Attenti, Saviano è di destra criticarlo serve alla sinistra

Recensioni – Il libro di Alessandro Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, manifestolibri, e l’album di Daniele Sepe, Fessbuk – Buona notte al manicomio, manifesto cd, rompono un tabù

Paolo Persichetti
Liberazione
16 giugno 2010

«Saviano divide la sinistra», più o meno è stato riassunto così il tiro incrociato che ha accolto, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, il libro scritto da Alessandro Dal Lago per la manifestolibri, insieme all’ultimo album realizzato da Daniele Sepe, Fessbuk – Buona notte al manicomio, sempre per il manifesto cd, dove il sassofonista-compositore dedica un brano molto critico all’autore di Gomorra. A dire il vero la furibonda reazione che si è scagliata contro i due, subito tracimata in bilioso livore, non ha riguardato solo quell’ormai incerto territorio dai confini sempre più evanescenti che per semplicità giornalistica viene ancora chiamato sinistra. Una risposta indispettita è venuta anche da quella parte della destra che, a giusto titolo, rivendica per se il messaggio politico-culturale contenuto nel lavoro letterario di Saviano. Il think tank finiano Farefuturo insieme al Secolo d’Italia hanno aperto da tempo un fronte polemico interno alla destra per dimostrare quanto il discorso portato avanti dal giovane scrittore sia roba loro. Per questa nuova destra, o almeno che aspira a presentarsi come tale, ad osteggiare Saviano sarebbe la solita «sinistra snob», ormai in rotta di collisione con qualsiasi connessione sentimentale col popolo. Dove per popolo deve intendersi innanzitutto il corpo mistico della nazione, un’entità del tutto astratta che al massimo arriva ad assumere le sembianze, nella versione nazional-berlusconiana, del pubblico spettatore o del consumatore, certamente mai l’aspetto concreto di un’agglomerato di ceti e classi sociali traversati da interessi contrapposti. Snob invece deve intendersi come sinonimo di antipopulista, nemico del giustizialismo e del mito dell’azione penale. Opinione diffusa anche in quella grande stampa «terzista», in apparenza agnostica e liberale che, come ricorda lo stesso Dal Lago, naviga nel conformismo dilagante e imbarca personaggi che in gioventù erano collocati a sinistra. Pierluigi Battista, Paolo Di Stefano, Gianni Riotta sono corsi in aiuto del povero Saviano, che vede la sua scorta sempre più affollata. E’ davvero difficile districarsi in questa sorta di nuova lingua dove le parole hanno perso senso e il senso le parole. Nei semoventi spazi della cosiddetta sinistra si sono fatti sentire anche Sofri e Flores D’Arcais, quest’ultimo senza aver nemmeno letto la quarta di copertina, ha esortato i suoi lettori a preferire una seduta d’onanismo piuttosto che perdere tempo a leggere Dal Lago. Dall’Espresso è venuta poi la toccata finale: «chi attacca Saviano è uno stalinista». Talmente vero che l’avrebbe detto anche Vishinski.
Eppure se la canzone del bravo musicista Daniele Sepe è pur sempre una canzone, cioè semplifica inevitabilmente da cui le molte critiche giunte nei suoi confronti, il libro di Dal Lago al contrario realizza una complessa e documentata demolizione non solo del lavoro narrativo di Saviano, ma del dispositivo che attorno all’autore di Gomorra è stato costruito dopo il travolgente successo del suo libro. Attenzione all’ambivalenza dei detrattori: gli stessi argomenti impiegati per criticare Sepe diventano una risorsa quando si tratta di rispondere a Dal Lago che la prosa di Saviano ricorre volutamente a metafore ed allegorie semplificatorie per raggiungere più facilmente il grande pubblico. Dunque per Saviano vale ma per Sepe no. Questa logica binaria non da scampo. E’ un po’ come quanto scritto da Norma Rangeri sul Manifesto. Per rassicurare i lettori scioccati dal fatto che la casa editrice del giornale avesse pubblicato un libro e un disco contro Saviano, e poi dato spazio a Marco Bascetta, direttore della manifestolibri, allo stesso Dal Lago e a Daniele Sepe per sostenere sulle pagine del quotidiano il diritto di critica, ha spiegato che Saviano è certamente uno di sinistra perché «per due anni ha lavorato con noi ed ha una formazione marxista», per poi poche riga più in là prendersela con i «rivoluzionari doc (ma di quale secolo?)» che si sarebbero infilati in questa polemica. Forse si ricorda la Rangeri di quale secolo era Marx? Insomma chi critica da sponde di sinistra Dal Lago e Sepe mostra di avere pochi e confusi argomenti. Al di là dei toni, la discussione è tuttavia un rivelatore molto interessante. Una cartina di tornasole sullo stato della sinistra attuale, su quanto quella somma di pulsioni populiste, giustizialiste e penaliste si siamo ormai saldamente radicate e strutturate nella forma mentis del mondo di sinistra. Irradiamento trasversale che accomuna le diverse sponde, radicali, massimaliste, antagoniste, riformiste, ecologiste. Il libro di Dal Lago va letto proprio e soprattutto per questo, perché oltre a ridurre in briciole l’epopea autoconsolatoria che avvolge l’epica contro il crimine cavalcata da Saviano, aiuta a capire quali sono i nuovi luoghi comuni da abbattere. La rappresentazione, ad esempio, della camorra come male assoluto e non come relazione sociale e forma politica, ha il sapore semplificatorio di un telefilm americano dove i buoni sono tutti da una parte e i cattivi dall’altra. Sfuggono le radici sociali, il consenso locale, la funzione di welfare di sostituzione che svolge, le alleanze in sfere legittime. La criminalità organizzata non è solo una questione di repressione militare e giudiziaria, ma anche battaglia sociale all’interno di territori che hanno difficoltà a reperire altre forme di reddito. E’ singolare che nella rappresentazione di Saviano il coinvolgimento della sfera del politico col crimine appaia fin troppo sfumata. Nello schema manicheo che suddivide il suo discorso, i pubblici poteri, lo Stato e i suoi apparati, si trovano sempre collocati dalla parte del Bene. Nel «confronto assoluto che oppone Legge e Crimine – scrive Dal Lago – Gomorra è dalla parte di un potere specifico dello Stato, quello inquirente e giudicante». Eppure c’è in piedi in un tribunale d’Italia una richiesta a 27 anni di carcere per il generale Ganzer, capo dei Ros, accusato di aver messo in piedi una delle più grosse reti di narcotraffico mai viste. Dove compare il male «sento aria di distrazione di massa», aggiunge Dal Lago in un passaggio molto efficace. Il rischio reale è quello di dare vita ad un gigantesco diversivo. Insomma denunciare la camorra come il tiranno attuale, oltre a infrangere il senso delle proporzioni – offusca al punto da non vedere quanto il capitalismo legale, la logica dell’estrazione di plusvalore non ha bisogno della camorrìa per lasciar bruciare degli operai negli alti forni e annegare i migranti davanti a Lampedusa. La critica di Dal Lago non risparmia gli aspetti letterari del lavoro di Saviano, giocato sulla trinità dell’io. Soprattutto censura il linguaggio fumettistico, le leggende metropolitane, gli episodi inventati (il vestito di Angelina Jolie e i Visitors di Scampia, solo per citarne alcuni), le inverosimiglianze spacciati per fatti reali, come l’incipit del libro sui morti cinesi nel porto di Napoli. A Parigi circolano altre versioni dello stesso mito urbano incentrate nel quartiere di Tolbiac. I cinesi sembrano l’altra ossessione di Saviano che non riesce a parlarne senza emettere un fetore di razzismo. Dal Lago non trova per nulla convincente il nuovo canone letterario di cui Gomorra sarebbe divenuto il modello, definito “New Italian Epic” dai Wu Ming. Insomma, al di là delle intenzioni, per Dal Lago il fenomeno Gomorra è perfettamente adeguato al clima culturale italiano pervaso di berlusconismo. La postura eroica assunta nel libro, dunque ancora prima delle minacce che avrebbe ricevuto dalla camorra, porta Saviano a fare uso di una retorica che anestetizza la ragione, agisce come uno sgravio di coscienza, spingendo il lettore a perdere il proprio senso critico e divenire un semplice seguace dello scrittore. Così il popolo tanto decantato esiste solo in quanto assiste. E non da più fastidio.

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Il diritto di criticare l’icona Saviano

Alessandro Dal Lago
il manifesto 3 giugno 2010


Non ho intenzione di difendermi dalle «critiche» per il mio libretto sul caso Gomorra-Saviano (anche perché si tratta, per lo più, non di critiche ma di esecrazioni e «vade retro»). Se si è interessati alla questione, mi si può leggere e giudicare di conseguenza. Intervengo invece sull’accusa di dissacrazione che alcuni (per esempio Violante e Flores d’Arcais) mi hanno gettato addosso, visibilmente senza aver letto il testo e, nel caso di Flores, incitando il pubblico a non leggerlo. Qui, come in altri casi (penso a Sofri) non c’è solo un appello alla censura preventiva (mi si critica non per quello che dico ma perché lo dico).
Appare anche un modo di pensare mitologico e autoritario, e quindi sostanzialmente papalino, il che fa specie in persone (parlo di Sofri e Flores) che passano per campioni della libertà di parola e del laicismo. È questa la cultura capace di opporsi a Berlusconi? Per Violante, il mio è un tipico caso di sinistra «iconoclasta». Ne deduco che per lui la sinistra deve adorare le icone. E non diversamente pensa Flores, quando invita a manifestare contro Berlusconi o a darsi al sesso o ad altre attività ricreative, piuttosto che leggermi quando critico Saviano. Insomma, guai a entrare nel merito di quello che Saviano scrive. E soprattutto, guai a interrogarci sul significato politico dell’identificazione di una parte consistente della sinistra nella sua figura e nella sua opera. È semplicemente quanto ho tentato di fare nel mio libro a tre livelli, narrativo, mediale e sociologico (tra parentesi, occuparmi di queste cose è esattamente il mio mestiere, diversamente da quanto Flores, che pure mi conosce da quasi trent’anni, fa credere ai lettori del Fatto quotidiano). Livello narrativo: ho analizzato la «verità» di Gomorra in base al testo e a nient’altro, ignorando qualsiasi pettegolezzo sulle sue fonti, ma portando alla luce il carattere tecnicamente auto-referenziale della narrazione («ci sono stato e ho visto, e quindi dico la verità»); livello mediale: ho discusso la costruzione, in buona parte dei media, dell’eroismo di Saviano, mostrando anche come lo scrittore, nei suoi interventi successivi a Gomorra, abbia in qualche modo fatto proprio il ruolo che gli veniva cucito addosso; livello sociologico (e se vogliamo, politico): che significa il processo di iconizzazione dello scrittore nella sfera pubblica del nostro paese? L’ultimo punto mi sembra decisivo e integra i primi due. La trasformazione di Saviano, a sinistra, in icona del bene contro il male (rappresentato dal crimine organizzato) sposta il conflitto politico in una dimensione morale e moralistica fondamentalmente diversiva e consolatoria. Una dimensione illusoria, in cui – ma questa è solo un’ipotesi – molti scaricano le frustrazioni di una sinistra che in buona parte non è più rappresentata, oppure è impotente di fronte al trionfo della destra. Il fatto interessante è che la categoria dell’eroismo è storicamente appannaggio della destra romantica (penso a Evola), e questo spiega la fortuna di Saviano tra i seguaci di Fini (si veda la fondazione Farefuturo e che cosa pensa di me). Di conseguenza, la classica accusa zdanoviana che mi rivolgono Sofri e Flores («a chi giova?») è risibile, un altro aspetto della loro reazione censoria.
Come si conviene a qualcuno che, volente o nolente, è stato trasformato in icona dell’eroismo, molto spesso le posizioni di Saviano su questioni di interesse pubblico sono unanimiste e apolitiche, e cioè buone per tutti (anche se nel libretto riconosco che talvolta prende posizione contro le derive più clamorose dell’attuale regime in materia di conflitto di interessi). Sostenere che la recente lotta degli studenti contro la distruzione della scuola e dell’università pubblica conta ben poco di fronte al crimine organizzato o ridurre la morte dei soldati in Afghanistan alla questione dei poveri ragazzi del sud che non hanno alternative, senza dire nulla del significato della guerra e dell’implicazione dell’Italia, è qualcosa che non si può passare sotto silenzio. Nessuno chiede a Saviano di occuparsi di questi problemi. Ma se ne scrive o ne parla, naturalmente è criticabile, come chiunque altro. Io trovo grottesco che qualcuno liquidi tutto questo, e cioè la critica di quello che Saviano dice, in termini di «invidia»: è come sostenere che se un critico cinematografico parla male di un film, è perché invidia il regista. Ma dietro tutte queste reazioni, volta per volta isteriche o moraliste, si profila un enorme problema politico: l’impotenza evidente di un’idea di alternativa basata quasi esclusivamente sull’opposizione all’anomalia Berlusconi, e non al blocco di interessi (e valori e simboli) che il cavaliere sintetizza. Di fatto, precari e pensionati, studenti e lavoratori, insegnanti e tutte le altre figure socialmente deboli (per non parlare di marginali, esclusi e stranieri) sono sostanzialmente soli sulla scena politica, in balia di questa destra. E, come le elezioni dimostrano, la mancanza di rappresentanza porta anche quote importanti di elettori di sinistra a votare per gli altri (un classico sintomo di un sistema sociale e politico in preda al populismo). La destra fa politica di classe, eccome, l’opposizione no. E questo è anche un effetto dello spostamento del conflitto in chiave simbolico-morale (e, sì, giustizialista), come dimostra l’ossessione unanime per la legalità. Ecco allora che il conflitto è evacuato, che tutto (dalla questione del lavoro all’ignobile condizione delle nostre carceri o al razzismo imperante) viene minimizzato o comunque messo in secondo piano. Ed è inevitabile se, in nome della legalità, ci mettiamo a priori dalla parte dell’ordine, politico o simbolico che sia.  Di questo, ovviamente, a Saviano non imputo una particolare responsabilità, anche se lo critico, in base ai suoi scritti, per aver contribuito ampiamente alla retorica dell’eroismo. Ma forse i suoi seguaci a priori e a prescindere, le vestali della pubblica indignazione che pontificano dalle tribune mediali, non sono proprio innocenti della spoliticizzazione di cui parlo sopra. E pensando proprio a loro, mi chiedo chi rispetti di più, in ultima analisi, lo scrittore perseguitato dalla camorra: chi lo prende sul serio, discutendolo anche polemicamente, o chi si genuflette davanti alla sua icona.

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