Il metodo Flamigni e la disinformazione di Stato

E’ scomparso oggi, all’età di 100 anni, Sergio Flamigni, monumento della dietrologia italiana, inventore di un metodo di falsificazione della storia degli anni 70, e in modo particolare del sequestro Moro, che purtroppo ha fatto scuola e inquinato profondamente le fonti documentali presenti sulla materia. Oggi i ricercatori che in modo più rigoroso si attengono alla metodologia storica devono inevitabilmente confrontarsi con la stratificazione delle menzogne e false notizie che Flamigni ha sparso nei decenni precedenti. Un lavoro che assomiglia molto a quello dell’archeologo, quando deve rimuovere i vari strati che seppelliscono l’epoca che sta riportando alla luce.

Disinformazione di Stato
Flamigni è stato un grigio funzionario della sezione Affari dello Stato del Pci, il ministero dell’Interno di Botteghe oscure. Privo di qualunque latitudine politica è rimasto ottusamente legato alla vecchia propaganda complottista elaborata dal suo partito a metà degli anni 80 per trovare un alibi al fallimento completo della strategia politica messa in piedi nella seconda metà degli anni 70 con il compromesso storico. Quando Ugo Pecchioli, responsabile di quella struttura, in una delle sue ultime prese di posizione, prima di morire, a metà degli anni 90, affermò che ormai era necessaria un’amnistia che chiudesse la pagina della lotta armata perché quel fenomeno aveva concluso il suo ciclo e non aveva più senso tenere in piedi l’apparato di contrasto ideologico-complottista, Flamigni non è stato in grado di riformattare il proprio pensiero e dare un senso più proficuo alla propria esistenza. Il vecchio apparatčik della disinformazione ha continuato il proprio lavoro di intossicazione elaborando, grazie al monopolio delle fonti all’epoca nelle mani solo degli apparati, della magistratura e delle commissioni d’inchiesta parlamentare con il loro corredo di consulenti, un metodo narrativo che avrebbe fatto rabbrividire persino l’Ovra fascista: ignorare i documenti scomodi, manipolarne altri, inventare menzogne, diffondere calunnie.

Quando il Pci imitò Orwell

Una data fondativa dell’azione del Pci sulla vicenda Moro è sicuramente quella del maggio 1984. Anno che è anche il titolo di un famoso libro di George Orwell in cui si prefigura l’avvento di una società totalitaria dominata dalla sorveglianza universale del «Grande Fratello». Dove la verità viene istituita per decreto da un ministero e si comunica attraverso una «neolingua». Un lessico artificiale imposto dal potere che modifica e riduce il significato delle parole, un tempo appartenenti alla lingua corrente («l’archeolingua»). Elaborata facendo uso della “scienza del paradosso” («la libertà è schiavitù»), che per Flamigni equivaleva a dire «Le Brigate rosse sono nere». Privato della propria autonomia, nella società immaginata da Orwell il linguaggio perdeva gradualmente capacità di produrre pensiero libero neutralizzando in questo modo ogni possibilità di eresia. Forse è solo una inquietante «coincidenza», categoria che nella letteratura flamignana è sempre stata prova di valore assoluto, tanto da farne una tecnica narrativa (la ricerca sistematica delle coincidenze più impensabili e l’omissione di quelle fastidiose), ma certo mette i brividi.

In crisi di strategia dopo il naufragio del compromesso storico e la morte di li’ a poco del segretario, il Pci impresse una svolta anche sul sequestro dello statista democristiano con la mozione presentata il 9 maggio 1984 alla Camera e al Senato dai capigruppo Chiaromonte e Napolitano, a firma rispettivamente dei senatori Pecchioli, Tedesco, Tatò e Flamigni e dei deputati Zangheri, Spagnoli, Violante, Serri, Macis e Gualandi.
Con questo documento il partito comunista prese le distanze dalla relazione di maggioranza che aveva appoggiato l’anno precedente (assieme alla Dc, gli Indipendenti di sinistra, Repubblicani e Socialdemocratici, escluso il Psi), in chiusura dei lavori della prima commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento Moro, e dal primo processo in corte d’assise che si era concluso nel 1983. Il nodo storico-politico che tormentava questo partito era dimostrare che la vita di Moro non era stata sacrificata in nome della ragion di Stato, cioè di una fermezza che avrebbe precluso ogni possibilità di trattativa con le Br. Una singolare inversione della realtà e della logica che segnalava quanto il Pci stesse tentando di tirarsi fuori dalla responsabilità di aver contribuito, sacrificando Moro, alla disfatta della propria strategia. Una consapevolezza che spinse i dirigenti di Botteghe oscure ad avviare la lunga stagione vittimista e recriminatoria della dietrologia: la neolingua del complotto.

L’invenzione dei misteri

I parlamentari comunisti chiusero la mozione elencando undici quesiti che ai loro occhi apparivano «fondamentali aspetti della tragica vicenda», rimasti «tuttora sconosciuti o inspiegabili»: 1) chi decise il sequestro di Aldo Moro? 2) chi decise il suo assassinio? 3) i nomi di tutti coloro che parteciparono alla strage di via Fani? 4) i nomi di tutti coloro che gestirono il sequestro e il ruolo che ebbe ciascuno di essi? 5) il luogo ove fu tenuto prigioniero e il luogo ove fu ucciso Moro? 6) i nomi di coloro che uccisero Moro? 7) chi trasportò il corpo della vittima in via Caetani? 8) chi decise che il corpo dovesse essere fatto rinvenire in quella strada? 9) quali furono le modalità degli interrogatori cui fu sottoposto il prigioniero, le modalità di redazione dei suoi scritti, le modalità attraverso le quali le lettere giungevano ai destinatari? 10) se intervennero nei confronti delle Br, oltre a forze straniere favorevoli alla liberazione di Moro, come l’Olp, anche altre forze straniere portatrici di un contrapposto interesse? 11) se tutti i documenti rinvenuti in via Montenevoso a Milano furono trasmessi alla magistratura o se alcuni di essi vennero trasmessi solo ad altre autorità dello Stato?

A rileggerli oggi, sembra che il tempo non sia mai passato, perché nonostante le risposte ormai acquisite, grazie agli avanzamenti della ricerca storica, solo in parte recepiti in sede giudiziaria, la letteratura dietrologica li ripropone come nulla fosse accaduto nel frattempo. Un ossessivo disco rigato che non ammette confutazione.

La tela del ragno

Dopo le due mozioni, stampa di partito, avvocati, funzionari d’apparato e intellettuali organici si misero al lavoro per confezionare la letteratura che fonderà la stagione complottista. Nella seconda metà degli anni 80 apparvero una serie di volumi, Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale (1984), scritto da Giuseppe Zupo (responsabile giustizia del Pci e legale di parte civile nel primo processo Moro) insieme a Vincenzo Marini Recchia. Testo apparso a puntate nei mesi precedenti su Paese sera, giornale romano del Pci. L’anno successivo seguirà, Il mandarino e marcio. Terrorismo e cospirazione nel caso Moro, dei giornalisti Mimmo Scarano e Maurizio De Luca. Nel 1986 apparve un saggio del professor Giorgio Galli, Il partito Armato. Gli «Anni di piombo» in Italia (1968-1986), che diede alcuni quarti di nobiltà alla dietrologia, come aveva fatto in precedenza Norberto Bobbio in una serie di interventi su La democrazia e il potere invisibile e, nel 1989, Franco De Felice con il suo, Doppia lealtà e doppio Stato.
Ma è il 1988 l’anno decisivo: appare finalmente il primo lavoro di Sergio Flamigni con un testo che resterà epico,La tela del ragno. Il delitto Moro, Edizioni Associate, con la prefazione di Luciano Violante. Un imprimatur di quella che sarà la linea del Pci, poi Pds e Pd nei decenni a seguire. La prima edizione contava appena 302 pagine, una delle ultime, quella del 2013, è lievitata a 409, tra rifacimenti, correzioni, arrangiamenti. In fondo la dietrologia è la scienza delle ombre, racconta ciò che non ha contorni.
Seguiranno altri volumi dedicati al sequestro Moro: «Il mio sangue ricadrà su di loro». Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, 1997; Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro, 1998; Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, 1999; La prigione fantasma. Il covo di via Montalcini e il delitto Moro, 2009. Monografie dedicate a temi che nel tempo sono divenuti topos della dietrologia sulla vicenda Moro. Nel 2005 darà vita all’Archivio Flamigni, che oltre a raccogliere la documentazione collezionata in materia di terrorismo, stragi, mafia, P2 è uno dei centri propulsori del complottismo.

L’ostilità contro Mario Moretti

Nutriva una personale ostilità nei confronti di Mario Moretti al quale dedicò un intero volume, La sfinge delle Brigate Rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti, 2004. Flamigni diffidava di chi aveva realizzato la propria formazione politica al di fuori degli ambienti del Pci. A differenza dei reggiani dell’Appartamento, Moretti (al pari di Curcio, che però era stato arrestato molto presto) gli appariva un oggetto non identificato. Come molti giovani operai del tempo, provenienti dal Meridione o da altre parti d’Italia, Moretti si era formato nelle lotte di fabbrica, nelle prime vertenze che introdussero le assemblee come strumento di democrazia operaia, scalzando le vecchie commissioni interne. Un mondo incomprensibile a Flamigni che nei primi anni della sua attività parlamentare si era occupato delle forze di polizia. Nei primi anni 80, recatosi nel carcere speciale di Nuoro, che aveva sostituito l’Asinara dopo la sua chiusura incrociò Moretti. Avrebbe potuto chiedergli tante cose invece l’unica domanda che fu in grado di rivolgergli riguardava la marca del water chimico utilizzato da Moro a via Montalcini. Pensava di coglierlo in fallo. Aveva davanti a sé l’uomo che aveva visto Moro vivo per l’ultima volta, ma non ebbe alcuna curiosità. Ai suoi occhi Moro non era più una persona con un pensiero, che condusse una propria battaglia terribile contro il suo partito, il Pci, lo Stato, ma solo un orifizio.

Il metodo Flamigni

I suoi libri sono una compilazione delle tecniche disinformative. Mai una riflessione autocritica o una presa d’atto di clamorosi fake diffusi in precedenza. Cito alcuni esempi: Flamigni ignora il verbale del 1994 nel quale il teste Alessandro Marini, quello che racconta della moto Honda, spiegava che il parabrezza del suo motorino si era rotto cadendo a terra nei giorni precedenti il sedici marzo e quindi non era vero che fosse stato distrutto dagli spari dei due fantasmi in motocicletta. Mentre si ostina a cercare lo sparatore da destra, non vede le numerose foto del motorino di Marini, parcheggiato sul marciapiede sinistro di via Fani, col parabrezza tenuto da una vistosa striscia di nastro adesivo. Cita ripetutamente una frase di D’Ambrosio, generale amico del colonnello Guglielmi, per insinuare che questi avesse coordinato l’attacco in via Fani, omettendo l’integrità del verbale d’interrogatorio, acquisito finalmente dalla commissione Moro 2, che smentisce completamente le sue affermazioni. Flamigni acquisì dalle mani dei fascisti della rivista “Area” il materiale utilizzato per costruire le fake news su via Gradoli. Per anni confuse il ruolo di un notaio, Bonori, che aveva svolto solo la funzione di sindaco supplente nella società immobiliare Gradoli, proprietaria di alcuni appartamenti, ma non di quello abitato dai brigatisti, con quello di amministratore della stessa società. Quando glielo hanno spiegato ha ripiegato su Domenico Catracchia, che fu amministratore del civico 96, piccolo imprenditore immobiliare privo di scrupoli che affittava seminterrati a stranieri clandestini.

Ossessionato dalla presenza di un quarto uomo in via Montalcini, informazione ricevuta durante i colloqui con due brigatisti dissociati, quando emergerà che la sua identità era quella del brigatista Germano Maccari, e non di un «misterioso» agente segreto, sosterrà che ve n’era per forza un quinto, non delle Br ovviamente. Passa sistematicamente al setaccio tutti i proprietari degli appartamenti situati nelle strade che hanno interessato il sequestro, per denunciare i loro nomi quando si tratta di persone ai suoi occhi sospette, ma dimentica di rivelare che accanto al civico 8 di via Montalcini abitava il senatore Giuseppe D’Alema, padre di Massimo. Calunnia Balzerani e Moretti, sostenendo che sono loro ad aver fatto il nome di Maccari, evitando di citare la confessione della Faranda.

Flamigni se n’è andato ma le sue bugie restano, hanno messo radici nella società dei social, allignano in un mondo dove i meccanismi del potere sono sempre più opachi e le fake news e il complottismo sono divenuti un nuovo instrumentum regni.

Monteverde è antirazzista, antifascista e antisionista

Cronaca di una manifestazione festosa e colorata tra le vie del quartiere romano di Monteverde, dove negli ultimi tempi si sono succedute numerose aggressioni fasciste e sioniste, e il tentativo di manipolazione e delegittimazione dei media e delle istituzioni

Nel pomeriggio di domenica 30 novembre un corteo colorato e festoso, pieno di ragazze, ragazzi e musica, ha attraversato le strade del quartiere romano di Monteverde per manifestare contro le aggressioni sioniste e il genocidio in Palestina. I giovani volevano ricordare quanto accaduto il 2 ottobre precedente, quando alcuni studenti e docenti del liceo artistico Alessandro Caravillani (uno studente romano ucciso dai fascisti dei Nar nel marzo 1982 durante una rapina), che ha sede in uno spazio adiacente la sinagoga del quartiere, erano stati aggrediti da una squadraccia capeggiata da Riccardo Pacifici, ex presidente della comunità ebraica romana, uscita proprio dai locali della sede di culto.

Gli squadristi usciti dalla sinagoga

Lo scalpo

I giovani avevano da poco concluso un’assemblea di preparazione dello sciopero generale e della manifestazione nazionale che si sarebbe tenuto il 4 ottobre successivo. L’edificio scolastico non è dotato di un’aula magna e gli studenti si erano radunati nel cortile. Dopo una prima incursione all’interno degli spazi del liceo, la squadraccia ha atteso i ragazzi all’uscita. Ad uno studente, riconosciuto dal gruppo degli aggressori come un membro della comunità ebraica, era stato fatto lo scalpo. Trascinato per i capelli si era visto strappare una larga ciocca. Un docente che si era frapposto per difendere i liceali era stato violentemente strattonato mentre alcune ragazze si erano viste riempire di insulti a sfondo sessuale. Per questo episodio una quarantina di denunce sono state presentate al commissariato di zona dai genitori degli studenti, tutti minori, dai docenti e dal personale Ata del liceo. Il gravissimo episodio di violenza politica non ha conquistato le prime pagine dei media nazionali. Nessuna autorità dello Stato ha sentito il dovere di prendere la parola per condannare la grave minaccia portata alla libertà di studio ed espressione del pensiero all’interno della scuola e all’incolumità di chi la frequenta e fornire solidarietà agli aggrediti. Negli stessi giorni un lavoratore dell’ospedale Spallanzani, situato sempre nel quartiere, era stato aggredito da un’altra squadraccia mentre davanti al posto di lavoro teneva un presidio in sostegno della popolazione martoriata di Gaza. Nel febbraio precedente uno dei licei del quartiere, il Luciano Manara, era stato vandalizzato nel corso di una irruzione notturna: la serratura del cancello di ingresso all’istituto sigillata e le mura imbrattate con la stella di David. L’azione era stata rivendicata dalla «brigata Dario Vitali», che fu commissario dei fasci di combattimento di Livorno nel ventennio. Un ardito fascista di origini ebraiche che sintetizza bene l’ideologia che muove queste frange del sionismo romano.

Una manifestazione festosa e colorata per le strade del quartiere

Il corteo in sosta davanti all’ospedale san Camillo


Per queste ragioni il percorso del corteo ha volutamente seguito un tragitto che si è tenuto lontano dai locali della sinagoga. Una consapevole scelta politica dettata dalla volontà di non alimentare polemiche e innescare forme strumentali di vittimismo da parte degli esponenti più facinorosi del mondo sionista che abita il quartiere. Gli organizzatori hanno invece voluto attraversare i luoghi delle aggressioni, dove il corteo ha fatto sosta. Una lavoratrice del san Camillo ha così preso la parola quando i manifestanti si sono fermati davanti al grande ospedale romano. Lo stesso è accaduto davanti all’ex scuola media Fabrizio De André, oggi abbandonata. Una decisione che ha arrecato un grave pregiudizio al quartiere. L’obiettivo era quello di rimarcare l’internità al quartiere delle realtà politiche che hanno organizzato la giornata di mobilitazione, l’Assemblea autonoma di Monteverde insieme alla rete delle altre organizzazioni e centri sociali di Roma sud, oltre alla presenza costante e il legame con le problematiche che investono il territorio saldandole alle questioni più generali, come il genocidio di Gaza. L’iniziativa si è conclusa festosamente nella serata.

Le scritte notturne e la lapide oltraggiata


Il mattino successivo è giunta la notizia che durante la notte due sconosciuti col volto travisato, ripresi dalle telecamere di sorveglianza, come scrivono le cronache, avevano vigliaccamente imbrattato con una bomboletta spray la lapide di Stefano Gaj Taché, posta all’ingresso della sinagoga del quartiere, da dove erano usciti nelle settimane precedenti gli aggressori degli studenti del Caravillani. Stefano Taché è il bimbo rimasto ucciso durante l’assalto al tempio ebraico di Roma nell’ottobre del 1982, realizzato da un commando del gruppo Fatah-consiglio rivoluzionario guidato da Abu Nidal, una formazione dissidente della galassia guerrigliera palestinese (ferocemente anti Olp) che voleva vendicare la strage del settembre precedente nei campi dei rifugiati palestinesi di Sabra e Chatila, a Beyrut (bilancio finale oltre duemila morti), commessa dalle milizie maronite, ispirate e protette dall’esercito israeliano che presidiava gli ingressi dei campi. Qualche metro più in là, gli ignoti autori della scorribanda hanno lasciato anche due scritte sul muro, «Monteverde antifascista e antisionista» e «Palestina libera».

L’improvvisa fine del silenzio

Membri della squadraccia che ha aggredito gli studenti del Caravillani


Il presidente della comunità ebraica romana, Victor Fadlun, che aveva perso la parola davanti all’aggressione degli studenti del Caravillani da parte di alcuni frequentatori della sinagoga, l’ha improvvisamente ritrovata per qualificare le scritte notturne come un «atto di antisemitismo», denunciandone «l’uso abietto come strumento di lotta politica». Con una solerzia sospetta sono subito intervenute anche le più alte cariche dello Stato: dal Quirinale, alla presidenza del Senato, dal ministro degli Esteri e degli Interni, al sindaco di Roma, che tutti insieme avevano taciuto l’aggressione degli studenti e docenti del Caravillani. Una indignazione selettiva, una reattività a geometria variabile che mette in luce l’ipocrisia profonda della politica e delle istituzioni. Oltretutto suscita non poche riserve il ricorso alla qualifica di «antisemitismo» per definire termini come antifascismo e antisionismo o la stessa autodeterminazione e libertà di un popolo, quello palestinese, a meno che non si voglia sottendere l’esistenza di una supramatismo ebraico.
Ancora per un po’ il termine «antifascismo» resta parola costituzionale, visto che oltre ad ispirarne lettera e valori fondanti è indicato in una norma, seppur transitoria. Anche l’antisionismo non è ancora reato, sebbene la destra di governo abbia intenzione di renderlo tale. Il sionismo è una ideologia nazionalista con ambizioni coloniali, di stampo politico e per taluni anche religioso, con tendenze di ogni colore, che mira alla colonizzazione di un territorio, con relativa espulsione, segregazione o sterminio dei nativi. Le nostre leggi permettono ancora di definirsi colonialisti o anticolonialisti, si tratta di un discrimine che investe la dialettica politica non ancora quella giuridica, semmai è una infrazione amministrativa scriverlo sui muri delle città.

Una narrazione ribaltata


Alla notizia della lapide imbrattata i ragazzi hanno subito fiutato la trappola (sotto e qui il loro comunicato). Già in serata si preannunciavano le veline politiche, la narrazione capovolta da diffondere sull’episodio, ovvero il legame tra le scritte notturne e la manifestazione che si era tenuta la domenica pomeriggio. Un’accusa diretta agli organizzatori del corteo, subito ripresa dalla stampa mainstream del giorno successivo. In un comunicato diffuso in serata gli organizzatori hanno subito espresso l’«impellente necessità di discostarci chiaramente da questo gesto e di condannarlo con fermezza», esprimendo «sincera vicinanza alla comunità ebraica del nostro quartiere». Più avanti hanno stigmatizzato le «intollerabili accuse che ci sono state rivolte da testate giornalistiche che, oltre a non conoscere la situazione nel nostro territorio e i valori che caratterizzano la nostra assemblea, non hanno esitato un minuto a puntarci il dito contro. Anche perché tale gesto scredita e vanifica il lavoro collettivo di costruzione della piazza». Media e giornali, proseguono, «non solo mistificano la realtà, ma scelgono deliberatamente di raccontare alcuni fatti piuttosto che altri: nessun articolo sul corteo trasversale, colorato e popolare che ha attraversato le strade del nostro quartiere o le nostre chiare parole tanto contro il sionismo che contro l’antisemitismo». Per gli autori del comunicato: «L’incredibile manipolazione mediatica a cui assistiamo è solo uno dei tanti sintomi di una narrazione egemone malata, che non riesce a distinguere la religione dalla politica e così facendo manipola l’opinione pubblica. A partire dai massacri del popolo palestinese fino alla complicità del governo italiano».

Gli autori delle violenze del 2 ottobre sono noti, ma nessuna condanna politica è mai stata espressa (vedremo cosa farà la magistratura). Gli autori delle scritte notturne sono ancora ignoti (forse analfabeti della politica o furbetti che giocano alla manipolazione, è tutto da scoprire) ma istituzioni, politica e media hanno già individuato dei colpevoli preventivi da condannare.
Un doppio metro di giudizio non più accettabile.