Vecchi documenti desecretati presentati come nuovi. I trucchi disperati della destra per tenere aperta la pista palestinese sulla strage di Bologna

Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 6 novembre 2024

Il segreto sta nello spostare la linea del traguardo sempre un po’ più in là. Oppure, detta diversamente, nell’indicare in un nuovo elemento prima mai ipotizzato la “colpa” dell’assenza di ciò che, invece, per anni era stato postulato come sicuramente presente. E in grado di svelare l’indicibile. È così che da anni si dà fiato alla cosiddetta “pista palestinese” per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980 (la più grave della storia repubblicana, 85 morti e oltre 200 feriti), soprattutto attraverso articoli di stampa e saggistica, oltre a puntuali rilanci politici da parte della destra.
E nonostante le risultanze storiche e giudiziarie l’abbiano di continuo affossata: dalle condanne definitive di Mambro e Fioravanti (1995) a quella di Ciavardini (2007), fino alle più recenti di Gilberto Cavallini dei Nar e Paolo Bellini di Avanguardia Nazionale in primo e secondo grado. Il risultato è che ora, in un manuale di studio per aspiranti giornalisti, la strage di Bologna è stata inserita in un paragrafo in cui si parla delle Brigate Rosse. E senza citarne la matrice neofascista.
Il tentativo più recente di rianimare la pista palestinese risale a qualche settimana fa. Ed è passato giustamente quasi inosservato. A rilanciare l’incessante lavorìo che muove da precisi profili social è stato suo malgrado il quotidiano il Giornale, attraverso un ampio servizio che – così nelle intenzioni – avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di documenti dei servizi segreti (il Sismi, quello militare) in grado di avvalorare appunto la responsabilità palestinese per la bomba di Bologna.
Documenti, questa l’ipotesi espressa però in termini più che assiomatici, che sarebbero stati scientemente a lungo occultati perché rivelatori in qualche modo di una corresponsabilità dello stato, che attraverso il cosiddetto “lodo Moro” avrebbe consentito all’Olp e ai suoi epigoni di scorrazzare impuniti nel nostro paese, armi e bagagli al seguito, in cambio dell’intangibilità del territorio italiano da attentati.

Assioma mai dimostrato
Tale patto segreto, questo è l’assioma non dimostrato, sarebbe stato violato da parte italiana attraverso il casuale sequestro di due lanciamissili, nel novembre del 1979 a Ortona, destinati a raggiungere via mare il Medio Oriente e a essere utilizzati contro obiettivi israeliani. E dal contestuale arresto dei tre militanti dell’Autonomia romana che si erano prestati al trasporto, oltre a quello di un esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina di stanza a Bologna, che aveva chiesto la loro collaborazione. Di qui la conclusione, senza riscontri ma categorica nonostante la selva di condizionali, di un attentato alla stazione come rappresaglia.
È un’ipotesi che non ha fondamento giudiziario e ancor meno storico. Al di là dell’archiviazione nove anni fa della relativa inchiesta da parte della Procura di Bologna, dopo un buon decennio di indagini anche attraverso rogatorie internazionali, neppure i documenti del Sismi (relativi a comunicazioni con il proprio centro di Beirut) allora non disponibili e oggi invece desecretati hanno portato alcun elemento in tale direzione. Da tempo consultabili all’Archivio Centrale dello stato, sono stati analizzati per la prima volta da Domani ancora l’11 marzo del 2023 (e in altri approfondimenti pubblicati su questo blog: 1, 2, 3, 4, 5, 6). E dimostrano che la vicenda di Ortona nulla ha a che fare con la bomba alla stazione. Tanto che tre mesi più tardi, nel processo d’appello a Cavallini (udienza del 14 giugno 2023), anche la Procura generale ha avuto buon gioco nel demolire carte alla mano ogni ipotetico collegamento. Ed ecco così lo “spostamento” del traguardo di cui si diceva all’inizio: la lamentata assenza, cioè, di carte del Sismi nel periodo che va dal 2 luglio al 23 settembre 1980. Con la sottotesi-corollario: sono stati fatti sparire, perché raccontano appunto l’indicibile.
Si tratta di una tesi che, in un paese intossicato da decenni di dietrologie e cospirazionismi i più vari (e invece refrattario alla faticosa lettura di corpose sentenze), piace e fa presa. Soprattutto da destra gli sforzi si sono così concentrati sulla denuncia di questo presunto “buco” documentale, nonostante nel carteggio ve ne siano altri ancora più lunghi, sottolineando l’esistenza di “manine” e volontà (della politica o dell’intelligence, peggio ancora di entrambe) tutto fuorché trasparenti. Paradossalmente, però, l’articolo del Giornale di qualche settimana fa dimostra l’esatto contrario. Ma qui occorre andare con ordine. Partendo appunto dai documenti pubblicati dal quotidiano milanese.

Lo scambio
Si tratta di uno scambio di informative che avviene nell’agosto del 1980, con documenti in partenza da Roma (Seconda Divisione Sismi, terza sezione) sabato 9 con destinatario il capocentro del servizio a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone, che risponde giovedì 21. Si tratta di documenti in cui comunque sono presenti omissis, ma il cui senso è tutto sommato chiaro: il Sismi chiede al proprio agente di attivarsi con tutte le raccomandazioni del caso («agire estrema cautela») per avere informazioni relative alla presenza di estremisti di destra italiani in campi di addestramento del Partito falangista libanese.
Le risposte di Giovannone non offrono particolari elementi di chiarificazione, ma non è questo il punto: da tempo si sa infatti che la cosiddetta “pista libanese” è stata creata ad arte dallo stesso Sismi per sviare le indagini, costringendo la magistratura bolognese a defatiganti approfondimenti che finirono per non portare a nulla, ottenendo però lo scopo di paralizzare a lungo gli inquirenti, mettendoli di fronte a un vorticoso mix di elementi veri, verosimili e falsi, con l’effetto (classico dei depistaggi bene orchestrati) di far “rovinare” anche gli elementi fondati (il coinvolgimento di neofascisti italiani) assieme a tutto il resto. Un esempio di scuola è la celebre velina del Sid all’indomani di piazza Fontana in cui si citava sì la centrale eversiva di estrema destra Aginter Presse, qualificando però come anarchico il suo creatore, cioè il militare francese (e terrorista dell’Oas, oltre a mille altre cose) Yves Guérin-Sérac.
Torniamo però ai quattro documenti diffusi nelle scorse settimane. Per dire che si riferiscono non alla vicenda di Ortona, cavallo di battaglia degli anti palestinesi a prescindere, bensì alla pista libanese, cioè proprio al primo depistaggio internazionale. Si tratta di una vicenda che è stata sviscerata compiutamente nelle varie sentenze sulla strage di Bologna fin dalla prima d’assise del 1988, transitando poi in tutte le successive, comprese le più recenti riguardanti Cavallini e Bellini: il capitolo dei depistaggi è infatti da sempre tra i più esplorati dai magistrati bolognesi. E non c’è alcun mistero che riguardi quei documenti presentati come «carte di cui non si era mai saputo nulla» e ora finalmente «affiorate». Provengono infatti dalla desecretazione avviata dalla Direttiva Renzi. Si tratta in particolare, così fa sapere lo stesso Archivio centrale dello Stato, di una serie archivistica (“7: ‘Strage di Bologna – 2 agosto 1980’ (1980-1985) / 1: (1980)” versata ancora nel 2017 e subito messa in consultazione.

Domande mal poste
Da sette anni dunque quei quattro documenti dei Sismi, assieme a innumerevoli altri relativi alla strage di Bologna, sono lì all’Acs e nessuno se li era filati: d’altra parte il loro contenuto informativo era di nessun interesse, se non addirittura controproducente nell’ottica di dimostrare l’indimostrabile. Ora però qualcuno si è accorto che la loro datazione ricadeva nel “buco” documentale di cui si è detto e ha pensato bene di rispolverarli, segnalando tale circostanza al Giornale, ma incurante del fatto che nulla aggiungono alla vicenda, men che meno in chiave anti palestinese: certificano infatti, al massimo, che pochi giorni dopo l’attentato alla stazione anche il Sismi attivò i propri canali per cercare di assumere informazioni. E sarebbe stato sorprendente il contrario.
Perché infine quei quattro documenti sono stati tenuti separati dai 32 catalogati invece come “vicenda Giovannone-Olp” (il primo versamento del 2022) e dagli ulteriori 163 del versamento di aprile 2023? Chi lo ha fatto e perché? Posta così però di una domanda mal posta, se si considera che si tratta di carte desecretate addirittura in precedenza. E che, lo si ripete, con i lanciamissili di Ortona non c’entrano nulla. Ma tant’è: ciò che conta è continuare ad agitare le acque, puntando sulla credulità del lettore poco avvezzo a districarsi tra milioni di documenti. Anche usando carte consultabili da anni, “vendute” invece come strappate al segreto e ripescate chissà dove.

La commissione Moro 2 e la strana scomparsa dei documenti che scagionano la giornalista Birgit M. Kraatz

Doveva essere la commissione della verità finale sul rapimento Moro. Il presidente Giuseppe Fioroni appena insediato aveva promesso che finalmente sarebbe stata accertata la verità sempre «negata, spazzando via il «patto del silenzio», il muro di presunta «omertà» tra brigatisti e uomini dello Stato, secondo la definizione coniata da Sergio Flamigni nella sua saga dietrologica. Una versione dei fatti, nient’affatto coincidente con la realtà, che secondo il presidente della nuova commissione Moro avrebbe «tombato l’indicibile verità» del rapimento e della uccisione nel 1978 del presidente del consiglio nazionale della Democrazia cristiana.


Il nuovo porto delle nebbie

La Moro 2, i cui lavori si sono tenuti dal 2014 al 2018, si è rivelata invece l’ennesimo porto delle nebbie. Un luogo dove non solo non è mai emersa quella verità illibata, promessa all’inizio, ma addirittura alcune risultanze documentali scomode e non preventivate, le fastidiose acquisizioni emerse nel frattempo – ma non in linea con gli auspici del suo presidente – si sono perse tra gli scaffali degli archivi. La verità tanto promessa è così annegata nelle acque torbide del complottismo, risucchiata dai vortici profondi di ipotesi e congetture dietrologiche che hanno guidato come fossero un assioma indiscutibile il cammino della commissione.

Le accuse contro la giornalista Birgit M. Kraatz
Nell’ultimo anno di lavori la commissione si era occupata di un complesso immobiliare sito in via dei Massimi, nella parte alta di via Balduina, a Roma. Una zona distante poche centinaia di metri in linea d’aria dal luogo del rapimento dello statista democristiano. A dire il vero, non si trattava affatto di una novità: già nei giorni successivi al rapimento erano circolate voci sul comprensorio di palazzine dell’Istituto opere religiose del Vaticano situato al civico 91 di quella via. Nel novembre del 1978, un quotidiano romano, Il Tempo, anticipò un articolo dello scrittore Pietro Di Donato apparso nel numero di dicembre sulla rivista erotica-glamour Penthouse. Nell’articolo si sosteneva che la prigionia di Moro si era svolta nella zona della Balduina, luogo dove sarebbe avvenuto il trasbordo del prigioniero ed erano state abbandonate le macchine impiegate in via Fani. Agli atti risulta che le forze di polizia effettuarono controlli e perquisizioni in alcune palazzine e garage dei dintorni senza alcun esito. La sortita di Di Donato fu ripresa nel gennaio 1979 da Mino Pecorelli sulla rivista legata ai Servizi Osservatorio politico. Ne accennò anche il pm Nicolò Amato durante le udienze del primo processo Moro, agli inizi degli anni 80. Più tardi se ne occupò, sempre senza pervenire a risultati, la prima commissione Moro finché la diceria venne consacrata nelle pagine di un libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate pp. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica.
Una vecchia leggenda presa per buona dalla commissione e riportata nell’ultima relazione approvata nel dicembre 2017 con l’aggiunta di una novità: ad una giornalista di nome Brigit M. Kraatz, corrispondente in Italia delle più importanti testate giornalistiche tedesche e residente nel 1978 in via dei Massimi 91, con la figlia e la governante che accudiva la bambina, si attribuiva un ruolo nel sequestro Moro. Nel relazione si affermava che Franco Piperno, amico da almeno un decennio della Kraatz, la mattina del 16 marzo 1978 avrebbe controllato dalle finestre dell’appartamento della donna il buon andamento del sequestro, ovvero l’arrivo delle macchine dei brigatisti con Moro all’interno e il loro ingresso nel garage dove il prigioniero – sempre secondo la fantasiosa ricostruzione della commissione – sarebbe stato fatto scendere e nascosto in un’abitazione del palazzo. Si aggiungeva inoltre che la giornalista era, in realtà, una nota esponente del gruppo sovversivo tedesco «2 Giugno». Sarebbe bastato svolgere un sopralluogo nella ex abitazione della Kraatz per rendersi conto che dalle sue finestre non era possibile alcuna visuale sull’ingresso del garage, ma sarebbe stato chiedere troppo ad una commissione il cui lavoro è consistito essenzialmente nell’accreditare congetture piuttosto che verificare la fondatezza dei fatti.

«Birgit Kraatz non è un membro della 2 giugno», Il documento della polizia tedesca che smentisce Fioroni
Venuta a conoscenza della vicenda solo qualche tempo dopo, il 26 febbraio 2018 Brigit M. Kraatz inviò una prima lettera a Fioroni nella quale chiedeva di cancellare dalla relazione le «calunniose asserzioni» rivolte alla sua persona (allegato 1). Lettera che non ricevette mai risposta anche perché nel frattempo la commissione aveva chiuso i battenti per la fine anticipata della legislatura. Nel frattempo Birgit M. Kraatz segnalò la vicenda anche all’allora presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico, prima nel maggio e poi nell’ottobre 2018. Negli stessi giorni si rivolse anche alle altre cariche del Stato, la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche in questo caso ricevendo come risposta solo una glaciale indifferenza.
Il 4 ottobre successivo, Fioroni ormai ex presidente della commissione nel corso della presentazione di un suo libro, Moro il caso non è chiuso. La verità non detta, davanti alle domande dei giornalisti spiegò che nell’agosto 2018 era pervenuta una nuova informativa che smentiva il coinvolgimento della Kraatz nell’organizzazione «2 giugno». L’Ansa del giorno successivo riferì le sue parole: «Sull’adesione di Birgit Kraatz all’organizzazione estremista tedesca del ‘2 Giugno’, “ci sono degli atti che lo dicono e che noi abbiamo ereditato, ma c’è anche un documento di due mesi fa che dice che lei non c’entra niente“». In evidente difficoltà per la micidiale bufala scolpita nella relazione della commissione, Fioroni provava a salvare capra e cavoli affermando che «il riferimento alla giornalista era per il rapporto avuto con Piperno (“assolutamente legittimo”, secondo Fioroni) e in primis per l’eventuale presenza di Piperno nel palazzo romano. “A noi interessa – concludeva l’ex deputato – solo per le relazioni sentimentali che aveva. Abbiamo inserito lei nel testo solamente per dimostrare che c’era Piperno che frequentava quella casa. Poi se era dell’organizzazione del 2 giugno o altro, a me non serviva a niente”».
Il 18 ottobre 2018 i legali della signora Kraatz scrissero nuovamente all’ex presidente Fioroni, chiedendogli ancora una volta di correggere la relazione e allegando due comunicazioni della Bundeskriminalamt, l’Ufficio federale della polizia criminale (Bka), del 26 giugno e del 4 ottobre 2018 nel quale si certificava che il nome della signora Kraatz non era mai stato menzionato in alcun documento della struttura e la sua totale estraneità con le vicende della «2 giugno».

L’origine della calunnia

Il nome della Kraatz era stato tirato in ballo da una vecchia relazione del 31 luglio 2000 presentata dai due parlamentari di Alleanza nazionale provenienti dall’Msi, Alfredo Mantica ed Enzo Fragalà, membri della commissione Stragi nella quale appariva in modo del tutto abusivo il nome di «Birgit Kraatz».
A seguito di una rogatoria diretta alle autorità tedesche, presentata dal giudice Francesco Amato sui nomi di alcuni esponenti vicini al movimento eversivo «2 giugno», la polizia tedesca inviava in risposta una relazione. Senza alcuna giustificazione comprensibile, l’Ucigos – l’Ufficio centrale della polizia politica destinatario della relazione – apponeva il nome di Birgit Kraatz nella lettera che accompagnava il testo della Bundeskriminalamt. Nome che invece non era presente all’interno del documento della polizia tedesca e che mai più riapparirà. Nella successiva minuta della Digos di Roma, che riceve la documentazione dall’Ucigos e la rigira al magistrato, non vi è infatti più alcuna traccia della Kraatz. Nonostante questa anomalia, i due parlamentari che evidentemente si erano soffermati solo sulla minuta di accompagnamento riportano il nome della donna nella loro relazione, indicandola come una esponente del gruppo «2 giugno». Diciassette anni più tardi, alcuni consulenti della commissione Fioroni che scandagliavano i materiali digitalizzati prodotti dalle precedenti commissioni intercettano il nome della Kraatz incrociandolo con quello delle persone che risiedevano nel 1978 nella palazzina di via dei Massimi 91. Nasce così il grossolano errore: nessuno legge attentamente le carte e si domanda perché il nome della Kraatz sia assente dalla relazione inviata della polizia tedesca (la fonte primaria) ma compaia nella minuta italiana che l’accompagna. Non si svolgono le necessarie verifiche, non si fanno approfondimenti su altre fonti di informazione. In poche parole non si utilizza una corretta metodologia. Emerge un modo di lavorare superficiale che evita sistematicamente ogni indizio, segnale o prova che sollevi dei problemi, inceppi o allontani dalla meta prefigurata o peggio smentisca i teoremi precostituiti. Insomma una gigantesca officina di fake news. Ad aggravare ulteriormente il comportamento della commissione è un rapporto del 19 marzo 2018 (protocollo 3698 del 20 marzo 2018), prodotto da una collaboratrice della commissione, contenente diversi documenti dell’Ucigos appena declassificati. Nella nuova documentazione è presente una nota del 28 settembre 1981, inviata all’Ucigos dal questore Giovanni Pollio, in cui si spiega che Birgit Kraatz è una giornalista che «svolge la propria attività lavorativa presso la redazione del periodico tedesco “Stern” di cui è corrispondente».

L’intangibilità delle relazioni prodotte dalle commissioni parlamentari

Dopo essere riuscita a contattare gli uffici della commissione alla signora Kraatz fu spiegato che il testo di una relazione parlamentare una volta deliberato, ovvero accolto e votato dai membri della commissione e successivamente approvato dal voto delle aule parlamentari, non è modificabile in alcun modo. L’unica possibilità era quella di inviare la nuova documentazione della Bka che correggeva le asserzioni contenute nella relazione all’ufficio stralci in modo da poter esser messa a disposizione degli studiosi che ne avrebbero fatto domanda. Richiesta che venne esaudita il 18 ottobre 2018 con l’invio della documentazione all’allora segretario della commissione Moro 2, dottor Tabacchi. Per aggirare l’intangibilità del testo della relazione i legali della Kraatz proposero ragionevolmente di allegare la nuova documentazione al testo della relazione e di modificare le informazioni che circolavano su internet (allegato 2). Ancora una volta nessuno ha mai preso in considerazione la proposta tantomeno inviato un qualunque segnale di risposta.


Verità storica e verità deliberata

L’intangibilità delle relazioni votate dalle commissioni parlamentari d’inchiesta merita una riflessione particolare. Ci troviamo, infatti, di fronte al postulato di una nuova verità: la verità parlamentare che è tale poiché delibera una volontà del popolo che rappresenta. Un modello procedurale che all’atto della deliberazione crea dei fatti, congelandoli, al pari delle sentenze giudiziarie. Una volta deliberate o sentenziate queste versioni degli accadimenti diventano intangibili, salvo lunghe e limitatissime eccezioni, a differenza della verità storica che ha una natura processuale soggetta a possibili e continue rimesse in discussione dovute all’emergere di nuove metodologie o all’acquisizione di nuovi documenti, circostanze e informazioni. Accade così che la verità parlamentare si adagia su una narrazione degli eventi deliberata sulla base delle convenienze di una maggioranza politica senza più recepire eventuali smentite. E’ il grande limite delle commissioni parlamentari che agli occhi degli storici riservano interesse soprattutto per il bacino documentale raccolto, quando questo è accessibile, più che per le loro conclusioni.

La querela contro Gero Grassi
Nell’autunno del 2020, Birgit M. Kraatz nel tentativo di fare giustizia delle calunnie prodotte contro la sua persona querelava anche uno dei membri più attivi della commissione Moro 2, l’ex vice presidente del gruppo parlamentare del Pd alla Camera Gero Grassi (leggi qui). Non più parlamentare, per la mancata ricandidatura nelle liste del suo partito, Grassi aveva ripubblicato in un suo volume le accuse contro la signora Kraatz ribadendo la sua appartenenza al gruppo sovversivo «2 giugno». Ormai privo della immunità, che gli aveva garantito in precedenza di poter affermare qualunque cosa senza conseguenze, Grassi è stato raggiunto dalla denuncia che, inizialmente depositata a Grosseto, per competenza territoriale è stata assegnata al tribunale di Trani, luogo di sua residenza, dove il Gip rigettando la richiesta di archiviazione proposta dalla procura ha disposto ulteriori accertamenti.

La verità parlamentare diventa verità giudiziaria. Birgit Kraatz accusata anche dai giudici della strage di Bologna
Con grande sconcerto la scorsa estate Birgit M. Kraatz ha scoperto di essere finita anche nelle pagine della sentenza di condanna per la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980, emessa contro il neofascista Paolo Bellini e depositata nell’aprile del 2023. Riprendendo alcuni stralci della relazione del dicembre 2017 prodotta dalla commissione Fioroni, con l’intenzione fallace di sostenere la tesi delle «convergenze parallele» tra lotta armata di sinistra e stragismo fascista, i giudici della corte d’assise assecondavano, a pagina 1631 (allegato 3), l’appartenenza della Kraatz alla organizzazione sovversiva «2 giugno». Il 20 settembre la giornalista inviava l’ennesima lettera di smentita, stavolta alla corte di appello bolognese che ha in carico il processo d’appello, chiedendo «di interrompere finalmente questa catena di montaggio di accuse false […] e di correggere definitivamente questo sbaglio nella vostra sentenza d’Appello e ristabilire che io non ho mai fatto parte di nessuna organizzazione terroristica (allegato 3) .

La richiesta di spiegazioni rivolta all’archivio della commissione Moro 2 e la scoperta che le lettere e i documenti inviati nel 2018 sono scomparsi

Stupita dal fatto che i documenti inviati nel 2018 a Giuseppe Fioroni e all’ufficio stralci della commissione non fossero stati recepiti, la signora Kraatz si è rivolta nuovamente al vecchio segretario, il funzionario della Camera dei deputati dottor Tabacchi, nel frattempo trasferito a nuovo incarico, chiedendogli dove fosse finita la documentazione inviata e se questa fosse mai stata allegata alla relazione, come richiesto.

La risposta pervenuta è stupefacente: la lettera a Fioroni inviata nel febbraio 2018, acquisita in data 26 marzo 2018 con protocollo 3693 (serie corrispondenza), e i documenti della Bka, acquisti il 5 novembre 2018 con protocollo 88 dell’Ufficio stralcio, risultavano scomparsi, introvabili.

Io stesso prima di redigere questo articolo ho cercato nuovamente i documenti, prima sul portale della commissione, senza trovarli, poi rivolgendomi al dottor Tabacchi che mi ha rinviato all’archivio a cui ho subito scritto ricevendo questa risposta: «La informiamo che sono state avviate le procedure di ricerca e riscontro documentale. Saranno necessari, al riguardo, alcuni tempi tecnici, al momento non precisabili. Avremo cura di comunicarLe gli esiti delle verifiche esperite. Cordiali saluti».
Era il 22 ottobre 2023, da allora più nulla.
Dove sono finiti quei documenti regolarmente protocollati? Possibile che nessuno sappia la fine che hanno fatto? Sono forse stati secretati e inviati alla procura romana nell’ambito dell’inchiesta che sta conducendo su via dei Massimi e via Licinio Calvo? Se fosse questa la ragione appare strano che dei documenti regolarmente protocollati in entrata non risultino segnalati in uscita. Dove sono allora?

Allegato 1
Lettera a Giuseppe Fioroni, presidente della commisione Moro 2, del 26 febbraio 2018, scomparsa dagli archivi

Allegato 2
Le due comunicazioni della Bundeskriminalamt, l’Ufficio federale della polizia criminale tedesca, scomparse dall’archivio della commissione Moro 2

Allegato 3
Lettera con richiesta di correzione inviata alla corte d’apello di Bologna e pagina 1631delle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado del neofascista Paolo Bellini per la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980

Strage di Bologna, una commissione d’inchiesta per cancellare lo stragismo fascista

Foto Gaggioli

All’alba del quarantatreesimo anniversario della strage alla stazione centrale di Bologna incombe una nuova stagione di strumentalizzazione politica della storia. L’attentato esplosivo che fece saltare in aria circa trecento persone provocandone la morte di 85 è ancora un campo di battaglia giudiziario, politico e storico.
Diversi esponenti dell’attuale maggioranza di governo hanno depositato all’inizio del mese di luglio una proposta di indagine parlamentare sulle «connessioni del terrorismo interno e internazionale con gli attentati, le stragi e i tentativi di destabilizzazione delle istituzioni democratiche avvenuti in Italia dal 1953 al 1992 e sulle attività svolte dai servizi segreti nazionali e stranieri, anche relativamente alla scomparsa di Graziella De Palo e Italo Toni e all’attentato del 1982 alla Sinagoga di Roma».
Già nel precedente mese di febbraio, Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di Fratelli d’Italia, aveva lanciato la singolare proposta di una inchiesta sulla violenza politica avvenuta in Italia tra il 1970 e il 1989. Furbescamente Rampelli aggirava la madre di tutte le stragi, ovvero la bomba esplosa il 12 dicembre 1969 all’interno della banca dell’agricoltura di piazza Fontana a Milano. Vicenda in cui la responsabilità della destra neofascista, in combutta con alcuni apparati Nato del Triveneto, è stata accertata in sede giudiziaria e storica.
La destra italiana ha una tara genetica, quella dello stragismo intrecciato alle velleità golpiste messe in campo negli anni 70. L’attuale destra di governo, erede di quella stagione, ha tra gli obiettivi la ripulitura della propria storia, il lavaggio dei propri crimini e misfatti. La storia del primo cinquantennio repubblicano deve essere immersa nella candeggina delle commissioni d’inchiesta parlamentare per essere sbiancata, cancellata e riscritta, o meglio rovesciata. L’obiettivo è il capovolgimento del paradigma storico dello stragismo fascista e statale (democristiano), una sorta di risarcimento simbolico che in qualche modo deve riequilibrare e riabilitare in forma vittimistica la sua immagine macchiata dall’infamia indelebile per il ruolo giocato in quella sporca stagione di bombe nelle piazze, sui treni e nelle stazioni.

Washing storiografico
La proposta di Rampelli è stata così sussunta nel nuovo progetto che mira a rileggere il secolo breve della repubblica italiana. Sul portale istituzionale del parlamento non è ancora possibile conoscere il testo integrale del disegno di legge perché in fase di assegnazione, tuttavia il titolo è più che emblematico poiché propone la rilettura di un intero periodo storico che va dai moti triestini del novembre 1953, repressi dal governo militare alleato, fino alle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio. Il tutto – sembrano suggerire i promotori, tra cui compare anche il nome di Rita Dalla Chiesa (Forza Italia) insieme a quello di Sasso (Lega), Antoniozzi, Mollicone e Foti (Fratelli d’Italia) – sorretto da un’unica trama in cui nuclei di terrorismo interno erano sovradeterminati da forze straniere. Se per decenni la narrazione complottista della sinistra, elaborata dalla cultura cattocomunista, aveva designato l’atlantismo Nato, con tutti i suoi derivati e subordinate, come responsabile di ogni cosa, per la destra si deve semplicemente rovesciare la narrazione. Ennesima prova di subalternità culturale e assenza di capacità critica. La complessità del mondo, delle relazioni sociali, dei processi e dei conflitti che muovono la storia può restare materia di una piccola cerchia di studiosi, quel che conta è costruire una diversa egemonia culturale fatta di bugie, favole e leggende da spacciare come nuovo oppio dei popoli.
Giunta finalmente al governo del Paese in una condizione di vuoto pneumatico dell’opposizione politica e di fragilità dell’opposizione sociale, per un periodo che salvo errori macroscopici o drastici rivolgimenti internazionali ha tutte le opportunità di non esser breve, la destra erede del regime sconfitto nel 1945 deve riscrivere la propria storia. Per realizzare la propria visione autoritaria e disciplinare della società e dare corpo al più sfrenato liberismo economico ha ormai tra le mani le leve dello Stato, deve dunque cancellare ogni memoria del proprio passato sporco e cospirativo, dove nell’ombra si proponeva strumento del potere per portare a termine le azioni più indicibili pur di fermare il protagonismo del movimento operaio e delle sinistre.

Utilizzare la strage di Bologna per costruire un nuovo paradigma stragista
L’attuale proposta di una commissione d’inchiesta ricalca una precedente iniziativa depositata sempre da esponenti di Fratelli d’Italia nel 2021, anche se allora l’indagine si fermava al 1989. Il testo dell’epoca faceva riferimento a saggi e studi fautori della esistenza di «collegamenti internazionali del terrorismo italiano» con chiaro riferimento all’attività delle formazioni combattenti palestinesi, senza risparmiare accuse alla sinistra armata italiana, sulla scorta dei lavori di “autori d’area” come Enzo Raisi, Valerio Cutonilli o giornalisti come Gian Marco Chiocci, oggi direttore del Tg1, Gian paolo Pelizzaro e altri. Tra i temi centrali da rivedere c’era la responsabilità neofascista nella strage di Bologna, a seguito di un documento del capo centro Sismi a Beirut, Stefano Giovannone, del 27 giugno 1980. Dalla parziale e fuorviante lettura di quel testo e dal clamoroso errore dell’ex parlamentare Carlo Giovanardi, che aveva confuso la data di un documento dell’aprile 1981, nel quale si riferivano minacce da parte palestinese, antidatandolo all’aprile 80, si elaborava il teorema della ritorsione palestinese come movente della strage giustificata – a detta degli esponenti della destra – dal sequestro, nel novembre del 1979 davanti al porto di Ortona, dei due lanciamissili non armati appartenenti al Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
La successiva desecretazione di una cospicua parte carteggio (195 documenti resi accessibili in due momenti diversi tra giugno 2022 e aprile 2023) proveniente dal centro Sismi di Beirut metteva fine alla cosiddetta pista palestinese, proposta come verità alternativa alle sentenze giudiziarie che indicano, sia pur tra lacune, prove indiziarie e ricostruzioni storiche dietrologiche, la responsabilità della destra neofascista nella strage alla stazione. Le carte di Giovannone dimostrano, infatti, che la crisi dei lanciamissili si era conclusa già il 2 luglio 1980.

Le recriminazioni della destra per le attese andate deluse
Recentemente l’avvocato di estrema destra Valerio Cutonilli ha dato voce alla cocente delusione della destra nei confronti del carteggio Giovannone-Olp puntando il dito su ciò che a suo dire manca: «C’è un buco temporale inverosimile, a mio avviso non casuale, che copre proprio il periodo più utile per la ricerca sulla strage di Bologna. Quello che va dai primi di luglio alla metà di settembre 1980». Prendersela con le presunte «carte mancanti», magari «sottratte», è una vecchia risorsa della retorica complottista che ha sempre pensato di risolvere con questo facile escamotage le proprie defaillances, anche in questo Cutonilli manca di originalità e copia pedissequamente gli inarrivabili maestri del complottismo di sinistra. Quello dell’estate ’80 è in realtà il periodo di silenzio più breve, nel carteggio ce ne sono di ben più lunghi, ma a Cutonilli – posto che lo sappia – non interessano perché non sono strumentalizzabili. Ancora Cutonilli, si è detto «sconvolto» per aver appreso solo recentemente che il palestinese Abu Saleh, coinvolto nella vicenda degli Strela, nel 1981 fu trasferito dal carcere speciale di Trani a quello di Pianosa, dove subì insieme a decine di altri detenuti un brutale pestaggio. Cutonilli insinua che l’episodio sia collegato alla strage di Bologna, dimenticando che il trasferimento in massa da Trani avvenne dopo la rivolta seguita al sequestro D’Urso, rapito dalle Brigate rosse. Una parte dei detenuti vennero trasferiti a Pianosa e qui pestati per rappresaglia, come Saleh che nella rivolta non ebbe alcun ruolo. Nel carteggio del Sismi gli esponenti del Fplp, ben consapevoli delle ragioni del pestaggio, si lamentarono con Giovannone e chiesero il trasferimento a Rebibbia che avvenne di lì a poco, testimoniando netta condanna nei confronti delle Brigate rosse e solidarietà verso il magistrato D’Urso, che al ministero della Giustizia si occupava degli Istituti penitenziari. Basterebbe leggerli i documenti o attenersi ai fatti ma per alcuni, come ricordava Nietzsche, «non esistono i fatti ma solo interpretazioni».

Le protezioni israeliane del neofascista Alibrandi

Inedito – Un documento rinvenuto recentemente presso l’archivio centrale dello Stato getta nuova luce sugli appoggi internazionali ai gruppi della estrema destra italiana degli anni 80

IMG_9074

Le continue indiscrezioni sul lodo Moro (il protocollo segreto messo a punto nel 1973 dai Servizi di sicurezza italiani con le forze della resistenza palestinese, Olp-Fplp, che trasformava l’Italia in una zona franca dove le forze palestinesi si astenevano dal commettere azioni armate in cambio del libero passaggio di loro esponenti e di armi e del sostegno politico-diplomatico, italiano alla loro causa), e la campagna della Destra sulla cosiddetta «pista palestinese» nella vicenda della strage di Bologna, hanno fortemente condizionato l’opinione pubblica, deformando la percezione attuale del contesto storico presente agli inizi del decennio 80 del secolo scorso. Una semplificazione che ha ridotto l’estrema complessità della realtà mediorientale all’interno della quale non operavano solo le forze palestinesi e arabe ma avevano un peso ed un ruolo, certamente non meno significativo se non forse più decisivo, altri Paesi la cui attività resta ancora oggi sottovalutata e poco studiata. Mi riferisco, ad esempio, al ruolo giocato dallo stato d’Israele, un attore della scena mediterranea che ha inciso non poco, stando anche ad alcune inchieste condotte dalla magistratura, in alcuni momenti chiave del nostro Paese, cercando di condizionare la politica energetica e l’orientamento della politica estera italiana.

I neofascisti italiani e le milizie maronite
E’ nota da tempo la presenza, a partire dall’estate del 1980, di un nutrito gruppo di militanti dell’estrema destra triestina e romana, questi ultimi appartamenti ai Nar, tra le fila delle milizie cristiano-maronite in Libano.
Una testimonianza di Gabriele De Francisci, esponente dei Nar, raccolta da Nicola Rao in La fiamma e la celtica, Sperling & Kupfer, (p. 881), riferisce come dopo l’esplosione della bomba alla stazione di Bologna iniziò la diaspora nera: esponenti, tra cui alcuni dirigenti di Terza posizione, ripararono in Gran Bretagna, molti altri – tra cui una pattuglia dei Nar – trovò rifugio in Libano. Il soggiorno libanese era stato anticipato già nel 1979 dall’arrivo dei triestini (Roberto Cetin, Grilz, Capriati, Lippi, Biloslavo, Gilberto Paris Lippi, futuro vice-sindaco di Trieste, Ciro e Livio Lai). Nel settembre 1980, quando la retata della magistratura seguita all’attentato alla stazione di Bologna contro l’area di Terza posizione fece tabula rasa della rete logistica romana e delle connivenze che avevano facilitato la sopravvivenza dei Nar fino a quel momento, si trasferirono anche i romani Walter Sordi, Pasquale Belsito, Stefano Procopio e Alessandro Alibrandi, tutti latitanti o quasi. Sempre nella testimonianza resa a Rao, De Francisci racconta che in quel frangente Alibrandi fu colpito «dall’efficenza militare degli israeliani. Del resto lui e gli altri si addestravano nei campi della Falange, ma gli istruttori erano israeliani. Lui era innamorato di Tsahal, le forze armate con la stella di Davide, e della sua spregiudicatezza».

La polizia sapeva
Ecco apparire, dunque, la prima ombra della presenza israeliana: istruttori militari di Tsahal addestrano latitanti della estrema destra già ricercati per rapine ed omicidi. La presenza tra le milizie maronite libanesi dei neofascisti italiani era nota alle forze di polizia italiane, in una relazione della questura di Bologna, inserita nell’istruttoria per la strage del 2 agosto 1980, si spiega come «il nucleo più agguerrito del Fdg triestino si è recato a più riprese in Libano» usando come tramite le comunità dei cristiano maroniti in Italia che «alla perenne ricerca di combattenti per la loro causa contro i palestinesi (…) fornirebbero indicazioni e documenti a chi faccia richiesta di recarsi in Libano – previo accertamento sulla effettiva militanza di destra» dei volontari (l’accertamento, spiegano gli inquirenti, veniva effettuato «tramite controlli con il Msi-Dn o qualche organizzazione parallela», quindi funzionando da «centrali di smistamento e reclutamento» per chi volesse recarsi in Libano, ed indirizzati all’ambasciata libanese di Atene per il visto d’ingresso, in Claudio Tonel, Dossier sul neofascismo a Trieste, Dedolibri 1991, p. 157. Per altro, Alessandro Alibrandi, che restò in Libano fino al giugno 1981, non mancò di rassicurare i propri famigliari: «numerose telefonate sono intercettate, anche se i controlli subiscono frequenti, immotivate interruzioni», Ugo Mari Tassinari, Fascisteria, Sperling & Kupfer, p. 177.

Le protezioni israeliane di Alibrandi
Fin qui abbiamo riassunto una storia già nota. Ma c’è un fatto nuovo che riapre la questione proponendo nuovi scenari tutti da indagare: una nota del Sisde del 25 giugno 1981, che porta in calce la firma di Vincenzo Parisi, presente tra le carte rese accessibili dalla Direttiva Renzi (vedi in basso la documentazione completa), riporta le informazioni pervenute da una fonte non ancora sperimentata (il servizio scrive di «non valutabile attendibilità») che «si è recentemente recata in Israele». La precisazione è importante poiché lascia intendere che la fonte in questione non era araba o libanese, ma con molta probabilità israeliana o comunque di posizione a questa vicina, in ogni caso in grado di muoversi liberamente all’interno del territorio israeliano, che «effettuando anche un viaggio ai confini libanesi» ha consentito l’acquisizione di una serie di informazioni: una piantina del Libano meridionale dove sarebbero ubicati alcuni campi di addestramento di Fedayn nei quali sarebbero presenti anche stranieri: la fonte parla di italiani, tedeschi, francesi, spagnoli e sudamericani. E fin qui, ancora una volta, nulla di particolarmente nuovo. Più avanti, invece, la fonte riferisce un’informazione assolutamente inedita:

«Gli elementi di destra, combattenti a fianco dei cristiano-maroniti eventualmente feriti in Libano, sarebbero trasportati all’ospedale militare israeliano di Nahariya, dove sarebbe stato ricoverato anche il noto Alessandro Alibrandi; il medico militare che curerebbe questi feriti avrebbe studiato in Italia e si chiamerebbe Lukacs».(1)

Questa informazione, se trovasse conferma, avrebbe senza dubbio un valore dirompente: è impensabile credere, per la grande qualità informativa dell’intelligence israeliana, che la reale identità di Alibrandi non fosse nota al momento del suo ingresso in territorio israeliano per essere curato in un ospedale militare. Non abbiamo trovato traccia delle modalità di lavorazione di questa notizia, e dunque non possiamo permetterci per il momento considerazioni più assertive, salvo sottolineare la presenza di santuari, questi sì invalicabili, indicibili e imperscrutabili a differenza d’altri di cui si vocifera in continuazione.

Note
1. Direttiva Renzi (2014)/ Ministero dell’Interno/ Direzione centrale della polizia di prevenzione/ stazione di Bologna 1980/ Procedimento penale 344/80 [1980-1988]/ Corrispondenza varia. Accertamenti e istruttoria é1980-1986]/ Organizzazione lotta per la Palestina (OLP) (1980-1982)/ 2: Campi di addestramento Alibrandi (1980-1981)/ 2: Trasmissione appunto pervenuto al Sisde (1981 giugno 26) / 1: Appunto con cartina del libano meridionale indicante i campi di addestramento di Fedayn (1981 giugno 25).

Doc1

Doc2

Doc3