Qualche tempo fa, credo fosse l’ottobre del 2011, alla fine di una conferenza sugli anni 70 che avevo seguito per conto del giornale dove lavoravo, mentre gran parte dei partecipanti e degli spettatori abbandonavano la sala o si attardavano in capannelli proseguendo animatamente la discussione, un piccato Giovanni Fasanella molto irritato per essere stato definito dietrologo «da quelli come Persichetti e Clementi», additandomi disse pubblicamente che avrei dovuto fornire spiegazioni su chi avesse protetto e finanziato la mia fuga e il mio esilio in Francia. Fasanella alludeva ad un qualche ruolo giocato da fantomatici servizi segreti o entità non meglio precisate. Insinuazioni che in questi anni non sono rimaste confinate alla lucrosa attività di un professionista della calunnia, ma hanno avuto anche un carattere performativo. Le elucubrazioni sulla «centrale francese santuario della lotta armata in Italia», raccolte da Fasanella nel libro scritto con Franceschini, Che cosa sono le Br, Bur Rizzoli 2004, sembravano il calco delle piste investigative avviate da un solerte quanto incapace procuratore della repubblica bolognese, Paolo Giovagnoli. Una decina di anni fa questo magistrato ha condotto diverse inchieste sugli esuli, inviando numerose rogatorie che hanno dato luogo ad alcuni arresti, finiti poi nel nulla, e nell’agosto 2002 alla mia “consegna straordinaria”, sotto il tunnel del Monte bianco. Attraverso un artefatto investigativo, gli inquirenti riuscirono nel corso di una testimonianza a far coincidere il colore della zainetto blu marine, che avevo con me al momento dell’arrivo forzato in Italia, con un altro color camoscio indicato da una teste che aveva intravisto un individuo sospetto sotto l’abitazione di un consulente del governo ucciso nel marzo del 2002. Ne scaturì il mio coinvolgimento nell’inchiesta fino all’archiviazione due anni e mezzo più tardi. Le calunnie di Fasanella poggiavano su un classico dispositivo mentale di tipo proiettivo che permette di attribuire agli altri quelle che sono le proprie aspirazioni, anche più inconfessabili: ciò che si avrebbe in gran desiderio di fare o accettare. E siccome l’autonomia e l’indipendenza non sono le caratteristiche peculiari di chi anima queste proiezioni, per costoro diventa più che legittimo ritenere che tutti ne siano privi sol perché essi ne sono sprovvisti. E bene, la storia di Denis Berger, «marxista eterodosso, comunista dissidente, universitario non accademico che aveva fatto parte di quel piccolo gruppo di militanti anticolonialisti che durante la guerra d’Algeria hanno salvato l’onore internazionalista della sinistra francese appoggiando attivamente la lotta del popolo algerino», è la migliore risposta a gente del genere.
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Denis Berger è morto il 6 maggio scorso. Ci ha lasciato dopo una lunga malattia. «Un carattere caloroso, dotato di un’ironia devastante, allergico ad ogni dogmatismo», così lo ha ricordato Michael Löwy, autore dell’articolo che segue, scritto per il Dizionario del Movimento operaio francese (le «Maitron»). Denis era un intellettuale concreto che sapeva agire mettendo a rischio la propria persona. L’ho conosciuto nel 1992. Ero riparato in Francia da un anno. Ci siamo incontrati per la prima volta nel dipartimento di scienze politiche dell’università di Paris 8, saint Denis-Vincennes, dove insegnava. Stavo tentando tra mille difficoltà di iscrivermi e riprendere gli studi. Non avevo documenti, il lavoro era scarso, i soldi pochi e il francese ancora stentato. Ero arrivato a lui tramite un altro professore, René Loureau. Non ci mise molto a capire che davanti non aveva uno dei soliti studenti. Denis è stato uno dei miei primi professori francesi. Era amato dagli allievi per i suoi corsi coinvolgenti. Non esitava a responsabilizzarti affidandoti relazioni e seminari. Veniva da una storia che era stata il crogiolo degli ultimi grandi pensatori francesi (da Henri Lefebvre a François Châtelet, passando per Felix Guattari, Claude Leffort ecc). Ma Denis non era solo questo. Nei miei anni d’esilio è stato un punto di riferimento, una figura rassicurante, protettiva, come un padre. Seguiva con premura i nostri percorsi, il mio e di altri ex militanti arrivati da altri Paesi, anch’essi rifugiati. Ci accompagnava, ci consigliava. Quando, nel novembre 1993, venni arrestato nei locali della prefettura di place d’Italie, dove ero stato convocato per ritirare il permesso di soggiorno, non esitò a coinvolgere i livelli istituzionali dell’università. Era il periodo delle elezioni d’ateneo e i compagni di facoltà s’inventarono una lista tutta per me. Riuscirono a farmi eleggere come rappresentante degli studenti nel consiglio di facoltà, accanto ai sindacatini. Un segno di solidarietà forte, di radicamento nella società francese che metteva in difficoltà la strategia del governo di destra del primo ministro Balladur, i giudici della Chambre e gli argomenti delle autorità italiane che avevano inviato la richiesta di estradizione. Denis era capace di gesti sorprendenti, come nel giorno in cui la corte pronunciò il suo parere favorevole all’estradizione. Il vecchio professore dalla chioma bianca memore del suo passato sorprese tutti saltando oltre le barriere per raggiungermi e abbracciarmi davanti a dei gendarmi rimasti imbambolati. Quel suo saper osare, e scegliere il momento giusto, lo capii solo più tardi, quando conobbi meglio la sua lunga storia politica, gli anni del réseau Spitzer, quello dei “porteurs de valises”. Come ricorda Michael Löwy, Denis Berger ha fatto parte di quella piccola truppa di militanti della sinistra francese che capirono l’importanza strategica della questione coloniale, di quanto fosse centrale schierarsi e agire per l’indipendenza dell’Algeria. Tra le imprese tentate allora – ci racconta sempre Löwy – il progetto di fuga dal carcere di Fresnes del 7 gennaio 1961. Con l’aiuto di Gerard Spitzer, anch’egli imprigionato, Denis organizzò la fuga di Mohamed Boudiaf e altri due suoi compagni di lotta, Doum e Bensalem. Alla fine però soltanto quest’ultimo riuscì a prendere il largo. Andò meglio nel febbraio 1961. Questa volta venne messa in piedi l’evasione di sei donne del réseau Jeanson – due algerine e quattro francesi – dalla prigione della Roquette (oggi smantellata e trasformata in un giardino pubblico). Le sei furono poi condotte clandestinamente in Belgio. Nel maggio 1962, invece, ci fu la preparazione del colpo grosso. Durante i negoziati d’Evian, gli algerini chiesero a Denis un aiuto per portare a termine l’evasione dei loro principali dirigenti, Ben Bella, Ait Ahmed e Mohamed Khidder, rinchiusi nel castello di Turquant vicino Saumur. Denis e i suoi compagni scovarono una galleria sotterranea che portava alle cantine della fortezza, ma una telefonata inopportuna di Ben Bella à Rabah Bitat (rinchiuso a Fresnes) mise la polizia sull’avviso e fece saltare l’intera operazione. Il resto della sua storia lo potete leggere nell’articolo quei sotto (in francese). Ecco chi era Denis Berger. Ecco il genere di persone che hanno aiutato i rifugiati italiani degli anni 70 riparati in Francia. Denis Berger ha fatto parte degli anni migliori della mia vita, quelli in cui mi sono formato definitivamente e sono maturato culturalmente. Anni dove le parole amicizia e solidarietà hanno trovato il loro significato più forte e pieno. A questa bella realtà sono stato strappato un giorno. Forte è il rammarico di non averlo riabbracciato per tempo, insieme agli altri scomparsi nel frattempo, Daniel Bensaïd, Jean-Marie Vincent, Roberto Silvi…. . Ciao Denis!
La biographie de Denis Berger
DENIS BERGER 1932 – 2013
