Errori, abusi e irregolarità della procura di Torino nell’inchiesta contro i quattro Br accusati per la sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta

Alla fine del 2021 la procura di Torino, mentre si accingeva a riaprire le indagini sulla sparatoria avvenuta nel lontano giugno 1975 davanti alla cascina Spiotta, in località Arzello nei pressi di Acqui terme, dove morirono l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e la fondatrice della Brigate rosse Margherita Cagol, non sapeva che nel 1983 l’autorità giudiziaria di Alessandria aveva già condotto una propria inchiesta sugli stessi fatti contro Angelo Basone e Lauro Azzolini, due brigatisti poi prosciolti nel novembre 1987. La circostanza è stata candidamente ammessa dal pubblico ministero Emilio Gatti nella discussione che si è tenuta lo scorso 26 settembre durante l’udienza preliminare che dovrà decidere le sorti dell’indagine e stabilire se rinviare a giudizio gli ex militanti della Brigate rosse Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada. Cosa ha portato una procura tanto esperta e agguerrita nelle vicende della lotta armata, come quella torinese, coadiuvata dalla procura nazionale antiterrorismo, a commettere un così clamoroso errore? In realtà solo il primo di una lunga serie di irregolarità ed escamotage vari, finalizzati a forzare le regole della procedura, a quanto pare percepite unicamente come ostacoli frapposti all’azione penale.

Il tranello complottista
Fin dal venerdì 19 novembre 2021, quando l’avvocato Sergio Favretto deposita, per conto di Bruno D’Alfonso, uno dei figli del carabiniere deceduto, l’esposto che chiedeva la riapertura delle indagini, la procura torinese si era vista proporre una narrazione, rafforzata anche da un libro scritto da due giornalisti (Folegnani-Lupacchini), con la prefazione dello stesso D’Alfonso, depositato agli atti, che aveva come premessa un falso storico: il mancato svolgimento nei decenni precedenti di una inchiesta giudiziaria sulla sparatoria, fatta eccezione per il processo che vide come unico condannato Massimo Maraschi, brigatista catturato nell’immediatezza del rapimento Gancia, il giorno prima dello scontro a fuoco, per cui fu comunque condannato. L’esposto fondava le sue ragioni proprio su questo presunto vuoto e dunque su una conseguente necessità di sanare una palese ingiustizia. Riprendendo le conclusioni del volume, uscito solo tre giorni dopo la consegna dell’esposto in procura, si indicava una lista di nomi tra i quali si sarebbe dovuto individuare il brigatista fuggito. Sempre nel libro, invece, si postulava ancor più esplicitamente l’esistenza di un complotto, di ambigue zone di silenzio e complicità tra apparati dello Stato e brigatisti che avrebbero giustificato la mancata volontà di condurre le indagini su quanto era avvenuto il 5 giugno del 1975. In un secondo volume scritto dagli stessi autori, pubblicato sul finire della inchiesta, nel dicembre 2023, si è andati ancora oltre, sostenendo che la sparatoria della Spiotta, la morte di Mara Cagol e la fuga del brigatista mai individuato era avvenuta sotto la stretta regia dei Servizi segreti. Tralasciamo ora questo delirio complottista che i carabinieri e la procura non hanno seguito, ma che certamente alcune parti civili proveranno a reintrodurre nel processo, se questo dovesse andare in porto. Non è un caso se l’ex magistrato, ora avvocato Guido Salvini, ha dichiarato di avere assunto la difesa di una parte civile per dimostrare la colpevolezza di Curcio e Moretti, quest’ultimo ritenuto attore del complotto nei due volumi depositati agli atti, nei confronti dei quali aveva già anticipato in passato giudizi di colpevolezza e arroganti valutazioni personali. Non è la prima volta che delle fake news vengono impiegate come leve per avviare nuove inchieste. Resta l’incredibile circostanza che ha visto una procura riaprire incautamente delle indagini senza le necessarie verifiche, dando per scontato che nell’arco dei quarantasei anni precedenti non vi fossero stati altri procedimenti giudiziari.

L’inchiesta coperta
Ricevuto l’esposto, gli inquirenti hanno prima aperto, ad inizio 2022, una procedimento contro ignoti, ascoltato diversi testimoni, interrogato molti ex brigatisti senza cavare un ragno dal buco. A quel punto hanno cambiato strategia investigativa, convinti che l’unico modo per andare avanti fosse «intercettare» le chiacchiere degli ex Br, dopo aver reso pubblica la notizia dell’apertura della nuova inchiesta. Secondo i carabinieri che hanno condotto le indagini «L’attività di intercettazione consente l’opportunità di captare, dietro opportuni stimoli, i giusti commenti in ordine all’identità del fuggito». Tuttavia già nell’aprile del 2022 i carabinieri avevano focalizzato la posizione di Lauro Azzolini: «quale corresponsabile con Cagol Margherita dell’uccisione dell’appuntato Giovanni D’Alfonso». Ma nonostante questo dato acquisito, il fascicolo non muterà l’intestazione «contro ignoti», abile escamotage per non allertare la persona intercettata. Solo che negli stessi giorni la procura si avvede della esistenza della vecchia indagine del 1983 e del successivo proscioglimento, nel 1987, dello stesso Azzolini per i medesimi fatti. A questo punto la procura aveva una sola possibilità indicata dal codice: chiedere la riapertura delle indagini al gip per iscrivere il sospetto nel registro degli indagati. Tuttavia questa strada avrebbe reso vana la ricerca di nuove prove attraverso l’intercettazione telefonica, poiché per essere efficace questa doveva avvenire all’insaputa dell’indagato e senza prove nuove non era possibile riaprire nessuna indagine. Tanto più se il fascicolo con la sentenza-ordinanza di proscioglimento non si trovava più, perché andato disperso in una alluvione che aveva devastato l’archivio del tribunale di Alessandria.
Così la procura sceglie la via del silenzio: non avverte il gip della esistenza della vecchia indagine e soprattutto del proscioglimento di Azzolini, nei confronti del quale lo stesso gip, ignaro di tutto, aveva concesso l’intercettazione telefonica divenuta nel frattempo illecita. Questa situazione di totale illegittimità dell’indagine si protrarrà per dieci mesi. Nel dicembre 2022 la procura raddoppia addirittura l’abuso e con una procedura d’urgenza, del tutto infondata, inocula un captatore ambientale nel telefono di Azzolini, ancora una volta senza aver informato il gip della situazione e aver chiesto prima la revoca del vecchio proscioglimento.

Indagato senza essere prosciolto

Nel 2023 la situazione non cambia, anzi la procura cerca di far revocare il proscioglimento senza avvisarne il sospettato. Siamo al 10 febbraio 2023, dopo cinque giorni i pm rinunciano alla richiesta di revoca. Lo iscrivono finalmente nel registro degli indagati il 15 febbraio, dopo aver disposto a sua insaputa un accertamento tecnico irripetibile, ovvero l’estrazione delle impronte digitali dal documento acquisito da qualche tempo sulla «battaglia della Spiotta», che riportava la versione del Br scampato alla sparatoria, impedendogli così la nomina di un proprio consulente. Il 10 marzo 2023 la procura chiede addirittura la custodia cautelare di Azzolini sulla base di due intercettazioni ritenute delle «sostanziali confessioni». Il gip risponde che per «giurisprudenza costante» occorre prima revocare la precedente pronuncia di proscioglimento per i medesimi fatti. Finalmente dalla procura arriva la nuova richiesta di revoca del proscioglimento del 1987, senza però rivelare – tra gli elementi di prova – quanto era stato scritto nella richiesta di febbraio, ovvero che Azzolini era sotto intercettazione. In questa nuova domanda si cita solo l’esito delle perizie dattiloscopiche. In questo modo l’indagato non viene a sapere che tra i mezzi di prova ci sono anche delle intercettazioni. Il gip concede una riapertura limitata di sei mesi ma nonostante l’avvio formale di nuove indagini non viene sanata la situazione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, che permangono intatte nella veste giuridica di semplici proroghe della iniziale autorizzazione da tempo illecita.

Le intercettazioni non bastano
A maggio 2023 nuovo cambio di strategia, i pm cercando di puntellare le intercettazioni illegali convocando come semplici testimoni due soggetti “captati” che ad avviso degli inquirenti avevano avuto conversazioni indizianti con Azzolini. Ma si tratta dell’ennesima forzatura procedurale poiché uno di loro, Antonio Savino, è un ex Br imputato di reato connesso e quindi ha diritto alla presenza di un legale di fiducia e non ha l’obbligo di rispondere per legge. La difesa fa notare la circostanza e si vede rispondere che spetta ai pm stabilire la qualifica giuridica del convocato, fosse anche illegittima.
L’altro testimone, PB, è una persona totalmente estranea alle vicende degli anni 70, divenuto amico nei decenni successivi della moglie di Azzolini, anch’essa ex Br. Una volta sentito, disattende le attese dei pm che però rinunciano a contestargli l’intercettazione da loro ritenuta indiziante per non metterlo sull’avviso. A giugno la procura ripropone la richiesta di arresto per Azzolini, accusato di avere condizionato la testimonianza di PB inquinando così le prove. Tuttavia il 17 luglio il gip respinge nuovamente le pretese delle procura dopo avere dichiarato inutilizzabili le intercettazioni ambientali effettuate prima della revoca del proscioglimento e della riapertura delle indagini (in realtà mai interrotte). Si tratta di una battuta d’arresto per i pubblici ministeri che vedono traballare l’intero castello di carta dell’inchiesta. Davanti al gup, lo scorso 26 settembre, replicheranno che questi rilievi del gip, sottolineati dalla difesa, in realtà sono infondati poiché trattandosi di due inchieste distinte, la prima contro ignoti e la seconda contro Azzolini e suoi coimputati, le intercettazioni autorizzate nel corso della prima inchiesta restavano comunque valide anche nella seconda, sulla base di una semplice proroga.

Il teste braccato
A Settembre 2023 la procura riparte alla carica e interroga nuovamente il testimone PB, accusato di falsa testimonianza durante l’esame. Ancora una volta i pm violano il codice poiché a quel punto PB andava interrogato con l’ausilio di un difensore, essendo mutata la sua posizione giuridica da testimone a persona sospettata di reato. Invece le domande nei suoi confronti si fanno più pressanti e riguardano sorprendentemente anche il ruolo svolto dall’avvocato di Azzolini, che avrebbe avuto un incontro richiesto dal teste. 
L’inchiesta termina qui, con la messa sotto accusa di Azzolini, nel frattempo rinviato a giudizio insieme ai suoi tre coimputati, e il tentativo di fare la stesa cosa con il suo avvocato. Circostanza che ricorda l’inchiesta perfetta sognata da ogni pm: condannare l’imputato e liquidare il suo difensore.

Chi ha ucciso Mara Cagol? Indagato nella nuova indagine sulla sparatoria alla cascina Spiotta di 48 anni fa, Curcio chiede verità sulla uccisione della moglie

«Prima uccidono la moglie poi vogliono indagarlo», si riassume in queste poche parole l’iscrizione nel registro degli indagati da parte della procura torinese di Renato Curcio, tra i fondatori della Brigate rosse: 82 anni, 25 passati in carcere di cui 12 nel circuito di massima sicurezza, per lunghi periodi in articolo 90, il regime antesignano dell’attuale 41 bis.
I magistrati torinesi hanno riaperto le indagini su una sparatoria avvenuta 48 anni fa davanti alla cascina Spiotta di Arzello, in provincia di Alessandria, dove la colonna torinese delle Brigate rosse aveva nascosto da appena 24 ore, dopo averlo rapito, l’industriale dello spumante Vallarino Gancia, scomparso lo scorso 14 novembre 2022.

La sparatoria
All’arrivo di una pattuglia dei carabinieri in perlustrazione nella zona si scatenò un conflitto a fuoco tra due brigatisti, un uomo e una donna, che custodivano l’ostaggio e i militi dell’arma. Nello scontro morì l’appuntato Giovanni D’Alfonso e rimase gravemente ferito il tenente Umberto Rocca e più leggermente il maresciallo Rosario Cattafi. La donna, Mara Cagol, ferita e seduta a terra ormai disarmata, venne uccisa in circostanze mai chiarite con un colpo sotto l’ascella. L’altro brigatista riuscì a fuggire in modo rocambolesco lanciandosi in un boschetto circostante e facendo perdere le proprie tracce. In una relazione, poi ritrovata all’interno della base di via Maderno a Milano, dove Curcio si nascondeva dopo l’evasione dal Carcere di Casale Monferrato, il brigatista fuggito e mai individuato raccontava la sua versione dei fatti spiegando di aver visto Mara Cagol ancora viva dopo essersi lanciato nel bosco. Nascosto nella boscaglia aveva scorto la donna seduta a terra con le mani alzate che si rivolgeva al quarto carabiniere, l’appuntato Pietro Barberis, rimasto di copertura in fondo al viottolo che portava alla cascina. Ecco il suo racconto:

«Urlai a M. Di svignare e corre verso il bosco. Mentre correvo zigzagando nel campo, sentii tre colpi attorno a me. Riuscii ad arrivare al bosco e con un tuffo mi buttai nella macchia piena di spini. Di sopra sentivo la M. che urlava imprecando contro i Cc. Presi l’altra Srcm dalla tasca e pensai di centrare il Cc. Mi affacciai dalla buca e vidi la M. seduta con le braccia alzate che imprecava contro il Cc. Nel vedere la M. Ancora seduta e la mia impossibilità di arrivare a tiro decisi di sganciarmi velocemente, pensando che i rinforzi sarebbero arrivati a minuti. Corsi giù per il pendio e quando stavo per arrivare dall’altra parte della collina, vicino ad un bosco sotto il castello (saranno passati cinque minuti dal momento della mia fuga), ho sentito uno, forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra. Per un attimo ho pensato che fosse stata la M. a sparare con il suo mitra, poi ebbi un brutto presentimento…».

Il confidente della Ferretto
In via Maderno i carabinieri erano arrivati grazie al ruolo di un confidente, un operaio interno all’Assemblea autonoma di Porto Marghera, un ex della Brigata Ferretto (antesignana della colonna veneta della Br) “gestito” dal Centro Sid di Padova tra il 1975 e il 1976. Il confidente fu all’origine di molti arresti: oltre a Nadia Mantovani e Renato Curcio, fece catturare lo stesso giorno Angelo Basone e Vincenzo Guagliardo. Le sue soffiate provocarono la caduta di diversi militanti Br di Porto Marghera; fu sempre lui a consegnare ai carabinieri Giorgio Semeria che dal Veneto rientrava a Milano. E probabilmente la necessità di coprire questa fonte molto importante per l’efficacia dimostrata giustificò il tentativo di omicidio di Semeria al momento della sua cattura sulla banchina della stazione centrale.

Quarantotto anni dopo
Le nuove indagini sono partite proprio dal testo del brigatista superstite, cercando di individuare impronte e tracce di dna presenti sui fogli dattiloscritti e sulla macchina da scrivere impiegata, ritrovata sempre nella base di via Maderno.
Sono stati ascoltati come testi informati dei fatti molti ex brigatisti della prima ora ma nessuno ha fornito elementi utili all’inchiesta: c’è chi si è avvalso della facoltà di non rispondere, chi ha richiamato la compartimentazione, chi era già in carcere o apparteneva ad altre colonne non coinvolte nel sequestro. In un primo momento anche Curcio è stato ascoltato come teste ma lo scorso 20 febbraio è stato convocato una seconda volta come indagato per il reato di concorso in omicidio, in ragione della sua «figura apicale» all’interno dell’organizzazione brigatista. Posizione che lo avrebbe reso responsabile delle direttive fornite ai militanti che hanno materialmente condotto il sequestro e gestito l’ostaggio, tra cui quella che prevedeva in caso di avvistamento del nemico di sganciarsi prima del suo arrivo e se colti di sorpresa «ingaggia[r]e un conflitto a fuoco per rompere l’accerchiamento». Passaggio ripreso da un numero del giornale Lotta armata per il comunismo del 1975, senza firma.

Premeditazione
Sulla base del principio giuridico del «dolo eventuale» e di una estensione iperbolica del concorso morale, i tre pubblici ministeri che conducono l’inchiesta hanno ritenuto Curcio responsabile dei fatti accaduti che egli in qualche modo avrebbe messo in conto, ivi compreso a questo punto non solo la morte dell’appuntato D’Alfonso e il ferimento degli altri carabinieri ma anche la morte della moglie. Circostanza che in passato aveva giustificato il mancato approfondimento della vicenda. Gli organi di polizia, infatti, avevano preferito glissare sull’identità mai accertata del brigatista fuggito per evitare di attirare l’attenzione sulla reale dinamica della morte della Cagol, episodio che all’epoca suscitava ancora dell’imbarazzo tra le fila dell’antiterrorismo.
Eravamo nel 1975, lontani da quel 1980 quando nella notte del 28 marzo i carabinieri non esitarono ad infliggere il colpo di grazia alla nuca ai quattro brigatisti presenti nella base di via Fracchia a Genova, dove avevano fatto irruzione sorprendendoli nel sonno. Tra di loro c’era anche la giovane proprietaria dell’appartamento, Anna Maria Ludman.

Una cattivo sempre utile per tutte le stagioni
La nuova indagine è scaturita da un esposto presentato da Bruno D’Alfonso, figlio dell’appuntato deceduto nello scontro a fuoco, anche lui carabiniere, dove si chiedeva di fare luce sulla identità del brigatista sfuggito alla cattura. L’esposto, realizzato dopo anni di ricerche personali sulla vicenda, ha ispirato la realizzazione di un volume, Brigate rosse – L’invisibile, scritto da Berardo Lupacchini e Simona Folegnani, edizioni Falsopiano. I due autori si dicono convinti di aver individuato con la loro ricerca l’identità dell’«invisibile» nella persona di Mario Moretti, azzardando sulla base di una ricostruzione alambiccata e l’uso del termine «presa» per indicare la cattura dell’industriale Gancia, utilizzato nel rapporto trovato nella base di via Maderno e «diciotto anni dopo nel libro firmato da Moretti», l’individuazione della prova che incastrerebbe quest’ultimo. Certi della solidità della loro prova i due autori ispirati dalle sirene franceschiniane si dilungano nel tratteggiare un presunto movente che avrebbe guidato il comportamento senza scrupoli del cattivissimo Moretti: ormai al riparo nella folta vegetazione un subitaneo pensiero, una preveggenza strategica, l’avrebbe indotto ad abbandonare Mara Cagol al suo destino per prendere così il suo posto alla guida dell’organizzazione. Una quadra della vicenda che ha entusiasmato il giudice Salvini nel corso din una presentazione del volume avvenuta su Fb.
I giudici torinesi non sembrano tuttavia aver apprezzato molto il suggerimento indirizzandosi verso altre strade.

La memoria difensiva
In una memoria molto dettagliata Curcio ha spiegato che in quel periodo, successivo all’evasione dal carcere di casale Monferrato, per ragioni di sicurezza non era più organico ad alcuna colonna e dunque all’oscuro delle singole operazioni che queste portavano avanti. Ha ricordato che nelle Brigate rosse non esistevano ruoli apicali e militanti subalterni. Ha chiesto poi che le nuove indagini facessero finalmente luce sulle circostanze della morte della moglie, Mara Cagol, facendo leva sul referto autoptico che riferiva del colpo mortale portato sotto l’ascella della donna.

Lo stratagemma per evitare la prescrizione
L’accusa così formulata a Curcio serve soprattutto a puntellare un fondamentale requisito giuridico necessario per scongiurare la prescrizione dei reati maturata da lungo tempo, e dunque l’improcedibilità: la premeditazione. L’invenzione della presenza di una direttiva generica tratta dalla citazione di un foglio d’area, la cui paternità viene attribuita a Curcio eletto “monarca assoluto” delle Brigate rosse in spregio alle conoscenze storiche sul funzionamento di quella organizzazione, serve a creare la presenza della premeditazione in una vicenda del tutto occasionale, dove è la stessa dinamica dei fatti e il racconto del superstite sfuggito a dimostrare che i brigatisti non si accorsero dell’arrivo della pattuglia e reagirono in modo del tutto impreparato e confusionario.