Torture, anche il Corriere della sera fa il nome di De Tormentis, si tratta di Nicola Ciocia

«Sono io l’uomo della squadra speciale anti Br»

Fulvio Bufi
Corriere della Sera
10 Febbraio 2012

Secondo il Corriere della sera Nicola Ciocia sarebbe l’uomo ritratto di spalle, di bassa statura e con una calvizie accennata, situato dietro Francesco Cossiga

NAPOLI — Per chi lavorava in polizia non c’era niente da scherzare negli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, quando le Brigate Rosse sparavano e lo Stato combatteva contro i gruppi della lotta armata la sua battaglia più difficile. E non scherzava certo l’allora vicequestore Umberto Improta — che del nucleo speciale di investigatori formato dal Viminale per indagare sulle Br fu il capo operativo — quando affibbiò a un suo collega specializzato nel condurre gli interrogatori, il soprannome di professor De Tormentis. Sapeva quello che diceva, Improta, e stando alle denunce (tutte archiviate) presentate in quegli anni da alcuni brigatisti interrogati dal professore, il soprannome sintetizzava bene i suoi metodi di lavoro.
Metodi che, per come li raccontarono i brigatisti che li subirono, e per come li conferma oggi l’ex dirigente della Digos Rino Genova nelle testimonianze rilasciate prima a Nicola Rao, autore del libro «Colpo al cuore» (Sperling & Kupfer), e poi alla trasmissione «Chi l’ha visto?», che l’altro ieri si è occupata del professor De Tormentis, hanno un solo nome: torture. Con la tecnica del waterboarding, per la precisione, e cioè la somministrazione forzata di acqua salata che provoca nella vittima la sensazione dell’annegamento e in qualche caso anche gli effetti.
Il programma condotto da Federica Sciarelli ha raccolto anche la testimonianza di Enrico Triaca — br che nel 1978 subì il trattamento della squadra guidata dal professore —. Inoltre ha preferito per ora non diffondere il nome di De Tormentis. Il Corriere sceglie invece di farlo dopo aver avuto conferma di quel soprannome dal diretto interessato.
Il professor De Tormentis si chiama Nicola Ciocia, ha 78 anni, è pugliese di Bitonto ma vive a Napoli, città in cui negli anni Settanta diresse prima la squadra mobile e poi la sezione interregionale Campania e Molise dell’Ispettorato generale antiterrorismo. Dalla polizia si dimise nel 1984 con il grado di questore (non accettò la sede di Trapani) e fino a pochi anni fa ha fatto l’avvocato. Ora si è ritirato del tutto, esce raramente dalla sua casa sulla collina del Vomero, e di sé dice: «Io sono fascista mussoliniano. Per la legalità».
Lo si capirebbe anche se non lo dicesse, fosse solo per il busto del duce che tiene sulla libreria. Ciocia non ammette esplicitamente di aver praticato la tortura, anche se a dire il contrario non sono soltanto Genova e Triaca: agli atti di inchieste mai portate avanti ci sono le denunce di molti brigatisti, come per esempio Ennio Di Rocco, che con la sua confessione consentì vari arresti tra cui quello di Giovanni Senzani e per questo fu condannato a morte dalle Br e ucciso in carcere.
Se — come dicono — era bravo a estorcere ammissioni, Nicola Ciocia lo è altrettanto a schivare le domande dirette. Lo stato italiano praticò la tortura attraverso lei e la sua squadra per sconfiggere le Brigate Rosse? «Le Br hanno fatto stragi, e avrebbero continuato se non fossero state debellate da una azione decisa dello stato». Una azione che si concretizzò anche attraverso i suoi interrogatori? «Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio. Non serve far male fisicamente. Io in vita mia ho dato solo uno schiaffo a un nappista che non voleva dirmi il suo nome».
Ciocia sostiene che «non si può affermare che torturavamo i brigatisti, facendo passare noi per macellai e loro per persone inermi». Arriva a dire che «Di Rocco si mise spontaneamente a disposizione della giustizia», e su Triaca si lascia scappare un ambiguo «lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano». E insiste pure: «La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci».
«Quei metodi», «quei sistemi», «quelle pratiche»: sembrano tutti modi per non pronunciare la parola tortura. E Ciocia non la pronuncia: «Lo Stato si attivò per difendere la democrazia. I macellai erano loro, non noi».

Per chi volesse approfondire: Le torture affiorate, progetto memoria, Sensibili alle foglie 1998

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Torture contro i militanti della lotta armata
Nicola Ciocia, alias De Tormentis, è venuto il momento di farti avanti
Cosa accomuna Marcello Basili, pentito della lotta armata e oggi docente universitario a Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, ex funzionario Ucigos torturatore di brigatisti
Triaca:“Dopo la tortura, l’inferno del carcere – 2
Enrico Triaca; “De Tormentis mi ha torturato così” – 1
1982 la magistratura arresta i giornalisti che fanno parlare i testimoni delle torture
Novembre 1982: Sandro Padula torturato con lo stesso modus operandi della squadretta diretta da “de tormentis”
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Caro professor De Tormentis, Enrico Triaca che hai torturato nel 1978 ti manda a dire
Le torture ai militanti Br arrivano in parlamento
Nicola Ciocia, alias “De Tormentis” è venuto il momento di farti avanti
Torture: Ennio Di Rocco, processo verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica 2,  2 gennaio 1982: il metodo de tormentis atto secondo
Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
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Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana
Il pene della Repubblica: risposta a Miguel Gotor 1/continua
Miguel Gotor diventa negazionista sulle torture e lo stato di eccezione giudiziario praticato dallo stato per fronteggiare la lotta armata
Miguel Gotor risponde alle critiche
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Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Tortura: quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati

Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture
Torture: l’arresto del giornalista Piervittorio Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia, Italia 1982
L’énnemi interieur: genealogia della tortura nella seconda metà del Novecento
Ancora torture
Torture nel bel Paese
Pianosa, l’isola carcere dei pestaggi, luogo di sadismo contro i detenuti

Il lavoro in carcere, ferie, salario, previdenza. Turelare i diritti anche in prigione

La polemica sul mancato riconoscimento della pensione Inps a Curcio attira l’attenzione sulle condizioni di lavoro dietro le sbarre

Paolo Persichetti
Liberazione
21 gennaio 2009

«Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione». Lo scrive Harry G. Frankfurt nella prima riga di un brillante saggio uscito in Italia nel 2005, edito dalla Rcs e per l’appunto copj131 inequivocabilmente intitolato, Stronzate. Vacue scemenze infestano i dibattiti televisivi, le pagine dei giornali, soprattutto la politica, per dimostrarlo Frankfurt ricorre a dotte riflessioni su Wittgenstein, Pound, Agostino. Molto più modestamente (siamo in Italia e di più non è possibile ricavare), a noi tocca fare i conti con Borghezio (il ciccione nazista che gli immigrati di Colonia hanno rispedito a casa a calci nel sedere), Gasparri (quello col pensiero flatulescente), Carlucci (quella del Festivalbar), Bertolini (chi è?).
Questi «onorevoli politici», a 25 mila euro al mese e vitalizio assicurato, hanno intasato le agenzie di compiaciute e sarcastiche dichiarazioni sul mancato riconoscimento della pensione Inps a Renato Curcio (l’ex fondatore delle Br che da anni ha terminato di scontare la condanna). Pure alcuni familiari delle vittime si sono lasciati trascinare in questo stupidario. Cosa era successo?
Curcio si trovava a Pesaro, centro sociale Oltreconfine. Stava presentando uno degli ultimi libri della sua casa editrice, Sensibili alle foglie. Un giornalista si avvicina e gli chiede se ormai è prossimo alla pensione, lui risponde che nonostante avesse lavorato una vita in carcere, l’Inps non gli ha riconosciuto alcun diritto alla pensione perché gli istituti di pena dove è stato recluso non hanno mai versato i contributi o questi erano bassissimi. Insomma una truffa bella e buona. Poi aggiunge che non può avere diritto nemmeno alla pensione sociale perché la moglie percepisce un reddito troppo alto. Tutto qui. Nessuna protesta, nessuna lamentela. Solo una breve considerazione, per giunta sollecitata, di una persona che fa il suo lavoro senza chiedere nulla a nessuno. La pensione, come sanno tutti detenuto2quelli che lavorano, non è certo una gentile concessione dello Stato, un regalo o un premio del Padrone, ma il dovuto che il lavoratore vede ritirare ogni mese dal proprio stipendio, debitamente rivalutato secondo indici stabiliti per legge. Si chiama sistema per “ripartizione”. È roba sua insomma, prestata alle casse previdenziali che in questo modo sostengono quel po’ di welfare ancora in piedi. Tuttavia anche le polemiche più inutili e strumentali possono servire. Questa vicenda apre uno scorcio sul mondo opaco delle carceri, sulla fragilità dei diritti dei detenuti che lavorano. La disavventura accaduta a Curcio non è un fatto isolato. Il carcere ha bisogno dei suoi detenuti perché sia autosufficiente e si riproduca ogni giorno, affinché le aree comuni della prigione, corridoi, uffici, passeggi, laboratori, matricola, infermeria, caserma, siano sempre pulite e le cucine sfornino una colazione e due pasti al dì e i guasti elettrici, idraulici vengano subito riparati. Negli istituti di pena ci sono anche officine, tipografie, falegnamerie, rilegatorie, che servono a fabbricare suppellettili per altre carceri, blindati, cancelli, mobilio per i tribunali e i ministeri, registri, formulari per gli uffici. Le prigioni non potrebbero funzionare senza i carcerati. Pochi lo sanno, i più non arrivano nemmeno ad immaginarlo, ma il carcere vive del lavoro dei suoi ospiti rinchiusi. Non potrebbe farne a meno. Diventerebbe ancora più antieconomico se dovessero essere assunti degli esterni, senza contare i problemi per la sicurezza. Il miglior modo per metter a terra un carcere, infatti, è lo sciopero dei «lavoranti». Impresa ardua, riuscita solo in pochi casi. Ma quando i lavoranti si fermano, la direzione negozia subito. Proprio per questo il lavoro è una risorsa strategica del governo carcerario, gestito con oculato clientelismo e paternalismo. Non solo il lavoro dei detenuti è sotto operatori-cucina1
tutela costituzionale ma esistono normative che ne regolano modalità e diritti. L’articolo 20 della legge penitenziaria stabilisce che «il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato», organizzazione e metodi «devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale». La durata delle prestazioni lavorative «non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e, alla stregua di tali leggi, sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale».
Ed è in ragione di questa normativa che negli ultimi anni i detenuti hanno avviato delle vertenze di fronte alla magistratura del lavoro. Con la sentenza n.158 del 2001, la Corte Costituzionale ha ribadito il diritto alle ferie e la loro remunerazione in caso di mancato usufrutto. Allo stesso modo l’associazione Papillon, grazie ad una sentenza pilota del 1993, ha ottenuto l’equiparazione delle mercedi (salario) al contratto collettivo nazionale del comparto corrispondente alla mansione lavorativa svolta. Altre battaglie sono state realizzate per il riconoscimento dell’assegno di disoccupazione. Il carcere è un grande cantiere sempre in funzione, sarebbe ora che i sindacati (Cobas e Cgil) vi aprissero degli sportelli per formare sindacalmente i detenuti e creare osservatori sui diritti del lavoro.

Migranti: i dannati della nostra terra

Libri – I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti tra ossessione del diritto e razzismo culturale, Renato Curcio, sensibili alle foglie pp. 136, euro 14

Paolo Persichetti
Liberazione 3 luglio 2008

Parole semplici che raccontano storie terribili sono quelle raccolte da Renato Curcio nella sua ultima ricerca sociale sul lavoro migrante. I «dannati della terra», espressione impiegata da Frantz Fanon in un testo del 1961 per indicare la moltitudine degli esclusi, sono diventati oggi quei dannati del lavoro che danno titolo al volume edito da Sensibili alle foglie ( I dannati del lavoro. Vita e lavoro dei migranti tra ossessione del diritto e razzismo culturale , pp. 136, euro 14).
 Donne e uomini, persone con valigie cariche di storie e non reati ambulanti. «Imprenditori dei sogni», come dovremmo in realtà chiamarli se fossimo in grado di frantumare gli occhiali deformanti dell’opposizione regolari/irregolari. Una scena imponente di milioni di umani che da città e villaggi di ogni continente si mettono in viaggio animati dall’immaginazione di un futuro diverso da quello disegnato per tutti noi dai consigli di amministrazione delle aziende globali. «Umani non ancora infettati dalla “codificazione feticistica” che come un virus epidemico sta spegnendo il pensiero della discontinuità negli autoctoni del Vecchio continente». Umanità ancora umana che non sa che farsene dei piccoli sogni a “prezzi mai visti” smerciati da Carrefour. C’è altro e di meglio in ciascuno di loro, scrive Curcio: «l’energia di chi pensa ancora la crescita non soltanto come una variabile economica[…] di chi rivendica per sé il diritto primordiale a esistere, prima di ogni legge degli uomini, prima del capitale, prima del mercato, prima delle carnivore ambizioni delle imprese globali». 
Loro, i migranti, sanno di non essere più radice ma vento. Sopravvissuti a viaggi spaventosi, le loro radici sono ormai gambe che spostano il mondo, scirocco e grecale, libeccio e levante. Solcano autostrade, passano valichi e navigano mari, s’ingegnano a trovare sempre nuovi cammini, molti muoiono lungo strade di stenti, sui sentieri del deserto oppure naufraghi nel cimitero liquido dei mari. Approdano sulle rive ridotti a scorie di mareggiate, pasti avanzati dei pesci impigliati alle reti. Dal 1998 sono già diecimila gli annegati nel Mediterraneo e nell’oceano Atlantico, tremila i dispersi. Trecento, quelli schiacciati, soffocati o congelati negli interstizi più assurdi ricavati nei camion della speranza.
L’avventura del lavoro migrante, la scelta del viaggio “intemerato” non nasce in luoghi lontani ma inizia da noi. Sono le aree più obese del mondo, quelle in cui operano i grandi centri capitalistici che creano quella sorta di vuoto d’aria che attira gli sciami migranti delle aree più spolpate del pianeta. L’impossibilità d’accedere alla via regolare, dovuta ai costi esorbitanti della corruzione e della speculazione che presiede i circuiti dei consolati, un sottobosco d’agenzie ufficiose, di piccoli faccendieri, mediatori e furbastri d’ogni genere pronto a lucrare su ogni passaggio burocratico, spiega la scelta della via “irregolare”, quella delle barche che giustamente Curcio rinuncia a definire «illegale» per non farsi complice della discriminazione che poi andrà a estendersi sull’intera vita di chi ne diverrà il bersaglio.
 Sono le nuove modalità del capitalismo attuale, delle grandi aziende che progettano se stesse a misura del mondo, insieme alla centralità produttiva assunta da paesi privi di normative sul lavoro che spiegano il fenomeno migratorio. Questo processo, che vede aziende extraterritoriali organizzare il movimento di merci, capitale e persone, serba nel suo seno una grande contraddizione: mentre la libera circolazione delle merci non trova ostacoli soltanto il movimento umano suscita rigetto. Tutto si sposta, ma solo le persone in movimento impauriscono. Tuttavia una soluzione andava trovata perché i limiti posti alla circolazione delle persone compromettono le capacità di consumo interno. Così il trattato di Schengen, entrato in vigore nel 1995, ha introdotto un doppio binario, un’area di privilegio comunitaria che ha però il suo rovescio nell’emergere immediato di una zona parallela, quella degli “illegali”, dei “clandestini”.

Cambia in questo modo la nozione di frontiera. Il confine visibile scompare ma al suo posto nasce la fortezza. Una fortezza Europa armata di banche dati integrate sempre più specializzate, come il sistema informatico Schengen (Sis) che include informazioni su cose e persone.
 L’antico presupposto della fortezza medievale era il ponte levatoio, la presenza comunque d’un passaggio all’esterno. Al contrario l’Europa fortezza si costruisce come una rocca senza aperture. La rete di centri di permanenza temporanea (Cpta, Cpa, Cid), destinati a divenire dopo l’ultimo “pacchetto sicurezza” varato dal governo Berlusconi “Centri di identificazione ed espulsione”, più che materializzare i confini interni interrompono la tradizionale continuità territoriale sulla quale posava la vigenza del diritto nazionale, sancito dal combinato disposto degli articoli 3 e 5 della costituzione. Un diritto a macchia di leopardo, dei territori di sospensione delle garanzie costituzionali emergono dando luogo a uno stato di diritto stratificato. Al tempo stesso, come in un gioco di prestigio, la nozione di “sicurezza” è sovrapposta a quella di “regolarità”. In questo modo “l’irregolarità amministrativa” diventa una forma di clandestinità presto sanzionata come un reato.
Tecnicamente l’internamento amministrativo, la carcerazione senza reato, che contraddistingue la rete dei centri di permanenza, appartiene alla tradizione del sistema dei campi di concentramento. Ma la vera caratteristica di questi nuovi luoghi d’internamento temporaneo è il fatto d’essere divenuti dei centri di raccolta per rastrellamenti di forza-lavoro semischiavizzata. Il sistema dei centri di permanenza appare dunque funzionale alla formazione di una nuova «sottoclasse di lavoratori», figlia della nuova e perversa relazione che si è stabilita tra stratificazione del diritto e forme estreme (extralegali) di flessibilità e precarietà del mercato del lavoro. Nasce in questo modo una classe di lavoratori completamente priva di diritti, sospinta alla «clausura di un trattamento quasi-schiavistico», una forma di mercificazione selvaggia e di alienazione totale delle esistenze umane eccedenti, posta ben al di là delle stesse condizioni che caratterizzano il “lavoro nero”. Messi nella situazione di non poter trattare alcunché, queste forme neoschiavistiche di lavoro segnalano la «caduta dal piano del diritto a quello del patto. Tra il datore di lavoro e il lavoratore si stipula, in altre parole, un contratto privato, molto simile a un “patto d’omertà”, in cui ciò che viene dichiarato (l’apparenza, appunto) è pura menzogna mentre ciò che viene taciuto è una sostanziale violazione delle leggi». Una condizione umana radicalmente esclusa e continuamente esposta a rotolare nell’abisso dell’internamento. Oltre a garantire la massima valorizzazione del capitale, questo «lavoro dannato» condiziona anche l’intero mercato del lavoro e diventa una minaccia permanente verso le altre fasce precarie e flessibili ancora dotate di un minimo di diritti e capaci di opporre forme di resistenza. È la vecchia storia, sempre attuale, dell’esercito proletario di riserva. L’Italia, poi, ha conosciuto la minaccia della precarietà fin dall’operaio massa meridionale dei primi anni 60.
 Al pari della precarietà, anche il razzismo è un conto mai chiuso. “Indesiderabili” è la parola chiave degli attuali Cpt, come lo fu per il legislatore fascista dopo l’introduzione delle leggi razziali del 1938 e che due anni più tardi provocarono l’apertura di oltre 200 campi di concentramento. In una circolare inviata dal ministero degli Interni si poteva leggere: «Detti elementi indesiderabili apportatori di odio contro i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione deleteria, per difesa dello Stato et ordine pubblico vanno tolti dalla circolazione». 
Nel frattempo però il razzismo ha mutato aspetto. A quello biologico si è sostituito un «razzismo culturale» fondato su un preteso differenziale tra civiltà. Questo razzismo, spiega Curcio, ha una intrinseca valenza politica legata alla “costruzione della paura”. La percezione dell’insicurezza viene impiegata per orientare la rabbia verso bersagli di comodo, senza diritti e totalmente deboli, come è il caso dei Rom. Ma questo “sentimento” nasce da un moto reale di consapevolezza dei lavoratori di fronte a un destino precariamente sospeso. Trasformare questa domanda di sicurezza in razzismo è l’operazione politica in corso, quella da ribaltare completamente. Il paradigma reazionario, oggi egemone, è riuscito modificare il modo di produzione dell’immaginario facendo apparire lo sfruttamento più brutale come una forma di diversità, uno stigma, quando nella realtà è proprio lo sfruttamento che ci rende stranieri. 
Rimettere al centro dell’attenzione culturale e politica la critica del lavoro, a partire dai suoi aspetti più bestiali, è una delle strade obbligate che la sinistra deve ritrovare se vuole tornare a esistere.

Link
Cronache migranti
Razzismo, aggressioni xenofobe al Trullo
Sans papiers impiegati per costruire Cpt
Le figure del paria indizio e sintomo delle promesse incompiute dall’universalità dei diritti
Elogio della miscredenza
Razzismo a Tor Bellamonaca, agguato contro un migrante

Fine pena mai, l’ergastolo al quotidiano

Libri – Annino Mele, MAI, l’ergastolo nella vita quotidiana, Sensibili alle foglie, ottobre 2005, pp. 111, 12 €

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Annino Mele (sulla detra) alla presentazione del suo libro con l’avvocato Davide Steccanella, Milano, libreria Les Mots, martedì 20 febbraio 2018

Fine pena mai, il tranello della giustizia riabilitativa

Paolo Persichetti
Liberazione
16 aprile 2006

8889883006gFine pena: 99/99/999. La dannazione del nove è l’incubo numerico che dopo l’informatizzazione dei certificati di detenzione ha sostituito il vecchio fine pena mai. Mentre atroci fatti di cronaca ci ricordano quanto possa essere abietta la natura umana, provocando gli inevitabili latrati di chi non ha perso l’occasione per tornare a carezzare la pena di morte o non ha esitato a richiamare la necessità del fine pena mai, il libro di Annino Mele, Mai, l’ergastolo nella vita quotidiana (Sensibili alle foglie, ottobre 2005, pp. 111, 12 €) viene a ricordarci come sia una legenda la diffusa convinzione che la pena a vita di fatto non esista più. L’ergastolo c’è eccome, e il prigioniero a vita Annino Mele lo racconta in tutta la sua angosciante e insensata quotidianità con uno stile minimalista, intercalato di piccoli episodi che narrano i mille soprusi, l’ottusità, le sopraffazioni gratuite che soffocano la vita del recluso insieme a quella giornaliera sfida al tempo senza tempo. Ne viene fuori il percorso di un detenuto altruista, solidale, pronto a sostenere i compagni, vigile affinché siano rispettati i diritti di ognuno e impegnato a migliorare le condizioni della vita carceraria, tentando di dare un senso più costruttivo all’internamento e per questo realisticamente disposto ad accettare anche le nuove regole del gioco introdotte dalla Gozzini. Ben presto però scoprirà il tranello, la subdola ipocrisia che la retorica riabilitativa contiene. «Una volta, dopo che mi era stato comunicato l’ennesimo “buon esito” dell’osservazione, chiesi a bruciapelo: “E ora cos’altro posso sperare di buono?” Vidi l’operatrice abbassare lo sguardo e la sentii mormorare, senza che avesse la forza di guardarmi negli occhi: “Io, il mio lavoro l’ho svolto e dispiace anche a me che sia stato del tutto inutile”».
Il recluso che dimostra eccessiva intelligenza, troppo senso critico, capacità d’organizzazione e relazione sociale è malvisto e temuto perché percepito come un soggetto fuori controllo, non domabile. L’autonomia culturale, la maturità e il senso di responsabilità, sono doti poco apprezzate nella realtà carceraria e sempre più numerosi sono i magistrati di sorveglianza che sovvertendo il loro ruolo interpretano oramai la loro funzione come quella di un quarto grado di giudizio, una sorta di fiera delle indulgenze, diramazione distaccata dell’ufficio del pubblico ministero che in cambio dei benefici pretende confessioni, delazioni, dissociazioni, abiure extraprocessuali. Le teorie riabilitative non hanno affatto cambiato la natura profonda del potere penitenziario e il detenuto che si sottrae alle infime logiche di scambio che la cultura custodiale propone, o al suo corrispettivo speculare che pervade la sottocultura “coatta”, il recluso che non è sedotto dalle pratiche paternaliste o non si abbandona alla questua della medicalizzazione, alle benzodiazepine o ai tavernelli quotidiani, è un carcerato che avrà vita dura.
La storia delle società, scriveva Cechov, è la storia di come si viene sante2 incarcerati. La prigione di oggi è la spettrale raffigurazione di un girone dantesco brulicante di umanità dolente, gabbia dei corpi e tomba del pensiero, società della delazione, esperienza di vita che non ingenera virtuosi proponimenti. Una siderale mutazione antropologica che, sempre volendo restare alla letteratura carceraria, ci separa da quella realtà ribollente che era il carcere della politica e delle lotte negli anni 70, raccontata da Sante Notarnicola nel suo, L’evasione impossibile, riedito tempo fa con una introduzione di Erri De Luca (Odradek). Da quel tentativo di costruire una società senza galere, il 1975 è stato l’anno che nell’intera storia repubblicana ha visto il minor numero di persone incarcerate, poco più di trentamila, la metà di quelle attuali, si è arrivati oggi ad una situazione che ricorda il paradosso di Foucault: «ci dicono che le prigioni sono sovrappopolate. Ma se fosse il popolo ad essere superimprigionato?». La dominazione non solo si è estesa ma interiorizzata come nell’efficace metafora di Kafka descritta nella colonia penale, dove «il condannato sembrava così bestialmente rassegnato che poteva essere lasciato libero di correre sulle colline, e un semplice fischio sarebbe stato sufficiente a farlo tornare in tempo per l’esecuzione».
Alla fine del 2004 vi erano nelle carceri italiane 1.161 ergastolani con pena definitiva. Per fingere di andare avanti siamo dovuti tornare indietro, spiega Nicola Valentino (anche lui ergastolano di lungo corso) nell’introduzione che accompagna il libro. «Per poter costituzionalizzare l’ergastolo, dalle pene fisse ideate dall’illuminismo siamo tornati alle idee arbitrarie dell’inquisizione[…] oggi, la libertà di un ergastolano dipende dal giudice di sorveglianza». Anche l’introduzione del processo con rito abbreviato, che avrebbe dovuto facilitare l’abbattimento della pena capitale, viene sistematicamente eluso grazie all’aggiunta di una pena accessoria, come l’isolamento diurno eredità marcia del codice penale mussoliniano, che nel calcolo delle sottrazioni impedisce di erogare pene temporali. L’ergastolo estende il processo sull’intera vita del recluso, trasformando la prigione in una corte d’assise permanente che gestisce il suo fascicolo in base a procedure imprevedibili, la cui durata dipende dall’abiura dell’inquisito e dall’arbitrio dell’inquisitore. Se la pena di morte, o meglio «l’omicidio giudiziario», come preferiva definirla Cesare Beccaria, sopprimeva la vita «con volgare mancanza d’irascibilità», come avrebbe sottolineato Nietzsche, l’ergastolo se la prende per intero, la divora, come dimostra il carcere di Porto Azzurro, dove la cinta muraria racchiude anche il cimitero di chi nemmeno da morto ha più varcato le mura della prigione.
I fautori della cosiddetta «certezza della pena» rivendicano dunque qualcosa che c’è già. La loro è una sottolineatura del tutto inutile se non fosse che l’obiettivo, in realtà, è un altro: ripristinare anche formalmente il carattere meramente afflittivo, purgativo, incomprimibile della condanna e la natura apertamente eliminativa dell’ergastolo. Come ha spiegato Gianfranco Fini in una intervista apparsa sul Corriere della Sera dopo l’uccisione del bambino di Casalbaroncolo: «occorre impedire che venga abolito il fine pena mai e limitare i benefici della cosiddetta Gozzini». I toni compassati della destra in doppio petto servono solo a far passare meglio l’imbarbarimento reazionario della società. I «mostri» sono il concime dove fermenta l’ideologia forcaiola. Hanno sempre fatto comodo ai cultori del sospettare e punire, fossero di destra come di sinistra, fino al punto che quando mancano c’è sempre qualcuno pronto a crearne uno. Dietro chi soffia sull’isteria emotiva c’è sempre il cinismo di chi vuole strumentalizzare le ondate di indignazione popolare per fomentare svolte repressive e autoritarie, assolutamente ineffettuali quanto a capacità di deterrenza nei confronti della mostruosità umana. In realtà, vi è un uso politico della figura del mostro e della conseguente necessità della pena capitale, finalizzato a rinsaldare la comunità, consentendo di legittimare categorie all’interno delle quali includere nuovi mostri, questa volta invisi ai potenti. Dopo l’orco e il serial killer che albergano nell’immaginario popolare, vengono i dissidenti, gli oppositori, i terroristi, poi i diversi, gli inadatti, gli asociali, gli outsider.
Chi predica la certezza della pena intende ovviamente le pene altrui, convinto della sacrosanta certezza della propria impunità, come recita la sfacciata legalità classista dei berluscones, quella di chi non ha vergogna a propugnare una società castale, dove i figli degli operai non hanno gli stessi diritti dei figli della classe media. Nei mesi scorsi, la destra ha varato una legge, la cosidetta Cirielli, che introduce uno spudorato regime dei due pesi e delle due misure: alcune norme, quelle che intervengono sulla prescrizione dei reati, introducono principi garantisti a salvaguardia unicamente delle infrazioni che appartengono al repertorio dei comportamenti illeciti dei ceti agiati. I famosi delitti dei colletti bianchi. Il giusto diritto ad un processo rapido, oltre il quale non ha più senso l’intervento della sanzione, vale unicamente per le classi imprenditoriali, gli affaristi, i professionisti. Al contrario, per i delitti dei gruppi sociali svantaggiati, designati da sempre come «classi pericolose», i tempi processuali sono rimasti inalterati o addirittura allungati. Per nascondere questa clemenza di censo è stato dato il colpo di grazia ai benefici penitenziari.
Mettere fine ad una sanzione che va oltre la pena, perché riduce l’essere umano allo stato di schiavo, «bene animato» non più soggetto di diritto, spoliato della potestà familiare, civile, politica, condannato ad esistere per interposto tutore, è un segnale simbolico di cui c’è urgente bisogno. Una riforma che non costa nulla ma che equivarrebbe a compiere un modestissimo passo verso la decenza

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“Recensione” del Sappe, sindacato della Polizia penitenziaria.
La lettera del sindacato della Polizia penitenziaria dopo le accuse del detenuto-scrittore
: «Nel libro l’ergastolano ci offende: via dal Bassone»

Mercoledì 23 novembre 2005, La Provincia di Como

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«L’immediato allontanamento del detenuto dalla casa circondariale di Como per ovvi motivi di opportunità e di incompatibilità valutando, altresì, l’eventualità di sottoporlo a una sorveglianza particolare». Questa l’esplicita richiesta della segreteria del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria (Sappe) – firmata dal segretario generale Donato Capece e inviata a otto indirizzi diversi, tra i quali quelli del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Tinebra, del ministro della Giustizia Roberto Castelli, del sottosegretario del ministero della Giustizia Luigi Vitali, del direttore generale del personale e della formazione del Dipartimento dell´Amministrazione penitenziaria Gaspare Sparacia e della stessa direttrice del Bassone Francesca Fabrizi – in reazione all’uscita, e alla lettura, del libro «Mai» dell’ergastolano Annino Mele, edito dall’associazione «Sensibili alle foglie» fondata dal’ex capo storico delle brigate rosse Renato Curcio. Centododici pagine in vendita a 12 euro che hanno fatto letteralmente imbestialire i rappresentanti sindacali degli agenti penitenziari comaschi per la gravità delle precise accuse lanciate, e non solo alla categoria, dal detenuto-scrittore.

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Afferma la lettera del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria: «Il Sappe intende segnalare il proprio sdegno in merito alle notizie che pervengono dalla casa circondariale di Como dove un detenuto, privato della libertà personale a causa di gravissimi reati, dedica il suo tempo in cella a scrivere libri con l´unico obiettivo di offendere, nel modo più squallido e indecoroso, l’operato della Polizia penitenziaria. Nella fattispecie, le invettive hanno un preciso scopo denigratorio dei compiti istituzionali e dell’intero sistema penitenziario, considerato ovviamente da una prospettiva meramente personale e in qualità di destinatario di provvedimenti vissuti non secondo lo spirito ordinamentale del trattamento. Per di più, la critica è talmente accesa che “l’autore” del testo parla di “regime di iniquità istituzionalizzata”, terminologia che è più che sufficiente a identificare un rapporto quanto mai distorto e acceso nei riguardi di chi deve provvedere all’esecuzione della pena». Conclude: «La lettura del libro intitolato “Mai” può ben fornire una illustrazione che denominare “spietata” costituisce un eufemismo… Auspicando che le Autorità siano sensibili alla proposta menzionata, tenuto conto che le denigrazioni interessano, in primo luogo, anche chi è ai vertici dell’Amministrazione…». Annino Mele, 54 anni, sardo di Mamoiada, elemento di spicco della malavita isolana, sta scontando al Bassone un ergastolo per un duplice omicidio – al quale si è sempre dichiarato estraneo – e la partecipazione ad alcuni sequestri di persona.

Andrea Cavalcanti