Strage di Bologna, ennesima bufala sulla pista palestinese, gli allarmi dell’Ucigos e del capo della polizia dell’11 luglio 1980 non erano attuali, risalivano a una nota della questura di Bologna del 4 marzo 1980


di Paolo Persichetti

Nel corso della inchiesta, che insieme a Paolo Morando abbiamo condotto sul contenuto del carteggio del capocentro Sismi a Beirut originato dalla vicenda dei lanciamissili sequestrati ad Ortona nel novembre 1979, abbiamo dimostrato che quell’episodio non poteva costituire in alcun modo il movente della strage di Bologna del 2 agosto 1980 e che dunque la cosiddetta «pista palestinese», che da quel fatto ha sempre tratto le proprie ragioni, restava priva di fondamenti documentali, logici e fattuali.

La svolta del 2 luglio 1980
Una analisi accurata e contestualizzata di quel carteggio, soprattutto senza omissioni, a differenza di quanto era accaduto fino a quel momento, ci ha permesso di dimostrare come fosse strettamente interconnesso con la vicenda processuale che era seguita all’arresto iniziale dei tre autonomi romani e del palestinese Abu Anze Saleh. Vicenda che aveva trovato un punto di svolta il 2 luglio 1980 con il rinvio del processo d’appello auspicato dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina, proprietario dei sistemi d’arma inerti, e richiesto formalmente dalle difese di alcuni degli imputati. Dietro quel rinvio c’era un accordo tra Sismi, collegio di difesa e Fplp, sulla strategia procedurale da seguire per arrivare alla scadenza dei termini di custodia cautelare di Saleh e ottenere così la sua scarcerazione puntando anche sul ridimensionamento delle condanne emesse in primo grado contro tutti gli imputati.

Per i fautori della pista palestinese il rinvio del processo non aveva eliminato l’attualità della minaccia
Ci è stato obiettato che, in realtà, il rinvio del processo d’appello non aveva fatto venire meno l’attualità delle minacce del Fplp, rimasto scontento per il prolungamento della detenzione di Saleh.
Questa affermazione contrasta con alcuni evidenti dati di fatto: la difesa di Saleh non aveva presentato alcuna richiesta di libertà provvisoria in quei mesi, consapevole che non esistessero le condizioni per ottenere una risposta positiva. Per questo motivo il Fplp aveva chiesto inizialmente l’anticipazione del processo, contando su una scarcerazione in sentenza per insufficienza di prove del proprio uomo. Strategia che saltò per lo scandalo provocato dalla dichiarazioni di Peci sulle armi consegnate alle Br da forze palestinesi sulle coste libanesi. Rivelazioni che avevano consigliato alla difesa degli imputati, come al Sismi, di ottenere un ritardo del giudizio, altrimenti ingestibile. Perché mai il rinvio del 2 luglio 80 non avrebbe dovuto soddisfare le richieste palestinesi, visto che era stata la difesa degli imputati ad aver giocato un ruolo importante in questa direzione?
Il sequestro di Ortona era stato causato dalla forte approssimazione organizzativa dei membri del “Fronte» che operavano in Italia. Saleh viene descritto da chi lo ha conosciuto come una figura distante da logiche di clandestinità e operatività militare. Coinvolgere i tre autonomi romani era stata una sua enorme leggerezza. Travolti dalla loro impetuosa generosità, i tre esponenti del collettivo del policlinico agirono senza una pianificazione, partendo a tarda serata dopo aver interrotto una riunione pubblica e dimenticando, uno di loro, persino i documenti per il viaggio. Fin da subito i palestinesi furono perfettamente consapevoli di questo vizio originario, dell’enorme guaio provocato da chi nelle loro fila aveva organizzato il trasferimento dei sistemi d’arma con il coinvolgimento dei tre autonomi a pochi mesi della retata del 7 aprile. A quel punto la vicenda non poteva più essere risolta nel silenzio, come in altre circostanze. Al contrario, l’affaire si era subito complicato a causa del forte impatto mediatico riservato alla vicenda e per l’interferenza della magistratura e dei nuclei speciali dei carabinieri che conducevano le indagini antiterrorismo. Il malumore palestinese partiva comunque da questa consapevolezza, come dal fatto che la giustizia d’emergenza aveva imposto la procedura direttissima e le condanne immediate.
Perché mai il rinvio del processo d’appello, con l’apertura di ampi margini di trattativa, avrebbe dovuto irritare il Fplp a tal punto da spingerlo a organizzare una ritorsione che avrebbe chiuso ogni prospettiva?

La lettera di Coronas e la nota di De Francisci dell’11 luglio 1980
Si è replicato che in un documento dell’11 luglio 1980, appena nove giorni dopo il rinvio del processo d’appello, il capo della polizia, prefetto Coronas, «prospettava esplicitamente, per iscritto, il pericolo di un’azione di rappresaglia dell’Fplp, dovuta all’esito sgradito del processo». La lettera di Coronas era diretta al questore di Bari che aveva competenza sul carcere speciale di Trani dove era rinchiuso Saleh. L’informativa sottolineava il rischio di un possibile tentativo di far evadere il palestinese dal carcere o colpire la struttura di massima sicurezza per ritorsione. La lettera di Coronas era parallela ad una analoga nota informativa di pari tenore inviata lo stesso giorno dal direttore dell’Ucigos, Gaspare De Francisci, al Sisde. Questi due documenti, secondo i fautori della pista palestinese, avrebbero giustificato l’attualità delle minacce del Fplp, nonostante il rinvio del processo d’appello, e dunque la prova di un legame con la strage alla stazione centrale di Bologna, avvenuta solo 22 giorni dopo.

La tesi dell’ex magistrato Priore, la bomba di Bologna confezionata per far saltare le mura del carcere speciale di Trani
L’ex giudice istruttore Rosario Priore sostenne addirittura che l’ordigno esploso a Bologna era, in realtà, diretto a Trani: «Nelle carte che abbiamo ottenuto dai servizi appaiono delle note in cui vengono allertati tutti i centri, e in particolare quello di Bari. […] Nella provincia di Bari c’era il carcere di Trani in cui era detenuto Saleh, il palestinese capo dei tre che portavano i missili a Ortona. Il carcere aveva muri di uno spessore eccezionale che non potevano essere abbattuti con esplosivo normale, ma con esplosivo in grado di creare varchi. […] C’è una informativa del capo della Polizia, dell’11 luglio 1980, inviata solo al questore di Bari, nella cui giurisdizione ricade il penitenziario tranese: si riferisce di “negative reazioni negli ambienti del Fplp” e non si esclude “una ritorsione nei confronti del nostro paese”. Questo documento potrebbe indurci a ritenere che nella zona ci fosse una persona che collaborasse con il servizio e riferisse notizie molto interessanti» (Corriere del mezzogiorno, 12 agosto 2016).

L’Ansa del maggio 2005, le veline di “Area” e l’interrogazione parlamentare del settembre successivo
ll 30 maggio del 2005 un dispaccio dell’agenzia Ansa rivelava l’esistenza dell’allarme contenuto nella nota del capo dell’Ucigos De Francisci dell’11 luglio 1980, nello stesso dispaccio si precisava che «l’allarme era arrivato da una fonte qualificata e fatta avere alla Questura di Bologna che l’8 marzo lo inviò al Ministero».
Il lancio d’agenzia del mese di maggio venne seguito da una inchiesta apparsa sulla rivista Area nella edizione di luglio/agosto 2005, realizzata da Gian Paolo Pelizzaro, consulente della commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokin, «Strage di Bologna ecco la verità. I moventi, i mandanti, le ragioni del depistaggio» che ispirò un articolo di Gian Marco Chiocci apparso su Il Giornale del 16 luglio 2005: La «soffiata della fonte qualificata», presente nella lettera di Coronas come nell’informativa di De Francisci, «sigillata in doppia busta, era indirizzata al Sisde ma anche al questore di Bari» – scriveva Chicci – «arrivava dalla questura del capoluogo emiliano (dove Saleh aveva vissuto a lungo) la quale l’aveva girata al Viminale l’8 marzo del 1980, a tre mesi dalla strage di Ustica, a cinque da quella alla stazione di Bologna».
Il dispaccio del maggio 2005 e l’inchiesta di Area dell’estate successiva erano confluiti in una interrogazione parlamentare scritta, presentata il 26 settembre del 2005, da un gruppo di 14 parlamentari, primo firmatario Fragalà, dove si chiedeva « se sia nota al Ministero l’identità della fonte delle informazioni riportate nell’appunto datato 8 marzo 1980, proveniente da Bologna e allegato alla citata segnalazione a firma del prefetto Gaspare De Francisci, direttore dell’Ucigos».

L’allarme dell’11 luglio risaliva al marzo precedente, ignorava la svolta del 2 luglio
La lettera di Coronas e l’appunto di De Francisci dell’11 luglio 1980 erano dunque stati originati da un appunto della questura di Bologna dell’8 marzo precedente, circa un mese prima del secondo flusso informativo proveniente da Beirut, dove si riferiscono ampiamente gli aspetti della prima crisi con l’Fplp, che ha inizio il 24 aprile e termina il 2 luglio 80. Poco importa a questo punto l’origine geografica della fonte, se fosse un esponente del Fplp che a Bologna riportava la posizione della propria organizzazione, oppure se si trattasse di un eco dei cablo di Giovannone, determinante invece è la collocazione temporale della informazione, di quattro mesi precedente alla soluzione della crisi del 2 luglio.
Detto con più chiarezza, gli allarmi di Coronas e De Francisci si fondavano su una informazione non più attuale, largamente superata dai successivi appunti del Sismi, in particolare da quello del 2 luglio. La minaccia ventilata non era dunque più fondata e il nesso di quelle carte con la strage di Bologna inesistente.

Enzo Raisi, lo sciacallo che si nutre della memoria di Mauro Di Vittorio, vittima della strage di Bologna

ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Enzo Raisi è un ex: ex carabiniere, ex missino, ex parlamentare di fede finiana poi spazzato via dalla dura legge dello scrutinio. L’ex Raisi avvinto da insanabile nostalgia per gli anni ruggenti passati sul cadreghino è tornato alla ribalta durante un convegno tenuto da alcuni parlamentari della destra in occasione del 40esimo anniversario della Strage di Bologna. Senza vergogna è tornato ad accusare Mauro Di Vittorio di essere il trasportatore della bomba esplosa nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione, il 2 agosto 1980. Non è vero, ovviamente. E non serve qui nemmeno citare l’archiviazione della indagine bis sulla strage che ha definito Di Vittorio «vittima oggettiva» della esplosione (leggi qui). Per diversi anni Raisi ha vilipeso il suo cadavere: ha invertito l’onere della prova e preteso che il morto dimostrasse la propria innocenza; gli ha attribuito una identità politica di comodo, quella di «Autonomo», membro del collettivo del Policlinico, per dimostrare i suoi legami con Saleh e la vicenda dei missili di Ortona; ha diffuso notizie false sulle condizioni del suo corpo al momento del ritrovamento, affermando che fosse completamente carbonizzato, lasciando intendere che fosse vicinissimo alla bomba, per meglio dire che la tenesse con sé, così insinuando che la perizia giurata di ricognizione del cadavere presente negli atti giudiziari fosse falsa; ha sostenuto che non avesse documenti d’identità ma che viaggiasse in incognito (leggi qui) e che la carta ritrovata fosse giunta intonsa all’obitorio dalle mani dell’anziana madre (leggi qui); così dicendo ha dato del falso ideologico al verbale di riconsegna dei suoi effetti personali redatto dalla Polfer ed ha calunniato la povera madre; ha giurato che il suo diario di viaggio era un clamoroso falso e che il biglietto della metropolitana parigina che aveva in tasca ai pantaloni (leggi qui) fosse la prova provata che egli non si sarebbe mai diretto a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per prendere in consegna da Carlos la valigia con l’esplosivo. Affermazioni reiterate in un lunghissimo elenco di interviste, conferenze stampa, interventi sui social, interpellanze parlamentari, in un libro, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva delle verità, Minerva edizioni 2012.
All’epoca erano in molti a dargli man forte: Valerio Fioravanti, che gli correggeva le bozze e manovrava dalle retrovie. Sempre Fioravanti, senza il minimo scrupolo, tempo prima, aveva sollecitato una lettera di buona condotta alla sorella di Mauro Di Vittorio, Anna. Lettera che venne poi girata al tribunale di sorveglianza facilitando l’uscita in liberazione condizionale di Francesca Mambro (leggi qui). Girava persino voce che quel “perdono” celasse, in realtà, un sentimento di colpa dei familiari per una verità indicibile: la responsabilità di Mauro. Giornalisti come Andrea Colombo, che scriveva dell’«Autonomo romano» senza porsi il problema di fare la benché minima verifica. Poi, col tempo, davanti alle evidenze, anzi sarebbe meglio dire scivolosamente, in diversi (non quelli che ho citato) presero le distanze: chi prima, chi tardi, chi in modo netto, chi in maniera subdola, ma nessuno osò più evocare il nome di Di Vittorio. Raisi sembrava rimasto solo a ribadire le sue convinzioni come Hiroo Onoda, il soldato giapponese ritrovato dopo 30 anni in un’isola delle Filippine dove si era nascosto per continuare da solo la seconda guerra mondiale. Non era così, le calunnie di Raisi hanno trovato di nuovo ascolto e sono state raccolte tra le dieci domande poste da un intergruppo di parlamentari, ‘La verità oltre il segreto’, alla vigilia del 2 agosto scorso (si ratta del quesito numero 9: «Perché sulla vittima Mauro Di Vittorio, legato ad ambienti dell’estrema sinistra romana che per tutti quel giorno doveva essere in Inghilterra, rimasto a lungo non identificato perché senza documenti e stranamente riconosciuto da madre e sorella che in teoria non sapevano della sua presenza a Bologna, non sono mai state fatte ricerche approfondite ma ci si è accontentati di una semplice dichiarazione della sorella che per altro ha dato diverse versioni su come sia arrivata a sapere della notizia della morte del fratello nella strage di Bologna?»).
Mauro Di Vittorio è stato ucciso molte volte, la prima il 2 agosto e poi ripetutamente dal 2012. Oltre al corpo lacerato e ustionato, al cranio perforato, hanno voluto rubargli l’anima assassinando anche la sua memoria. Raisi, insieme ad una pattuglia di parlamentari della destra, è tornato a farlo ancora una volta alla vigilia di questo quarantennale.

Strage di Bologna, fu Delle Chiaie a lanciare per primo la pista di sinistra accusando Mauro Di Vittorio

Rivelazioni e depistaggi – Nel 1983 in una intervista rilasciata al quotidiano Boliviano El Meridiano, Stefano delle Chiaie scaricava sull’estrema sinistra la responsabilità della bomba del 2 agosto 1980, «Tra i cadaveri, furono rinvenuti i corpi di due estremisti di sinistra: uno spagnolo, con falsa identità, tale Martinez ed un italiano che, secondo sue precedenti affermazioni avrebbe dovuto trovarsi a Londra, mentre è stato identificato dalla famiglia. Questa pista non è mai stata presa in considerazione»

Strage BolognaL’indagine e i processi per la strage alla Stazione di Bologna del 2 agosto 1980 sono stati costellati da incredibili depistaggi. In un articolo apparso sul Resto del Carlino dell’8 aprile 2012 (leggi qui), l’ex carabiniere missino, allora parlamentare di Futuro e Libertà, Enzo Raisi, annunciando l’imminente uscita di un suo libro sulla vicenda, puntò l’indice accusatorio contro una delle vittime della strage. Secondo il parlamentare postfascista, a portare la valigia con l’esplosivo sarebbe stato «un ragazzo di Autonomia operaia». Raisi fece il nome solo successivamente: Mauro Di Vittorio, ventiquattrenne romano, proveniente dal quartiere popolare di Torpignattara, trasferitosi a Londra (leggi qui il diario del suo ultimo viaggio ritrovato all’interno della sua borsa tra le macerie della stazione). In realtà Mauro D Vittorio non era affatto un militante dell’autonomia romana di via dei Volsci (leggi qui), come Raisi, ex membro anche della commissione Mitrokhin, insinuava maldestramente, ma un giovane con idee di sinistra che non militava in nessuna organizzazione politica e che da tempo viveva in una periferia londinese dove lavorava nei ristoranti (leggi qui un suo ritratto), anche se era molto conosciuto dai frequentatori della sezione di Lotta continua del suo quartiere.

Stefano delle Chiaie e la pista di sinistra per la strage di Bologna, un depistaggio che viene da lontano
In realtà il primo a tirare in ballo la responsabilità della sinistra nella strage non fu Raisi, e tanto meno lo furono Gabriele Paradisi, Gian Paolo Pelizzaro e François de Quengo de Tonquédec che lavorando su una precedente consulenza per la commissione Mitrokhin di Lorenzo Matassa e Gian Paolo Pellizzaro, tirarono fuori il ruolo di due militanti della sinistra armata tedesca all’interno della cosiddetta “pista palestinese”.
Il primo in assoluto fu Stefano Delle Chiaie, in una intervista apparsa sul quotidiano boliviano El Meridiano il 17 luglio 1983. Il che getta una luce ancora più inquietante sulla genesi di questo squallido depistaggio.
Fondatore di Avanguardia nazionale, in rapporto con l’Uarr di Federico D’Amato fina dai primi anni 60, il neofascista Delle Chiaie dopo lo scioglimento del suo gruppo fuggì inizialmente nella Spagna franchista, per poi trovare riparo nel Cile di Pinochet, dove dal 1976 collaborò col regime militare, passando successivamente in Argentina e poi in Bolivia. Coinvolto nell’operazione Condor (il piano concepito per dare la caccia su scala continentale ai militanti della sinistra sfuggiti alle diverse dittature militari che imperversavano in Sud America), divenne nel 1980 insieme al nazista Klaus Barbie consigliere politico della dittatura militare in Bolivia, dove fu accusato anche di essere stato un torturatore dei militanti di sinistra arrestati.
Implicato nelle inchieste giudiziarie sulla strage di piazza Fontana, Italicus e stazione di Bologna, nell’intervista rilasciata a El Meridiano affermò che dopo l’esplosione della bomba nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria di Bologna, «Tra i cadaveri, furono rinvenuti i corpi di due estremisti di sinistra: uno spagnolo, con falsa identità, tale MARTINEZ ed un italiano che, secondo sue precedenti affermazioni avrebbe dovuto trovarsi a Londra, mentre è stato identificato dalla famiglia. Questa pista non è mai stata presa in considerazione. Al contrario, tutti hanno continuato ad accusare il movimento nazionale rivoluzionario»1.

1 Delle Chiaie accusa Di Vittorio

2 Delle chiaie Di vittorio
Delle Chiaie mentiva, faceva il suo consueto mestiere. Se Mauro Di Vittorio non era un militante politico, come abbiamo già accennato, non lo era nemmeno il ventitreenne Francisco Gomez Martinez, che non aveva affatto una falsa identità. Impiegato in una azienda tessile, viveva con una sorella e la mamma in provincia di Barcellona. Aveva cominciato a lavorare a 16 anni, era appassionato di arte. Durante l’anno risparmiava i soldi per viaggiare. In cima alla sua lista c’erano la Grecia e l’Italia. Era partito il 29 luglio, voleva visitare Bologna. Il 2 agosto era appena sceso dal treno.

La smentita a età
Il 9 aprile del 1987, nel corso della sua prima audizione parlamentare di fronte alla prima commissione d’inchiesta su stragi e terrorismo, presieduta da Gerardo Bianco, Delle Chiaie smentì di aver mai rilasciato interviste al Meridiano, affermando «No so che giornale sia». Che Delle Chiaie non fosse a conoscenza di questo giornale è una circostanza per nulla convincente, visto il ruolo politico di primo piano avuto nella società boliviana ai tempi della feroce dittatura militare. Prendendo per buona l’ipotesi che non stesse mentendo, si può ipotizzare che durante l’audizione sia incorso in un malinteso, poiché la domanda rivoltagli faceva solo un generico riferimento alla testata Meridiano, senza specificare la nazionalità del giornale, ed il quesito posto non riguardava la strage di Bologna ma le infiltrazioni del suo gruppo negli apparati dello Stato italiano. D’altronde nessuno dei commissari che lo audivano avevano mostrato di avere chiara cognizione che si trattasse di un quotidiano boliviano, tanto che il missino Franco Franchi chiese se si trattasse del Meridiano d’Italia, ricevendo una ulteriore risposta negativa du Delle Chiaie che chiarì di aver parlato solo con un giornalista di Panorama. Insomma la smentita fu molto relativa, come è una fatto che negli anni precedenti Delle Chiaie non aveva mai preso le distanze dalle dichiarazioni apparse sul quotidiano boliviano. Nel 1982 la situazione politica in Bolivia era mutata, il regime militare era caduto e le protezioni per Delle Chiaie, come per Barbie, erano venute meno tanto che nell’ottobre di quell’anno c’era stato un tentativo di cattura finito con l’uccisione del suo braccio destro PierLuigi Pagliai, mentre Barbie era stato estradato in Francia. Con quella intervista Delle Chiaie aveva cercato di mostrarsi come perseguitato di fronte alla opinione pubblica boliviana. In ogni caso ogni dubbio sull’intervista del 1983 è stato fugato dall’autobiografia apparsa nel 2012, dove Delle Chiaie ricalca a pagina 273 l’accusa contro «il militante italiano di sinistra» e lo spagnolo Martinez, lasciando intendere che fosse un membro dell’Eta.

Autobiografia

Note
1
. L’intervista qui sotto, gentilmente concessa dallo storico Giacomo Pacini, si trova nel faldone H-b-2 del processo per la strage di Brescia, digitalizzato dalla Casa della memoria di Brescia, alle pp. 373-386, e fa parte dell’allegato 225 della prima perizia di Giannuli realizzata per l’inchiesta di Salvini.

1 Delle Chiaie 1 Bologna

Delle chiaie 23 Delle chiaie 34 Delle Chiaie 4 Bologna Di Vittorio

Strage di Bologna, come è stata fabbricata la pista palestinese

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Stando a quel che circola su alcuni social network, un clima persecutorio si sarebbe abbattuto contro chi si è speso per cercare la verità sulla strage di Bologna. Dove per verità deve intendersi, ovviamente, una cosa sola: ribaltare la sentenza che ha condannato i fascisti per dimostrare la responsabilità dei “rossi” e dei palestinesi. Il vittimismo è la chiave narrativa che accomuna la destra. Enzo Raisi, l’ex carabiniere missino, un tempo deputato finiano, poi spazzato via dalla dura legge dello scrutinio, ed oggi ritiratosi nella sua fazenda spagnola a matar vitelli, sarebbe vittima di un clima ostile e censorio per aver sostenuto che una delle vittime della strage di Bologna, Mauro Di Vittorio, era implicato nella esplosione della bomba. Non era vero, ovviamente. E non serve qui nemmeno citare l’archiviazione della indagine bis sulla strage che ha definito Di Vittorio «vittima oggettiva» della esplosione (leggi qui). Per diversi anni Raisi ha vilipeso il suo cadavere; ha invertito l’onere della prova e preteso che il morto dimostrasse la propria innocenza; gli ha attribuito una identità politica di comodo, quella di «Autonomo», membro del collettivo del Policlinico, per dimostrare i suoi legami con Saleh e la vicenda dei missili di Ortona; ha diffuso notizie false sulle condizioni del suo corpo al momento del ritrovamento, affermando che fosse completamente carbonizzato, lasciando intendere che fosse vicinissimo alla bomba, per meglio dire che la tenesse con sé, così insinuando che la perizia giurata di ricognizione del cadavere presente negli atti giudiziari fosse falsa; ha sostenuto che non avesse documenti d’identità ma che viaggiasse in incognito e che la carta ritrovata fosse giunta intonsa all’obitorio dalle mani dell’anziana madre; così dicendo ha dato del falso ideologico al verbale di riconsegna dei suoi effetti personali redatto dalla Polfer ed ha calunniato la povera madre; ha giurato che il suo diario di viaggio era un clamoroso falso e che il biglietto della metropolitana parigina che aveva in tasca ai pantaloni (leggi qui) fosse la prova provata che egli non si sarebbe mai diretto a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per prendere in consegna da Carlos la valigia con l’esplosivo. Affermazioni reiterate in un lunghissimo elenco di interviste, conferenze stampa, interventi sui social, interpellanze parlamentari, ed in un libro, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva delle verità, Minerva edizioni 2012.

L’ultimo giapponese
Secondo Valerio Cutonilli, autore di un libro scritto insieme all’ex giudice istruttore Rosario Priore, oggi in pensione, che prova a rilanciare la tesi della pista palestinese all’origine della strage di Bologna, I segreti di Bologna, Chiarelettere 2016, quella di Raisi sarebbe stata una legittima, sincera ed onesta attività di ricerca della verità. Lo scrive in una lettera di risposta ad Anna Di Vittorio apparsa su L’alterUgo, lo spazio web di Ugo Tassinari (leggi qui).
Oggi Raisi è rimasto solo a ribadire le sue convinzioni, come Hiroo Onoda, il soldato giapponese ritrovato dopo 30 anni in un’isola delle Filippine dove si era nascosto per continuare da solo la seconda guerra mondiale. All’epoca, però, erano in molti a dargli man forte: Cutonilli in prima linea (leggi qui), giornalisti come Gabriele Paradisi (leggi qui) e Andrea Colombo che scrivevano dell’«Autonomo romano», senza porsi il problema di fare la benché minima verifica; c’era Valerio Fioravanti che gli correggeva le bozze e manovrava dalle retrovie. Sempre Fioravanti senza il minimo scrupolo, tempo prima, aveva sollecitato una lettera di buona condotta alla sorella di Mauro Di Vittorio, Anna. Lettera che venne poi girata al tribunale di sorveglianza facilitando l’uscita in liberazione condizionale di Francesca Mambro (leggi qui). Episodio inquietante che lascia pensare ad un atto premeditato. Girava voce, infatti, e Cutonilli lo sa bene, che quel “perdono” celasse, in realtà, un sentimento di colpa dei familiari per una verità indicibile: la responsabilità di Mauro.
Di Vittorio è stato ucciso molte volte, la prima il 2 agosto e poi ripetutamente in quei mesi. Oltre al corpo lacerato e ustionato, al cranio perforato, vollero rubargli l’anima assassinando anche la sua memoria.
Ma poiché oggi la questione Di Vittorio, fatta eccezione per Raisi, è chiusa per ammissione stessa dei molti che all’epoca la sostennero con la parola, o con il silenzio, continuare a discorre di Raisi non avrebbe più senso, a meno di non voler invocare l’intervento della medicina psichiatrica.
Senonché, sempre Valerio Cutonilli, ritiene che uno degli episodi evocati da Raisi sia stato assolutamente provato dalle indagini. Prima di affrontare la questione, però, dobbiamo fare un piccolo passo indietro, altrimenti non capiremmo il motivo di questa difesa ad oltranza di una circostanza che, al di là della sua veridicità, non avrebbe dovuto avere più alcun significato con il venir meno dell’ipotesi Di Vittorio. Evidentemente così non è! E questo lo si capisce dalla trama del libro scritto da Priore e Cutonilli che riprende e corregge la variante della pista palestinese tanto cara a Raisi. Questa seconda versione venne fuori per risolvere le numerose falle e incongruenze presenti nella ipotesi iniziale: quella della rappresaglia diretta come movente della strage per il sequestro dei missili palestinesi intercettati davanti al porto di Ortona. Si tratta di obiezioni già largamente sollevate in passato che non sto qui a ripetere per ragioni di spazio. D’altronde il fatto che Priore e Cutonilli non l’abbiano voluta ripercorrere rappresenta una prova ulteriore della sua insostenibilità.

Rovistare tra le ossa dei morti
Non solo il movente non reggeva ma mancavano passaggi fondamentali nella ricostruzione concreta della dinamica della strage. Nessuno, per esempio, ha mai visto all’interno della stazione i due tedeschi, che secondo gli autori della prima versione, avrebbero avuto in appalto la strage, perché la cosiddetta pista palestinese – se ancora non ve ne siete accorti – è paradossalmente priva di palestinesi. Tralasciamo anche qui le obiezioni sui due tedeschi, largamente esposte in passato e recepite anche dalla magistratura. Non è più questo il punto.
Per far sopravvivere la pista palestinese c’era un disperato bisogno di provare l’esistenza di un complice italiano, il trasportatore dell’ordigno, l’autore materiale della deflagrazione, entrato nella sala d’aspetto di seconda classe e qui rimasto accidentalmente coinvolto – secondo la nuova versione – nella esplosione. Un complice da ricercare tra le vittime della strage. Tecnicamente le perizie hanno sempre smentito l’esplosione accidentale. Ma poco importa. Fu così che Raisi cominciò a rovistare tra i morti, come fanno le Jene. Cercava un giovane, possibilmente romano, che potesse avere un qualche legame con l’area dell’autonomia, meglio se con il collettivo di via dei Volsci, come Pifano, Nieri e Baumgartner, arrestati ad Ortona con gli Strela insieme ad Abu Saleh, il rappresentante del Fplp, a cui i missili erano diretti. A dire il vero si cercava anche oltre, tra quei giovani arrestati o attenzionati nelle retate di quegli anni, tra la Tiburtina e Cinecittà che avessero avuto esperienze nella lotta armata.
Alla fine è sbucato Mauro Di Vittorio, 24 anni, di Tor Pignattara. Solo che non era di Autonomia, non frequentava i Volsci, non era affatto un militante anche se era conosciuto da chi frequentava la sezione di Lotta continua del suo quartiere. Di Vittorio guardava altre periferie, quelle londinesi, dove si era stabilito da tempo e aveva una stanza in uno stabile occupato (vedi qui), portava lunghi capelli un po’ rasta, aveva una barba molto folta (vedi qui la sua storia).

Ghostbusters
Svanita l’ipotesi Di Vittorio, Cutonilli e Priore non riuscendo a profilare nessuna altra vittima hanno scovato quella che non c’è, il corpo fantasma. Il succo del loro libro si fonda su una allusiva insinuazione: tra i morti della strage c’è un corpo che non è mai stato ritrovato, salvo un lembo, quello di Maria Fresu. Gli autori sostengono che quel piccolo segmento di tessuto non appartiene alla donna ma ad una ottantaseiesima vittima, il trasportatore o la trasportatrice dell’esplosivo che doveva essere utilizzato – ipotizzano senza alcun elemento – sotto le mura del carcere speciale di Trani per una rappresaglia o un tentativo di fuga di Saleh. La disintegrazione del corpo della Fresu, lasciano intendere, non sarebbe mai avvenuta. Il suo corpo sarebbe stato sottratto dallo Stato per coprire la scomparsa dell’altro corpo, ben più importante. Tutto questo per tutelare l’indicibile segreto del lodo Moro. Insomma una ennesima teoria del complotto, ancora più surreale della carta d’identità e del Diario di viaggio di Mauro Di Vittorio, falsificati secondo quando andava sostenendo il povero Raisi. Non più una pista ma una suggestione letteraria, lo spunto per un romanzo noir. Tuttavia consci di tanta fragilità, Priore e Cutonilli hanno moltiplicato le suggestioni, seminando confusione.

Dopo il fantasma arriva il cieco
Oltre al corpo fantasma ci sarebbe anche la storia di un passaporto ritrovato tra i resti della stazione distrutta dalla deflagrazione, appartenente ad un professore sardo, un non vedente, recatosi a Bologna in quei giorni. La stranezza della vicenda starebbe nel fatto che il professore, dalle simpatie politiche indipendentiste, circostanza ritenuta altamente sospetta dagli autori, non avrebbe mai denunciato la scomparsa di quel documento d’identità che riebbe indietro per iniziativa dei carabinieri. A Bologna c’è il più importante Istituto per ciechi d’Italia e dunque non vi è nulla di strano che un non vedente fosse andato a farsi visitare da quelle parti. L’inchiesta verificò anche l’omosessualità del professore, tenuta nascosta nel suo Paese d’origine. Circostanza, hanno concluso gli stessi carabinieri, che spiegava il comportamento circospetto e imbarazzato dell’uomo. Ma che importa, per Cutonilli e Priore un cieco val bene una strage…

Quattro de relato fanno solo un coro di voci
Nella stessa lettera indirizzata ad Anna Di Vittorio, Cutonilli ribadisce la centralità di un presunto episodio che sarebbe avvenuto nell’obitorio di Bologna nei giorni successivi alla strage. L’8 aprile 2012 sul Resto del Carlino, Raisi aveva dichiarato: «una delle vittime della bomba era un ragazzo di Autonomia operaia. Ho saputo da alcune testimonianze che il giorno dopo, nella sala autopsie, andarono due persone, un giovane mediorientale ed una ragazza. Passarono in rassegna i corpi e, quando videro il ragazzo [Mauro Di Vittorio, Ndr], si guardarono in faccia… Un maresciallo dei carabinieri vide tutto e lì chiamò ma loro uscirono di corsa e sparirono. Chi erano quei due? E perché il ragazzo di Autonomia aveva in tasca un biglietto della metro di Parigi, città dove all’epoca viveva Carlos?».
Cutonilli prende i nomi dei tre testimoni dalla richiesta di archiviazione della procura bolognese: «Alberto Cicognani, Antonio Iesurum e Giuseppe Fortuni, medici all’epoca dei fatti in servizio nell’obitorio, che lo seppero da Piergiorgio Sabattani, il primario che era corso dietro ai due fuggitivi assieme al brigadiere Giancarlo Ceccarelli». Per concludere che «Il Pm Cieri ha ritenuto il fatto non ulteriormente indagabile perché sia Sabattani sia Ceccarelli sono ormai deceduti».
Secondo Cutonilli l’espressione «non ulteriormente indagabile», impiegata dal pm, equivarrebbe ad una conferma della veridicità del fatto. Cosa deve intendersi per veridicità del fatto? Che realmente due giovani siano entrati e poi fuggiti dall’obitorio o che tre medici hanno riferito dei de relato? Oltre al fatto che Cutonilli sia un pessimo storico l’unico dato accertato in questa vicenda è la presenza dei de relato, la cui attendibilità per essere riconosciuta deve rispondere a criteri di verifica interna ed esterna. Conferme esterne non ne esistono. Quanto alla loro attendibilità intrinseca, come vedremo tra poco, essa lascia molto a desiderare.
Andiamo per ordine: intanto Cutonilli forza il testo di Cieri il quale non sostiene mai di avere appurato la veridicità dell’episodio, registra semplicemente i de relato che gli vengono riferiti concludendo di non poter andare oltre, ritenendo in ogni caso sul piano probatorio quanto riferito del tutto insufficiente per modificare la qualità di vittima della strage di Mauro Di Vittorio. Ecco il passaggio integrale:
«La Digos di Bologna, delegata dal pubblico ministero, aveva accertato da Fabrizio Landuzzi, dipendente del Dipartimento di Medicina Legale di Bologna, che il racconto dei due giovani allontanatisi frettolosamente dal cadavere di Mauro Di Vittorio circolava da anni all’interno del Dipartimento ed i medici Alberto Cicognani, Antonio Iesurum e Giuseppe Fortuni, all’epoca in servizio all’obitorio di Bologna (aff. 5647 e ss.), confermavano di avere appreso la circostanza da Piergiorgo Sabattani, che era presente, nell’occasione, con il sottufficiale dei Carabinieri Ceccarelli. Pergiorgio Sabattani e il maresciallo Ceccarelli sono entrambi deceduti». Nelle conclusioni, il Pm chiosa: «L’episodio dei due giovani allontanatisi frettolosamente dall’obitorio non è ulteriormente indagabile ma il fatto è del tutto insufficiente al pari dell’orientamento politico e del biglietto della metropolitana di Parigi, a collegare Mauro Di Vittorio alla strage di Bologna con una qualità diversa da quella, oggettiva, di vittima dell’esplosione».

Conclusioni p.62

Un silenzio lungo più di 30 anni
Anche se «il racconto dei due giovani allontanatisi frettolosamente dal cadavere di Mauro Di Vittorio circolava da anni all’interno del Dipartimento», come ha riferito il teste Landuzzi, l’episodio appare per la prima volta nella narrazione giudiziaria soltanto nell’inchiesta di Cieri avviata nel 2012. Perché i testimoni hanno taciuto per oltre 30 anni? Perché il maresciallo Ceccarelli, se l’atteggiamento dei due giovani era stato davvero così sospetto, non sentì il bisogno di redigere subito un rapporto ai suoi superiori? Perché nel corso degli anni che seguirono, durante la lunghissima inchiesta e i ripetuti processi svoltisi a Bologna, ivi compreso il clamore delle campagne innocentiste, non si è mai recato in procura a riferire l’episodio o cercato di avvicinare un legale che seguiva le udienze? La stessa domanda vale per il primario Sabattani. E gli altri tre medici in che momento sarebbero venuti a conoscienza del fatto? A che epoca risale la trasmissione del racconto dai presunti testimoni oculari ai tre medici che solo dopo il 2012 lo hanno riferito alla autorità giudiziaria? Perché appena venuti a conoscenza del fatto non hanno deciso di renderlo noto?
Cutonilli lo dovrebbe sapere, perché è il suo lavoro, che un racconto che circola per anni in un posto di lavoro, dal punto di vista strettamente giuridico non ha alcun valore, la procedura penale è molto chiara in merito: «non possono essere oggetto di testimonianza e, quindi, di prova, «le voci correnti nel pubblico» (art. 194 3^ comma).
Le domande non terminano qui: come avrebbero fatto Ceccarelli e Sabattani, stando alle parole di Raisi, a stabilire l’identità mediorientale del giovane senza averlo potuto fermare ed identificare? Come potevano dire che fosse mediorientale e non, per esempio, meridionale? Siamo certi che l’identità mediorientale non si sia aggiunta nel passaggio da un de relato al successivo? Come dice Landuzzi, la voce correva da anni, ma le voci che corrono negli anni spesso si trasformano e si adattano, come le leggende. La versione letteraria di questa narrazione appare la prima volta nel 1990, in un libro intitolato Strage, di Loriano Machiavelli che scrive sotto lo pseudonimo di Jules Quicher, anticipando di un trentennio quella giudiziaria. Si racconta la vicenda di due giovani di estrema sinistra, di un traffico di armi con la Cecoslovacchia e di una esplosione nella stazione durante un trasporto provocato da un oscuro personaggio. Inizialmente sequestrato e poi ripubblicato nel 2010 da Einaudi, una domanda si impone: quanto la letteratura ha inquinato la memoria influenzando la trama dei de relato?

Non era domenica e non era in Settembre quando a Bologna apparve un eskimo non più innocente…
Aggiungiamo un’altra circostanza: nel corso della deposizione di Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, che si recò la sera del lunedì 11 agosto nell’obitorio di Bologna per capire se tra le vittime ancora non identificate ci fosse il fratello, il pm Cieri ha cercato di sapere se i due giovani del racconto tramandato nell’Istituto di medicina legale fossero stati, per caso, proprio i due amici di Anna che l’accompagnarono e che uscirono subito dall’obitorio non riuscendo a sopportare l’odore che emanavano i cadaveri in quelle giornate di fortissima calura. Siccome nelle testimonianze rilasciate all’autorità giudiziaria uno dei medici nel riferire il de relato aveva aggiunto un dettaglio “decisivo”, ovvero che il ragazzo mediorientale indossava un eskimo, Cieri chiese ad Anna se qualcuno di loro vestisse qualcosa del genere. La risposta fu ovviamente negativa. Chi poteva indossare un eskimo a Bologna in pieno agosto?
Il dettaglio, introdotto forse in omaggio a Guccini, è significativo poiché rivelatore della totale inattendibilità dei racconti fatti dai medici legali. E’ noto, infatti, che l’abbigliamento prediletto dai mediorientali sia l’eskimo, soprattutto in estate. Descrivere due giovani era troppo banale, l’eskimo gli avrebbe dato una identità più precisa, due giovani di sinistra…. dei collettivi, come ripete ancora oggi Raisi.
La presenza di questo indumento diventa dirimente e finalmente ci rivela anche perché Cutonilli e Priore ritengano tanto fondamentale attribuire veridicità a questa testimonianza: il «mediorientale con l’eskimo», infatti, può trasformarsi nellla misteriosa ottantaseiesima vittima tanto ricercata, solo che invece di deflagrare con la bomba si è liquesa, come recita Gigi Proietti, al sole di quel maledetto agosto.

Lo strano documento
Prima di chiudere segnaliamo una singolare anomalia presente nella documentazione allegata al libro di Raisi (cap. 10 bis nota 3). Si tratta di una scheda dell’Istituto di medicina legale di Bologna n.16744 che contiene una esposizione sintetica dei risultati della ricognizione cadaverica realizzata sul corpo di Mauro Di Vittorio, svolta dal prof. Puccini, senza firma autografa. L’anomalia consiste nella data e nell’ora indicata sulla scheda, ovvero le ore 11.00 del 2 agosto 1980 e nella presenza dei dati anagrafici e di residenza di Di Vittorio che a quell’ora non era ancora stato identificato. Non è dato sapere (anche se ci appare improbabile) se appena mezzora dopo l’esplosione il corpo di Mauro Di Vittorio fosse già stato estratto dalla macerie e condotto all’obitorio, quello che sappiamo è che il verbale di ricognizione cadaverica realizzato dal professor Puccini, presente nel fascicolo giudiziario (con firma in calce di Clemente Puccini e di Antonio Iesurum), venne svolto il 6 agosto su un corpo ancora senza nome e che l’identificazione ufficiale avvenne alle 12.15 del 12 agosto, in presenza della sorella Anna e della madre di Mauro Di Vittorio, signora Maria davanti all’ufficiale di polizia giudiziaria Rolando Aragona. Il che vuol dire che il 2 agosto alle ore 11.00 non era possibile trascrivere alcun dato anagrafico del cadavere numero 33. Il documento pubblicato è probabilmente una scheda interna dell’Istituto di medicina legale, redatta successivamente all’identificazione del cadavere, quindi non prima del 12 agosto, ma antidatata al 2. Anche il testo della ricognizione è difforme dalla perizia ufficiale, non è presente la descrizione del vestiario e vi sono delle modificazioni rispetto al testo originale. La cosa è strana poiché sarebbe stato sufficiente allegare la fotocopia della necroscopia ufficiale. E’ singolare che Raisi, assertore da sempre della tesi che Di Vittorio viaggiasse in incognito, poi, pubblichi un documento che smentisce le sue parole. E’ anche strano che non abbia utilizzato i documenti presenti nel fascicolo giudiziario, anzi affermi che copia di questi fossero assenti dall’istituto di medicina legale, per poi essere smentito dal pm Cieri che nella richiesta di archiviazione scrive il contrario, ed abbia invece fatto uso di atti interni dell’Istituto stesso, non accessibili al pubblico, e che non si comprende come siano finiti nelle sue mani.

Falso 1

Stazione di Bologna, 2 agosto 1980, la bomba con cui la destra vorrebbe rovesciare la storia dello stragismo

bologna-3-1024x669A pochi giorni dal trentaseiesimo anniversario della strage si torna a parlare della bomba, oltre venti chili di gelatinato e compound B, una micidiale miscela nascosta molto probabilmente in una valigia, che esplose alle 10.25 del 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Saltarono in aria circa 300 persone, 85 di queste morirono. Dopo una inchiesta molto discussa e un tormentato percorso processuale furono condannati come realizzatori materiali dell’orrenda carneficina, tre neofascisti appartenenti ai Nar: Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, minorenne al momento dei fatti (tutti già condannati per altre uccisioni). L’operato della procura bolognese fu caratterizzato da errori, l’uso di teoremi, il ricorso indiscriminato a ricostruzioni e piste aperte da pentiti, dovette anche confrontarsi con l’azione di depistaggio dei Servizi. Per l’inquinamento delle indagini vennero sanzionati Licio Gelli, Francesco Pazienza e due dirigenti del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte.
Per ammissione stessa dei magistrati che hanno redatto la sentenza finale di condanna, le conclusioni processuali non sono riuscite a definire in modo soddisfacente quello che fu il movente della strage ed individuarne i mandanti. Una indeterminatezza che ha lasciato aperte ipotesi e discussioni su piste alternative, scenari diversi che si sono sostituiti col passar dei decenni e delle maggioranze politiche. Negli anni 90 si è discussa l’ipotesi che la bomba alla stazione fosse stato un diversivo per distogliere l’attenzione dalla strage di Ustica: l’abbattimento, la sera del 27 giugno dello stesso anno, dell’aereo di linea Itavia che trasportava 81 persone sulla linea Bologna-Palermo. Disastro causato da una vera e propria azione di guerra aerea che vide jet militari Nato attaccare alcuni Mig libici che utilizzavano (autorizzati segretamente dalle autorità italiane) il “cono d’ombra” dell’aereo civile come schermo per traversare indisturbati i cieli del Tirreno di pertinenza Nato.
A partire dal 2000, su iniziativa della destra, si è imposta all’attenzione la cosiddetta “pista palestinese” che aggiornava la “pista mediorientale”, ipotizzata negli anni 80 da alcuni ambienti politici democristiani (Zamberletti), convinti della responsabilità del colonnello Gheddafi, di cui si sospettava la reazione per un accordo di protezione che l’Italia aveva concluso con Malta. La pista palestinese, a causa della sua strutturale fragilità (un movente inconsistente e indizzi striminziti rispetto a quelli della pista neofascista), ha sempre avuto dei contorni incerti e varianti successive (dalla rappresaglia all’esplosione accidentale durante un trasporto di esplosivo) elaborati di volta in volta per colmare palesi incongruenze e gigantesche illogicità, per non citare l’assenza di riscontri.
A detta dei suoi sostenitori, oltre a membri della resistenza palestinese, vedeva coinvolti militanti della sinistra rivoluzionaria tedesca, almeno una delle vittime della strage, ed avrebbe persino lambito gli ambienti della lotta armata italiana.
Nelle intenzioni dei suoi fautori, infatti, essa costituiva un vero e proprio capovolgimento di paradigma storico, una sorta di risarcimento simbolico che in qualche modo doveva riequilibrare e riabilitare in forma vittimistica l’immagine della destra italiana macchiata dall’infamia indelebile per il ruolo avuto nella lunga stagione delle stragi, da piazza Fontana all’Italicus.

Nonostante l’importante campagna politico-mediatica dispiegata attorno a questa pista nell’ultimo decennio, il flusso incontrollato di documenti provenienti dagli ex archivi dell’Est, a volte inattendibili, in altre circostanze male utilizzati, i lavori molto discutibili della commissione Mitrokhin, l’azione di quella che può definirsi l’attività di una “agenzia di disinformazione e depistaggio” non ha prodotto risultati efficaci sul piano giudiziario: «Inserita all’interno di una cornice terroristica internazionale e suggestivamente intrecciata ad un groviglio di fatti storicamente accertati o meramente ipotizzati – concludeva il pm Ceri nella sua richiesta di archiviazione dell’inchiesta bis sulla strage, accolta dal Gip Giangiacomo – la pista palestinese ha rivelato una sostanziale inidoneità a fornire una complessiva spiegazione delle vicende della strage di Bologna».
Più fruttuosi sono stati invece i risultati sul piano del senso comune, dove il battage vittimistico del neofascismo e il paradigma rovescista messo in piedi dalla destra, che attribuiva per la prima volta le responsabilità di una strage, la più grande mai vista in Italia, ai “rossi”, grazie anche alla congiuntura favorevole del ventennio berlusconiano, ha riscontrato maggiore successo facendo breccia goebelsianemente in quella che possiamo definire la “percezione storica” del Paese.
Nella prossima puntata torneremo su alcune questioni recentemente sollevate dai sostenitori della pista palestinese, soprattutto – poiché questo è il vero tema – esamineremo la tecnica distorsiva e manipolatoria da loro utilizzata per dare vita ad una narrazione vittimistica e falsificatoria sulla strage.

1/continua

Precedenti puntate sull’argomento

0. Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
1. Puntata, L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
2. Puntata, Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
3. Puntata, Strage di Bologna, Mauro Di Vittorio viveva a Londra tra ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani
4. Puntata, Cutolilli, Di Vittorio non deve dimostrare la sua innocenza è Raisi che deve giustificare le sue accuse
5. Accuse contro Mauro Di Vittorio, Paradisi e Pellizzaro prendono le distanze da Enzo Raisi ma non convincono affatto
6. puntata, ecco i documenti di Mauro Di Vittorio di cui Raisi negava l’esistenza

Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli Enzo Raisi: Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del Policlinico o dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci

Strage di Bologna, ecco i documenti di Mauro Di Vittorio di cui Raisi negava l’esistenza

La pista palestinese si è rivelata inidonea a fornire una spiegazione della strage di Bologna. Ricorrono ad un linguaggio contorto ed involuto i magistrati della procura bolognese per argomentare la loro richiesta di archiviazione dell’indagine supplementare aperta per fugare ogni ombra di dubbio sull’attentato alla stazione che il 2 agosto 1980 provocò la morte di 85 persone e oltre 200 feriti.

«Inserita all’interno di una cornice terroristica internazionale e suggestivamente intrecciata ad un groviglio di fatti storicamente accertati o meramente ipotizzati, la pista palestinese ha rivelato una sostanziale inidoneità a fornire una complessiva spiegazione delle vicende della strage di Bologna, precludendo una ragionevole formulazione dell’imputazione dell’esecuzione della strage di Bologna al gruppo Carlos, nelle sue diverse articolazioni, operative nell’Europa Occidentale, e, direttamente o indirettamente, alle organizzazioni palestinesi».

Alla fine l’inconsistenza del movente (la rappresaglia per la presunta violazione del Lodo Moro) e l’assenza di elementi probatori nei confronti dei due cittadini tedeschi finiti nel registro degli indagati hanno imposto il riconoscimento della loro «sostanziale» estraneità alla strage, nonostante l’imponente campagna politico-mediatica dispiegata nell’ultimo decennio, il flusso incontrollato di documenti provenienti dagli ex archivi dell’Est, a volte inattendibili o male utilizzati, l’azione di quella che può definirsi una “agenzia di disinformazione e depistaggio”.
I magistrati lo hanno fatto scegliendo un profilo basso, rinunciando nonostante le 82 pagine ad infierire lì dove le contraddizioni, le fandonie, i continui aggiustamenti, le palesi falsità e contraffazioni, avrebbero richiesto ben altre parole e potevano persino configurare ipotesi di reato, di fronte ad uno scenario che col tempo ha assunto sempre più le sembianze di un depistaggio piuttosto che quelle di una pista investigativa alternativa.

Una pista senza movente
Un mese prima dell’attentato del 2 agosto l’Italia era riuscita a far riconoscere al Consiglio d’Europa il diritto del popolo palestinese ad un proprio Stato. Era quello il primo riconoscimento a livello internazionale della Resistenza palestinese. Perché mai un mese dopo un’organizzazione come il Fplp, inserita nell’Olp, avrebbe dovuto organizzare per rappresaglia un attentato dalla portata devastante (il più grave in Europa prima delle bombe di Madrid), come la strage alla stazione di Bologna, solo perché due missili di loro proprietà in transito sul territorio italiano erano stati sequestrati e un suo rappresentante arrestato?
Un atto illogico, al di fuori di ogni ragionevole proporzione, rilevano i pm sulla base anche delle testimonianze fornite da esponenti del Sismi, come Armando Sportelli, direttore della Divisione Esteri “R”, dal 1977 al 1985, diretto superiore del colonnello Stefano Giovannone, capocentro a Beirut, uomo di Moro e tessitore dei rapporti con gli esponenti della Resistenza palestinese.
Sportelli fornisce una lettura del “Lodo Moro” ben diversa da quella narrata nella pubblicistica corrente. Nessun passaggio di armi tollerato, ma solo un appoggio politico per il riconoscimento dei diritti dei Palestinesi in cambio della cessazione delle azioni armate contro obiettivi israeliani, e non solo, sul territorio italiano. In realtà i carteggi del Sismi rintracciabili negli archivi segnalano anche un’intensa collaborazione di intelligence.
Secondo Sportelli, il colonnello Giovannone avrebbe poi applicato una sua “personale” interpretazione dell’accordo offrendo garanzie supplementari che provocarono, una volta venute alla luce, il suo trasferimento.
Insomma il “Lodo Moro”, secondo l’interpretazione dei pm bolognesi, non sarebbe stato un protocollo rigido ma una politica puntuale, duttile, messa in atto di volta in volta secondo le situazioni. In sostanza, lasciano capire i magistrati, vi può essere stata rappresaglia contro qualcosa che non esisteva? L’arresto di Saleh, l’indifferenza della magistratura e dei carabinieri alle pressioni di Giovannone, sarebbero la prova dell’assenza di un accordo complessivo, che altrimenti avrebbe legato le mani agli apparati e alle istituzioni.

Margot Christa Frohlich
Entra nell’inchiesta perché un cameriere dell’hotel Jolly di Bologna l’avrebbe riconosciuta due anni dopo la strage in una foto apparsa sui giornali al momento del suo arresto nello scalo aereo di Fiumicino, dove era stata trovata in possesso di una valigetta in cui era nascosta una miccia detonante.
Rodolfo Bulgini è il testimone che l’avrebbe riconosciuta come l’esuberante ballerina con forte accento tedesco che avrebbe fatto di tutto per farsi notare quel giorno chiedendo ad un inserviente di portare la sua valigia in stazione.
Solo che le verifiche del racconto di Bulgini non hanno trovato riscontri. Il locale dove avrebbe lavorato la ballerina era chiuso dal 1976 e nessuno aveva mai visto la Frohlich (che non è ballerina) e tantomeno una qualunque altra ballerina tedesca. Il Bulgini viene descritto dai colleghi di lavoro come una personaggio fantasioso, sempre pronto a inventare storie e situazioni per darsi importanza e mettersi al centro dell’attenzione. Cercato per essere interrogato, il testimone è risultato affetto da una grave invalidità civile per malattia psichiatrica. Insomma del tutto inattendibile, salvo che per Raisi, Pellizaro e Paradisi.
Di squilibrati che parlano a vanvera in questa vicenda ce ne sono fin troppi. Alla pagina 36 della richiesta di archiviazione si trova la testimonianza di una cittadina tedesca, Rosemarie Eberle, affetta secondo una perizia disposta dal tribunale di Darmstadt da «psicosi cronicizzata paranoide» che ha dichiarato di aver visto il futuro ministro degli Esteri tedesco e vice-Cancelliere del governo Schrôder dal 1998 al 2005, Joscka Fischer, aggirarsi con fare sospetto insieme ad altri suoi compagni nella stazione di Bologna il 2 agosto 1980 poco prima dell’esplosione.

Thomas Kram
Non fa parte del gruppo Carlos ma delle Cellule rivoluzionarie e si presenta alla frontiera di Chiasso e in albergo a Bologna con la sua carta d’identità. Un comportamento ben lontano da quello di una persona che si appresta a commettere un grave reato. «La sua presenza ingiustificata a Bologna – scrivono i pm – non è sufficiente alla formulazione dell’accusa di partecipazione alla strage della stazione ferroviaria». Tuttavia i magistrati censurano pesantemente il comportamento di Kram che con il suo atteggiamento reticente non fuga il «grumo di sospetto» che si addensa sulla vicenda.

Mauro Di Vittorio, vittima della strage
Veniamo alla figura di Mauro Di Vittorio, chiamato in causa dall’ex carabiniere missino, poi onorevole trombato, Enzo Raisi.
Quando l’ipotesi della rappresaglia come movente della strage per il sequestro dei missili palestinesi intercettati davanti al porto di Ortona prima del loro imbarco cominciò a traballare, venne introdotta la variante dell’incidente intercorso durante un trasporto di esplosivo.
Tecnicamente le perizie hanno sempre smentito un simile scenario perché la valigia esplosiva era collocata in una posizione tale da far pensare che la deflagrazione dovesse sortire il massimo effetto, e soprattutto conteneva l’innesco. Non si trasporta esplosivo innescato.
Contro ogni principio di realtà tuttavia i sostenitori della pista palestinese hanno cercato il complice italiano, l’anello mancante, quello che avrebbe dovuto portare con sé la valigia, e questo perché nessuno ha mai visto Kram o la Froelich in stazione. Il complice italiano era fondamentale anche per creare il nesso con le organizzazioni armate della sinistra rivoluzionaria italiana.
E così, come fanno le Jene (vedi qui), si è cominciato a rovistare tra i morti. Si cercava un giovane, possibilmente romano, legato all’area dell’autonomia, meglio se al collettivo di via dei Volsci, come Pifano e Baumgartner arrestati ad Ortona con i missili insieme ad Abu Saleh, il rappresentante del Fplp. Ma ancora meglio se fosse stato in odore di Brigate rosse. Magari uno di quei giovani presi nelle retate di Br city, tra la Tiburtina e Cinecittà. Alla fine è sbucato Mauro Di Vittorio, 24 anni, di Tor Pignattara. Non era affatto un militante anche se era conosciuto da chi frequentava la sezione di Lotta continua del quartiere. Di Vittorio guardava altre periferie, quelle londinesi, dove aveva una stanza in uno stabile occupato, portava lunghi capelli un po’ rasta, aveva una barba molto folta (vedi qui la sua storia).
I Pm gli dedicano appena una pagina per scagionarlo. Si affidano ad alcuni rapporti della Digos ed alle parole della sorella Anna, intervenuta per difenderne la memoria nel silenzio più assoluto (leggi qui) dell’associazione delle vittime della strage e del suo presidente, Paolo Bolognesi, che per ragione sociale avrebbe dovuto fare tuoni e fulmini contro questo linciaggio. Un eccesso di sufficienza di fronte ad un’accusa calunniosa rivolta verso una persona che non può più difendersi e che a distanza di decenni viene uccisa una seconda volta. Tanto più che le accuse di Raisi poggiano su evidenti contraffazioni documentali contenute anche in un libro e menzogne sfacciate.

Qui sotto potete trovare una pagina manoscritta del suo diario di viaggio. Respinto alla frontiera londinese, la mattina del 2 agosto dopo un rocambolesco viaggio di ritorno attraverso la Francia (dove venne multato perché privo di biglietto) si ritrovò a Bologna per morire nella deflagrazione.
Enzo Raisi ha sempre negato l’esistenza di questo diario di cui avevamo già pubblicato il testo integrale apparso su Lotta continua nei giorni successivi alla strage (leggi qui).

Quaderno MDV

Per i sostenitori della pista palestinese non solo il diario era una contraffazione costruita postmortem ma Mauro Di Vittorio sarebbe stato a Bologna in anonimato, proprio perché stava trasportando dell’esplosivo. Raisi ha sempre sostenuto che non vi era traccia della sua carta d’identità. Eccolo servito.
La carta d’identità di Mauro è stata restituita alla sorella Anna, insieme con altri effetti personali del fratello, dalla Polfer  il 12 agosto 1980. Ecco l’incipit del processo verbale di consegna presente negli atti dell’inchiesta di cui i pm hanno chiesto l’archiviazione:

L’anno 1980 addì  12 del mese di Agosto, alle ore 11.45, negli Uffici del Comando Posto Polizia Ferroviaria di Bologna, Innanzi a Noi sottoscritti Ufficiali di P.G., è presente la Signorina DI VITTORIO Anna, nata a Roma il 3.8.1954 ivi residente in Via Anassimandro Nr.26, nubile Insegnate, Tessera Mod AT rilasciata dal Ministero della Prubblica Istruzione-Provvedditorato Agli Studi di Roma il 14.1.1977 Nr.38290339.

C.I.Mauro

 

Per saperne di più

0. Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
1. Puntata, L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
2. Puntata, Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
3. Puntata, Strage di Bologna, Mauro Di Vittorio viveva a Londra tra ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani
4. Puntata, Cutolilli, Di Vittorio non deve dimostrare la sua innocenza è Raisi che deve giustificare le sue accuse
5. Accuse contro Mauro Di Vittorio, Paradisi e Pellizzaro prendono le distanze da Enzo Raisi ma non convincono affatto

Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli Enzo Raisi: Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del Policlinico o dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci

 

 

Accuse contro Mauro Di Vittorio, Paradisi e Pelizzaro fingono di prendere le distanze da Enzo Raisi

Nei giorni scorsi ho ricevuto una lettera di Gabriele Paradisi, che i lettori di questo blog conosceranno poco. Blogger, animatore del sito Segreti di Stato è, insieme a Gian Paolo Pelizzaro, già consulente della commissione Mitrokhin, e François de Quengo de Tonquédec (a cui andrebbe aggiunto anche Lorenzo Matassa), uno dei sostenitori della pista palestinese nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
Paradisi, a nome anche dei suoi sodali, Pellizzaro e de Quengo de Tonquédec, è intervenuto a commento della quarta puntata della inchiesta sulla vera storia di Mauro di Vittorio (qui), una delle 85 vittime dell’attentato, ingiustamente accusato in questi ultimi mesi dal parlamentare finiano Enzo Raisi di avere delle responsabilità nella esplosione avvenuta all’interno della sala d’aspetto della stazione.
Con la sua lettera Paradisi afferma di voler prendere le distanze da Raisi, un fatto nuovo e importante, seppur tardivo, e che tuttavia conserva ancora notevoli ambiguità

Gentile Gabriele Paradisi,
Come Lei stesso ammette, definendola una «citazione quasi automatica», la sua intervista allo scrittore Loriano Macchiavelli, autore nel 1990 del romanzo Strage, non poteva essere sottaciuta all’interno della mia inchiesta che ripristinava la verità sulla storia di Mauro Di Vittorio dopo le accuse infondate di Enzo Raisi.
Ora Lei si giustifica attribuendo al contenuto di quelle sue domande una «assoluta e unica valenza giornalistica[…] non avendo nessun altro secondo fine», che tradotto per i profani dovrebbe voler dire più o meno una cosa del genere: “le mie domande erano neutre, non aderivo a quel che dicevo. In sostanza parlavo a mia insaputa”.
Ne prendiamo atto. Ognuno ha diritto a togliersi d’impaccio dalle difficoltà come meglio crede. Tuttavia nessuno all’epoca – almeno suppongo – l’ha obbligata a porre quei quesiti. Poteva sceglierne altri, ma ha preferito quelli. In particolare nella terza domanda affermava:
«Nella scorsa primavera – in un’intervista al Resto del Carlino dell’8 aprile 2012 – l’onorevole Enzo Raisi ha parlato proprio di un ragazzo dell’Autonomia romana morto nell’esplosione. Lei in qualche modo aveva anticipato la notizia di oltre vent’anni. Intuito di un grande romanziere o qualcosa di più?».
Anticipato la notizia? Di quale notizia si sta parlando? Che Raisi sia in grado di articolare delle frasi non sembra proprio una notizia, semmai è quando sta zitto che si nota l’evento (non so Lei da quale scuola di giornalismo provenga). Ora, se la notizia a cui si riferisce non poteva che essere quella del «ragazzo dell’Autonomia romana morto nell’esplosione», di cui Raisi sul blog di Ugo Maria Tassinari farà il nome qualche giorno più tardi, mi dispiace per Lei, ma non si percepisce più alcuna distanza neutra nella domanda posta. Al contrario Lei mostra di aderire incondizionatamente alle parole di Raisi, inverando un clamoroso falso da cui ora vorrebbe prendere – in ritardo – le distanze.
Ci mancherebbe! Fa bene a farlo, meglio tardi che mai. Però non ci racconti frottole. La quarta e la quinta domanda che Lei rivolge, sempre in quella intervista, a Loriano Macchiavelli sono ancora più compromettenti. Lei va addirittura oltre la versione di Raisi, che attribuisce a dei «giovani dei collettivi di sinistra» il presunto riconoscimento furtivo del corpo di Mauro Di Vittorio nell’obitorio di Bologna, sulla base delle dichiarazioni di un morto e di non meglio precisati medici, per sostenere con una fantasia che va ben al di là di quella del giallista (quinta domanda che è una specie di riassunto del libro), che «Il personaggio di Claudia Patruni ricorda per certi versi una donna reale che attualmente è iscritta nel registro degli indagati dai pm bolognesi. Mi riferisco alla tedesca Christa-Margot Fröhlich».
Conclusione: la sua è stata una legittima intervista a tesi, di quelle schierate. Genere che ha un’illustre tradizione alle spalle, mica è una colpa è solo una scelta!
Perché negarlo allora? Solo perché la sequenza scenografica messa su da Raisi si è rivelata una clamorosa patacca? Un falso strepitoso?
Il problema, signor Paradisi, non è l’intervista ma la tesi, o meglio il teorema che ha ispirato le sue domande e che va sempre verificato.
E cosa abbiamo verificato? Quello che in fondo già si sapeva e vi era stato detto fin dall’aprile scorso: Di Vittorio non era un Autonomo, Mauro Di Vittorio non ha ucciso nessuno ma è stato ucciso e dopo 32 anni diffamato. Che la scena del riconoscimento furtivo del suo corpo è una “invenzione mnemonica” o se volete una “creazione ideologica”, a voler essere gentili, e che per evidente consecutio Christa-Margot Fröhlich non è mai entrata nell’obitorio di Bologna, ulteriore smentita, se ancora serviva, di altre smentite pervenute da tempo.

Tutto ciò premesso, signor Paradisi, è senza dubbio apprezzabile la sua, e attraverso Lei, dei suoi amici Gian Paolo Pelizzaro e François de Quengo de Tonquédec, presa di distanze dalle accuse mosse da Raisi contro Mauro Di Vittorio.
La cosa non ci sfugge affatto e sarebbe stato un fatto di notevole importanza se avesse assunto una forma ben più visibile e soprattutto non fosse stata inviata all’indirizzo sbagliato. Non è al sottoscritto, infatti, che dovete rivolgervi ma ai familiari di Di Vittorio e all’opinione pubblica, questa volta però spiegando nel merito perché Raisi non dice il vero. Non basta fare come è già accaduto il 28 aprile scorso, quando con una formula pilatesca avete scritto (sempre su FascinAzione): «non intendiamo occuparci della questione sollevata da Raisi, in quanto non abbiamo nessun elemento a riguardo e teniamo a precisare che detta questione non è mai stata citata nel nostro libro».
E invece dovevate, se è vero – come lasciate intendere – che l’operazione lanciata da Raisi contro Mauro Di Vittorio ha danneggiato la vostra ipotesi originaria sulla pista “teutonico-palestinese”, a cui avete aggiunto strada facendo anche le Brigate rosse (sic!).
Perché in tutti questi mesi non avete mai spiegato pubblicamente e in modo argomentato che Raisi stava sbagliando se non addirittura inventando?
Sul sito “Segreti di Stato” non c’è nulla, solo alcune agenzie. Come mai all’improvviso il materiale documentale in vostro possesso, da cui ogni tanto tirate fuori notizie ribollite, come fa l’illusionista col coniglio estratto dal cappello, si è fatto muto? Per dirla in modo semplice: ci sembra troppo poco e troppo tardi per darvi credito, anche perché ancora pochi giorni fa Enzo Raisi depositava in parlamento una interpellanza estrapolata da un vostro recente articolo. Circostanza che dimostra la persistenza di un legame ombelicale per nulla reciso e l’esistenza di singolari “connivenze parallele”, al di là di possibili divergenze che lo stesso Raisi ha esplicitato nel corso della sua conferenza stampa di fine luglio e che mi sono limitato a riferire in modo sintetico. Ancora una volta, dunque, non è a me che dovete rivolgere reclamo, ma a Raisi stesso per quel che ha detto sui limiti del vostro teorema.
Quanto all’apertura, nel 2005, presso la procura di Bologna, di un nuovo fascicolo d’indagine sulla strage alla stazione e l’iscrizione nel registro degli indagati, nel 2007, di due ex militanti dell’estrema sinistra tedesca, se l’aritmetica non mi tradisce, mi pare che da allora siano trascorsi nel primo caso 7 anni e nel secondo 5, senza sviluppi. In casi del genere si dice che “l’inchiesta langue”. Non c’è molto da rallegrarsene, anche perché l’iscrizione nel registro degli indagati, recita la norma, è un atto dovuto a garanzia della persona sottoposta ad indagini poiché la rende edotta del fatto che si sta indagando nei suoi confronti e dunque le permette di tutelarsi legalmente e soprattutto difendersi. Non è una incriminazione o l’anticipazione della condanna, come Lei e i suoi amici un po’ affrettatamente lasciate intendere in giro. Le inchieste, non dovrei nemmeno ricordarlo, si conducono anche per verificare l’infondatezza delle ipotesi accusatorie o per dare soddisfazione a pressioni politiche in determinate congiunture.
In questa storia, non dimentichiamolo, i condannati da sentenze definitive sono altri.
E lasciamo stare che fin da quando ho cominciato a frequentare i passeggi delle carceri, nel lontano 1987, ero con quelli che hanno nutrito sempre grosse perplessità sull’inchiesta della procura bolognese di cui anni dopo ho sperimentato personalmente anche i metodi.
L’ho già scritto e lo ripeto, sostituire quelli che voi ritenete dei capri espiatori con altri capri espiatori, non è un buon metodo. Sarebbe tempo che cominciaste ad accorgervene!

Cordialmente,
Paolo Persichetti

La lettera di Gabriele Paradisi

Caro Persichetti
Le scrivo in quanto sono stato citato nell’articolo “Avvocato Cutonilli, Mauro Di Vittorio non deve dimostrare la sua innocenza, è Raisi che deve giustificare le sue accuse!”, da lei pubblicato su Insorgenze il 25 ottobre 2012, ultimo di una serie di articoli nell’ambito di un’inchiesta da lei condotta, relativa alle polemiche scaturite da dichiarazioni dell’onorevole Enzo Raisi riguardanti Mauro Di Vittorio, morto nella strage alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980.
Se nel mio caso la citazione era quasi automatica, avendo lei ricordato un passaggio di una mia intervista allo scrittore Loriano Macchiavelli, autore nel 1990 del romanzo Strage, per nulla scontata e a mio avviso inopinata, è stata la chiamata in causa degli amici Gian Paolo Pelizzaro e François de Quengo de Tonquédec coautori con me del libro Dossier Strage di Bologna La pista segreta.
Per quanto riguarda la mia intervista a Macchiavelli, vorrei evidenziarne l’assoluta e unica valenza giornalistica. Poiché in quei giorni stavano montando le polemiche sopra citate e poiché lo scenario descritto nel libro trovava alcune singolari analogie con gli argomenti al centro della discussione, mi interessava raccogliere le considerazioni dell’autore ed è semplicemente quello che ho fatto, non avendo nessun altro secondo fine.
Detto ciò vengo al punto che maggiormente mi preme. Come Ugo Maria Tassinari può confermare e come egli stesso ha già segnalato nel suo blog FascInAzione, la posizione di Gian Paolo Pelizzaro, di François de Quengo de Tonquédec e anche la mia in merito alla vicenda Mauro Di Vittorio è da tempo molto chiara e precisa.
Il lavoro di ricerca svolto da Pelizzaro, dapprima in Commissione Stragi e poi in Commissione Mitrokhin, sulla cosiddetta pista palestinese, come lei dovrebbe ben sapere, ha portato all’apertura nel 2005 presso la Procura di Bologna di un nuovo fascicolo d’indagine sulla strage alla stazione. Quel lavoro si distingue per il metodo rigoroso, scientifico, e proprio perché basato su documenti e riscontri oggettivi, non su chiacchiere, ipotesi e tantomeno illazioni, ha fatto sì che dopo 7 anni la Procura stia ancora lavorando con serietà e discrezione e abbia iscritto nel registro degli indagati, nell’estate 2011, due tedeschi appartenenti alle Rz e al gruppo Carlos.
Il modesto contributo a quel lavoro di ricerca, fornito dal sottoscritto e dall’amico François in questi ultimi anni, ha solo permesso di collocare nuove tessere nel già solido mosaico impostato da Pelizzaro, elementi che sono stati recuperati, vagliati e riscontrati col medesimo approccio metodologico di cui s’è detto.
Per questa ragione, ovvero per la mancanza assoluta di qualsiasi riscontro documentale inconfutabile, la vicenda di Mauro Di Vittorio, fin dal primo giorno, ci ha visto scettici e distaccati dalle posizioni di Raisi, tanto da vederci costretti a prenderne ufficialmente le distanze proprio su FascinAzione.
Ragion per cui è del tutto falso affermare che «la variante di Raisi è venuta in soccorso dell’originario teorema della pista palestinese di Pelizzaro, Paradisi, Tonquedéc». L’impianto di Pelizzaro non necessita di questo tipo di aiuti che anzi possono, apparentemente, arrecare danno, come questa e altre pretestuose querelle testimoniano. È altrettanto falso ciò che poi lei aggiunge e cioè che «tale pista è da tempo in crisi per non essere riuscita ad indicare con un sufficiente margine di certezza i possibili autori e formulare un movente credibile». Lei sa benissimo che è vero il contrario. Che di elementi solidi sui quali né lei né altri hanno ancora avuto il coraggio di confrontarsi, ne esistono, eccome.
Detto ciò e prima di concludere ribadisco che la posizione di Raisi, legittima come altre e di cui egli si assumerà tutte le responsabilità del caso, resta una posizione del tutto autonoma e sua. Che i ragionamenti, altrettanto legittimi, dell’avvocato Valerio Cutonilli e di altri che sono intervenuti, restano da ascrivere a loro e non possono essere associati impropriamente ad altri. Noi, e mi permetto di parlare anche a nome di Pelizzaro e Tonquédec, quello che pensiamo l’abbiamo scritto nei nostri libri e nei nostri articoli ed è il frutto di un metodo di lavoro che, seppur faticoso e impegnativo, non intendiamo assolutamente abbandonare.

Tanto le dovevo. Cordiali saluti
Gabriele Paradisi

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0.Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
1. Puntata, L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
2. Puntata, Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
3. Puntata, Strage di Bologna, Mauro Di Vittorio viveva a Londra tra ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani
4. Puntata, Cutolilli, Di Vittorio non deve dimostrare la sua innocenza è Raisi che deve giustificare le sue accuse

Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli Enzo Raisi: Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del Policlinico o dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci

Strage di Bologna, ancora una testimonianza in favore di Mauro Di Vittorio che viveva a Londra tra «ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani»

Terza parte/continua
Le memorie riaffiorano lentamente dalle brume di un tempo lontano ormai 32 anni.

Dopo il salutare scossone provocato dalla nostra inchiesta in difesa della storia di Mauro Di Vittorio, l’ultima delle vittime ad essere stata identificata nella strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, apparsa sul manifesto del 18 ottobre (leggi qui) scorso e nella quale abbiamo smontato il castello di menzogne costruito nel corso di questi ultimi mesi dal parlamentare finiano Enzo Raisi che ha accusato Di Vittorio di essere uno degli artefici dell’attentato, tornano i ricordi, si fanno più nitidi i contorni, si precisano meglio i dettagli.
Si incrina il muro dell’oblio, per questo ci auguriamo che altri ancora diano il loro contributo. Questo blog è pronto a pubblicarli.
Per mesi abbiamo cercato testimonianze che dessero conferma a quanto avevamo già verificato, al materiale documentale raccolto, parole nuove che reincarnassero quelle carte, tornassero a dare loro un’anima, trasformando in un sentimento caldo la memoria di Mauro.

Non è stato facile. 32 anni sono tanti, troppi, soprattutto per doversi difendere all’improvviso da un’accusa che ti prende alle spalle, a tradimento, perché così è dopo che l’incuria del tempo cancella i ricordi, fa scomparire i testimoni, seppellisce le carte sotto cumuli di polvere, in cassetti dimenticati.
Si parla molto delle vittime in Italia. In questo blog ci sono diversi post e articoli apparsi su alcuni quotidiani che affrontano il tema del paradigma vittimario. Ci sembra che questa vicenda stia dimostrando – se ancora ce ne fosse stato bisogno – come quello delle vittime sia solo un tema strumentale, da mercato politico e giudiziario. Non s’è levata in giro nessuna voce da parte dei “professionisti del dolore” in difesa della memoria di Mauro, nessuno si è preoccupato tra i tanti politici e vertici istituzionali di chiamare Anna Di Vittorio e suo marito Giancarlo Calidori mentre un intero schieramento parlamentare appoggiava l’iniziativa di Raisi nel silenzio complice e ipocrita del presidente della camera Gianfranco Fini. E dalle redazioni dei giornali, fatte salve alcune rare eccezioni purtroppo confinate nella locale, solo tanta sufficienza verso quel che accadeva.
Dopo le lettere dei compagni e amici dell’epoca (qui), dopo la testimonianza di Luciano Di Santo (qui), amico di Marcello, fratello minore di Mauro, indebolito da una malattia che gli impedisce di lottare per difendere la memoria del fratello, ci arriva un ricordo puntuale di Marco Boccitto, giornalista del manifesto, grande amico di Marcello, che ha conosciuto Mauro fino a subirne il fascino, come si capisce da quel che scrive.

Ecco chi era Mauro Di Vittorio
di Marco Boccitto

Ho conosciuto Mauro Di Vittorio all’inizio dell’estate 1980 tramite suo fratello Marcello, uno dei miei primi e “migliori amici”.
Mi colpì subito per le vibrazioni lunghe e serene che emanava, l’approccio libero e disilluso alle lacerazioni che viveva all’epoca il movimento, la filosofia senza smanie di chi sa vivere bene con poco. La decrescita felice non sapevamo neanche cosa fosse, ma lui la praticava con buonissimi esiti. Se ne stava a Londra, in cerca di niente e in attesa di tutto. Diceva che era fantastico, che era pieno di squat in cui vivere e se pure non trovavi lavoro ti davano un sussidio con cui tirare avanti. Parlava di ganja, amicizie intercontinentali, indiani d’India e indiani metropolitani, dei suoi vicini ghanesi e giamaicani, di come il reggae incontrava il punk, insomma l’Inghilterra vista da Brixton, il sobborgo in cui abitava. Difficile mettere d’accordo quei suoi racconti con le rivolte che incendieranno il quartiere di lì a un anno. Difficile anche associare quel suo approccio a un concetto negativo come quello di «riflusso». Ma ancor più difficile è ipotizzare un suo essere altro da questo. «Sai che c’è – gli dissi – se è davvero così ti vengo a trovare…». E lui: «Magari! Da fine luglio sarò di nuovo lì, se vieni puoi stare da me».
Non me lo feci ripetere.  Una sera d’inizio agosto ero davanti alla porta di casa sua, in un fatiscente condominio di squat, a Barrington Road. Con Mauro vivevano una ragazza sarda che forse studiava, un ragazzo veneziano che faceva il cuoco e un altro ancora di cui non ricordo. Di nessuno rammento i nomi. Aperta la porta mi spiegarono che Mauro non c’era, che anche in base a quel che sapevano loro sarebbe dovuto essere lì già da qualche giorno. Chissà, decidemmo, si sarà perso in qualcuno dei suoi giri sconvolgenti. Arriverà. «Intanto puoi dormire nella sua stanza», mi dissero. E così feci. Mi sistemai tra le sue poche cose felici, tra i cylum e gli economici Feltrinelli della beat generation, e malgrado fossi al verde provai a godermi la vacanza in sua attesa.
Qualche tempo dopo gli lasciai un biglietto, qualcosa del tipo «bella sòla che sei, chissà in che trip ti sei perso, grazie comunque x l’ospitalità e alla prossima». Tornato in Italia, il fratello mi parlò del diario bruciacchiato ritrovato sotto le macerie e della storia che conteneva. La spiegazione assurda, ma più che plausibile – anche e me avevano fatto un sacco di storie a Dover perché in tasca avevo solo pochi spicci – del perché Mauro non fosse lì dove doveva stare.

Per saperne di più
Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
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L’ultimo viaggio di Mauro Di Vittorio

da Lotta Continua, 21 agosto 1980

Parto con la sensazione di dover fare qualcosa di buono. Tante idee per la testa, chissà cosa combino. Dopo una grattachecca e una controllatina alla macchina comincia il viaggio. Peppe vuol fare la strada più lunga, cioè l’Aurelia, per vedere se ci sono due ragazze del Belgio in Toscana, ma dopo quattro ore di viaggio arriviamo e non le troviamo. Peccato.
Decidiamo di proseguire anche se è notte e arriviamo a Milano. Qui la macchina comincia a fare i capricci e cambiata la candela andiamo un po’ avanti un po’ più nervosi. Il giorno dopo, alla frontiera con la Svizzera ci tengono fermi due ore, ma il morale è  intatto. Ogni tanto ci fermiamo per far riposare la  macchina. Peppe comunque è un ottimo guidatore e sono abbastanza sicuro. Andando avanti cominciano le difficoltà serie con la macchina perché la strada è in salita e c’è molto traffico. Comunque la Svizzera è bella, specialmente al passo del San Gottardo dove ancora c’è la neve e ci fermiamo a bere.
Dopo la Svizzera italiana c’è la Svizzera tedesca e in mezzo a un traffico tremendo e molte parolacce la sera siamo alla frontiera.
Già stavo pensando di arrivare il giorno dopo a Londra e tutto contento facevo i miei progetti, quando è successo l’imprevisto. I doganieri tedeschi dopo averci perquisito la macchina e visto i documenti arrestano Peppe perché due anni prima a Monaco non aveva  pagato la metropolitana.
Peppe è molto abbattuto perché non gli spiegano che cosa gli faranno, allora decidiamo che io vado in autostop ed eventualmente gli mando dei soldi da Londra. La macchina la lasciamo alla frontiera e Peppe viene portato via. Rimango in attesa per tre ore aspettando invano il suo ritorno insieme a due ragazze tedesche che mi offrono della cioccolata dopo due giorni che non mangio altro.
La mattina parto e prendo subito un passaggio in una Mercedes che però mi lascia fuori dell’autostrada. Sono abbastanza giù, anche perché qui parlano solo tedesco e per capire è un vero problema. Comunque sono abbastanza fortunato e cammino abbastanza velocemente, poi prendo un passaggio da un ragazzo tedesco che come salgo mi offre di accendere una pipetta di fumo mi tranquillizza un po’, ma alla seconda pipa nella quale c’erano minimo due grammi di nero mi sconvolgo in modo veramente pauroso. Con la terza la tensione è salita di molto e mi sento male, molto male. Ho un trip violentissimo e delle visioni allucinanti, e per fortuna sono molto stanco per cui mi metto a dormire. Quando il tipo mi sveglia sto meglio e ho fatto molta strada.
La sera dopo un passaggio di un belga molto simpatico arrivo a Liegi. Sono contento perché la strada da fare è poca, per cui penso di arrivare il giorno dopo.
Questa mattina mi sono svegliato bene e dopo un caffé mi sono messo in marcia. Un passaggio dopo l’altro e sono arrivato a Ostenda. Mi permetto pure una colazione e all’una prendo il traghetto. Londra, eccomi. Faccio un giro sul traghetto e tre ore passano subito. Dover con le sue bianche scogliere mi sta di fronte.

Il racconto del viaggio di Mauro Di Vittorio apparso su Lotta continua el 21 agosto 1980. Il diario venne consegnato dalla polizia ferroviaria ad Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, dopo il riconoscimento del corpo

Leggi (qui) l’inchiesta che smonta le accuse contro Mauro Di Vittorio lanciate dal parlamentare finiano Enzo Raisi

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2 agosto 1980, la telefonata di smentita delle Brigate rosse sulla strage Bologna – Radio Popolare

Pomeriggio del 2 Agosto 1980, a poche ore dalla strage della Stazione di Bologna, la colonna milanese delle Brigate rosse “Walter Alasia” telefona in diretta a Radio Popolare per smentire  la rivendicazione, falsa, fatta nelle ore precedenti a nome della Brigata “Francesco Berardi” di Genova.
Telefonata di smentita che venne ritenuta attendibile da tutte le forze di polizia.
Come potrete ascoltare, il tono del militante delle Brigate rosse – che ebbe l’incarico dall’organizzazione di compiere la smentita ufficiale – è estremamente perentorio verso la redazione di Radio popolare rimproverata per aver accreditato con ingiustificata superficialità la falsa rivendicazione telefonica giunta poche ore prima.
Questo documento – non certo inedito e presente in rete da tempo – torna ad acquistare nuova rilevanza oggi, di fronte al tentativo condotto da alcuni ambienti della destra postfascista (vedi le sortire dell’ex carabiniere missino, oggi parlamentare Fli,  Enzo Raisi, o le “riscoperte” di vecchi atti d’indagine spacciati per nuove rivelazioni da alcuni vecchi arnesi della commissione Mitrokhin
) di attribuire l’orrenda strage ai “rossi”, attraverso un metodico lavoro di riscrittura – o come qualcuno ha recentemente scritto, «ristyling» – dell’immagine stragista della destra italiana del dopoguerra.
Tentativo perseguito ricorrendo allo stesso modello discorsivo che per decenni ha ispirato la grammatica della dietrologia, del peggiore complottismo sulla storia degli anni 70: una sintassi che fa ricorso a salti logici, correlazioni arbitrarie, ricostruzioni lacunose, errori, manipolazioni, invenzioni, bugie, per nulla diverse da quella pronunciata dall’autore della telefonata che il 2 agosto 1980 tentò di attribuire la strage alle Brigate rosse

Link utili
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Strage di Bologna, i depistaggi sono la continuazione dello stragismo con altri mezzi. Risposta a Enzo Raisi
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