Giorgio Frau, venerdì 8 marzo l’ultimo saluto

PER CHI VUOLE SALUTARE GIORGIO
VENERDI 8 MARZO
ORE 9,30 OBITORIO P.LE DEL VERANO 38
ORE 13,00 – 15,00 VIA MASURIO SABINO 31

foto GiorgioIn rete circolano dei ritratti di Giorgio che lo descrivono come “un lumpen”, “un personaggio pasoliniano”, dalla vita ambigua, a cavallo tra criminalità comune e lotta politica, finito per caso o per sbaglio nella lotta armata per il comunismo. Una rappresentazione fondata su circostanze inesatte e non veritiere della sua storia politica e personale. Niente di più falso, niente di più lontano dalla sua vicenda politica di comunista rivoluzionario a tutto tondo. Verrà il momento di raccontarla correttamente questa storia.

Piuttosto la morte Giorgio interpella la comunità frantumata dei compagni che con lui hanno condiviso durante gli anni 70 e 80 la lotta politica, la scelta armata, il carcere.
Una volta terminata la condanna non tutti hanno reagito allo stesso modo di fronte alla difficoltà di ritrovare un posto nella vita senza rinnegare la propria storia e le idee che l’hanno animata.
Non tutti hanno avuto lo stomaco di sopportare le tante giravolte, i mille percorsi individuali, l’affievolirsi della solidarietà.
Chi lo ha visto recentemente lo ricorda come suo solito: sereno, allegro, carico come sempre della sua generosità. La generosità, una qualità che in lui sembrava inesauribile.
In realtà la sua scelta, che a noi appare un gesto disperato, ci dice che la nostra era solo cecità, la prova di una capacità di ascolto e di attenzione persi.

Nella sua pagina facebook non molti giorni fa Gorgio ha scritto questa frase attribuita ad Epicuro: “Non abbiamo tanto bisogno dell’aiuto degli amici, quanto della certezza del loro aiuto”.

Non possiamo perdere così i nostri compagni.

Giorgio me lo ricordo nei cubicoli del G12 speciale di Rebibbia mentre faceva l’aria da isolato, era il 1989, appena estradato dalla Spagna con Anna. Lo salutammo dalle finestre. La loro posizione processuale venne stralciata e così non ebbi modo d’incontrarli. Alla fine del processo di primo grado, dopo essere stato assolto dall’accusa più grave fui scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, oltrepassati da oltre un anno. Alcuni mesi dopo l’appello che capovolse il verdetto della corte d’assise mi rifugiai in Francia. Era il 1991. Non so esattamente quando Giorgio fu ricondotto in Spagna dove venne condannato per una lunga serie di rapine di autofinanziamento.
Lo rividi tanti anni dopo al Mammagialla di Viterbo, forse era il 2005 o il 2006, quando lo portarono al mio blocco, al piano sopra il mio. Ero stato riportato in Italia nel 2002 grazie ad una “consegna straordinaria”. Giorgio aveva terminato la sua condanna, credo nel 1998, ma nel frattempo aveva trovato il modo di farsi riarrestare. Una brutta esperienza nel mondo delle cooperative, dissidi sul modo di intendere il lavoro sociale lo spinsero a tentare l’avventura: mettersi in proprio. Ma la cioccolateria aperta con la sua compagna non funzionò e si ritrovò in un mare di debiti.
Il Dap aveva disposto il divieto d’incontro tanto per renderci la detenzione più disagevole. Chi scendeva al campo di calcio nei giorni in cui era permesso escludeva l’altro. E così per tutte le altre attività comuni. Non restava che metterci d’accordo attraverso radio carcere. Poi un giorno si sbagliarono e ci ritrovammo insieme nel corridoio, ci abbracciammo, ci baciammo e cominciammo a ballare di fronte alle guardie attonite che ci misero un po’ a reagire, staccarci e rimediare.
Finalmente nel 2007 ci ritrovammo a Rebibbia, a distanza di alcuni mesi l’uno dall’altro. Ci incontravamo in sala studio per seguire dei corsi di giurisprudenza. Nel 2008 sono uscito in semilibertà mentre Giorgio è rimasto fino alla conclusione della pena e da bravo studente ha dato anche con profitto diversi esami.

Giorgio ha fatto in tempo ad uscire dal carcere, rientrare, scontare per intero la condanna, uscire di nuovo e morire ed io ancora lì con una pena che sembra non finire mai ad aspettare di poter festeggiare insieme la conclusione delle nostre condanne e fargli conoscere il mio bambino.
Ora dovrà conoscerlo Anna.

Ciao Giorgio, pochi giorni fa sempre su facebook ponevi a te stesso una domanda che col senno di poi sembra premonitrice:

“Intervallo? …ma quanto durera st’intervallo?”.

L’intervallo è finito e tu non ti sei tirato indietro…. quella mattina però, se l’avessimo saputo, in molti ti avremmo impedito di uscire di casa. Non dovevi morire così!

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A Giorgio Frau
Per Giorgio Frau da Parigi
A Giorgio Frau ucciso ieri a Roma

Wilma Monaco, una storia esemplare per comprendere le radici sociali della lotta armata a Roma, a cavallo tra gli anni 70 e 80

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Subito dopo i primi anni 80, mentre la lotta armata declina rapidamente nel resto d’Italia, a Roma continua nonostante le ripetute ondate di arresti e rastrellamenti. Perché?
La storia di Wilma Monaco, nome di battaglia “Roberta”, militante delle Brigate rosse-Unione dei comunisti combattenti (nate dopo una scissione dalle Br-pcc), morta a Roma in via degli Orti della Farnesina il 21 febbraio 1986, nel corso di un’azione che mirava al ferimento di Antonio Da Empoli, consigliere economico della Presidenza del Consiglio del governo Craxi, è esemplare per comprendere il complesso insediamento sociale che l’area della lotta armata aveva nei quartieri popolari della Capitale.
Wilma era nata a Roma, nel  il 28 ottobre 1958, nel quartiere Testaccio da una famiglia di modeste condizioni. Si era diplomata in lingue nel luglio 1976.
«Tra il 1977-78 a Roma erano proliferate decine di piccole organizzazioni che si erano riunite sotto la sigla del Mpro (Movimento proletario di resistenza offensiva), coordinando iniziative su temi specifici come il problema della casa e del lavoro.
Wilma si inserisce in uno di questi nuclei sviluppando appieno il suo lavoro di militante. Partecipa così alle varie iniziative che, essendo di un certo valore, permettono al gruppo di entrare subito in contatto con le Brigate rosse, con le quali l’organizzazione cui appartiene mantiene un rapporto critico. Nel giro di un anno il Mpro scompare e la stessa sorte tocca alle organizzazioni che lo avevano formato. 
Le Br, sfruttando a loro favore il disgregamento di questa realtà organizzata, raccolgono i singoli e i gruppetti attraverso la proposta della costruzione dei Nuclei clandestini di resistenza. Lei diventa militante di uno di questi nuclei e nello stesso periodo si inserisce maggiormente in realtà di lotta ed emarginazione non più nel suo quartiere originario, ma nel quartiere dove si è trasferita». (Dalla testimonianza di Gianni Pelosi, ex marito e militante delle Br-Pcc in Sguardi ritrovati, Progetto memoria, Edizioni Sensibili alle Foglie, Roma 1993).
L’enorme ondata di arresti dovuti all’impiego della tortura e al pentitismo che colpisce durante tutto il 1982 le Brigate rosse innesca una inevitabile discussione sul bilancio e il futuro della lotta armata. A Roma il dibattito si sviluppa in un coordinamento nel quale confluiranno tutte le organizzazioni o i singoli presenti  legati al percorso della lotta armata. Wilma Monaco partecipa attivamente a questo dibattito e alla fine del 1982 si avvicina ad un’area dissidente delle Br che riteneva «talmente profonda la portata della “batosta” che si stava subendo, da rendere impossibile riadeguare l’impianto generale delle BR affidandosi a intuizioni contingenti o addirittura ad una confusa battaglia fra 3 ipotesi: “guerra totale”, “Strategia della lotta armata” e “ipotesi insurrezionale”. Quelli, per intenderci, che ritenevano semplicemente stupido e dannoso “troncare” la riflessione autocritica (sia sotto il profilo teorico che politico/militare) e illudersi che la pratica combattente avrebbe di per sé stabilito la validità e la supremazia di un impianto rispetto agli altri» (Testimonianza di Vittorio Antonini).
Nel frattempo Wilma Monaco insieme alla maggior parte dei componenti di questo coordinamento partecipa alle lotte sociali e politiche che si sviluppano sul territorio romano e nazionale. Prende parte al movimento contro la guerra che si impegna contro l’istallazione dei missili Nato a Comiso e Sigonella. Nello stesso periodo partecipa alle lotte dei disoccupati riuniti nelle Liste di lotta alle quali lei stessa si iscrive.
La delazione di un pentito l’obbliga alla latitanza. Raggiunta Parigi fonda le Brigate rosse-Unione dei comunisti combattenti insieme ad un’area che vede presenti ex appartenenti ai “nuclei clandestini di resistenza” e alcuni ex militanti e dirigenti delle Br-pcc che avevano dato vita – nel corso di un acceso dibattito interno sul futuro della lotta armata – alle tesi raccolte nella “Seconda posizione” .


Di seguito un ritratto di Wilma Monaco scritto da Paola Staccioli ripreso dal  libro 101 donne che hanno fatto grande Roma, (Newton Compton 2011)

“Un ferale alfabeto si snoda la mattina del 21 febbraio 1986 a Roma, sull’asfalto di via della Farnesina. Come in un’agghiacciante partita di Scarabeo i cartellini della Polizia scientifica mettono in fila, uno dopo l’altro, i tasselli dell’orrore.
La lettera A è il corpo di una giovane. Con il volto verso il suolo. I quotidiani indugiano sui particolari dell’abbigliamento. Quasi che il mosaico di colori possa rendere meno glaciale la scena. Giaccone e sciarpa viola, borsa di cuoio a tracolla, zuccotto di lana scuro con borchie di metallo, guanti bianchi e neri da sci, stivaletti con la suola di gomma. B, C, D… bossoli, macchie, schegge… H, una pistola calibro 38. L’arma con cui ha sparato Wilma Monaco, militante dell’Unione dei comunisti combattenti (Udcc), formazione armata nata da una scissione delle Brigate rosse. L’organizzazione è alle prese con una situazione di grave crisi. Quasi tutti i membri sono in carcere, dilagano i cosiddetti pentiti, i dissociati. Le azioni sono ormai sporadiche. Il clima è pesante. Sono gli anni del craxismo trionfante. La sconfitta, profonda, ha travolto la sinistra, nelle sue rappresentanze storiche. I movimenti operai, studenteschi, femministi, sono rifluiti, i gruppi extraparlamentari dissolti nel nulla. Ma alcuni militanti vogliono proseguire la lotta. Cercano una via d’uscita, una strada di cambiamento e rivoluzione sociale.

Wilma è con loro. Dai tempi della scuola non ha mai abbandonato l’impegno politico. Infanzia a Testaccio, diploma al liceo linguistico, lavoro come impiegata. Nel 1977-78 milita in uno dei vari gruppi riuniti a Roma sotto la sigla di Movimento proletario di resistenza offensivo (Mpro), in contatto con le Brigate rosse. Effettuano azioni, anche illegali, prevalentemente sui temi della casa e del lavoro. Allo scioglimento del Mpro, insieme ad altri militanti Wilma costruisce i Nuclei clandestini di resistenza.
Dal 1982, quando le Brigate rosse vacillano sotto il terremoto di arresti provocati in primo luogo dal pentitismo, il dibattito sul futuro della lotta armata investe anche l’area semilegale e la rete di appoggio diffusa che ruota intorno all’organizzazione. Wilma partecipa. Disorientata come molti suoi compagni. In bilico fra le lotte di massa e l’ipotesi armata, è in prima fila nelle battaglie del movimento pacifista contro l’installazione dei missili a Comiso, nelle iniziative dei disoccupati delle Liste di Lotta.

Riparata a Parigi in seguito a una denuncia, insieme agli scissionisti delle Brigate rosse fonda l’Udcc. È la fine del 1985. Lo stesso anno è stato arrestato l’ex marito, da cui si è separata affettivamente e politicamente. Lui è un brigatista “ortodosso”. La nuova struttura, l’Udcc, intende invece mantenere acceso lo scontro, anche militare, ma considera la lotta armata uno strumento di lotta, sia pure decisivo, non una strategia.

Quella del 21 febbraio 1986 è la prima azione del gruppo. Obiettivo del commando – due uomini e due donne – Antonio Da Empoli, neodirettore del Dipartimento degli Affari economici e sociali della presidenza del Consiglio, collaboratore diretto di Bettino Craxi. Un incarico importante ma nell’ombra. Deve essere gambizzato, si dice in gergo. I quattro si appostano vicino all’edicola dove l’uomo si ferma ogni giorno andando a Palazzo Chigi. Sono le nove. La zona è tranquilla ed elegante. Da Empoli esce di casa, compra i giornali, torna verso la macchina, qualcuno grida il suo nome. Lui si volta, l’uomo spara. Viene ferito in modo non grave a una mano e a una coscia. La reazione è immediata. L’autista è un poliziotto, che si catapulta in strada facendo fuoco. Il commando è disorientato. Wilma tenta di coprire la fuga dei compagni. Avanza, spara tre colpi. Poi cerca di raggiungere la Vespa. Non ce la fa. Barcolla, crolla a terra, ferita a morte nonostante il giubbotto antiproiettile che indossa sotto la giacca. Gli altri riescono a far perdere le loro tracce.

Termina la vita così, a ventotto anni, Wilma Monaco. Roberta il suo nome di battaglia. Un’esistenza simile a quella di tanti coetanei cresciuti sull’onda lunga del Sessantotto, nel clima delle grandi passioni politiche, del fermento sociale che ha attraversato il paese, della strategia della tensione attuata per frenare il cambiamento. Del tentativo di definire un’ipotesi rivoluzionaria per i paesi a capitalismo avanzato.

Nel marzo del 1987 l’Udcc uccide il generale dell’Aeronautica Licio Giorgieri, prima di essere smantellata dagli arresti.”

 


In memoria di Wilma
da Versi cancellati di Geraldina Colotti

Ai confini
della mia pelle
riparo
i tuoi occhi
sorella
dal gelo
di quel mattino

*  *  *

Un occhio all’immediato
e l’altro all’infinito:
lo strabismo era fin troppo evidente.
D’altronde
in mezzo quasi niente
scarne frasi divelte
dai binari del sogno
e muti amati miti
traditi
drogati
omologati.
Ma quando
ho spento il mio nome
danzando
(l’urto fra pietre
produce scintille)
rideva l ‘Ottobre d’incanto.
Rammento
febbre d’ancore
a piume dorate
portate a schiuma
dal vento.
E poi cento lune
in frammento
cosparse di sangue
fecondo
il volto
l’asfalto
Rammento:
un occhio all’immediato
e l’altro all’infinito
Peccato.

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A Wilma Monaco

Negati i permessi all’ex Br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto

Il Giudice di sorveglianza di Viterbo rifiuta la concesione dei permessi all’ex Br «Nel suo libro disprezza lo Stato».
La replica di Persichetti: così tutti dovrebbero tornare in cella. «Il rischio di pericolosità sociale è tutto ideologico. Allora riguarderebbe anche Liberazione che pubblica i miei articoli»

 

Giovanni Bianconi
Corriere della Sera
22 agosto 2006

ROMA – Dei «rifugiati» in Francia che il governo Berlusconi s’era impegnato a rimpatriare è l’unico tornato in un carcere italiano. Semplicemente perché c’era il provvedimento d’estradizione già firmato da tempo, bastava eseguirlo. Accadde quattro anni fa, 25 agosto 2002: Paolo Persichetti, all’epoca quarantenne, già militante dell’ Unione dei comunisti combattenti (frazione scissionista delle antiche Br che nel 1987 uccise il generale dell’Aeronautica Licio Giorgieri) venne fermato a Parigi e accompagnato in cella. Doveva scontare, per concorso nell’omicidio Giorgieri, 22 anni e mezzo di pena. Oggi, sommati i 4 anni trascorsi alla carcerazione preventiva fatta in Italia e a un periodo di detenzione subìto in Francia, per Persichetti è scattata la possibilità di chiedere i «permessi premio»: qualche ora o qualche giorno da passare fuori dal carcere di Viterbo nel quale l’ex terrorista studia, scrive, lavora al dottorato di ricerca in Scienze politiche all’università Paris VIII dove insegnava prima di essere arrestato, invia articoli al quotidiano di Rifondazione comunista Liberazione; e ha pubblicato prima in Francia e poi in Italia un libro – Esilio e castigo, retroscena di un’estradizione, con prefazione dello scrittore Erri De Luca – di forte critica a tempi e modalità del suo rientro in galera. Libro che ora gli è costato l’ ennesimo «no» del giudice di sorveglianza alla richiesta di permesso. Che Persichetti sia un «ex», come gran parte dei latitanti che in Francia vivono e lavorano alla luce del sole, s’intuiva dai suoi trascorsi a Parigi: da lì stigmatizzò il ritorno all’omicidio politico, quando le nuove Br uccisero Massimo D’Antona, nel 1999. E lo conferma la relazione degli «osservatori» del carcere, i quali hanno scritto a maggio di quest’anno che il detenuto «ha esplicitato la volontà di dimostrare il suo cambiamento inteso come rielaborazione del proprio vissuto e conseguente modifica del modo di agire e di vedere la realtà… Sente ormai lontano il modo di agire di certi gruppi politici… Ha ormai raggiunto una maturità che gli consente di esporre le proprie idee in modo da rispettare le regole sociali».
Ma il giudice Albertina Carpitella, non soddisfatta di queste valutazioni, ha voluto leggere il libro in cui Persichetti descrive la sua estradizione, in estrema sintesi, come un colpo di teatro organizzato dallo Stato italiano per bilanciare i risultati nulli (all’epoca) delle indagini sulle nuove Br: per questo fu anche inquisito per il delitto Biagi sulla base di un labile indizio, e poi prosciolto dopo la scoperta dei veri responsabili. Il giudice di sorveglianza, però, l’ha letto con altri occhi e ne ha tratto la conclusione che l’ex brigatista è ancora «socialmente pericoloso». Pur riconoscendo che il detenuto «è ovviamente libero di interpretare a proprio piacimento le vicende personali e quelle politiche, e di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo», il magistrato sentenzia: «Dalla lettura risulta evidente che egli si considera appartenente a una parte politica, che definisce gli “sconfitti”, che concepisce come controparte rispetto a tutte le istituzioni pubbliche, accusate di scrivere la storia da vincitori assumendo atteggiamenti vendicativi attraverso “le relazioni delle commissioni parlamentari”, le “sentenze della magistratura”, eccetera». Per il giudice, il libro tradisce un «atteggiamento di vittimismo politico» e un «perdurante disprezzo dello stato di diritto» che «non si conciliano né con la condivisione dei valori fondanti del sistema giuridico-democratico italiano né con l’assunzione di responsabilità e la valutazione negativa del commesso omicidio, necessarie alla formulazione di un giudizio di revisione critica».
A parte che molte valutazioni negative sulla sua vicenda processuale vengono svolte da Persichetti proprio in nome dello stato di diritto, dalla sua cella il detenuto protesta: «È un’assurdità: con questi presupposti sia Curcio che Moretti, Balzerani, Negri, Gallinari e compagnia (tutti condannati per reati di terrorismo o affini, e tutti liberi, semiliberi, o comunque ammessi a uscire dal carcere, ndr) dovrebbero rientrare in galera per i loro libri, certamente molto meno critici del mio. E il “non cessato rischio di pericolosità sociale”, tutto ideologico, a rigore dovrebbe estendersi anche a Liberazione che mi pubblica regolarmente…». La battaglia legale di Persichetti e del suo avvocato Francesco Romeo proseguirà, ma intanto resta un paradosso. Il libro di Persichetti si conclude con l’auspico che la sua testimonianza «possa contribuire al processo di storicizzazione di un passato che è sempre più urgente sottrarre alle strumentalizzazioni politiche», per giungere «al più presto alla definitiva chiusura degli strascichi penali degli anni 70 e 80, liberando il futuro dalle ipoteche di stagioni ormai da lungo tempo concluse». Forse per il magistrato di sorveglianza di Viterbo è ancora troppo presto, ma per adesso aver messo nero su bianco quella testimonianza ha fatto sì che l’autore non possa uscire di galera nemmeno per un giorno.

Scheda
Arrestato a Roma il 29 maggio 1987, assolto in primo grado viene scarcerato nel dicembre 1989. Condannato in appello a 22 anni e mezzo di carcere, lascia l’Italia nel 1991. Il 24 agosto 2002 viene fermato a Parigi, caricato in una macchina che si dirige immediatamente verso l’Italia dove viene ceduto all’alba del 25 agosto sotto il tunnel del monte Bianco.
Una “consegna straordinaria” (in aperta violazione delle norme sulle estradizioni), la prima del genere in Italia, provocata dalla montatura giudiziaria architettata dal gruppo di inquirenti guidato da Vittorio Rizzi, che indagavano sull’attentato Biagi, e dal sostituto procuratore di Bologna, Paolo Giovagnoli, che l’ha ufficialmente iscritto nel registro delle indagini per poi dover archiviare’ipotesi d’accusa 18 mesi più tardi.

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