“Nei secoli fedele”, il docu-film sulla morte di Giuseppe Uva

Nel film “Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva” (di Adriano Chiarelli, regia di Francesco Menghini. Produzione Soulcrime), si racconta la morte violenta di Giuseppe Uva, un quarantaduenne di Varese deceduto in seguito a un brutale arresto. Dopo aver trascorso tre ore in una caserma dell’Arma, in balia di otto tra poliziotti e carabinieri, Giuseppe Uva viene trasportato in ospedale in condizioni critiche.
Nel volgere della notte l’uomo troverà la morte, le cui cause tuttavia restano tutte da chiarire. L’unico processo celebrato finora ha riguardato l’ipotesi di decesso per colpe mediche, ma è stato dimostrato – con sentenza di primo grado – che i medici che hanno tenuto in cura Uva dopo l’arresto non hanno alcuna colpa.
Dopo un supplemento di perizia, sempre disposto dal giudice, è stato scientificamente provato che le cause del decesso coincidono con un complesso di fattori esterni che hanno scatenato un collasso cardiaco: stato di ebbrezza, stress emotivo, lesioni. Chi lo ha ridotto così?
Allo stato attuale nessun nuovo processo è in corso, ma il giudice estensore della sentenza ha disposto ulteriori indagini sull’arco di tempo che la vittima ha trascorso in caserma e sulle reali cause di morte.
In quelle ore è racchiusa la verità.

Da Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, da Aldo Bianzino a Giuseppe Uva, la lunga lista dei morti ammazzati dalle forze dell’ordine dopo brutali pestaggi

Paolo Persichetti
Liberazione 21 marzo 2010

E’ stato rincorso e poi picchiato prima di essere caricato su una macchina delle forze dell’ordine. Giunto in caserma è stato pestato di nuovo. Un testimone racconta di un lasso di tempo lunghissimo nel quale si sentivano distintamente le urla del malcapitato provenire da un’altra stanza. Stiamo parlando del fermo di Giuseppe Uva morto il 14 giugno 2008 dopo le percosse subite in una stazione dei carabinieri e il ricovero coatto in una struttura psichiatrica. La vicenda è stata resa nota ieri da Luigi Manconi dopo che l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha seguito il caso di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, ha assunto il patrocinio legale a nome della famiglia. Giuseppe Uva aveva 43 anni e la sera del fermo aveva fatto le ore piccole. Alle tre di notte forse era un po’ brillo mentre si aggirava per le strade di Varese a fare “bischerate”, come in Amici miei. Ricordate il film di Mario Monicelli, girato nel 1975, dove cinque amici ormai cinquantenni si divertono a organizzare scherzi goliardici in giro per la città? Una delle ultime pellicole della commedia all’italiana dove si descriveva un paese ancora in grado di ridere di sé. Una risata piena e disperata, consapevole di una condizione umana ormai persa in un mondo senza grandi prospettive. Le «zingarate» dell’allegra brigata erano una fuga per non morire di tristezza. Un tentativo d’annegare la disillusione in un riso intriso di malinconia. In quell’Italia lì si poteva finire in caserma o in carcere per tante ragioni, spesso politiche, ma non ancora per ridere. Non erano tempi terribili e cupi come quelli dell’Italia attuale, dove un ragazzo che rientra da un concerto, com’è accaduto a Federico Aldovrandi, viene fermato sul ciglio del marciapiede di una strada di Ferrara e massacrato da alcuni poliziotti. Dove un artigiano mite che lavorava il legno come Aldo Bianzino, uno che viveva nel suo casolare umbro senza dare disturbo a nessuno, viene arrestato perché nel suo orto crescevano delle piante di marijuana che consumava solo per sé. Portato in carcere lo ritroveranno morto in cella. L’autopsia segnalerà la presenza di traumi interni, lacerazioni del fegato e degli altri organi dell’addome, manifesta conseguenza di percosse subite. A Riccardo Asman non è andata meglio. Affetto da problemi psichiatrici, mostra segni di forte euforia spogliandosi e tirando petardi dalla finestra di casa, da dove fuoriesce anche musica ad alto volume. L’intervento del 113 finisce in tragedia. L’uomo muore soffocato con le caviglie legate da fil di ferro, le pareti dell’abitazione sporche di sangue e il corpo devastato da brutali percosse praticate con oggetti contundenti. Stefano Cucchi invece è morto disidratato, segnalano i referti, nell’indifferenza e l’incuria di un ospedale penitenziario. Il suo corpo era martoriato da lesioni, fratture ed ematomi. Traumi subiti dopo il suo fermo mentre era nelle mani di chi doveva assicurarne la custodia.
Giuseppe Uva pare avesse spostato delle transenne in mezzo alla via. Non aveva commesso reati, al massimo una violazione al codice della strada. Per questa bischerata è morto. Il suo decesso ricorda quello di Francesco Mastrogiovanni, il maestro anarchico di Castelnuovo Cilento anche lui fermato per futili motivi e condotto nell’ospedale di Vallo della Lucania dove è deceduto durante un Tso. L’autopsia ha rivelato la presenza di un edema polmonare. Mastrogiovanni era rimasto legato per giorni su un letto di contenzione, lacci ai polsi, contro ogni regola. Qualcosa del genere è accaduta anche a Giuseppe Casu, l’ambulante cagliaritano fermato e poi ricoverato a forza perché non voleva lasciare la sua bancarella vicino al municipio. Sette giorni di letto di contenzione, farmaci somministrati contemporaneamente e in dosi elevate l’hanno ucciso. Queste morti hanno tutte un filo comune: colpiscono piccoli consumatori di droghe, persone con disagi psichiatrici o individui percepiti dalla comunità come “diversi”, troppo originali. Insomma segnalano un problema d’intolleranza e disprezzo verso popolazioni stigmatizzate, fasce considerate immeritevoli di rispetto e diritti. Sollevano poi l’irrisolto problema degli apparati di polizia pervasi da culture sopraffattrici, specchio di un’epoca dove la spoliticizzazione ha aumentato a dismisura il grado di violenza che pervade i rapporti sociali. Infine sollevano un paradosso: una legalità eretta a tabù che si rovescia nel suo esatto contrario.

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Quelle zone d’eccezione dove la vita perde valore
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Per saperne di più sul caso Uva
Caso Giuseppe Uva: dopo tre anni finalmente la superperizia
Morte di Uva, la telefonata che accusa i carabinieri
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Le sevizie contro Giuseppe Uva: parla il legale Fabio Anselmo
La vendetta dei carabinieri contro Giuseppe Uva: “Il racconto choc dell’amico”

Caso Giuseppe Uva, dopo tre anni finalmente la superperizia

Parla la sorella di Giuseppe Uva: «Ho visto il corpo di mio fratello, aveva le costole rotte, perdeva sangue dal retto, gli avevano messo un pannolone, aveva ematomi ovunque.

Checchino Antonini

Liberazione 7 luglio 2011
Si chiama superperizia il colpo di scena nel caso Uva, tre anni dopo la morte del gruista di 43 anni per cause da chiarire dopo essere transitato in una caserma varesina per approdare al pronto soccorso cittadino. La versione ufficiale, di una morte per allergia ai farmaci, non ha mai persuaso sua sorella Lucia che si batte da allora per riesumare il cadavere e capire, finalmente, cosa accadde quella notte. A seguirla c’è Fabio Anselmo, lo stesso legale delle famiglie di Aldrovandi, Cucchi, Bianzino. E l’altroieri, a Varese, hanno giurato i tre periti a cui «finalmente», spiega Anselmo a Liberazione, è stata data la possibilità di compiere ogni esame ritengano opportuno. Dunque quella riesumazione chiesta decine di volte e finora sempre ignorata da Lucia Uva e pure le analisi sulle macchie ematiche sul cavallo dei calzoni.

Autolesionismo incredibile
Suo fratello è morto il 14 giugno 2008, a Varese, dopo essere stato fermato da una pattuglia dei carabinieri per «ubriachezza molesta». Che però è un reato per il quale non è previsto il fermo e per il quale anche il Tso, che giustifica il suo ricovero, appare incomprensibile a chi racconta questa storia che, invece, comincia con una notte in caserma che termina con una versione ufficiale che narra di traumi da autolesionismo. «Perché carabinieri e poliziotti non lo hanno saputo proteggere da se stesso?». Sono tre anni che Lucia Uva formula dove può questa e altre domande. Malapolizia e malasanità, a volte, si mescolano come la carne e la metaldeide nelle polpette avvelenate: impossibile separare la verità dalla menzogna.
Tre anni dopo la storia di Giuseppe sembrava almeno capace di bucare lo schermo dopo un cenno sul recente rapporto di Amnesty International. Doveva andare in onda sulle Iene ma all’ultimo minuto, tre settimane fa, il servizio – «troppo forte» – è saltato. Chi vive alle prese con storie del genere vive appeso alla possibilità che si accenda un riflettore, che qualcuno ne scriva. E che tutto ciò produca una svolta nella battaglia per verità e giustizia. Perché è questo che Lucia vuole e in questo non solo è sorella di Ilaria Cucchi, Patrizia Aldrovandi e Maria Ciuffi, la madre di Stefano Lonzi, una storia archiviata con ostinazione. Ma è sorella e compagna di chi vive sull’Isola dei cassintegrati, di chi aveva occupato l’Eutelia, di chiunque si arrampichi su un tetto.

Il carabiniere lo conosceva
Lucia è un’artigiana tessile. Lavora spesso all’estero. Pino spostava le gru. Anche l’ultima sera. Stacca alle sei si fa la doccia e va a cena a casa dei genitori di Alberto. Alberto, Pino e la ragazza di Alberto vivevano insieme. C’era la partita, quando finisce vanno al bar di Via Dandolo. Tornando a casa si imbattono nelle transenne che sarebbero servite per la Festa delle Ciliegie. Così decidono di chiudere la strada in anticipo per fare una goliardata innocua. Erano quasi le tre. Arriva una pattuglia di carabinieri che girava in zona, un militare lo riconosce, lo chiama per nome e cognome, iniziano a discutere. Poi intervengono in rinforzo due pattuglie di polizia che portano i due dai carabinieri in Via Saffi. «Un’ora dopo Alberto sente gridare Pino. Chiede invano il perché poi chiama il 118, suo padre e l’avvocato. Per questo s’è salvato. «Pino lo portiamo a casa noi», gli dissero i carabinieri che “tranquillizzano” il 118: «Sono solo due ubriachi», salvo richiamare l’ambulanza alle 5.30. Mezz’ora dopo è al pronto soccorso con il Tso arrivando con un corteo di pantere e gazzelle.
Pino conosce il vigilante: «Diglielo tu che sono allergico alle punture. Da 13 anni si curava un’allergia ai pollini, era cliente fisso dell’ospedale. E’ per quello che mi incazzo ancora di più – continua Lucia – ci andava una volta al mese, bastava schiacciare un bottone…».
Invece lo riempiono di calmanti bucandolo almeno quattro-cinque volte. Pino si assopisce, i carabinieri si alternano al capezzale. «Dalle 7.30 alle 9.30 non sappiamo dov’è stato parcheggiato. Le sorelle lo trovano che russa in reparto. Viene detto loro che alle tre gli potranno parlare. Un medico del pronto soccorso chiama per chiedere se facesse uso di stupefacenti, un carabiniere insinua al fratello di Pino che era uno spacciatore e che era “fatto”. Nelle analisi ci sarà traccia solo dei narcotici che gli erano stati iniettati. Alle 10.10 le sorelle erano nello studio del medico che viene chiamato per un’emergenza. Alle 11 torna e comunica la morte di Pino.
Lucia, appena partita per le vacanze, rientra di corsa: alle 15.30 è nell’obitorio di Varese. Il naso, fuori dal lenzuolo, presenta una botta visibile. «Autolesionismo», si sente dire, «sbatteva sul tavolo, per terra, era furioso. Ma perché ha il pannolone?». Lucia fa uscire tutti, glielo toglie, scopre la costola sollevata, le dicono che è successo per rianimarlo ma lei pensa che gli si siano buttati addosso, vede segni anche sotto le piante dei piedi, ha la forza di guardare e vede che perde sangue dal retto. «Me lo sono toccato tutto, avevo la macchinetta fotografica perché ero partita per le vacanze e ho ripreso tutto: i bernoccoli sulla nuca, un ginocchio fuori posto, il collo del piede gonfio». Gli slip sono spariti. Si sente dire: «Si sa che in questi momenti si lasciano andare». L’autopsia è piena di sviste e di errori, perfino nei dati biografici. Il 30 settembre 2008, dopo un lungo esposto di Lucia Uva, si apre un fascicolo sulla notte in caserma ma da allora è ancora senza indagati.

Alberto mai sentito dal pm
L’unico processo, per lungo tempo, sarà contro due medici, quello del pronto soccorso e lo psichiatra del reparto. Il gup rinvia a giudizio solo lo psichiatra ma dice che la perizia è troppo generica e indica la responsabilità di un altro medico per il quale si aprirà un secondo processo il 14 luglio. Anche il procuratore generale, opponendosi all’assoluzione, ammette che ci voleva maggiore attenzione. La parte civile però crede che la causa di morte sia il politraumatismo di quella notte non la sinergia tra sedativi. Il pm, che non ha mai sentito Alberto, dall’inizio di questa storia, appare particolarmente ostile alla famiglia di Uva, cacciata dall’aula prima ancora che il giudice entrasse. Ha perfino insinuato che Lucia avesse manomesso il cadavere. E, tra i misteri di quella notte, restano le dichiarazioni degli amici di Pino che aveva raccontato loro di avere avuto una relazione con la moglie di un carabiniere.

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La telefonata che accusa i carabinieri
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Cucchi, una settimana d’agonia, picchiato e lasciato morire
Ancora un episodio di violenza e tortura in una caserma dei carabinieri
Le sevizie contro Giuseppe Uva: parla il legale Fabio Anselmo

Violenze nel carcere minorile di Lecce dietro la morte di Carlo Saturno

Crimini burocratici. Rosario Priore, dirigente degli Istituti di pena per minori, aveva ignorato la relazione, inviata dall’ex direttore dell’Ipm di Lecce, sulle violenze inflitte ai minorenni da alcuni componenti della polizia penitenziaria che lavoravano nell’Istituto minorile. Carlo Saturno era una delle vittime di questi soprusi. Aveva avuto il coraggio di testimoniare al processo. L’inchiesta per “istigazione al suicidio” avviata dalla procura dopo la sua morte in una cella di isolamento del carcere di Bari mira ad accertare se vi siano state pressioni, minacce, ricatti o rappresaglie per indurlo a ritrattare

Paolo Persichetti
Liberazione 10 aprile 2011

Se Carlo Saturno, il detenuto ventiseienne trovato morto in una cella d’isolamento del carcere di Bari il 30 marzo scorso, si è suicidato ce lo diranno abbastanza presto i risultati dall’autopsia. In ogni caso l’inchiesta aperta dalla procura non mette in discussione, per il momento, la dinamica ufficiale della morte. L’attenzione degli inquirenti è rivolta alle cause scatenanti, al movente che avrebbe provocato il gesto disperato. Il reato ipotizzato, infatti, è quello di “istigazione all’omicidio”. Dietro la breve storia di Carlo s’intravede una lunga scia di violenze e pestaggi, di denunce lungamente inascoltate e rancori per aver poi raccontato nel corso di una inchiesta gli abusi e le percosse.
Dietro questo tipo di tragedie ci sono spesso dei crimini burocratici, invisibili per definizione, ma pesanti quanto macigni. La storia di Carlo, per esempio, incrocia nomi importanti che hanno fatto le cronache di questo Paese, come quello di Rosario Priore, giudice istruttore che dalla seconda metà degli anni 70 fino a tutto il decennio 90, con l’inchiesta sull’aereo di linea Itavia abbattuto da forze Nato nei pressi di Ustica, ha seguito le maggiori istruttorie sui fatti d’eversione, dal rapimento Moro alla colonna romana dell Br, fino all’attentato al Papa.
Carlo era rinchiuso nell’Istituto per minori di Lecce quando, «dopo anni di fibrillazioni costanti e ripetuti periodi di grandi difficoltà nel trovare una dirigenza stabile», situazione che provocava il continuo succedersi di nomine nei ruoli guida dell’Istituto, sia del direttore che del comandante della polizia penitenziaria, si arrivò finalmente a scoperchiare il marcio che avvelenava la vita di chi era rinchiuso o lavorava in quel posto.
«Avevo raccolto la richiesta di aiuto da parte di un medico e di un assistente sociale in servizio presso il carcere», ebbe modo di spiegare nel 2007 Alberto Maritati, allora sottosegretario alla Giustizia. «I due – continua sempre Maritati – si sono rivolti alla mia segreteria e lamentavano di non avere trovato ascolto da nessun’altra parte. A quel punto ho inviato la denuncia alla procura di Lecce e una copia al dirigente della sezione penitenziaria del ministero della Giustizia».
A contattarlo era stato Roberto di Giorgia, medico del carcere minorile che aveva denunciato le violenze e gli abusi. Eppure molto prima che Maritati raccogliesse le denunce, il dipartimento che si occupa della Giustizia minorile presso il ministero della Giustizia, aveva ricevuto numerosi esposti. Capo di questa struttura era proprio Rosario Priore che si distinse per aver ignorato la missiva del 29 giugno 2005, inviata dall’ex direttore dell’Ipm di Lecce, Francesco Pallara, nella quale si denunciavano almeno una dozzina di poliziotti penitenziari per le violenze e gli abusi praticati sui minori. Nomi finiti poi nell’inchiesta e nel processo ora in corso ma destinato a cadere in prescrizione prima della pronuncia finale della corte. Imputati di quegli orribili delitti sono Gianfranco Verri (ritenuto nell’inchiesta uno degli artefici materiali delle violenze, comandante della polizia penitenziaria del minorile, chiuso definitivamente dopo l’inchiesta), Giovanni Leuzzi, vice comandante, Ettore Delli Noci, Vincenzo Pulimeno, Alfredo De Matteis, Emanuele Croce, Antonio Giovanni Leo, Fernando Musca e Fabrizio Giorgi, agenti di polizia penitenziaria. Tutti incriminati per fatti avvenuti tra il 2003 e il 2005.
Gli abusi contro i giovani si reggevano su un sistema di punizione che Maritati racconta in questo modo: «i ragazzi venivano costretti dalle guardie a dormire nudi per diverse notti su brande senza materasso, in un sistema repressivo ideato dagli stessi responsabili del centro». Nel carcere regnava un clima di paura. Chi esprimeva dissenso o provava a ribellarsi veniva minacciato di trasferimento o di vessazioni. Alla fine i 20 ragazzi rinchiusi nel centro vennero trasferiti all’istituto di Fornelli di Bari. Carlo era tra questi ma ebbe il coraggio di costituirsi parte civile e testimoniare le violenze subite, i colpi violenti sul volto che gli provocarono la rottura del timpano. Un gesto che, una volta rientrato in carcere per fatti nuovi a causa delle sue problematiche esistenziali, gli è costato caro. La procura sta indagando sulla presenza di eventuali pressioni esercitate nei confronti del giovane affinché ritrattasse.
Don Raffaele, cappellano del carcere di Lecce, segue da molto vicino questa vicenda anche se non ha mai conosciuto Carlo direttamente ma solo per il tramite di alcuni giovani di un’associazione che fa volontariato negli istituti di pena. Proprio ieri  insieme a questi giovani ha recuperato un video di 15 minuti girato nel minorile di Lecce nel quale appare anche Carlo. «Mi auguro – ci dice al telefono – che dal punto di vista dell’amministrazione penitenziaria ci sia la massima collaborazione per chiarire tutti i punti oscuri della vicenda». Don Raffaele lancia un appello: «Se ci sono dei detenuti che sanno qualcosa, lo dicano, e se ci sono dei poliziotti penitenziari che hanno visto, parlino, dicano quello che è successo perché la verità fa bene a tutti, anche quando fa male. Fa bene al detenuto e fa bene anche alla polizia penitenziaria. Mi auguro che non s ci siano chiusure di tipo corporativo soprattutto da parte dei sindacati di polizia penitenziaria».

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Cronache carcerarie

Una banda armata chiamata polizia

Ciò che legittima il preteso monopolio dello Stato nel ricorso a mezzi coercitivi (vedi la nota definizione di Max Weber) e lo distingue da una qualunque banda, cosca, ‘ndrina, clan, branco è il principio di autolimitazione e automoderazione. Più l’uso della forza è normato, più la violenza è regolamentata, ridotta ai minimi termini, ai momenti più estremi, maggiore è il grado di legittimazione che la forza pubblica acquisisce. Ma nel momento in cui la violenza istituzionale abbandona questi requisiti, lo Stato ed i suoi appparati tornano ad essere una banda come le altre, non la banda legittima ma soltanto la banda più forte… finché dura.


Libri – autorecensione. Rabbia, odio, spirito di corpo. Nel libro di Carlo Bonini, Acab, Einaudi, i duri delle forze dell’ordine raccontati a partire dalle loro discussioni segrete sul Web. Quello che i celerini non dicono ma fanno

di Carlo Bonini
Repubblica
16 gennaio 2009

“Le violenze alla Diaz dopo il G8 di Genova? Non mi vergogno di nulla. L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino”.
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“Cari colleghi, riteniamo giusto rammentare, per senso di responsabilità, che DoppiaVela è uno spazio per i poliziotti messo a disposizione dalla polizia di Stato. Le critiche, le lamentele, le segnalazioni di disservizi, anche se esternate in modo aspro ma corretto, fanno parte delle normali dinamiche di dialogo tra l’amministrazione centrale e i singoli dipendenti. Trovano dunque una sede naturale all’interno del portale che non può, però, garantire spazi che la normativa vigente attribuisce ad altri soggettii”.
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Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po’ ingessato – DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio – e dal post politicamente corretto che metteva sull’avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po’ guardoni e un po’ scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l’illeggibile o scrivendo l’inconfessabile. Divorarsi a vicenda – sì, proprio come scorpioni in bottiglia – soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia. Finita sulle prime pagine dei giornali con sei rotondi anni di ritardo, la “macelleria messicana” del dottor Fournier era stato un potente lassativo. Il forum era impazzito. Genova, troppo lontana e spaventosa per sembrare ancora vera, era diventata solo l’occasione per un outing collettivo. La prova, ammesso ce ne fosse bisogno, che il tempo era stato una pessima medicina. Che odio chiama odio.
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G. DA ROMA Ecco che spunta fuori un nostro bel funzionario, che da buon samaritano riaccende fiamme polemiche e propositi dinamitardi. Che, sicuramente, nelle prossime manifestazioni gli antiglobal metteranno in atto perché più autorizzati che mai. Ma quando la finiremo di fare sempre queste mere figure e inizieremo a tenere la bocca chiusa?
Per Aspera ad astra.
N. DA ANZIO Fournier poteva e doveva risparmiarsi la frase a effetto, “macelleria messicana”. Adesso, per i colleghi ci sarà la solita Santa Inquisizione mediatico-politica.
Unus sed leo.
I. DA GENOVA Ma questo Fournier dov’era durante gli scontri? Ancora non l’ho capito. Era fra i manifestanti? Ha respirato lacrimogeni? O aveva una mascherina? Secondo me si è messo a cantare perché non gli hanno dato nessuna promozione.
P. DA BARI È ancora in polizia o ha chiesto di passare alla politica?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
D. DA LA SPEZIA Colleghi, basta di parlare di questo soggetto. È penoso e noi lo stiamo aiutando nella sua viscida campagna elettorale.
A. DA CAGLIARI Genova, presente con orgoglio e senza nulla da nascondere. Posso testimoniare di Bolzaneto! Non si tratta di essere grandi e non è veramente falsa modestia è solo servizio! Ero al VI reparto mobile di Genova.
L. DA SALUZZO Io c’ero. VI reparto mobile. Tanto orgoglio, tanta rabbia!
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(…)
C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente:
I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?
I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?
I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?
La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?
Su queste cose non ci può essere ambiguità!!!
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
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E bravo il nostro C., pensò Drago. Stai a vedere che ora gli vanno addosso i padovani. Se ne stanno zitti da troppo tempo. Ma è più forte di loro. Se c’è da far vedere chi ce l’ha più duro, loro non sanno resistere. Rinfrescò la chat. Solo per vincere una scommessa troppo facile.
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E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande:
“I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?”
No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!
“I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?”
No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l’attaccamento all’igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!
“I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?”
No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l’unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un “povero illuso pacifista” o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c’erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!
“La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?” No. Ma come si dice a Roma, sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un’aula all’imbecille!
Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l’aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno.
Once in the Celere, always in the Celere.
C. DA ROMA Quindi, per te, avere al fianco un cretino non è un problema?
Lo dico serenamente: due che tengono e uno che mena non mi sembra da eroi. E poi ti rispondo da romano: “sti cazzi un par di palle”. Tu non lavori nel Cile di Pinochet e non ti pagano con lo stipendio in pesos messicani (forse è di cattivo gusto visto il titolo del thread di discussione, “macelleria messicana”, e me ne scuso con quanti si sentono feriti). Il giuramento che hai prestato parla di far rispettare le leggi, non di fartene di tue. In quanto al rischio della “figura”, mi pare che l’abbiamo fatta e basta. E le responsabilità, lo dico da mesi, non sono di chi stava in strada, ma di chi ha permesso che si arrivasse a questo. Siamo stati mandati lì, sapendo quello che ci avrebbero fatto e sapendo come avremmo reagito. Ti piace questo? Ti piace essere una pedina e poi pagarti l’avvocato? Io questo vorrei evitare. Vorrei capire come si può evitare che un collega mandato a fare il proprio dovere si ritrovi indagato in due processi e, dopo la Maddalena, forse anche nel terzo. Scusate la lunghezza.
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
P. DA BARI Scusate, il Sig. Dott. Funz. Uff. Fournier quando lo faranno santo?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
E. DA FIUMICINO Io penso che questi degni eredi di quei cattivi maestri che dicevano in piazza “Uccidere uno sbirro non è reato” ci considererebbero picchiatori fascisti anche se andassimo in servizio di Op vestiti di rosa e con un mazzo di fiori in mano.
B. DA PADOVA Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa!
L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.
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Violenza di Stato non suona nuova
G8 massacro alla Diaz, per i giudici d’appello il blitz fu ordinato da Ge Gennaro

Manicomi criminali e carceri: sovraffollamento e violenze

Il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa

Paolo Persichetti
Liberazione 21 aprile 2010

Lo chiamano «ergastolo bianco». Colpisce «persone che non devono scontare una pena né essere rieducate», come spiega Alessando Margara, ex magistrato e capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria dal 1997 al 1999. «Si tratta di individui che sono stati prosciolti perché malati e quindi devono essere curati», per questo finiscono negli ospedali psichiatrici giudiziari, gli Opg. Ex “manicomi criminali” sopravvissuti alla riforma Basaglia varata trentadue anni fa.
In Italia ne esistono ancora sei: quello di Aversa (in provincia di Caserta), Napoli sant’Eframo, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Malgrado il decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 1° aprile 2008 ne disponga la chiusura, la loro fine è ancora lontana. Attualmente vi si trovano rinchiusi 1.535 persone, tra cui 102 donne, contro una capienza regolamentare di 1.322 posti. Secondo i dati, aggiornati al 31 marzo, forniti dall’amministrazione penitenziaria, la quasi totalità dei presenti, 1.305, non è composta da detenuti in attesa di giudizio né da condannati in via definitiva ma da «internati».

Che cosa è un internato?

Non è un detenuto e nemmeno un condannato, ma una persona ritenuta «pericolosa socialmente». Nei suoi confronti il giudice dispone una misura di sicurezza che, nei casi più gravi, può arrivare all’internamento, «che si protrae fino a quando il magistrato di sorveglianza ritiene che la persona sia pericolosa», sottolinea Luciano Eusebi, docente di Diritto penale all’università Cattolica di Piacenza. Ma avviene lo stesso anche quando l’internato non ha nessuno che possa prendersi cura di lui. L’internamento può essere prorogato all’infinito, lo decide sempre il magistrato di sorveglianza in base alle valutazioni mediche. Per questo lo chiamano «ergastolo bianco». Oltre i 1.735 presenti negli Opg, ci sono anche i 484 internati rinchiusi nelle cosiddette “Case lavoro” o Case di custodia e cura. Si tratta di persone che stanno scontando una «pena accessoria».

Che cosa è una pena accessoria?
Una punizione supplementare che viene scontata dopo aver terminato la condanna penale. Per le persone etichettate dalla magistratura come «delinquenti abituali o professionali», una volta usciti dal carcere subentra la misura di prevenzione: tra queste la più estrema è l’internamento in una Casa lavoro, di fatto un prolungamento della reclusione in una struttura che non si differenzia in nulla da un normale carcere, anche perché il lavoro non esiste e l’internato resta chiuso in cella.
L’illegittimità di questo doppio circuito penale è denunciata da tempo da molti operatori del settore e dalle associazioni di volontariato. Prima che andassero di moda il viola, il giustizialismo e il populismo, la critica alle istituzioni totali era anche uno dei caratteri distintivi dei comunisti e della sinistra.
L’ultima denuncia arriva dal rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa, redatto dopo un’ispezione effettuata nel settembre 2008. Nelle 84 pagine del testo si segnalano le pessime condizioni in cui versano gli Ospedali psichiatrici giudiziari, ma si riferisce anche di una diffuso ricorso alle percosse da parte delle forze dell’ordine nei confronti delle persone fermate o arrestate, oltre a rilevare il grave stato di sovraffollamento delle prigioni.

L’Opg di Aversa
Sotto accusa, in particolare, la situazione in cui versa l’Ospedale psichiatrico giudiziario Filippo Saporito di Aversa. Una struttura scadente. La delegazione ha riscontrato che alcuni pazienti erano stati trattenuti più a lungo di quanto non lo richiedessero le loro condizioni e mentre erano mantenuti nell’Opg oltre lo scadere del termine previsto dall’ordine d’internamento. Le autorità italiane hanno risposto che la struttura è in corso di ristrutturazione e che la legge non prevede un limite per l’esecuzione di misure di sicurezza temporanee non detentive.
Per Dario Stefano Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone Campania, «Il giudizio del Cpt evidenzia le condizioni di inumanità e degrado che vivono gli internati dell’Opg di Aversa. Un problema che non deriva solo dalle condizioni di sovraffollamento ma dal meccanismo manicomiale in sé e dalle sue dinamiche di annullamento sociale del sofferente psichico».
Nel rapporto sono state evidenziate numerose situazioni di criticità: condizioni igieniche e di vivibilità minime, carenza di personale civile, assenza di attività di reinserimento sociale, insufficienza del livello di assistenza sanitaria, uso dei letti di contenzione. Solo pochi mesi fa è stato registrato il decesso di un internato morto per il proprio rigurgito e di un altro deceduto per tubercolosi.

Violenze delle Forze dell’ordine
Per quanto concerne il trattamento delle persone private di libertà da parte delle Forze dell’ordine, il rapporto riferisce che la delegazione del Comitato ha ricevuto un certo numero di denunce di presunti maltrattamenti fisici e/o di uso eccessivo della forza da parte di agenti della polizia e dei carabinieri e, in minor misura, da parte di agenti della Guardia di finanza, soprattutto nella zona del Bresciano. I presunti maltrattamenti consistono essenzialmente in pugni, calci o manganellate al momento dell’arresto e, in diversi casi, nel corso della permanenza in un centro di detenzione. In alcuni casi la delegazione ha potuto riscontrare l’esistenza di certificati medici attestanti i fatti denunciati. Il rapporto, inoltre, ha verificato il rispetto delle garanzie procedurali contro i maltrattamenti e constato la necessità di un’azione più incisiva in questo campo per rendere conformi la legge e la pratica alle norme stabilite dal Comitato. Nella loro risposta, le autorità italiane hanno indicato che sono state emanate delle direttive specifiche per prevenire e punire il comportamento indebitamente aggressivo delle Forze di polizia.

La situazione nei Cie
Inoltre, rileva sempre il rapporto, sono state esaminate le condizioni di detenzione presso il Centro di identificazione e di espulsione di Via Corelli a Milano. A questo proposito il Comitato raccomanda che siano garantiti agli immigrati irregolari che vi devono essere trattenuti maggiori e più ampie possibilità di attività. Sul fronte delle carceri, invece, la relazione pone l’accento sul sovraffollamento delle prigioni, sulla questione delle cure mediche in ambiente carcerario (la cui responsabilità è stata ora trasferita alle regioni) e sul trattamento dei detenuti sottoposti al regime di massima sicurezza (il “41-bis”).

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Cronache carcerarie
Detenzione domiciliare, tutto il potere ai giudici
Carceri, la truffa dei domiciliari: usciranno in pochi

Cucchi, il pestaggio provocò conseguenze mortali

I periti della famiglia: “La morte fu causata dai traumi alle vertebre”

11 aprile 2010

Senza i traumi subiti nelle ore precedenti al suo ingresso in carcere, Stefano Cucchi non sarebbe morto. Non lasciano dubbi le conclusioni a cui sono arrivati i periti della famiglia che parlano di decesso «addebitabile ad un quadro di edema polmonare acuto da insufficienza cardiaca in soggetto con bradicardia giunzionale intimamente correlata all’evento traumatico occorso ed alla immobilizzazione susseguente al trauma». I consulenti di parte civile smentiscono nettamente i risultati a cui sono giunti nei giorni scorsi gli esperti nominati dal pm che conduce le indagini. Per i periti della pubblica accusa, la morte di Cucchi sarebbe imputabile unicamente alle negligenze dei medici del Pertini. Per i professori Vittorio Fineschi, Giuseppe Guglielmi e Cristoforo Pomara, al contrario se è vero che «Cucchi era un ragazzo gracile e andava seguito, tuttavia senza traumi non sarebbe morto». Secondo i periti della famiglia del giovane deceduto il 22 ottobre del 2008 all’interno dell’ospedale Pertini, vi sarebbe un evidente nesso causale tra i traumi inferti sul suo corpo nelle ore dell’arresto e l’agonia mortale in ospedale. Lo dimostrerebbero le recentissime fratture a livello lombare e nel tratto sacro-coccigeo emerse dalle immagini radiologiche. Sulla frattura del corpo della terza vertebra lombare – hanno spiegato i consulenti – «non c’è traccia di formazione di callo osseo, cosa che dimostra che la frattura è di recente insorgenza». La tesi delle lesioni pregresse non trova quindi conferma. Non solo, ma l’analisi degli esami clinici ai quali il giovane venne sottoposto nei due ingressi al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli, il 16 e 17 ottobre 2009 – hanno sostenuto i periti – conferma la presenza di un «grave quadro di traumi contusivi al volto, al torace, all’addome, nella zona pelvica e sacrale, lì dove appare la frattura dell terza vertebra lombare (con cedimento e avvallamento dell’emisoma sinistro) e la frattura del corpo della prima vertebra sacrale con vasta area di infiltrato emorragico in corrispondenza dei muscoli lombari, del pavimento pelvico e della parete addominale a dimostrazione della violenza degli effetti lesivi». I Periti fanno capire che il pestaggio subito da Cucchi fu devastante, al punto che nelle ore successive al ricovero si scatenarono diverse emorragie interne che compromisero il funzionamento della vescica e poi l’arresto cardiaco. Il 17 ottobre 2009, a 24 ore dal trauma – sottolineano sempre i periti – «Cucchi presenta una vescica neurologica con necessità da parte del sanitario dell’ospedale Fatebenefratelli di posizionare un catetere (per il presunto danno alla radici nervose tipico delle evoluzioni di questi soggetti con frattura di L3 e prima coccigea)». Le conclusioni raggiunte dagli esperti della parte civile indicano in modo chiaro che l’inchiesta deve tornare a fare luce sui momenti iniziali del fermo e dell’arresto di Cucchi, quando su di lui vennero commesse brutali violenze da parte del personale che lo aveva in custodia.

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Cucchi, una settimana d’agonia, picchiato e lasciato morire
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Chi ha ucciso Bianzino?

Ancora un episodio di violenza e tortura in una caserma dei carabinieri

Da Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, da Aldo Bianzino a Giuseppe Uva, la lunga lista dei morti ammazzati dalle forze dell’ordine dopo brutali pestaggi

Paolo Persichetti
Liberazione 21 marzo 2010

E’ stato rincorso e poi picchiato prima di essere caricato su una macchina delle forze dell’ordine. Giunto in caserma è stato pestato di nuovo. Un testimone racconta di un lasso di tempo lunghissimo nel quale si sentivano distintamente le urla del malcapitato provenire da un’altra stanza. Stiamo parlando del fermo di Giuseppe Uva morto il 14 giugno 2008 dopo le percosse subite in una stazione dei carabinieri e il ricovero coatto in una struttura psichiatrica. La vicenda è stata resa nota ieri da Luigi Manconi dopo che l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha seguito il caso di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, ha assunto il patrocinio legale a nome della famiglia. Giuseppe Uva aveva 43 anni e la sera del fermo aveva fatto le ore piccole. Alle tre di notte forse era un po’ brillo mentre si aggirava per le strade di Varese a fare “bischerate”, come in Amici miei. Ricordate il film di Mario Monicelli, girato nel 1975, dove cinque amici ormai cinquantenni si divertono a organizzare scherzi goliardici in giro per la città? Una delle ultime pellicole della commedia all’italiana dove si descriveva un paese ancora in grado di ridere di sé. Una risata piena e disperata, consapevole di una condizione umana ormai persa in un mondo senza grandi prospettive. Le «zingarate» dell’allegra brigata erano una fuga per non morire di tristezza. Un tentativo d’annegare la disillusione in un riso intriso di malinconia. In quell’Italia lì si poteva finire in caserma o in carcere per tante ragioni, spesso politiche, ma non ancora per ridere. Non erano tempi terribili e cupi come quelli dell’Italia attuale, dove un ragazzo che rientra da un concerto, com’è accaduto a Federico Aldovrandi, viene fermato sul ciglio del marciapiede di una strada di Ferrara e massacrato da alcuni poliziotti. Dove un artigiano mite che lavorava il legno come Aldo Bianzino, uno che viveva nel suo casolare umbro senza dare disturbo a nessuno, viene arrestato perché nel suo orto crescevano delle piante di marijuana che consumava solo per sé. Portato in carcere lo ritroveranno morto in cella. L’autopsia segnalerà la presenza di traumi interni, lacerazioni del fegato e degli altri organi dell’addome, manifesta conseguenza di percosse subite. A Riccardo Asman non è andata meglio. Affetto da problemi psichiatrici, mostra segni di forte euforia spogliandosi e tirando petardi dalla finestra di casa, da dove fuoriesce anche musica ad alto volume. L’intervento del 113 finisce in tragedia. L’uomo muore soffocato con le caviglie legate da fil di ferro, le pareti dell’abitazione sporche di sangue e il corpo devastato da brutali percosse praticate con oggetti contundenti. Stefano Cucchi invece è morto disidratato, segnalano i referti, nell’indifferenza e l’incuria di un ospedale penitenziario. Il suo corpo era martoriato da lesioni, fratture ed ematomi. Traumi subiti dopo il suo fermo mentre era nelle mani di chi doveva assicurarne la custodia.
Giuseppe Uva pare avesse spostato delle transenne in mezzo alla via. Non aveva commesso reati, al massimo una violazione al codice della strada. Per questa bischerata è morto. Il suo decesso ricorda quello di Francesco Mastrogiovanni, il maestro anarchico di Castelnuovo Cilento anche lui fermato per futili motivi e condotto nell’ospedale di Vallo della Lucania dove è deceduto durante un Tso. L’autopsia ha rivelato la presenza di un edema polmonare. Mastrogiovanni era rimasto legato per giorni su un letto di contenzione, lacci ai polsi, contro ogni regola. Qualcosa del genere è accaduta anche a Giuseppe Casu, l’ambulante cagliaritano fermato e poi ricoverato a forza perché non voleva lasciare la sua bancarella vicino al municipio. Sette giorni di letto di contenzione, farmaci somministrati contemporaneamente e in dosi elevate l’hanno ucciso. Queste morti hanno tutte un filo comune: colpiscono piccoli consumatori di droghe, persone con disagi psichiatrici o individui percepiti dalla comunità come “diversi”, troppo originali. Insomma segnalano un problema d’intolleranza e disprezzo verso popolazioni stigmatizzate, fasce considerate immeritevoli di rispetto e diritti. Sollevano poi l’irrisolto problema degli apparati di polizia pervasi da culture sopraffattrici, specchio di un’epoca dove la spoliticizzazione ha aumentato a dismisura il grado di violenza che pervade i rapporti sociali. Infine sollevano un paradosso: una legalità eretta a tabù si rovescia nel suo esatto contrario.

Link
Caso Giuseppe Uva: dopo tre anni finalmente la superperizia
Le sevizie contro Giuseppe Uva: parla il legale Fabio Anselmo
La vendetta dei carabinieri contro Giuseppe Uva: “Il racconto choc dell’amico”

Morte violenta di Stefano Cucchi: due nuovi testimoni accusano i carabinieri

Due nuovi testi chiamano in causa l’arma dei carabinieri tenuta fino ad ora fuori dall’inchiesta

Cinzia Gubbini
il manifesto
18 dicembre 2009

Lo hanno visto scendere dalla macchina nel piazzale del Tribunale, la mattina del 16 ottobre intorno alle 8,30, e non si reggeva in piedi. Poi sono stati messi nella stessa cella di sicurezza, in attesa della convalida. «Che ti è successo?», gli hanno chiesto. «Mi hanno picchiato i carabinieri questa notte», «E perché non lo dici?», «Perché sennò mi fanno le carte per dieci anni». Cioè: se lo dico si inventano qualcosa per tenermi in carcere a lungo. A svelare questi nuovi particolari sul caso di Stefano Cucchi – il ragazzo morto il 22 ottobre scorso nel reparto carcerario del Pertini – sono due cittadini albanesi, fermati anch’essi dalla compagnia Casilina la sera del 15 ottobre. E compagni di cella di Stefano in tribunale. Ieri mattina i due albanesi, assistiti dall’avvocato Simonetta Galantucci, sono stati sentiti dai procuratori Vincenzo Barba e Francesca Loi. Una deposizione circostanziata, che tira in ballo le responsabilità dei carabinieri, già raccolta nelle scorse settimane dagli avvocati di parte civile Dario Piccioni e Fabio Anselmo. Ora il loro racconto è agli atti della Procura, che dovrà valutarlo alla luce di quanto finora emerso.
La sera del 15 ottobre i due cittadini albanesi vengono fermati con l’accusa di tentato furto. Stefano, invece, viene fermato con l’accusa di spaccio perché ha in tasca 20 grammi di marijuana. Tutti e tre vengono portati nella caserma di via del Calice, ma non si incontrano. La stazione Appia è una delle sei di competenza della compagnia Casilina. Una caserma piccola, che in genere chiude alle dieci di sera e che solitamente non viene usata per ospitare le persone arrestate. Qui si svolge l’interrogatorio di Stefano e quello dei due albanesi. Poi le strade si dividono: i due vengono portati in un’altra caserma per passare la notte, Cucchi viene prima portato a casa dei genitori per una perquisizione. E’ l’una di notte, sua madre lo vede e sta bene, tanto da venire tranquillizzata sia da Stefano che dai militari: «domani sarà a casa». Quindi il ragazzo ripassa a via del Calice, e poi viene trasferito nelle celle di sicurezza della stazione di Tor Sapienza. Di ciò che accade in questa stazione si sa pochissimo, se non che intorno alle 5 Stefano accusa un malore e per questo viene chiamata un’ambulanza. E iniziano le prime stranezze. A partire da quanto viene annotato nella scheda del 118 («schizofrenia», forse solo un errore materiale) fino al fatto che i due infermieri non riescono a visitare Stefano: il ragazzo è a letto, avvolto nelle coperte. Notano soltanto degli arrossamenti sotto le palpebre. Ma vista la scarsa collaborazione del ragazzo se ne vanno dopo mezz’ora. Stefano era stato picchiato? E’ quanto sostengono i due testimoni albanesi, che incontrano il ragazzo la mattina dopo, giorno della convalida in tribunale. Tutti e tre sono scortati da carabinieri della compagnia Casilina, ma sono su due macchine diverse: Stefano viaggia su quella dietro la loro. Quando arrivano nel piazzale del tribunale, vedono Stefano scendere dalla macchina e notano che «non si regge in piedi». E’ dolorante e fa fatica a camminare. Ne rimangono impressionati, fumano insieme una sigaretta ma non si parlano: davanti a loro ci sono i carabinieri. Poco dopo vengono messi nella stessa cella. Stefano sta talmente male, raccontano i due testi, che devono aiutarlo a sedersi. Finalmente gli chiedono che cosa è accaduto: «Mi hanno picchiato i carabinieri, ma non questi qua», dice il ragazzo riferendosi alla sua scorta. La convalida dei due albanesi si svolge prima di quella di Stefano. A loro va bene: non viene convalidato il fermo. Per Stefano, invece, l’incubo prosegue. Non solo gli vengono negati gli arresti domiciliari (e agli atti viene scritto che è un «senza fissa dimora»), ma secondo quanto riferito da due testimoni ascoltati in incidente probatorio Stefano subisce un pestaggio anche nei sotterranei del tribunale. Per questo sono stati indagati tre agenti della polizia penitenziaria con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Stefano, di certo, esce dal Tribunale con delle lesioni. Per questo finirà nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini, sulla cui negligenza la Procura sembra non avere dubbi visto che nel registro degli indagati sono finiti altri tre medici (oltre ai tre già indagati insieme agli agenti penitenziari) con l’accusa di omicidio colposo. Finora nessuna ombra è emersa sul comportamento dei carabinieri. Ma la testimonianza di ieri cambia le carte in tavola.

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Aldo Bianzino, no all’archiviazione dell’inchiesta sulla sua morte
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Chi ha ucciso Aldo Bianzino?

Richiesta di archiviazione, il gip rinvia la decisione

Paolo Persichetti
Liberazione 12 dicembre 2009

Si è svolta ieri presso il tribunale di Perugia l’udienza sulla richiesta di archiviazione del fascicolo per omicidio a carico di ignoti avanzata dal pubblico ministero, Giuseppe Petrazzini, per la morte di Aldo Bianzino. Alla richiesta, la seconda dopo quella presentata nell’ottobre 2008 e respinta, si sono opposti i familiari di Bianzino. Il gip, Massimo Ricciarelli, fara conoscere la sua decisione nei prossimi giorni.  Nel corso della seduta un centinaio di persone hanno manifestato all’esterno. Presenti il figlio di Bianzino, Rudra, 16 anni, e Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi, il giovane morto nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini di Roma a seguito del pestaggio subito dopo l’arresto, insieme al «Comitato Verità e Giustizia per Aldo». Bianzino, persona mite e abile artigiano, venne arrestato il 12 ottobre del 2007 perché coltivava alcune piante di canapa indiana. Morì nel carcere di Perugia due giorni dopo. Inizialmente il decesso venne attribuito a un malore naturale. L’autopsia certificò invece l’assenza di patologie pregresse e lesioni agli organi interni, presenza di sangue nell’addome e nelle pelvi, lacerazione epatica, lesioni all’encefalo. Una seconda autopsia riscontrò anche un distacco del fegato e ipotizzò la morte per aneurisma cerebrale. Evento probabilmente scatenato da un violento pestaggio subito dopo l’arresto, in circostanze mai accertate. In carcere Bianzino venne abbandonato a se stesso. Per questa assenza di cure, l’agente di polizia penitenziaria in servizio la notte della sua morte è stato rinviato a giudizio, lo scorso 28 giugno, per omissione di soccorso e falsificazione dei registri. La morte di Bianzino e  quella di Cucchi sono il calco perfetto della violenza impunita delle istituzioni. In entrambi i casi solo l’apparato-cenerentola, la penitenziaria, è rimasto impigliato negli ingranaggi della giustizia.

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Caso Cucchi, anche la polizia penitenziaria si autoassolve

Chiusa l’indagine interna
Per il Dap non sono emerse responsabilità
da parte della polizia penitenziaria

Paolo Persichetti
Liberazione 3 dicembre 2009

Per il ministro della Giustizia Angelino Alfano, Stefano Cucchi è caduto dalle scale. Per Carlo Giovanardi è morto di droga. Siccome era un tossicodipendente e spacciava, la sua vita non doveva valere nulla. Se l’era cercata. Per questi signori, Stefano Cucchi sarebbe morto di freddo. Anzi, come ha scritto su queste pagine Erri De Luca, «perché ostinatamente aveva smesso di respirare». Da allora la lista delle facce di bronzo non ha terminato di crescere. L’inchiesta interna condotta dall’amministrazione penitenziaria ha escluso l’esistenza di qualsiasi responsabilità della polizia penitenziaria nelle brutali percosse subite da Stefano Cucchi. E’ quanto sottoscritto ieri, ultimo in ordine di tempo, dal capo del Dap, il magistrato Franco Ionta, la cui funzione è nobilitata dall’appellativo di Presidente. Su questo terribile episodio di violenza istituzionale, la macchina della controverità marcia a velocità folle. Appena pochi giorni prima un’altra commissione interna aveva assolto i medici del reparto penitenziario dell’ospedale dove, invece delle cure, al giovane era stata somministrata cinica indifferenza e sprezzante incuria. In compagnia solo del suo dolore e dell’umiliazione di un corpo bastonato, di membra lacerate, Stefano Cucchi è morto. Delle uniformi di Stato lo avevano arrestato quando era in perfette condizioni fisiche, delle uniformi di Stato lo hanno interrogato, delle uniformi di Stato lo hanno incarcerato, in tribunale un magistrato ha finto di non vedere, l’avvocato d’ufficio ha girato la testa, poi dei camici pubblici lo hanno abbandonato. Da settimane, le varie componenti istituzionali coinvolte in questa vicenda rispondono opponendo omertà d’apparato in difesa di una impunità di principio, di una visione completamente autoreferenziale della legalità e della morale. Ma come cantava De André: «anche se vi credete assolti, siete per sempre coinvolti».

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