Archeologia dell’ignoranza. Se Roberto Saviano ignora Michel Foucault

«Quanto più uno è ignorante, tanto più è audace e pronto a scrivere»

Baruch Spinoza

 di Paolo Persichetti

Domanda: Saviano ha mai letto qualche pagina di Michel Foucault?
Nelle note biografiche si legge che è laureato in filosofia. Ciò lascia supporre che almeno qualche paginetta di antologia sull’autore in questione dovrà pure averla sfogliata prima degli esami in facoltà. A quanto pare non è così. Dopo aver letto la lunga denuncia-querela che nel gennaio di due anni fa pensò di scagliarmi contro, magari con la speranza nemmeno tanto recondita che mi venisse revocata la semilibertà, si ricava la netta sensazione che di Foucault egli non abbia la benché minima cognizione. Zero assoluto. Perché dico questo? Lo vedremo tra poco.

In una intervista uscita su Panorama del 22 dicembre 2009, Saviano aveva fatto un’ammissione coraggiosa, e certamente rivelatrice, riconoscendo un debito culturale verso alcuni importanti autori della tradizione reazionaria. «Come scrittore – spiegò in quella circostanza – mi sono formato su molti autori riconosciuti della cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Jünger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmitt. E non mi sogno di rinnegarlo, anzi. Leggo spesso persino Julius Evola, che mi avrebbe considerato un inferiore».
Intendiamoci subito, non è mica uno scandalo leggere la letteratura di destra. Personalmente ritengo che uno di questi autori, mi riferisco a Carl Schmitt, pur partendo da una lucida posizione reazionaria abbia coniato dei concetti la cui portata operativa contiene una formidabile potenza cognitiva che esula di gran lunga i confini culturali e politici della sua riflessione. Spesso e volentieri al pensiero dell’umanità è stata più utile la narrazione disincantata del realismo reazionario che l’apologetica dei buoni sentimenti delle anime belle. Ma questo è un altro discorso. A noi qui interessa, se tale è il debito culturale dichiarato (non le letture che possono essere molte altre), la cifra interpretativa del pantheon ideologico di Saviano. Infatti non fu certo un caso se Pierangelo Buttafuoco si gettò su quelle confesioni per sottolinerare, alcuni mesi dopo su Libero (qui), che l’autore di Gomorra era, in realtà, l’icona perfetta dell’immaginario superomista, della politica come potenza, un vero divulgatore di valori e codici di destra. «E’ roba nostra – sosteneva con forza – non regaliamolo alla sinistra. E’ un patriota, un cazzuto, uno che sa tenere una pistola in pugno, uno che sa sbrigarsela al modo dell’uomo vero». Più tardi, distratti come sempre, anche altri commentatori situati su sponde terziste o benpensanti, da Pg Battista (qui) a Michele Serra (qui), riconobbero questa indiscutibile matrice di destra nel discorso tenuto da Saviano.
Non stupisce dunque che Foucault abbia trovato poco spazio in un pensare così intriso di postulati d’ordine, ispirato da paradigmi autoritari e purificatori che si declinano inevitabilmente col verbo legalitario e securitario. Incuriosice semmai che un autore del genere, legato per giunta alla propria origine ebraica, sia così irresistibilmente calamitato dal mondo della criminalità organizzata e dalla letteratura antisemita, quasi fosse soggiocato dal fascino oscuro e demoniaco del male, attratto da ciò che egli designa come il suo contrario ma rispetto alla quale lascia trasparire una seduzione inconfessabile.

Che cosa è un dispositivo?
Torniamo ora al questito iniziale. Perché mi sono chiesto se Saviano conosca Foucault? Perché uno dei concetti foucaultiani più noti, quello di «dispositivo», è stato al centro della querela promossa nei miei confronti. Solo che né Saviano, né tantomeno il suo legale, l’avvocato Antonio Nobile di Caserta (a cui Saviano con una procura speciale ha concesso tutti i poteri di legge per essere rappresentato davanti alla giustizia nella tutela della sua immagine e onorabilità), hanno mostrato di capirlo, direi ancor più, di saperlo.
L’autore di Gomorra si era sentito offesso e diffamato dalla definizione di «dispositivo» che avevo usato nei suoi confronti (senza tanta originalità ma riprendendo il discorso fatto da Alessandro Dal Lago nel suo Eroi di carta, qui) e che chiosava uno dei miei articoli querelati, nel quale raccontavo la vicenda della diffida che il centro Peppino Impastato, insieme ai sui familiari, aveva rivolto ad Einaudi perché desse luogo alla correzione di alcune pagine del libro di Saviano, La parola contro la camorra. Di seguito il passaggio incriminato e qui l’integrale.

Saviano non è nuovo ad operazioni del genere. Quando non abbevera i suoi testi alle fonti investigative da mostra di evidenti limiti informativi. In un’altra occasione aveva anche raccontato di una telefonata ricevuta dalla madre di Impastato, «che abbiamo verificato non essere mai avvenuta» ha spiega Umberto Santino. Quest’ultimo episodio ripropone nuovamente gli interrogativi sul ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali. L’inquietante livello di osmosi raggiunto con gli apparati inquirenti e d’investigazione, che l’hanno trasformato in una sorta di divulgatore ufficiale delle procure antimafia e di alcuni corpi di polizia, dovrebbe sollevare domande sulla sua funzione intellettuale e sulla sua reale capacità d’indipendenza critica. Saviano oramai è un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica in mano ad alcuni apparati. L’uomo Saviano sembra divenuto una marionetta, un replicante. Quest’ultima omissione non appare affatto innocente ma la diretta conseguenza di una diversa concezione dell’antimafia risolutamente opposta all’antimafia sociale di Peppino Impastato. La verità sul suo assassinio venne a lungo tenuta nascosta anche grazie al depistaggio di carabinieri e magistratura. Un passato che con tutta evidenza il dispositivo Saviano non può più raccontare.

Ora, secondo l’avvocato Nobile il significato di dispositivo si può agevolmente desumere «Senza scomodare i dizionari della lingua italiana dalla mera lettura di quanto riportato dalla definizione dal sito internet Wikipedia, appunto alla voce “dispositivo”». Dunque niente Treccani, niente Devoto Oli, nessuna traccia dei, forse troppo noiosi e difficili, dizionari politico-fisosofici.
E cosa scopre il principe del foro casertano su Wikipedia?

Secondo le più comuni definizioni, un dispositivo è «un congegno, un apparecchio che svolge una determinata funzione; una macchina, o parte di una macchina». L’occulto manovratore di questo «congegno», di questa «macchina» – prosegue l’avvocato – sarebbe da individuarsi negli «apparati» cui Persichetti fa cenno en passant, senza dilungarsi sulla giustificazione, o quanto meno sulla spiegazione per i comuni lettori, di tale criptica affermazione. Che oltre ad essere sibillina è evidentemente lesiva della reputazione e dell’onore di Roberto Saviano, che non è una macchina, né un congegno, né un «brand», né un «dispositivo», né una «marionetta». Come non è diritto di cronaca o di critica quello esercitato da Paolo Persichetti, che altro non vuole – e non fa – che vomitare il proprio odio ossessivo ed ossessionato nei confronti di un soggetto, del quale non si preoccupa minimamente di commentare, criticare, stigmatizzare le azioni, ma rispetto al quale esprime un “verdetto”.

Quindi nelle parole del legale di Saviano il dispositivo sarebbe una sentenza, la parte tecnica, quella che riporta la condanna. Così infatti scrive:

Un “dispositivo” – per usare le sue parole – cui, però, non seguirà alcuna motivazione; una vera e propria condanna inappellabile; come inappellabile fu la condanna a morte che dovette subire il generale dell’Aeronautica Licio Giorgieri, assassinato il 20 marzo 1987 da un commando terroristico; in relazione a tale efferato delitto – con sentenza divenuta irrevocabile – Paolo Persichetti è stato condannato a ventidue anni e sei mesi di reclusione (attualmente, l’editorialista di “Liberazione” risulta scontare il residuo della pena in regime di semilibertà).

Ovviamente nel ricordare processo e condanna l’avvocato Nobile dimostra poca conoscenza del fascicolo, ignora le alterne sentenze che lo caratterizzarono. Insomma al pari del suo cliente dimostra di parlare di cose che non conosce.

Una querela incentrata sul tipo d’autore
Se il dispositivo a cui mi riferivo è con tutta evidenza un’altra cosa, rivelatrice è invece l’interpretazione fornita dall’avvocato Nobile per conto di Saviano. Una lettura stravolta tutta protesa alla ricerca di un effetto di suggestione che tenta di costruire un parallelo tra le vicende giudiziarie che hanno riguardato la mia storia passata e il lavoro giornalistico attuale. Un nesso tuttora giustificato – sostiene il querelante – dalla pratica di «aggressione» e ricorso alla «violenza», seppur eufemizzata attraverso la scrittura.
Siamo in presenza di un utilizzo spregiudicato del diversivo tipologico, impiegato come una clava per svilire e criminalizzare il lavoro giornalistico, l’esercizio della libertà di critica e la serietà metodologica del lavoro svolto:

«sembra di sentire l’eco di un giornalismo aggressivo, figlio di un’epoca fortunatamente chiusasi, ma i cui strascichi ancora avvelenano il presente. L’epoca nella quale molti – “nemici di classe” – trovarono la morte, per mano di coloro i quali (qualcuno [chi?] li definirebbe “vittime della storia”) ritennero la via della violenza maestra del cambiamento della società. E così, dalle colonne di “Liberazione” Persichetti aggredisce Saviano […] Per lui lo scrittore è: «amminitratore della memoria dell’antimafìa», potere asseritamene attribuitogli da: «potenti gruppi editoriali»; «divulgatore ufficiale delle procure antimafia e di alcuni corpi di polizia»; per questo, si suppone, Persichetti mette in guardia i propri lettori: «sulla sua (di Saviano, ndr) reale capacità di indipendenza critica».
E’ consequenziale che l’articolista affermi che: «Saviano è oramai un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica in mano ad alcuni apparati» e che: «L’uomo Saviano sembra divenuto una marionetta, un replicante», per concludere “in bellezza” con la “definizione finale”, secondo la quale egli sarebbe un «dispositivo».
Va dato atto al Persichetti dell’utilizzo di parole in grado di comumcare precisamente il contenuto delle proprie idee, per quanto bislacche e deliranti esse possano essere giudicate dai lettori».

Il dispositivo secondo Foucault (estratto dalla memoria difensiva dell’avvocato Francesco Romeo)

In realtà, la critica mossa da Persichetti attinge ad un livello più sofisticato (che all’evidenza non viene colto, ne compreso dal denunciante). Il “dispositivo” da lui citato si richiama all’elaborazione dei filosofi Michel Foucault, Gilles Deleuze e Giorgio Agamben. In Sorvegliare e punire (Einaudi, Torino 1976 e numerose edizioni successive), Foucault definisce il “dispositivo” come l’insieme di tecniche sociali con cui si crea una relazione tra potere e soggetti: per esempio il carcere moderno è un “dispositivo” discreto che subentra alle punizioni spettacolari e pubbliche della società antecedente la Rivoluzione francese. Giorgio Agamben, in Che cos’è un dispositivo (Nottetempo, Roma 2006) e Gilles Deleuze (Che cos’è un dispositivo, Cronopio, Napoli 2007) estendono il concetto alle tecnologie informali con cui, nella nostra società, i media costruiscono l’identità dei soggetti. Diversamente dalla vecchia nozione di “manipolazione”, il concetto di dispositivo rappresenta il ruolo che alcune mitologie mediali svolgono influenzando il pubblico. In questo senso, Roberto Saviano – inteso come figura pubblica di romanziere-combattente anticamorra-opinionista-showman idolatrato dai media, rappresenta un vero e proprio “dispositivo” di influenza, volta per volta mito “mediale”, “esempio”, “eroe” ecc. Proprio questa funzione di “dispositivo” di Roberto Saviano è stata oggetto di analisi sociologica da parte del Prof. Alessandro Dal Lago nel volume Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma 2010.Dunque, solo una critica legittima e, colta, su quello che Roberto Saviano, al di la della sua persona, rappresenta nel panorama culturale italiano di questo periodo.

Aggiungo solo un’ultima cosa, correndo anche il rischio di nobilitare eccessivamente quello che viene definito un autorevole erede del romanzo d’appendice campano di cui fu caposcuola Francesco Mastriani: la funzione intellettuale svolta da Saviano (attraverso il dispositivo di cui sopra) ricorda la categoria degli imprenditori morali, il prototipo dei creatori di norme, come codificato dal sociologo Howard S. Becker in Outsiders, che in proposito scrisse: «Opera con un’etica assoluta: ciò che vede è veramente e totalmente malvagio senza nessuna riserva e qualsiasi mezzo per eliminarlo è giustificato. Il crociato è fervente e virtuoso, e spesso si considera più giusto e virtuoso degli altri».

Ps: Chi tra di voi ha stima di Saviano, se lo incontra gli regali un libro di Foucault. Compirà un’opera di bene evitandogli altre brutte figure in futuro.

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Saviano débouté d’une plainte contre le quotidien Liberazione

Un ex militant des Brigades Rouges remet à sa place l’auteur de Gomorra

Par Enrico Porsia
www.bakchich.info, 30 janvier 2013

Vous rappelez-vous de Paolo Persichetti ? Ancien militant de Brigades Rouges, réfugié en France depuis de nombreuses années, il était prof de sociologie à la faculté de Saint-Denis…
Le soir du 24 août 2002,  le professore est «kidnappé». En pleine rue, de diligents fonctionnaires de la Division nationale anti-terroriste, épaulés par leurs collègues des RG et sous le regard attentif des observateurs de l’Ucigos, la police politique italienne,  embarquent  Persichetti dans une voiture qui roule à vive allure vers la frontière.

Une extradition expéditive
 A l’aube le prof de Saint-Denis se retrouve dans une geôle de son pays d’origine où il avait été condamné à de longues années de prison pour avoir participé, dans un autre siècle, aux Brigades Rouges. Le motif de cette extradition expéditive ? En exploitant l’émotion suscitée par les attentats aux Twin Towers et par la «lutte contre le terrorisme», le ministre de la justice italien, le très xénophobe dirigeant de la Ligue du nord Roberto Castelli, avait monté une manip’. Il avait fait croire, en exploitant la force de persuasion et d’imagination des RG, en mèche avec les cousins italiens de l’Ucigos, que Paolo Persichetti utilisait son travail à la faculté comme couverture, et l’Hexagone comme base arrière pour poursuivre des activités clandestines en Italie.
Visiblement au ministère de la justice française le chantier à l’italienne avait trouvé un public conquis et voilà que pour le plus grand bonheur de Berlusconi, le gouvernement du Cavaliere pouvait exhiber un trophée de guerre:  «un dangereux terroriste en activité» livré par voie express…par la France, autrefois sa terre d’asile. Quel exploit!

Un nouveau métier…
Toutes ces accusations se démontreront sans aucun fondement. De l’enfumage pur. Mais entre temps Persichetti se retrouvait enfermé dans un quartier de haute sécurité pour purger son ancienne condamnation, celle datant du siècle précédent.
Décidément le garçon a du caractère, et ne se laisse pas abattre. Pendant ces longues années bien solitaires Persichetti  a poursuivi ses recherches universitaires et a écrit un livre dans lequel il décortique le système judiciaire italien
En 2008, l’ancien prof de Saint-Denis obtient le droit d’aller travailler à l’extérieur de la prison (le soir il doit toujours dormir derrière les barreaux) et voilà que le prof de sociologie politique commence à faire ses premiers pas dans un nouveau métier. Il devient journaliste au quotidien Liberazione… Une profession nouvelle que Persichetti, il faut bien le reconnaître, exerce avec un certain talent. C’est ainsi, par exemple, qu’il contribue à porter à connaissance du public l’existence d’une équipe de fonctionnaires un peu spéciaux… Ils se baladaient dans les prisons de la péninsule pour administrer des tortures aux détenus politiques!
Persichetti s’intéresse aux questions de société. En 2010 il attire l’attention de ses lecteurs sur une dure polémique qui oppose Roberto Saviano à Umberto Santino, le président du Centre sicilien de documentation Impastato. Une association anti mafia très active en Sicile qui porte le nom de Peppino Impastato, militant d’extrême gauche, journaliste et animateur de radio Aut. La radio indépendante dérangeait au plus haut point Cosa Nostra. Peppino Impastato fut assassiné en 1978 sur ordre du parrain mafieux de Cinisi, Gaetano Baldamenti.

La parole contre la Camorra… et la vérité officielle
En 2010, l’association de Umberto Santino a mis en demeure l’éditeur de Roberto Saviano, l’auteur de Gomorra, le symbole le plus médiatique de la lutte anti-mafia, de rectifier des passages contenus dans son livre La parola contre la camorra. En effet des «inexactitudes historiques» sont présentes dans le récit que fait le romancier Saviano sur les circonstances qui ont permis de relancer en 1998 l’enquête sur l’assassinat de Peppino Impastato. Selon la narration de Saviano l’enquête sur l’assassinat du journaliste de radio Aut, auraient été relancée grâce à la sortie d’un film: «I Cento passi»( Les cent pas)  qui retrace la vie de Impastato… Difficile de le croire quand on sait que le film est sorti en 2000 alors que l’enquête sur l’assassinat du journaliste avait été relancée deux ans plus tôt et ceci grâce à la diligence du Centre de documentation qui porte son nom ainsi qu’aux témoignages du frère et de la mère de Peppino. Un long et difficile combat, parsemé de menaces et de pièges… Comme l’a très précisément relaté la commission parlementaire anti-mafia… Quand le corps de Peppino Impastato fut retrouvé, aussi bien les carabiniers que certains magistrats s’empressèrent d’orienter l’enquête vers une fausse piste. Impastato, le journaliste gauchiste, se serait fait sauter avec sa propre bombe alors qu’il cherchait à commettre un attentat.
Cette «vérité officielle» arrangeait le pouvoir alors en place. Un opposant au système de la Démocratie Chrétienne était éliminé, les «rouges» étaient criminalisés et le boss mafieux de la région, Gaetano Baldamenti, pouvait continuer à gérer tranquillement ses affaires tout en affirmant ses liens avec la Démocratie Chrétienne. Ce partie gouvernait le pays, sans alternance possible, depuis la fin de la deuxième guerre mondiale. Un véritable régime qui veillait jalousement sur la vérité officielle à servir au peuple.
Et pourtant… le travail tenace et sans relâche de l’association dirigée par Santino, qui organisa déjà en 1979 la première manifestation populaire contre l’emprise de la Mafia en Sicile, obligea, enfin, la justice à réouvrir une enquête qui était destinée à être classée aux oubliettes.
Une longue enquête qui a pu aboutir au bout de 22 ans d’efforts à la condamnation du boss mafieux Gaetano Baldamenti.

L’auteur de Gomorra est susceptible
Mais qu’à cela ne tienne. L’auteur de Gomorra est susceptible et…infaillible! L’éditeur de Saviano menace donc de poursuites le Centre sicilien de documentation Impastato, l’association qui s’est battue pendant 22 ans afin que la vérité éclate, si elle s’obstine à polémiquer sur ce passage inexacte de l’écrivain prodige, qui est devenu l’icône de la lutte contre la mafia au nom de l’Etat italien.
Un Etat italien qui a pourtant démontré, à maintes reprises, qu’il savait se mélanger dangereusement avec Cosa Nostra…
A la lecture de l’article signé par Paolo Persichetti sur Liberazione, qui relate de la rectification demandée par le Centre sicilien de documentation, Saviano pique une noire colère. Il est vrai que dans son papier Persichetti rappelle aussi comme dans un autre livre, «la Bellezza e l’inferno», Saviano s’était fait un devoir de citer une conversation téléphonique qu’il aurait eu en 2004 avec la mère de Peppino Impastato… une conversation qui n’aurait jamais existé, si non dans la fantaisie du romancier, tout au moins selon les proches de madame Impastato (décédée entre temps) cités par Persichetti. Face à de telles accusations, «Nier l’existence de cette conversation ne constitue pas une critique, mais une attaque qui tend à jeter un trouble sur mon propre engagement social et civil», Saviano porte plainte.
L’ex-militant des Brigades Rouges, en prison la nuit et journaliste le jour, ainsi que Dino Greco, le directeur responsable du quotidien Liberazione sont invités à la barre par l’écrivain à succès.
Malheureusement pour l’auteur de Gomorra… les juges ne l’ont pas suivi (lire ici). Le 21 janvier le juge Barbara Càllari, classe purement et simplement la plainte (lire ici). Les journalistes étaient dans leur droit. Saviano qui a déjà été accusé de plagiat et d’inexactitude dans ses récits aux sources invisibles, ne peut plus esquiver les critiques. Liberazione avait le droit de contredire et de critiquer l’icône de l’anti-mafia…. moralisatrice et bien pensante.
«Saviano est désormais une griffe, une sorte de machine médiatique»
Dans son article Persichetti posait en effet aussi des questions «sur le rôle d’administrateur de la mémoire de l’anti-mafia attribué à Saviano par des puissants groupes de presse.» Il soulignait aussi que «le niveau inquiétant d’osmose rejoint pas Saviano avec les enquêteurs» fait en sorte que l’auteur de Gomorra se soit «transformé en divulgateur officiel des parquets anti-mafia et de certains services de police». Enfin, Persichetti concluait  «Saviano est désormais une griffe, une sorte de machine médiatique» qui incarne une conception diamétralement opposée «à celle de l’anti-mafia sociale pratiquée par Peppino Impastato. La vérité sur son assassinat a été longuement cachée grâce au brouillage des pistes opéré par les carabiniers et la magistrature. Une histoire que visiblement le dispositif Saviano ne peut pas raconter».
Peppino impastato devant radio Aut en Sicile (DR)
Le Centre sicilien de documentation Impastato se félicite aussi de la décision de justice et attend encore que l’éditeur de Saviano rectifie les inexactitudes historiques apparaissant dans les ouvrages du héros littéraire de l’anti-mafia italienne. Requête légitime ou bien blasphème?


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Disavventure – Si mette male per il paladino dei giustizialisti. Di seguito l’ottimo articolo di Filippo Facci sull’archiviazione della querela che Roberto Saviano aveva presentato contro due miei articoli apparsi nell’ottobre e nel novembre 2010 su Liberazione.
Da sottolineare la scelta sublime dell’avverbio “pure” nel titolo proposto da Libero che sembra inverare la parabola cristiana degli ultimi che saranno i primi

A processo contro Saviano pure il brigatista ha ragione

Filippo Facci
Libero 24 gennaio 2013

269269_420426621370450_406642157_nLe celebrità dovrebbero andarci pianissimo con le querele, perché rischiano l’accusa di lesa maestà anche quando hanno ragione. Figurarsi se la ragione non ce l’hanno, come nel caso che andiamo a raccontare e che riguarda un querelante di nome Roberto Saviano. Figurarsi, poi, se il giornalista querelato (e assolto) si chiama Paolo Persichetti, ex brigatista latitante in Francia, condannato a 22 anni per l’omicidio del generale Licio Giorgieri e ora in regime di semi-libertà: un personaggio, insomma, che per ottenere ragione da un giudice potrebbe faticare più di altri.
Ma vediamo il caso. Persichetti, su Liberazione, nel 2010 scrisse due articoli. Il primo riguardava i contenuti del libro di Saviano «La parola contro la camorra» e, soprattutto, la disputa che ne seguì con il Centro Peppino Impastato. La polemica in effetti ci fu: il Centro rivendicava un ruolo nella riapertura del caso di Giuseppe Impastato – ucciso dalla mafia a Cinisi nel 1978 – dopo che Saviano, nel libro, aveva attribuito ogni merito al film «I cento passi» di Marco Tullio Giordana senza il quale, parole sue, la vicenda sarebbe rimasta «una storia minore confinata nelle pieghe degli anni Settanta». Il Centro non veniva neppure menzionato. Tornando all’articolo: Persichetti oltretutto forniva la ricostruzione di una presunta telefonata tra Saviano e Felicia Impastato (madre di Giuseppe) e giungeva a sostenere che la conversazione non era mai esistita: e citava, come fonti, due parenti della madre (che nel frattempo è morta, e non può confermare o smentire) ma anche Umberto Santino, direttore del Centro Impastato: «Ma lui, Saviano, non ha avuto il coraggio di querelarlo», dice ora Persichetti, «perché ha preferito rivolgere i suoi strali contro il direttore di Liberazione e me, ritenendomi forse l’anello più debole e delegittimato della catena».
Forse lo status di un brigatista condannato per assassinio, in effetti, potrebbe sembrare inferiore a quello di un mostro sacro dell’antimafia. Sta di fatto che la cosa non impedì a Persichetti, nei suoi articoli, di metterla giù molto dura: «Quando Saviano non abbevera i suoi testi alle fonti investigative», scriveva, «dà mostra di evidenti limiti informativi». La critica si faceva più stringente nel concentrarsi sul «ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali», qualcosa che l’ha trasformato in «un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica». Il contrario dell’antimafia «sociale» promossa da Giuseppe Impastato, la cui vera storia «venne a lungo tenuta nascosta anche grazie al depistaggio dei carabinieri e della magistratura. Un passato che Saviano non può raccontare».
Diciamo che non le mandò a dire, Persichetti. Non bastasse, nel secondo articolo se la prese con l’impostazione autocelebrativa dello scrittore nel programma «Vieni via con me» andato in onda sui Raitre nel novembre 2010. La sua prestazione veniva definita «imbarazzante» a margine di una «memoria selettiva e arrangiata», di «pochezza culturale», di «un monologo melenso di trenta minuti, senza contraddittorio, privo di senso del ritmo… accompagnato solo da uno smisurato e pretenzioso egocentrismo». Poi l’accusa forse più sanguinosa: l’essere Saviano «un derivato speculare dell’era berlusconiana». 

Da qui la querela. L’avvocato di Saviano la depositava il 12 gennaio 2011 ai danni di Persichetti e del suo direttore Dino Greco, personaggi che non avrebbero fatto altro che «vomitare il proprio odio ossessivo e ossessionato». La querela è lunghissima (30 pagine) e non risparmia il tentativo di buttare nel mucchio anche la condanna a 22 anni che Persichetti sta scontando: le parole del giornalista contro Saviano, infatti, sono definite come «una condanna inappellabile, come inappellabile fu la condanna a morte che dovette subire il generale Giorgieri». Parole come proiettili, come si dice. Dulcis in fundo, le critiche di Persichetti parevano al legale «senza alcuna finalità di pubblico interesse».
Il 6 luglio 2012, tuttavia, il pm Francesco Minìsci non era dello stesso avviso: e chiedeva l’archiviazione. La notizia di reato a suo dire era «infondata» proprio perché ricorreva l’interesse pubblico del caso. E forse proprio per ravvivarlo, il caso, ecco che Saviano il 15 gennaio scorso compariva in aula a Roma: la presenza fisica, in questi casi, riveste sempre una giusta considerazione. La sua testimonianza ha un che di grave: «Intendo qui difendere la memoria della signora Impastato che ebbe con me una conversazione telefonica (negata nell’articolo querelato)… nella quale mi esprimeva la sua solidarietà… Negare l’esistenza della telefonata non costituisce una critica, ma un attacco teso a minare il mio stesso impegno sociale e civile».
Lunedì scorso, tuttavia, il gip Barbara Càllari si è presa il rischio di minare l’impegno sociale e civile di Saviano: ed ha archiviato. Il giudice ha fatto propri i rilievi mossi nella richiesta di archiviazione anche a proposito della presunta telefonata: «Nessun intento diffamatorio può essere attribuito a Persichetti, che si è limitato a fornire una diversa ricostruzione della vicenda, basata su fonti attendibili… Ricorre senza dubbio l’obiettivo interesse pubblico delle questioni sollevate… Malgrado il tono dei due articoli sia a tratti aspro… le valutazioni dell’autore attengono a circostanze precise e ben definite».
E una querela è andata. Resta in ballo, per ora, la causa civile che Roberto Saviano ha promosso ai danni di Marta Herling, nipote di Benedetto Croce e segretario dell’Istituto Italiano di Studi storici: lo scrittore ha chiesto un risarcimento di quasi cinque milioni di euro (a lei e a Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno) per via delle contestazioni ricevute dopo la sua ricostruzione del salvataggio di Benedetto Croce durante il terremoto di Casamicciola. Questione, siamo certi, al centro dei vostri pensieri.


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Il giudice di Roma ha archiviato la richiesta di danni dello scrittore nei confronti dell’ex Br per i suoi articoli su «Liberazione»


Corriere del mezzogiorno.corriere.it

Redazione online 23 gennaio 2013

Roberto Saviano e Peppino Impastato

NAPOLI – Non è un ottimo periodo per Roberto Saviano. Prima la sua Napoli – una parte degli abitanti di Scampia – gli si rivolta contro per la fiction di Sky tratta dal suo libro-caso «Gomorra» (che, secondo alcuni, avrebbe mercificato a senso unico il dramma di quella periferia devastata dalla camorra). Poi il tribunale di Roma che ha archiviato la sua richiesta di danni nei confronti Paolo Persichetti, l’ex Br che si era occupato della querelle sul caso Peppino Impastato dalle pagine di «Liberazione».

IL FATTO – Il Gip di Roma, Barbara Càllari, ha depositato un’ordinanza di archiviazione della querela di Roberto Saviano contro il direttore del quotidiano «Liberazione», Dino Greco, e il giornalista Paolo Persichetti, seguita alla pubblicazione di articoli in cui si riprendeva la richiesta del «Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato» di Palermo di rettificare un’affermazione contenuta nel libro «La parola contro la camorra» di Saviano, secondo cui il film «I cento passi» di Marco Tullio Giordana avrebbe «riaperto il processo» per il delitto Impastato, avvenuto il 9 maggio ’78 a Cinisi. Il Centro, in una lettera-diffida dell’ottobre 2010, dimostrava che i processi contro i mandanti dell’assassinio erano cominciati prima dell’uscita del film, nel settembre 2000, e che già nel ’98 si era costituito, presso la Commissione parlamentare antimafia, un comitato per indagare sul depistaggio delle indagini sulla morte del militante di Lotta Continua.

IL PRESIDENTE DEL CENTRO IMPASTATO – «Alla lettera-diffida – spiega il presidente del Centro Impastato, Umberto Santino – l’editore Einaudi rispondeva che «ulteriori iniziative diffamatorie sarebbero state perseguite nei termini di legge». Una richiesta di verità veniva scambiata per diffamazione. Il film ha fatto conoscere Impastato al grande pubblico ma non ha avuto, né poteva avere, alcun effetto dal punto di vista giudiziario. Il Centro prende atto del provvedimento del tribunale di Roma e invita ancora autore ed editore ad effettuare la rettifica. Sappiamo che non ci sono mezzi legali per imporla, ma chiediamo semplicemente un atto di onestà intellettuale».

LA TESTIMONIANZA – La vicenda è ricostruita sul sito di «Liberazione». «Persichetti aveva dato notizia della querela del Centro Impastato e dei familiari di Peppino ad Einaudi, editore di “La parola contro la camorra”, perché l’autore ripristinasse con correttezza storica nella narrazione della battaglia per la verità sull’assassinio di Impastato, un episodio “accessorio” nell’economia dell’articolo che tuttavia per Saviano ha assunto un significato capitale: la presunta telefonata che Felicia Impastato, madre di Peppino, gli avrebbe fatto nell’estate del 2004. Episodio che Saviano racconta con dovizia di particolari in un altro libro, La bellezza e l’inferno, ma che viene smentito da testimoni fondamentali. Umberto Santino, presidente del centro Peppino Impastato di cui fu amico e compagno, torna a chiedere ad autore ed editore la rettifica di ”affermazioni non veritiere. Sappiamo che non ci sono mezzi legali per imporla. Chiediamo semplicemente un atto di onestà intellettuale”».

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Criticare Saviano è possibile

Smentita la telefonata fantasma di Saviano a Felicia Impastato, madre di Peppino

Chec. Ant.
Liberazione.it 22 gennaio 2013

Saviano non ha mai parlato con la madre di Peppino Impastato, non nei termini che descrive in un libro. Felicia non gli avrebbe mai detto: «Come madre ti dico di smettere, come donna di andare avanti». E la battaglia per la verità sui depistaggi è iniziata ben prima del film “I cento passi”. Lo ha accertato un Gip di Roma che ha archiviato la querela presentata da Saviano contro Paolo Persichetti per degli articoli su Liberazione in cui, sentita la famiglia Impastato, aveva osato contraddire lo scrittore più scortato d’Italia.
Persichetti si è limitato a fornire «una diversa ricostruzione della vicenda basata su fonti attendibili, in quanto direttamente riconducibili ai familiari della madre di Peppino Impastato, nel frattempo deceduto».

Liberazione batte Saviano: il diritto di critica è possibile anche nei suoi confronti
Persichetti aveva dato notizia della querela del Centro Impastato e dei familiari di Peppino ad Einaudi, editore di La parola contro la camorra, perché l’autore ripristinasse un minimo di correttezza storica nella narrazione della battaglia per la verità sull’assassinio di Impastato, un episodio “accessorio” nell’economia dell’articolo che tuttavia per Saviano ha assunto un significato capitale: la presunta telefonata che Felicia Impastato, madre di Peppino, gli avrebbe fatto nell’estate del 2004.
Episodio che Saviano racconta con dovizia di particolari in un altro libro, La bellezza e l’inferno, ma che viene smentito da testimoni fondamentali. Umberto Santino, presidente del centro Peppino Impastato di cui fu amico e compagno, torna a chiedere ad autore ed editore la rettifica di «affermazioni non veritiere. Sappiamo che non ci sono mezzi legali per imporla. Chiediamo semplicemente un atto di onestà intellettuale».
Tutto comincia dalla sua lettera-diffida dell’ottobre 2010 che dimostrava come i processi contro i mandanti dell’assassinio erano cominciati prima dell’uscita del film, nel settembre del 2000, e che già nel 1998 si era costituito, presso la Commissione parlamentare antimafia, un comitato per indagare sul depistaggio delle indagini. Einaudi rispondeva che «ulteriori iniziative diffamatorie» sarebbero state «perseguite nei termini di legge». Una richiesta di verità veniva scambiata per diffamazione. 
Che si trattasse di «una querela senza fondamento» era chiaro anche al pm che aveva chiesto l’archiviazione ordinata ieri, 21 gennaio.
La procura chiede l’archiviazione della denuncia per diffamazione a mezzo stampa presentata contro due articoli apparsi su Liberazione nell’autunno del 2010. Saviano si oppone. La denuncia-querela era stata depositata il 12 gennaio 2011 dall’avvocato Nobile di Caserta, per conto di Roberto Saviano, nei confronti di Persichetti, all’epoca a Liberazione, e di Dino Greco. I due articoli oggetto della querela risalivano al 14 ottobre, “«Non c’è la verità storica». Il centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Saviano” e il 10 novembre “«Vieni via con me». Ma dove va Saviano?”.
Saviano ha provato a dimostrare che i testi avessero «ampiamente trasceso il diritto di critica e di cronaca», che Persichetti avesse tentato di «aggredirlo a mezzo stampa» «vomitando il proprio odio ossessivo e ossessionato nei confronti di un soggetto, del quale non si preoccupa minimamente di commentare, criticare, stigmatizzare le azioni, ma rispetto al quale esprime un ‘verdetto’». 
Per il pm, invece, «le critiche – scrive nella richiesta di archiviazione – possono infatti dirsi ampiamente ricompresse entro i limiti di operatività della scriminante» che la Cassazione «esaminando le frequenti interferenze tra l’esercizio dei diritti di cronaca o di critica e il reato di diffamazione a mezzo stampa» ha individuato da diverso tempo. 
«Entrambi gli interventi del giornalista riguardano la dimensione pubblica del querelante, il suo interesse per il fenomeno della criminalità organizzata, le sue analisi e le opinioni affidate a libri e programmi televisivi ad ampia diffusione, destinati, per la natura delle tematiche affrontate, a provocare discussioni e a sollevare inevitabili polemiche». «In secondo luogo, non sembra che le espressioni utilizzate da Persichetti nella formulazione dei suoi giudizi possano considerarsi gravemente lesive della reputazione del querelante. Malgrado il tono dei due articoli (e, in modo particolare, del secondo) sia a tratti aspro, pungente e caustico, non sembrano esserci gli estremi per poter affermare che si sia trasmodato nell’attacco personale e nella pura contumelia».
In estrema sintesi, «il diritto di critica va riconosciuto nei confronti di persone la cui voce e immagine abbia vasta risonanza presso la collettività grazie ai mezzi di comunicazione, anche quando si manifesti in forma penetrante e a volte impietosa», ricordava la pubblica accusa citando una sentenza di Cassazione. Dirà anche il gip, archiviando, che Persichetti quando scrive che «la verità sul suo assassinio venne a lungo tenuta nascosta anche grazie al depistaggio di carabinieri e magistratura. Un passato che con tutta evidenza il dispositivo Saviano non può più raccontare», «critica in modo anche duro e aspro, il rapporto tra Saviano e gli organi inquirenti, i quali proprio nella vicenda Impastato, hanno svolto un ruolo assai discusso. Tali critiche non trasmodano nell’attacco personale… con conseguente configurabilità del diritto di critica».
L’autore di Gomorra ritiene, invece l’affermazione di Santino, «una falsità». Parla di lui come di un personaggio sconosciuto ma che tuttavia non ha avuto il coraggio di querelare, rivolgendo i suoi strali unicamente contro il direttore di Liberazione e Persichetti per non aver verificato – a suo dire – il fondamento della notizia e non averlo interpellato prima di redigere il testo, quando è evidente il riferimento ad un suo precedente scritto. 
Ma il nodo, in conclusione, è lo iato tra l’antimafia sociale, quella di Peppino, e l’antimafia ufficiale di cui Saviano è stato nominato depositario dai più importanti gruppi editoriali.
Rileggersi gli articoli di Paolo può essere parecchio interessante: qui (sul caso Impastato) qui (sulla strasmissione “Vieni via con me”) e poi ancora qui, qui e qui.

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