Un articolo recensione del libro di Carla Verbano, Sia folgorante la fine, ha suscitato alcune reazioni in rete. Riporto solo il primo intervento critico, postato in forma anonima su Indymedia lombardia e Bellaciao.org a cui segue la replica. Per chi fosse interessato alla querelle, basta cliccare i link
Lun, 15/02/2010 – 20:04
by Anonimo
Risposta all’articolo https://insorgenze.wordpress.com/2010/02/14/valerio-verbano-a-trentanni-d…
…Si auspica a torto lo stesso trattamento, da ingenui quali siamo, spesso noi, a sinistra. Le lotte sono differenti, le mete altrettanto così gli obiettivi. Ma se per scagionare qualcuno ci vuole prima un’accusa e una sentenza, già qui si parla di amnistia. Mi spiace che il compagno Persichetti si sia azzardato a tanto, pur consapevole di essere in acque torbide e la vista non gli conceda di poter gridare (seppur sommessamente) “terra”. Non si può chiedere giustizia giusta e applicata in maniera tanto sbrigativa quando ancora non è stata ascritta e decretata colpevolezza. Inoltre ribaltando i termini l’amnistia non è così che è osservata, come un patteggiamento fra le parti, senza che quella primariamente coinvolta si sia espressa come colpevole o abbia fatto ammissione di correità. Niente di tutto questo. Mettere perciò le mani avanti è scorretto verso chi chiede quella giustizia doverosa, necessaria verso chi ha atteso tanto tempo. Che venga dalle vittime e non dal carnefice. E non illudiamoci che basti mettere il verme sull’amo perché la balena abbocchi. E’ tutto molto più complicato, ci sono sinergie che devono saltare come un domino e rapporti di potere ricattatori che non è dato sapere se sono attuali o meno. Quando il braccio armato è ancora potente e il movente lungi dallo svelarsi, nessuno dovrebbe esprimersi con tanta leggerezza e superficialità. Si rischia di essere fraintesi, come virtuali conniventi o destinatari di un valore aggiunto che sono quelle briciole che cadono dalla tavola, come per sbaglio.
Gli spacciatori di passioni tristi
Quando ai soggetti vivi della storia si sostituiscono i testimoni risentiti della memoria comincia l’epoca dei becchini. La memoria assume così le sembianze del morto che agguanta il vivo, del vampiro che succhia la vita futura
Paolo Persichetti
Le normali regole del contraddittorio prevedono che la tenzone avvenga ad armi pari. In questo caso invece il mio contraddittore interviene in forma anonima. Basterebbe questo per deconsiderare le parole di chi non ha nemmeno il coraggio delle proprie idee. Per altro questo signore mi da del “compagno”, ma io non sono suo compagno. I miei compagni stanno in carcere con l’ergastolo non a fare gli assessori per qualche giunta di centrosinistra o i parolai. Chi mi contesta pare che sappia con certezza chi sono gli assassini di Verbano, allora perché non procede. Gli manca il coraggio?
Potrei chiuderla qui questa polemica, anche perché, come diceva Oscar Wilde, se litighi con un cretino l’unico risultato che ottieni è sembrare cretino pure tu.
Resta che questi post vengono letti comunque da un certo numero di persone; è solo per rispetto di queste che mi costringo ad una replica.
1) Nella storia sono esistite diverse tipologie di amnistia. Quelle politiche applicate in Italia fino al 1970 indicavano nel loro articolato le fattispecie di reato commesse all’interno di un determinato periodo storico. Le persone denunciate, e/o processate, e condannate per quei fatti repressi dalla legge usufruivano dell’amnistia. Lì dove non vi era stata ancora azione penale, veniva meno nel futuro la possibilità di svolgere il processo. L’azione penale restava nella discrezione del pubblico ministero che avrebbe potuto comunque agire conducendo un’inchiesta nell’interesse pubblico dell’accertamento dei fatti (poiché possono sussistere reati non amnistiati), dichiarando alla fine la non procedibilità per sopravvenuta amnistia.
Tuttavia per ovviare al rischio dell’amnistia cosiddetta “preventiva”, che può creare ostacoli all’accertamento della verità (qui ovviamente bisogna ricordare che la “verità giudiziaria” è una mera convenzione che non può essere in alcun modo sovrapposta alla verità storica. Troppi oggi pensano che l’unica via per raggiungere la verità sia quella di fare processi e scrivere sentenze), soprattutto dopo le esperienze delle auto-amnistie dei regimi dittatoriali del Sud America, in Sud Africa è stato sperimentato un modello alternativo denominato “Ubuntu”. Attuato dalla commissione riconciliazione e verità, questo sistema prevedeva il riconoscimento dei fatti-reato da parte dei loro autori, una verifica della loro veridicità attraverso i normali riscontri da parte dell’autorità pubblica, il riconoscimento dell’amnistia e una riparazione materiale e simbolica per le parti lese. Chi riteneva di non dover accedere a questo tipo di procedura conciliativa era passibile in futuro, se individuato, di azione penale secondo i normali criteri procedurali senza possibilità di amnistia.
Nel mio articolo messo sotto accusa pensavo a questo tipo d’ipotesi. Dopo 30 anni senza risultati e con un’esigenza, che dovrebbe imporsi, di storicizzazione, mi sembra ovvio cercare di creare le condizioni che possano facilitare un percorso di verità. Non è scontato che ciò avvenga su ogni episodio rimasto oscuro o parzialmente oscuro, ma esiste la prova contraria. Fino ad oggi non si sono fatti passi avanti. Aggiungo che ai tempi di Valerio si faceva ancora controinchiesta (quella che lui stava conducendo nel famoso dossier). I responsabili di misfatti venivano cercati autonomamente. Non si aspettava la chiamata della polizia giudiziaria. Oggi siamo in grado di fare questo? Non mi sembra, visto che s’invoca l’azione della magistratura. L’amnistia quantomeno ripristinerebbe un principio di autonomia politica da parte nostra.
2) Il 22 febbraio 2010 saremo a 30 anni esatti dalla morte di Valerio. La vecchia normativa ammetteva la prescrizione dei reati più gravi dopo 30 anni dai fatti, riconoscendo un vecchio principio cardinale del diritto che prevede tempi certi e ragionevoli alla durata dei processi e delle condanne. A distanza di troppi decenni, infatti, si riteneva: per un verso, troppo difficile accertare le responsabilità e ricostruire l’esatto contesto dell’epoca; dall’altro, inefficace una condanna contro un individuo diverso da quello che aveva commesso il reato.
La cultura dell’imprescrittibilità dei reati più gravi ha guadagnato terreno negli ultimi decenni e dagli iniziali crimini di genocidio e contro i diritti umani si è via via passati anche ai normali reati del codice penale. Oggi non sono prescrittibili i reati che prevedono la pena automatica dell’ergastolo (praticamente buona parte dei reati politici previsti nel nostro codice). L’omicidio sarebbe tecnicamente prescrittibile solo nel caso in cui non venissero contestate le circostanze aggravanti. La materia è diventata complessa poiché s’intrecciano vecchia e nuova normativa: lì dove il reato è stato commesso sotto la vigenza della vecchia norma ma il processo verrebbe svolto con la nuova, dovrebbe in teoria prevalere la norma più favorevole al reo eventuale, ma non è detto che sia più così. In sostanza oggi, per il gioco delle aggravanti e delle attenuanti, la prescrittibilità del reato d’omicidio sarebbe tutta nelle mani del giudice che potrebbe decidere a seconda dei casi con criteri diversi (proviamo ad immaginare quali?), ingenerando discriminazioni. Il pm agirebbe automaticamente ipotizzando la fattispecie più grave, non foss’altro per poter esercitare l’azione penale. Non mi sembra eccezionale questa situazione.
3) Evase queste noiose note tecniche, vengo alle questioni più politiche:
a) Dovremmo saper fare buon uso della memoria. La vicenda di Valerio è immersa in un contesto storico e sociale ben preciso. La sua morte è legata ad un filo di episodi, di rappresaglie e contro rappresaglie. Chi oggi si lancia in nuove teorie del complotto, ipotizzando chissà quali oscuri agenti, azzera la dimensione storica di quegli anni. La morte di Verbano scatenò una rappresaglia durissima, come avvenne anche per Walter Rossi, contro un militante missino noto picchiatore, Angelo Mancia (che con la sua morte non c’entrava nulla). Omicidio rimasto anche questo, come avrebbe scritto il mio contraddittore, “impunito”. Se per Valerio ci sono stati degli indagati, per Mancia nemmeno l’ombra. Seguendo lo schema di pensiero di chi contesta il mio articolo, dovremmo ricavarne che esiste un “doppio stato comunista” che impedisce l’accertamento della verità sui fascisti uccisi dai rossi.
C’è qualcosa che il mio contestatore fantasma non dice perché la sua logica monca si ferma prima: vorrebbe in galera anche gli assassini di Mancia? Oppure sogna una polizia e una magistratura che fanno giustizia solo per Valerio e non per i fascisti (quella stessa contro la quale magari sbraita (?) quando uccide Carlo Giuliani o Federico Aldovrandi e assolve i poliziotti di Genova)?
b) Un minimo di onestà intellettuale porterebbe a riconoscere che tra le fila della destra ci sono molti più morti senza esito giudiziario di quanti ne sono rimasti a sinistra. Tra le nostre fila invece abbondano i morti senza colpevoli perpetrati dalle forze di polizia. Che strano che non ci si ostini per niente a cercare la verità su chi ha sparato a Giorgiana Masi, a Fabrizio Ceruso, a Pietro Bruno? Contro i fascisti si, ma contro lo Stato no! Come la chiamiamo sindrome legalitaria, statolatria?
c) «Chiedere giustizia», «decretare colpevolezza», «ammissione di correità», «vittime», «carnefice», sono questi alcuni dei termini utilizzati dal fantasma. Denotano una cultura giustizialista intrisa di populismo penale. Dubito che Valerio quando venne ucciso potesse riconoscersi in un linguaggio del genere. Era un giovane militante comunista rivoluzionario, non un criptodipietrista, uno che parla come Diliberto e i suoi Gom. Leggete il libro della madre quando racconta della battaglia pubblica che intraprese dopo l’uccisione a casaccio di Stefano Cecchetti davanti ad un bar di destra nella sua zona. Conosceva Cecchetti perché frequentava la sua scuola, sapeva che non era un militante fascista, aveva solo amici in comune da una parte e dall’altra. Era solo per caso in quel bar quel giorno. Una macchina si è accostata e dai finestrini sono partiti tre colpi. A Torino, anni prima, davanti all’Angelo azzurro accadde una cosa simile. Era un locale ritrovo di militanti di destra. Un corteo dell’estrema sinistra passava nei paraggi. Dal mucchio si sgancia un gruppetto che si mette a lanciare molotov. Invece di uscire, un cliente si rifugia nei bagni dove muore asfissiato. Non era fascista ma solo uno studente lavoratore non politicizzato. Questi episodi disturbano l’epica vittimistica dei becchini della memoria e quindi non dobbiamo raccontarli?
d) Verbano sapeva bene cosa voleva e levò la sua voce pubblicamente contro questo modo di agire simile a quello dei fascisti, dei Giusta Fioravanti che andavano a sparare a caso davanti a una piazza, come accadde per Roberto Scialabba, o nei locali di una radio durante una trasmissione di femministe. Quando ai soggetti vivi della storia si sostituiscono i testimoni risentiti della memoria comincia l’epoca dei becchini. La memoria assume così le sembianze del morto che agguanta il vivo, del vampiro che succhia la vita futura.
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