pubblicato l’anno successivo che ripercorre l’attività della Sezione antiterrorismo di Roma, gli incontri con il candidato all’infiltrazione, «si concretizzano in una ricerca di come riuscire ad essere sicuri di approcciare le Brigate rosse. Facemmo vari tentativi che non andarono a buon fine, fino a che arrivammo ad individuare Piccioni, Ricciardi e da lì iniziò l’attività […] Però fu una ricerca, non fu una partenza con l’indicazione: “Andate lì”» (4). Di Petrillo fa capire che la spia non entrò mai nelle Br, ma si limitò a svolgere un lavoro di conoscenza e prossimità che consentì di individuare gli ambienti, i collettivi e i comitati politici romani che facevano da bacino di provenienza delle colonna romana: «Il nostro rapporto durò pochissimi mesi», scrive nel libro: «precisamente, sino a quando riuscimmo a individuare un’area dell’antagonismo romano, nella zona Sud della Capitale, caratterizzata dalla presenza di numerosi collettivi: le Br stavano cercando di indirizzare l’attività e di selezionare al loro interno militanti da arruolare nell’organizzazione» (5). Di Petrillo protegge ancora la fonte, è parco di informazioni e stende un po’ di cortina fumogena, ma è chiaro che l’infiltrazione nell’organico brigatista non ci fu, ma piuttosto un lavoro di perlustrazione ambientale, di individuazione dei riferimenti periferici dell’organizzazione, che conducessero a semplici «contatti» o «irregolari» da fotografare, agganciare e poi pedinare, cercando di ricostruire, appuntamento dopo appuntamento, la rete del gruppo. Di «Fontanone» si sa che era un insegnante, che riuscì a incontrare alcune persone ritenute vicine alle Brigate rosse, che questi incontri vennero fotografati e i volti dei suoi interlocutori immortalati fino a quando il pentito Patrizio Peci riconobbe l’immagine di uno di loro, fornendo l’input decisivo per indirizzare l’indagine verso la persona giusta: Francesco Piccioni, figura di peso della colonna romana, membro del fronte logistico nazionale che aveva partecipato nel dicembre 1979 alla riunione della Direzione strategica convocata in tutta fretta nella base genovese di via Fracchia. Dopo una intensa attività durata mesi Piccioni (Michele) fu catturato il 19 maggio 1980 nella base di via Silvani 7 a Roma, sede del «logistico» della colonna romana. Interessante è un ulteriore episodio: i carabinieri avevano in mano foto di diversi brigatisti immortalati durante queste attività di osservazione e pedinamento. Si trattava sicuramente di militanti che avevano una storia, erano conosciuti nei loro quartieri. «Mi rivolsi – ha spiegato Di Petrillo davanti alla Commissione Fioroni – «al Partito comunista, all’avvocato Tarsitano perché mi aiutasse a identificare queste persone. Ritagliai la foto di uno di questi che stava in via dei Fori Imperiali e dopo qualche giorno mi dette un appuntamento, andai alla Pigna [piazza Venezia, in prossimità dell’inizio di via delle Botteghe Oscure dove si trovava la sede nazionale del Pci] a incontrare Antonio Marini, un uomo del Pci, gli consegnai quel frammento di foto; dopo qualche giorno mi richiamò e mi diede il nome: Marcello Basili» (6). Si trattava di un militante vicino alla brigata di Torrespaccata che una volta arrestato iniziò a collaborare facendo catturare diversi suoi compagni.
Fu sistematica in quegli anni l’attività informativa del Pci a favore delle forze di polizia, «Dalla Chiesa – ha riferito il generale Bozzo – mi aveva incaricato di tenere i rapporti con il Pci. Dal Pci abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile e immaginabile. Su questo non può esserci nemmeno un’ombra di dubbio. Io avevo rapporti con Lovrano Bisso, allora Segretario provinciale del Pci: ci aiutò in ogni modo» (7). Alcune testimonianze portano a ritenere che il flusso informativo avvenisse anche in direzione opposta, seppur in misura molto minore. Salvatore Ricciardi, dirigente della colonna romana scomparso il 9 aprile 2020, con una ricca storia politica nel movimento operaio romano, prima nel Psiup (1965), poi tra i fondatori del Cub ferrovieri di Roma, per poi aderire all Brigate rosse nel 1977, mi ha più volte raccontato che dall’interno del Pci romano, qualcuno che non gradiva affatto la scelta della «delazione politica di massa» condotta dai vertici del partito, fece pervenire copia dei nomi di attivisti ritenuti sospetti che erano stati passati alla Questura.

Note

  1. Testimonianza di Loriano Bisso, segretario provinciale del Pci genovese, in Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Guido Rossa mio padre, Bur, pp. 158-159: «[…] Quell’esperienza – si rivelò utile anche di fronte alla minaccia brigatista. Fu un lavoro particolarmente difficile e pericoloso. Per diverse ragioni. Innanzitutto le Brigate rosse avevano una struttura fortemente centralizzata e compartimentata, con una base di sostegno non particolarmente ampia. Quindi non erano facilmente penetrabili. Inoltre, i loro gruppi di fuoco, che applicavano la tattica del “mordi e fuggi”, erano assai efficaci; mentre le forze dell’ordine, pur disponendo di personale di livello, per tutta una fase diedero l’impressione di brancolare nel buio. Tutto questo rendeva assai spregiudicata l’azione delle Br. Per la natura delle difficoltà, quindi decidemmo di concentrare l’attenzione piuttosto su ciò che stava dietro alla produzione del materiale di propaganda brigatista. Vale a dire: chi scriveva volantini e documenti, dove si stampavano, chi li trasportava, come entravano in fabbrica, chi li distribuiva. E poi, su un piano più strettamente politico, dovevamo capire quale grado di consenso quei documenti fossero in grado di suscitare fra i lavoratori. Posso dire questo, che il lavoro di Guido Rossa ci portò assai vicino all’individuazione di gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. Il contributo di tuo padre fu davvero eccellente. Mi aveva parlato di Berardi già alcuni mesi prima di quel 25 ottobre 1978. Lo aveva già individuato e lo teneva d’occhio».
  2. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1968.
  3. S. Luzzato, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa, Einaudi 2021.
  4. D. Di Petrillo, audizione davanti alla Commissione Moro 2, 19 giugno 2017.
  5. D. Di Petrillo, Il lungo assedio. La lotta al terrorismo nel diario operativo della sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Roma, Melampo, Milano 2018, p. 115-116.
  6. D. Di Petrillo, CM2, 19 giugno 2017.
  7. G. Fasanella, S. Rossa, Guido Rossa mio padre, Bur, Milano p. 141.

Macchina del fango sul movimento: gli infiltrati di Vauro Senesi e la stupidità sulla punta della sua matita

Paolo  Persichetti
Gli Altri 24 dicembre 2010

Con questa stupida vignetta, per non utilizzare altre definizioni ben più appropiate, come quella di infame (perché addita al pubblico ludibrio una categoria sociale in lotta, ne stupra l’identità e le ragioni spacciandola per il suo contrario) apparsa sul manifesto del 16 dicembre 2010, Vauro Senesi ha inteso riassumere il senso della giornata nazionale di protesta del 14 dicembre a Roma

Vignetta di Vauro apparsa sul manifesto di giovedì 16 dicembre

Il vignettista del manifesto e di Anno zero, noto per le sue posizioni giustizialiste, sposa appieno la linea del Pd, espressa dalla senatrice Anna Finocchiaro, e soprattutto dal suo segretario di partito, Oliviero Diliberto, che hanno subito gridato alla presenza di infiltrati negli scontri avvenuti durante e alla fine dell’imponente manifestazione del 14 dicembre. La vignetta è una citazione di un’altra famosa vignetta di Giorgio Forattini che nel 1977 raffigurò il poliziotto Giovanni Santone camuffato da manifestante (immortalato da Tano D’Amico nel corso degli scontri dove fu uccisa dalle forze dell’ordine Giorgiana Masi) con la testa del ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Foto e vignetta sottolineavano la decisione presa dall’allora ministro dell’Interno di utilizzare agenti travestiti per sparare contro i manifestanti (non certo contro la polizia). Con una ellisse Vauro mette accanto alla vecchia immagine quella del giovane manifestante fotografato durante gli scontri del 14 dicembre con maganello e manette, appena raccolti in strada come trofei, ma questa volta con il volto dell’attuale ministro degli Interni, Robero Maroni. Un modo per dire: infiltrati di allora, infiltrati di oggi.
Alcune sequenze fotografiche che raffigurano un manifestante in diversi momenti degli scontri di martedì, prima con dei fumogeni, poi con una pala, successivamente nell’atto di lanciare pezzi di arredo urbano contro le forze di polizia, infine con un manganello e un paio di manette in mano in uno dei momenti di maggiore tensione della giornata (l’aggressione ad un finanziere da parte di altri manifestanti); avevano indotto alcuni organi d’informazione e diversi siti internet, adusi da sempre alla dietrologia, a supporre la presenza di agenti provocatori infiltrati per suscitare e fomentare gli incidenti. Una tesi cara alla sinistra istituzionale che fin dal dopoguerra si autoconsola con questa favola ogni qualvolta tumulti e movimenti sociali imprevisti scavalcano le sue posizioni ponendo questioni politiche scomode. I giustizialisti del Fatto avevano titolato, “Hanno vinto i peggiori”, associando il rigetto della sfiducia votato dal parlamento con la piazza che aveva partecipato agli scontri, dimenticando che due dei tre voti decisivi per il salvataggio di Berlusconi provenivano dall’Idv di Di Pietro, punto di riferimento politico proprio del Fatto (per poi dare sul loro sito online un contributo di verità diffondendo le immagini che chiarivano ogni cosa sull’accaduto, mostrando che dietro quel manifestante travisato c’era un ragazzo, nel frattempo fermato, risultato minorenne). Il teorema degli infiltrati e della minoranza cattiva dei black bloc, che avrebbe prevaricato la maggioranza docile e pacifica del corteo, veniva ripreso dai soliti giornalisti di Repubblica che immediatamente pubblicavano una lettera di Roberto Saviano al movimento. Flop strepitoso, errore di marketing notevole del quotidiano repubblichino e dell’agenzia emergenziale che utilizza Saviano come portavoce. Le retoriche amenità del predicatore sono miserabilmente fallite. Utilizzandolo come pompiere i suoi mandanti speravano che l’autorità acquisita dopo l’imponente battage mediatico costruito attorno all’evento industrial-editoriale di Gomorra, alla postura di martire perseguitato sapientemente diffusa sui media, potesse influire e orientare politicamente i giovani manifestanti addomesticandone i propositi e domandone i comportamenti ma la lettera è stata rinviata al mittente. Nemmeno la logorroica replica del giorno successivo, una tripla pagina di R2, è servita. D’altronde uno che dice agli studenti di scendere in piazza a viso aperto ma si nasconde dietro una scorta di polizia, che passa le vacanze nella villa del banchiere Alessandro Profumo, che si incontra col finanziere Carlo De Bendetti,  che è al libro paga contemporaneamente del gruppo Espresso-Repubblica, della Mondadori e di Mediaset via Endemol, un po’ come Arlecchino servo di due padroni, come può pretendere di salire sul pulpito per lanciare prediche ad una generazione precaria? L’evento sociale del 14 dicembre ha fatto da spartiacque, da cartina di tornasole, da prova della verità squarciando il velo di ipocrisia e menzogna che ammanta operazioni di orientamento dell’opinione pubblica come quella che impiega il soldato Saviano. Repubblica nei giorni successivi è corsa ai ripari, rettificando linea politica e pubblicando analisi molto più comprensive di quanto avvenuto il 14 dicembre.
Nel frattempo del misterioso manifestante si è venuto a sapere tutto, nome e cognome, percorso scolastico, età, storia dei genitori. Fallita l’operazione “infiltrato” è stata subito messa in piedi quella sui “cattivi maestri”. “Figlio di un brigatista” hanno scritto alcuni giornali.  S.M. non poteva restare un semplice liceale minorenne come molti altri suoi coetanei scesi in piazza, doveva essere per forza uno sbirro o un adolescente brigatista, che per i teorici della dietrologia equivale più o meno alla stessa categoria degli agenti provocatori esterni al movimento. Se fosse stato veramente figlio di un ex militante delle Brigate rosse – complesso di Edipo permettendo – ovviamente non ci sarebbe stato nulla di male. Ma la realtà è diversa, oltre a non esser vero (il padre è stato coinvolto negli anni 70 in vicende legate ad ambienti dell’autonomia) la falsa notizia era solo funzionale ad alimentare una ulteriore campagna distorsiva sulla realtà del movimento. Riconsegnato alla famiglia dopo il fermo, come prevede la legge per i minorenni, la notorietà attribuita alle sue gesta, le fortissime polemiche politiche che hanno chiamato il ministro dell’Interno a rispondere in parlamento, hanno alla fine provocato l’arresto del giovane e il suo rinvio a giudizio per  “rapina aggravata” delle manette e del manganello, in realtà abbandonati durante gli scontri. Dopo questo bel risultato ottenuto ci aspettiamo che tutti i partecipanti a questa fiera della stupidità, a partire dalla senatrice Anna Finocchiaro, passando per l’ex ministro della Giustizia Oliviero Diliberto fino al vignettista Vauro Senesi, si adoperino per aiutare la famiglia del ragazzo versando una parte dei loro emolumenti per sostenerne la difesa giuridica. Se ciò non dovesse accadere sarebbe più che normale che incontrandoli nei prossimi cortei gliene venga chiesto conto.

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Linea dura del governo. Roberto Maroni, “Centri sociali dietro gli scontri”. Tutti in galera e ora “nuclei mobili” di polizia contro i manifestanti

La cittadella della politica è ridotta come la fortezza Bastiani nel Deserto dei Tartari. Il Governo grida ai professionisti della violenza, per bocca del ministro dell’Interno accusa i centri sociali, critica i magistrati che hanno rimesso in libertà (con obblighi vari) i fermati (meno due) di martedì 14 e annuncia nuovi dispositivi di polizia per contenere le prossime manifestazioni. L’opposizione grida agli infiltrati ma è smentita dall’evidenza dei fatti e delle immagini. Lo spettro della Grecia terrorizza tutti. Il mondo delle istituzioni è sempre più scollato e separato dal Paese reale. Intanto una nuova generazione ribelle appare sulla scena

Paolo Persichetti
Liberazione 18 dicembre 2010

 

La piazza e il suo popolo

La relazione sugli scontri di piazza del 14 dicembre a Roma, tenuta ieri dal ministro dell’Interno Roberto Maroni in senato, era molto attesa soprattutto dopo l’intervista rilasciata il giorno prima a l’Unità dal capo della polizia. Si trattava di capire come il governo avrebbe reagito al ragionamento per nulla scontato proposto dal prefetto Antonio Manganelli. Il capo della polizia, infatti, aveva parlato di «un’attività di supplenza sempre più complessa e delicata» a cui le forze dell’ordine sono chiamate a causa delle tensioni sociali «in forte crescita in tutto il paese», provocate da una grave crisi economica e «dall’instabilità anche del quadro politico». Nelle parole di Manganelli e soprattutto nell’uso, certo ben riflettuto, del termine supplenza, è parso di leggere una critica alla politica del governo. La supplenza evoca un’attività di sostituzione, un’assenza riempita da qualcos’altro. I rifiuti di Terzigno, i licenziati Fiat, le aziende che chiudono, i terremotati aquilani, i migranti che salgono sulle gru, i precari che vanno sopra i tetti, insieme agli studenti – spiegava Manganelli – «sono tanti focolai di tensione. Perché i rifiuti di Napoli devono diventare un problema di polizia? Semmai è di pulizia». Il vuoto, lasciava intendere il capo della polizia, è quello della politica. Insomma non tutto può trasformarsi in questione di ordine pubblico: se le volanti sono costrette a scortare gli autocompattatori che si recano nelle discariche, se i reparti mobili devono trasformarsi in ausiliari della nettezza urbana, qualcosa non funziona più. Ebbene, nel suo intervento in aula il ministro dell’Interno si è mostrato totalmente sordo a queste riflessioni. Per Maroni l’unica risposta che offre la politica ai problemi sociali è il ripristino dell’ordine pubblico, cioè la repressione. Il manovratore non va disturbato. In piazza – ha spiegato nella sua relazione – accanto agli studenti che manifestavano c’erano i soliti professionisti della violenza, «gruppi organizzati di militanti antagonisti, che poco o nulla hanno a che fare con la scuola e con lo studio, provenienti da centri sociali autogestiti delle principali città italiane. L’ampia partecipazione dei centri sociali – ha sostenuto – testimonia l’eccezionale mobilitazione che si è voluta imprimere alla protesta degli studenti per inquinarla con la violenza». Maroni ha dunque già individuato i responsabili delineando il teorema incolpativo che con molta probabilità giustificherà alcune retate nelle prossime settimane. Anche qui l’analisi condotta dal responsabile del Viminale diverge da quella proposta dal capo della polizia che invece sottolineava un fatto nuovo, riscontrato dagli organizzatori stessi della manifestazione del 14, sorpresi e scavalcati dalla piazza: la presenza cioè di una nuova composizione sociale scesa in strada. «Il problema – sosteneva Manganelli – è la rabbia sociale che c’è in giro. Giovani e meno giovani che poco o nulla hanno a che vedere con la politica e le ideologie e che sono gonfi di rabbia, disposti a tutto». In queste ore sono state proposte analisi che hanno descritto con maggiore precisione la discesa in strada di nuove leve giovanili provenienti dalle scuole di periferia, molto più agguerrite, abituate al tifo da stadio, orfane delle ideologie post-anni 70 e della cultura della piazza costruita attorno ai social forum e ai controvertici, estranee alle pratiche del “conflitto mimato” e delle “dinamiche concordate” con le forze dell’ordine. Settori giovanili molto più vicini ai loro coetanei delle banlieues francesi o agli studenti londinesi. Giovani che su youtube guardano le immagini della rivolta greca. Una massa d’urto considerevole che suscita notevole inquietudine nella cittadella arroccata del potere. Nel retropensiero del capo della polizia c’è lo spettro greco, per questo affina l’analisi, chiama alle sue competenze la politica prima che il vento di rivolta del Melteni arrivi anche nelle città italiane. In qualche modo non calca la mano, il che spiega in parte la linea morbida di procura e tribunale che ha portato alle scarcerazioni. Ma anche qui Maroni indica un’altra linea, attacca le scelte della magistratura, seguito a ruota dal guardasigilli Angiolino Alfano che ha inviato un’ispezione ministeriale per verificare l’operato dei magistrati romani. Il governo auspica una fermezza simbolica con l’invio in carcere dei ragazzi fermati, a prescindere dalle loro responsabilità reali, anche se i dossier presentati dall’accusa sono fragili. I fermi nella stragrande maggioranza non sono avvenuti in flagranza. Si è trattato per lo più di classici rastrellamenti di piazza. Nessuno di loro aveva caschi o bastoni. Uno scenario ben diverso da quei «gruppi organizzati di violenti» che, secondo il ministro, hanno preso in ostaggio la maggioranza degli studenti. Una suddivisione tra buoni e cattivi proposta anche da Roberto Saviano, uno che in genere non sa mai bene di cosa scrive. Le parole di Maroni accentuano la distanza della politica dal mondo reale e rivelano la sindrome d’assedio che assilla i palazzi delle istituzioni. Timore che indurrà i responsabili dell’ordine pubblico ad introdurre, già dalle prossime manifestazioni contro il ddl Gemini, un nuovo dispositivo di polizia composto da “nuclei mobili”, «per prevenire altre occasioni di guerriglia urbana». Infine il ministro ha avuto buon gioco nel replicare a chi dai banchi dell’opposizione aveva confuso un manifestante, rivelatosi poi un liceale minorenne, con un poliziotto infiltrato. Polemiche che per altro hanno avuto il solo effetto di causare l’arresto del ragazzo, inizialmente riconsegnato ai familiari dopo il fermo a causa della sua minore età.

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Genova 2001, quel passo in più

Martedi 14 c’erano degli infiltrati ma sedevano sui banchi del parlamento

Anna Finiocchiaro del Pd, Oliviero Diliberto del Pdci, Vauro Senesi del manifesto e Anno zero, denunciano la presenza di provocatori confusi tra i dimostranti. Ancora una volta la leggenda dell’infiltrato serve alla sinistra istituzionale per esorcizzare la propria inutilità politica

Paolo Persichetti
Liberazione 16 dicembre 2010

piazza DEL POPOLO!

Gli unici infiltrati che sono stati visti martedì 14 a Roma sedevano in parlamento nei banchi dell’opposizione. I loro nomi sono noti a tutti, si tratta dei dipietristi Antonio Razzi e Domenico Scilipoti e poi dell’ex veltroniano, passato successivamente con Rutelli, Massimo Calearo. I tre provocatori, dando prova di una consumata arte della messa in scena, dopo aver disertato la prima chiamata al voto sono apparsi in aula solo al secondo appello per depositare nell’urna i voti decisivi contro la mozione di sfiducia a Silvio Berlusconi. Questa circostanza apparsa praticamente in mondovisione, tante erano le reti televisive internazionali che hanno seguito la giornata parlamentare, avrebbe dovuto indurre a maggiore prudenza quegli esponenti del Pd, ma non solo, anche Oliviero Diliberto del Pdci e portavoce della Federazione della sinistra, non è stato da meno, che hanno gridato per l’intera giornata alla presenza di infiltrati fuori da Montecitorio che avrebbero dato il via agli scontri nell’imponente corteo che ha assediato le casematte del potere politico. A questo punto, se un interrogativo avrebbe avuto piena legittimità di esistere, questo riguardava, in realtà, l’identità dei mandanti dei tre parlamentari. Chi li ha reclutati nelle liste dell’Italia dei valori e del Pd?
Ecco che ancora una volta la legenda autoconsolatoria dell’infiltrato è servita alla sinistra parlamentare ed ai soliti Repubblica, il Fatto quotidiano, Roberto Saviano per esorcizzare l’ennesima sconfitta ed esportare sui giovani della piazza la propria inconsistenza politica. Per la cronaca il misterioso personaggio con il piumone color crema che numerose sequenze fotografiche riproducevano in prima fila durante gli scontri, compreso l’episodio dell’aggressione ad un finanziere, è un liceale minorenne, S. M., attivista politico ma non appartenente al collettivo studentesco “Senza tregua”, come era stato detto in un primo momento. La notizia è stata smentita con un comunicato dallo stesso collettivo, che però con questa precisazione “non ha inteso prendere le distanze dal giovane”. Altre fonti affermano che il ragazzo sia anche un frequentatore della curva romanista, vicino al gruppo dei Fedayn. Di certo non è figlio di un ex brigatista come la Stampa ha scritto stamani. Informazione errata rilanciata nel corso della giornata dai siti di altri quotidiani. Il padre del giovane avrebbe avuto alcuni precedenti giudiziari legati all’appartenenza ad un’area limitrofa a quella dell’Autonomia. Un passato comune a diverse migliaia di genitori romani. Il manganello e le manette che aveva in mano in una foto erano trofei raccolti nel furgone abbandonato dalla Finanza poco prima. A parlar chiaro è anche la composizione sociale dei fermati, 45 in tutto nella serata di martedì, scesi a 23 dopo la riconsegna dei minorenni alle famiglie e il rilascio di quelli rastrellati a caso. In gran parte giovanissimi, molti nati nel 1992. Tutti incensurati. Nessun professionista della violenza, come hanno tuonato in coro esponenti della maggioranza di governo, il sindaco Alemanno, e a ruota anche parlamentari dell’opposizione. Emblema, in realtà, di quella generazione precaria di cui tutti si riempiono la bocca senza mai volerne veramente comprendere i problemi, le rivendicazioni, la rabbia che esprimono. Che siano studenti o ragazzi cresciuti negli spalti degli stadi, la differenza nei comportamenti imprevedibili e gli slogan fuori dai codici classici delle culture della sinistra estrema, non cambia. Se dei paragoni storici possono essere richiamati, la giornata romana di martedì 14 dicembre ricorda un po’ i giovani con le magliette a strisce del luglio ’60, quelli che poco dopo furono protagonisti anche della contestazione di piazza Statuto, a Torino, nel 1961, censurata dai vertici del Pci e della Cgil dell’epoca ma in realtà annuncio di un nuovo corpo sociale ribelle che scosse il Paese dal ’68 in poi. Qualcosa di nuovo si muove, dunque, ma senza codici politici, senza nemmeno la memoria dei movimenti passati, figuriamoci degli anni 70, spettro che angoscia solo il mondo separato delle istituzioni. L’effetto calamita ha attratto questi giovani che hanno approfittato di un appuntamento come quello del voto di sfiducia al governo, anche se la loro rabbia, la voglia di fargliela pagare va molto oltre le dinamiche parlamentari. Tutto ciò interroga la sinistra a partire dal fatto che questi giovani sono politicamente orfani e quindi rischiano di esser soli di fronte alla macchina repressiva dello Stato. I 23 fermati compariranno stamani in tribunale a piazzale Clodio dove si svolgeranno i riti per direttissima. L’imputazione contestata dai pm Pietro Saviotti e Silvia Santucci è quella di resistenza, aggravata dalle armi improprie e dal numero dei partecipanti, e l’oltraggio a pubblico ufficiale. Reati che prevedono un tetto di pena massimo che può raggiungere i 15 anni di reclusione. Ad alcuni di loro verrà contestato anche il reato di lesioni. Diversi fermati provengono da altre città, come Genova e Bologna. Un presidio di solidarietà è stato indetto stamattina, alle 10, davanti al tribunale.

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Governo e parlamento come la fortezza Bastiani. Per Roberto Maroni “centri sociali dietro gli scontri”
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La produzione è ovunque, anche le rivolte urbane
Fischia il vento e soffia il Melteni
Grecia, scioperi e proteste contro la politica dei sacrifici
Ma dove vuole portarci Saviano?
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra

Genova 2001, quel passo in più
Sgommiamo Diliberto dalla scena politica

SCONTRI 14 DICEMBRE A ROMA: DILIBERTO, VIOLENZA OPERA DI INFILTRATI

SCONTRI ROMA: DILIBERTO, VIOLENZA OPERA INFILTRATI VANNO INDIVIDUATI, NON CONFONDERE PROTESTA STUDENTI CON VIOLENTI (ANSA) – ROMA, 15 DIC –

«Se c’erano infiltrati, come pensiamo c’erano, è necessario che vengano individuati. Filmati, foto e testimonianze sugli scontri di ieri a Roma c’è ne sono a iosa. Chi di dovere, ministro dell’Interno in primis, analizzi tutto il materiale e indaghi. Un Paese civile non può assolutamente permettersi di non farlo. Le lotte pacifiche degli studenti, che da mesi manifestano in tutte le piazze, non possono in nessun modo essere confuse e oscurate da atti di violenza inaccettabili». È quanto afferma Oliviero Diliberto, portavoce della Federazione della sinistra. (ANSA). DEL 15-DIC-10 12:29 NNN

FINE DISPACCIO

Comunicato del collettivo studentesco Senza tregua

Il ragazzo del liceo Caetani, fermato in queste ore non è uno studente di Senza Tregua.
Lo affermiamo non per prenderne le distanze, ma per dovere di cronaca e rispetto nei confronti dello studente.
Ribadiamo in ogni caso la nostra solidarietà ad un ragazzo di appena sedici anni, che si è trovato suo malgrado al centro di un caso mediatico in cui giornali e televisioni non hanno fatto altro che speculare sulla sua situazione, senza alcun rispetto.
Purtroppo la volontà dei partiti politici e dei media in questo momento è di negare l’importanza della manifestazione del 14 dicembre e per oscurarne la portata, si utilizza ogni mezzo, senza alcun rispetto neanche per un ragazzo minorenne.
Non si può trasformare una grande manifestazione politica in una questione di ordine pubblico, non si può ridurre quanto accaduto nella giornata del 14 dicembre alla dinamica di presunti gruppi estremisti ed infiltrati nei cortei. Questa logica la conosciamo bene e la rigettiamo.
Non ci sono studenti buoni e studenti cattivi, c’è un movimento responsabile e razionale che punta a bloccare questa riforma, mandare a casa questo governo, lottare contro un sistema che sfrutta ed opprime lavoratori e studenti.
Nelle agenzie e negli articoli di giornale siamo definiti movimento di “estrema sinistra”. È una definizione che non riconosciamo, come non riconosciamo l’idea che chiunque si opponga a questo stato di cose sia etichettato come, antagonista ed estremista; definizioni vuote di significato, intrise solo di interessi economici e politici da difendere.
Se per voi lottare ogni giorno per una scuola ed un’università pubblica, accessibile a tutti, per la sicurezza degli edifici scolastici, per i diritti degli studenti è da estremisti, allora si, siamo estremisti. Se per voi difendere i diritti dei lavoratori, contestare sindacalisti asserviti alla volontà dei padroni è da estremisti, allora si, siamo estremisti. Ma viene da chiederci dove sono finiti tutti gli altri? Quei tanti che hanno lottato negli anni ‘70 per un mondo migliore, e oggi pensano di esaurire il loro compito guardando annozero e ballarò, magari dall’alto di qualche posizione di riguardo raggiunta. Si chiedano loro, cosa erano e cosa sono diventati.
“Senza Tregua” il nostro slogan, citato impropriamente dai giornali e dalle agenzie stampa, è tratto da un libro di un partigiano, Giovanni Pesce, che nel consegnare idealmente ai giovani il patrimonio della resistenza, afferma che è proprio ai giovani che spetta il compito di proseguire sulla strada della resistenza e ampliare le sue conquiste.
Per questo la nostra lotta è senza tregua.
Solidali con S.
Non un passo indietro.

16 dicembre 2010