La leggenda del doppio Stato

Una teoria senza riscontri

di Marco Clementi*
Liberazione 30 maggio 2009


Lo Stato imperialista delle multinazionali non esisteva. Le Br cominciarono ad averne un chiaro segnale nei giorni del rapimento di Aldo Moro, quando il loro ostaggio rispondeva alle domande del processo senza cogliere gli intrecci che sottintendevano i brigatisti. Essi pensavano che ci fosse non già uno Stato nello Stato, ma un Sovrastato, potenziato e guidato dagli Stati Uniti, in grado di coordinare le politiche nazionali dei vari paesi del blocco occidentale. Quel mondo, pensavano i rapitori di Moro, stava andando verso una svolta strutturale che ne avrebbe mutato alle fondamenta le caratteristiche. Clementi LiberazioneSarebbe cominciata la delocalizzazione del lavoro, la ristrutturazione della produzione e il primato del capitale finanziario su quello produttivo. Ma il processo non era irreversibile. Nella loro ipotesi, bastava scoprire gli ingranaggi, gli uomini, i referenti dello Sim per fermarlo e Moro era uno di questi.  Si trovano, nella teorizzazione dello Sim, grandi intuizioni e capacità di lettura della realtà (fu ipotizzata nel 1975), ma anche terribili ingenuità. La divisione del mondo in buoni e cattivi, in sodali e vittime innocenti non appartiene a una realtà complessa, che deve sempre tenere conto di moltissime forze, spesso in competizione, per restare in equilibrio. Quest’ultima considerazione si attaglia anche alla cosiddetta teoria del doppio Stato, recentemente tornata attuale dopo un intervento del presidente Napolitano e gli articoli di noti giornalisti, in particolare del vicedirettore del Corriere della Sera Pierluigi Battista.
Secondo alcuni, in Italia avrebbe a lungo convissuto un sistema nel quale lo Stato ufficiale sarebbe stato solo la parte visibile, emersa dell’intero apparato; alle sue spalle, nascosto, avrebbe agito un secondo Stato, che sarebbe coinvolto in un complesso disegno eversivo che partirebbe addirittura dalla strage del Primo Maggio 1947 a Portella della Ginestra, per dipanarsi attraverso tutta la storia italiana del secondo dopoguerra. Un secondo Stato, dunque, all’interno del quale intere generazioni di funzionari, militari e civili, si sarebbero passate il testimone del complesso disegno. Questa ipotesi, che spesso diventa certezza in alcuni racconti, ha un grande pregio, ossia quello della semplificazione estrema: da una parte i democratici fedeli al dettato costituzionale, dall’altra i reazionari antidemocratici che pur di portare a termine il proprio sogno eversivo non hanno esitato a mettere bombe, depistare, assassinare personaggi divenuti scomodi. Per contro, i difetti sono molti, e tutti molto marcati. Uno studioso non può certo accontentarsi di una teoria senza riscontri, anche se a prima vista possa tornare o, comunque, risolvere molti problemi. E i riscontri, per il doppio Stato, mancano. La filiera non è mai completa, i fatti si contraddicono, gli attentati e i depistaggi, veri o presunti, si accavallano senza una logica. Quando è stata scoperta la P2, molti ritennero che si fosse giunti alla testa del mostro. Poi, però, si è scoperto che in realtà i piduisti non erano dei golpisti, ma degli ultratlantisti, patrioti a modo loro, anzi, patrioti secondo molti parametri. La stessa delusione la diede Gladio; a capo Marrargiu non ci si addestrava per commettere attentati, ma per organizzare la resistenza armata contro l’invasione dell’esercito ungherese, quello destinato all’Italia in caso di guerra con il Patto di Varsavia. L’Italia sarebbe stata divisa in due e la resistenza concentrata, in attesa dei nostri, in Sicilia e Calabria.  Se manca il nucleo di questo secondo Stato, ridurre tutto a uno Stato nello Stato, inoltre, impedisce allo storico e all’osservatore di cercare le responsabilità politiche che si sono succedute nel corso degli anni, di analizzare gli episodi al di fuori di contesti più ampi (per esempio internazionali), riducendo la storia italiana a mero complotto. La strage di Ustica e la copertura che è stata fatta del tentativo di uccidere il leader libico Gheddafi sui cieli italiani è paradigmatica di quanto vado qui sostenendo. Gli Stati Uniti non solo fallirono l’obiettivo, ma per errore provocarono l’abbattimento di un aereo di linea dell’Itavia e 81 morti civili. Le strutture dell’Aeronautica Militare italiana coprirono l’accaduto, ma poi la politica, tutta la politica, da sinistra a destra, mantenne il segreto sui fatti e a distanza di quasi trent’anni ancora non abbiamo una versione ufficiale da parte del nostro Stato. Davvero ne serve un secondo per coprirci di vergogna? Si è trattato di uno dei maggiori, se non del maggiore depistaggio della storia repubblicana, eppure non compare mai tra le prove dell’esistenza di questo doppio Stato. Sarà perché a noi Gheddafi piace particolarmente se, a parte gli accordi antimigranti degli ultimi mesi, addirittura il nostro presidente del Consiglio di allora, Bettino Craxi, lo avvertì nel 1986 dell’imminente bombardamento americano del suo quartier generale.  Se tutto questo è vero, però, non si può certo liquidare così la questione,  né  si può concordare pienamente con lo spirito delle parole del presidente Napolitano, che chiede una generica ricerca della verità senza assumersi la responsabilità di una posizione; neanche l’articolo liquidatorio di Battista, del resto, ci soddisfa, perché quanti, allora come oggi, ritennero quella di Piazza Fontana una “strage di Stato”, cosa molto criticata dal giornalista, avevano e hanno motivi a sufficienza per farlo. copj13.asp
E non bastano certo le parole di un presidente della Repubblica per superare il problema. Da quando, mi chiedo inoltre, la storia devono scriverla i politici? Pierpaolo Pasolini poco prima di morire stava lavorando alla stesura di un grande romanzo, Petrolio, che non riuscì a terminare. È la storia dell’Italia malata, dell’Italia delle stragi e delle morti violente, all’interno della quale si muovo persone reali, con nomi e cognomi e funzioni vere, non presunti attori mascherati o vestiti di ombre. In quei mesi Pasolini dichiarò di sapere i nomi dei mandanti, di conoscere i luoghi da dove erano partiti gli ordini delle stragi. Era il suo mestiere, disse, quello di conoscere queste cose, perché era uno scrittore. Questa storia è stata ricostruita in un recente libro, Profondo Nero, uscito per Chiarelettere da poco. L’Italia, sapeva Pasolini, è un paese fatto di tanti piccoli, a volte miserrimi interessi, che vanno tenuti insieme attraverso piccoli spostamenti, aggiustamenti appena percettibili. Qual è la logica per cui la nostra fedeltà alla Nato si è manifestata anche attraverso le bombe e gli attentati? La matrice degli attentati che hanno prodotto la carneficina che conosciamo è di destra. Esistono dei nomi, dei processi, delle condanne, delle prove al riguardo. In alcuni casi siamo certi, come per Piazza Fontana, in altri, come per Bologna, sorgono dei dubbi. Di materiale esplosivo e volontà eversiva fu piena l’Italia del dopoguerra. I gruppi neofascisti cominciarono a formarsi già dal 25 aprile e si svilupparono in particolare al Nord, dove infine negli anni Sessanta si passò all’azione. In determinanti momenti forze esterne, come poteva essere la Cia, o interne, come singoli uomini all’interno dei servizi, istigarono, o lasciarono fare, o coprirono post factum. Per questo Piazza Fontana è strage di Stato e per questo la Stazione di Bologna è stato un attacco preciso al nostro paese da parte di un nemico, interno o forestiero. Grazie a contingenze internazionali e a capacità interne il paese ha retto, nonostante tutto. Ora, da un po’, navighiamo a vista, senza attentati ma con il pericolo incombente di veder realizzato per volere del popolo quello che non riuscì agli eversori di destra. In quel caso non si potrà più usare la parola “doppiostato”, ma populismo. Dubito che chi ancora grida alla luna se ne renda conto per tempo.

* Storico
autore di La “pazzia” di Aldo Moro, Odradek 2001
Storia delle Brigate rosse, Odradek 2007

Link
Quando la memoria uccide la ricerca storica – Paolo Persichetti
Storia e giornate della memoria – Marco Clementi
Dietrologia e doppio Stato nella narrazione storiografica della sinistra italiana
La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori
I marziani a Reggio Emilia
Le thème du complot dans l’historiographie italienne
Ci chiameremo la Brigata rossa
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Storia della dottrina Mitterrand

Attenti, Saviano è di destra criticarlo serve alla sinistra

Recensioni – Il libro di Alessandro Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, manifestolibri, e l’album di Daniele Sepe, Fessbuk – Buona notte al manicomio, manifesto cd, rompono un tabù

Paolo Persichetti
Liberazione
16 giugno 2010

«Saviano divide la sinistra», più o meno è stato riassunto così il tiro incrociato che ha accolto, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, il libro scritto da Alessandro Dal Lago per la manifestolibri, insieme all’ultimo album realizzato da Daniele Sepe, Fessbuk – Buona notte al manicomio, sempre per il manifesto cd, dove il sassofonista-compositore dedica un brano molto critico all’autore di Gomorra. A dire il vero la furibonda reazione che si è scagliata contro i due, subito tracimata in bilioso livore, non ha riguardato solo quell’ormai incerto territorio dai confini sempre più evanescenti che per semplicità giornalistica viene ancora chiamato sinistra. Una risposta indispettita è venuta anche da quella parte della destra che, a giusto titolo, rivendica per se il messaggio politico-culturale contenuto nel lavoro letterario di Saviano. Il think tank finiano Farefuturo insieme al Secolo d’Italia hanno aperto da tempo un fronte polemico interno alla destra per dimostrare quanto il discorso portato avanti dal giovane scrittore sia roba loro. Per questa nuova destra, o almeno che aspira a presentarsi come tale, ad osteggiare Saviano sarebbe la solita «sinistra snob», ormai in rotta di collisione con qualsiasi connessione sentimentale col popolo. Dove per popolo deve intendersi innanzitutto il corpo mistico della nazione, un’entità del tutto astratta che al massimo arriva ad assumere le sembianze, nella versione nazional-berlusconiana, del pubblico spettatore o del consumatore, certamente mai l’aspetto concreto di un’agglomerato di ceti e classi sociali traversati da interessi contrapposti. Snob invece deve intendersi come sinonimo di antipopulista, nemico del giustizialismo e del mito dell’azione penale. Opinione diffusa anche in quella grande stampa «terzista», in apparenza agnostica e liberale che, come ricorda lo stesso Dal Lago, naviga nel conformismo dilagante e imbarca personaggi che in gioventù erano collocati a sinistra. Pierluigi Battista, Paolo Di Stefano, Gianni Riotta sono corsi in aiuto del povero Saviano, che vede la sua scorta sempre più affollata. E’ davvero difficile districarsi in questa sorta di nuova lingua dove le parole hanno perso senso e il senso le parole. Nei semoventi spazi della cosiddetta sinistra si sono fatti sentire anche Sofri e Flores D’Arcais, quest’ultimo senza aver nemmeno letto la quarta di copertina, ha esortato i suoi lettori a preferire una seduta d’onanismo piuttosto che perdere tempo a leggere Dal Lago. Dall’Espresso è venuta poi la toccata finale: «chi attacca Saviano è uno stalinista». Talmente vero che l’avrebbe detto anche Vishinski.
Eppure se la canzone del bravo musicista Daniele Sepe è pur sempre una canzone, cioè semplifica inevitabilmente da cui le molte critiche giunte nei suoi confronti, il libro di Dal Lago al contrario realizza una complessa e documentata demolizione non solo del lavoro narrativo di Saviano, ma del dispositivo che attorno all’autore di Gomorra è stato costruito dopo il travolgente successo del suo libro. Attenzione all’ambivalenza dei detrattori: gli stessi argomenti impiegati per criticare Sepe diventano una risorsa quando si tratta di rispondere a Dal Lago che la prosa di Saviano ricorre volutamente a metafore ed allegorie semplificatorie per raggiungere più facilmente il grande pubblico. Dunque per Saviano vale ma per Sepe no. Questa logica binaria non da scampo. E’ un po’ come quanto scritto da Norma Rangeri sul Manifesto. Per rassicurare i lettori scioccati dal fatto che la casa editrice del giornale avesse pubblicato un libro e un disco contro Saviano, e poi dato spazio a Marco Bascetta, direttore della manifestolibri, allo stesso Dal Lago e a Daniele Sepe per sostenere sulle pagine del quotidiano il diritto di critica, ha spiegato che Saviano è certamente uno di sinistra perché «per due anni ha lavorato con noi ed ha una formazione marxista», per poi poche riga più in là prendersela con i «rivoluzionari doc (ma di quale secolo?)» che si sarebbero infilati in questa polemica. Forse si ricorda la Rangeri di quale secolo era Marx? Insomma chi critica da sponde di sinistra Dal Lago e Sepe mostra di avere pochi e confusi argomenti. Al di là dei toni, la discussione è tuttavia un rivelatore molto interessante. Una cartina di tornasole sullo stato della sinistra attuale, su quanto quella somma di pulsioni populiste, giustizialiste e penaliste si siamo ormai saldamente radicate e strutturate nella forma mentis del mondo di sinistra. Irradiamento trasversale che accomuna le diverse sponde, radicali, massimaliste, antagoniste, riformiste, ecologiste. Il libro di Dal Lago va letto proprio e soprattutto per questo, perché oltre a ridurre in briciole l’epopea autoconsolatoria che avvolge l’epica contro il crimine cavalcata da Saviano, aiuta a capire quali sono i nuovi luoghi comuni da abbattere. La rappresentazione, ad esempio, della camorra come male assoluto e non come relazione sociale e forma politica, ha il sapore semplificatorio di un telefilm americano dove i buoni sono tutti da una parte e i cattivi dall’altra. Sfuggono le radici sociali, il consenso locale, la funzione di welfare di sostituzione che svolge, le alleanze in sfere legittime. La criminalità organizzata non è solo una questione di repressione militare e giudiziaria, ma anche battaglia sociale all’interno di territori che hanno difficoltà a reperire altre forme di reddito. E’ singolare che nella rappresentazione di Saviano il coinvolgimento della sfera del politico col crimine appaia fin troppo sfumata. Nello schema manicheo che suddivide il suo discorso, i pubblici poteri, lo Stato e i suoi apparati, si trovano sempre collocati dalla parte del Bene. Nel «confronto assoluto che oppone Legge e Crimine – scrive Dal Lago – Gomorra è dalla parte di un potere specifico dello Stato, quello inquirente e giudicante». Eppure c’è in piedi in un tribunale d’Italia una richiesta a 27 anni di carcere per il generale Ganzer, capo dei Ros, accusato di aver messo in piedi una delle più grosse reti di narcotraffico mai viste. Dove compare il male «sento aria di distrazione di massa», aggiunge Dal Lago in un passaggio molto efficace. Il rischio reale è quello di dare vita ad un gigantesco diversivo. Insomma denunciare la camorra come il tiranno attuale, oltre a infrangere il senso delle proporzioni – offusca al punto da non vedere quanto il capitalismo legale, la logica dell’estrazione di plusvalore non ha bisogno della camorrìa per lasciar bruciare degli operai negli alti forni e annegare i migranti davanti a Lampedusa. La critica di Dal Lago non risparmia gli aspetti letterari del lavoro di Saviano, giocato sulla trinità dell’io. Soprattutto censura il linguaggio fumettistico, le leggende metropolitane, gli episodi inventati (il vestito di Angelina Jolie e i Visitors di Scampia, solo per citarne alcuni), le inverosimiglianze spacciati per fatti reali, come l’incipit del libro sui morti cinesi nel porto di Napoli. A Parigi circolano altre versioni dello stesso mito urbano incentrate nel quartiere di Tolbiac. I cinesi sembrano l’altra ossessione di Saviano che non riesce a parlarne senza emettere un fetore di razzismo. Dal Lago non trova per nulla convincente il nuovo canone letterario di cui Gomorra sarebbe divenuto il modello, definito “New Italian Epic” dai Wu Ming. Insomma, al di là delle intenzioni, per Dal Lago il fenomeno Gomorra è perfettamente adeguato al clima culturale italiano pervaso di berlusconismo. La postura eroica assunta nel libro, dunque ancora prima delle minacce che avrebbe ricevuto dalla camorra, porta Saviano a fare uso di una retorica che anestetizza la ragione, agisce come uno sgravio di coscienza, spingendo il lettore a perdere il proprio senso critico e divenire un semplice seguace dello scrittore. Così il popolo tanto decantato esiste solo in quanto assiste. E non da più fastidio.

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PG Battista: «Come regalare un eroe agli avversari. Gli errori della destra nel caso Saviano»

 

Pierluigi Battista c’arriva un po’ in ritardo, ma c’arriva. Quanto scrive ricalca cose dette diverso tempo fa da Pietrangelo Buttafuoco: la destra è stupida perché non capisce che Saviano è uno dei suoi e lo spinge nelle braccia della sinistra, convinta che l’autore di Gomorra sia la punta più avanzata del suo schieramento. A dire il vero in questa storia non si capisce bene chi sia il più stupido: se la destra o la sinistra. Di Pietro, Travaglio, ora Saviano, nell’immaginario della sinistra s’aggirano personaggi che nulla hanno a che vedere con le matrici culturali ed anche i più elementari punti di riferimento di una vaga sinistra. Il malinteso di fondo, ciò che sconbussola tutti i punti cardinali è in realtà la figura di Berlusconi, il berlusconismo. Non è vero che la destra sia tutta ostile a Saviano. Lo è la destra berlusconiana, la destra aziendale, quella più cortigiana e servile con il padrone di Mediaset. Il resto della destra che oggi guarda a Fini vede in Saviano un simbolo forte, un testimonial efficace del proprio discorso. Non parliamo poi degli apparati statuali.
E la sinistra? E’ vittima di un antiberlusconismo che fa velo su tutto. Un vero paraocchi assolutamente speculare al suo contrario. Il sintomo della scomparsa di ogni autonomia critica e progettuale. Senza più bussola, Belusconi è diventato la stella polare. Andargli contro, senza vedere altro e ingoiando di tutto, è rimasta l’unica via per pensare di arrivare a sopravvivere. E così va bene qualsiasi cosa si incontri lungo questa rotta: populisti di ogni risma, la confindustria, i banchieri, l’elenco è lungo come le sconfitte. Finito Berlusconi cosa rimarrà? Parafrasando il titolo di un film dei fratelli Vanzina (cantori un tempo del primo Berlusconismo rampante), potremmo rispondere: Sotto l’antiberlusconismo niente

Pierluigi Battista
Corriere della sera 23 ottobre 2010

Davvero formidabile, la capacità della destra italiana di moltiplicare i suoi nemici. E che straordinario impulso masochista nel regalare alla sinistra Roberto Saviano, che di sinistra pure non è. Che capacità di frustrare ogni simpatia, di scoraggiare ogni contatto anche in chi, come Saviano, non è necessariamente animato da un’ostilità preconcetta nei confronti di questa maggioranza. Eppure si dovrebbe sapere, oramai, che il mussoliniano «molti nemici, molto onore» è solo una manifestazione di puerile strafottenza. La destra forse non sa che Saviano si è pubblicamente congratulato con il ministro Maroni per le brillanti operazioni di polizia che hanno cominciato a smantellare la cupola camorrista di «Gomorra»: e in cambio ha ricevuto molti e risentiti rimbrotti della sinistra. La destra forse non sa che per aver inviato un video di solidarietà a una manifestazione pro-Israele, Saviano è stato fatto oggetto dei peggiori insulti sui siti e sui blog «anti-imperialisti» che lo hanno bollato nientemeno che come un mercenario «al soldo dei sionisti». La destra forse non sa che dopo un appassionato intervento in tv, Saviano è riuscito a convincere molti lettori ad acquistare I racconti della Kolyma di Varlam Salamov, uno dei più sconvolgenti capi d’accusa contro il Gulag e le «atrocità del comunismo» (parole di Saviano) su cui «è calato il silenzio da troppo tempo» (sempre parole di Saviano). La destra forse non sa che per aver dichiarato in un’intervista di apprezzare gli scritti di Ezra Pound, alcuni intellettuali di sinistra hanno dichiarato il loro ostracismo nei confronti di Saviano. La destra forse non sa che i peggiori attacchi a Saviano, negli ultimi mesi, sono venuti da sinistra, dai libri editi dal manifesto, dagli scrittori che non sopportano che un loro collega vada troppo in televisione, perché andare troppo in televisione fa troppo «berlusconiano». Oggi Saviano, nella stampa della destra, è diventato il simbolo dell’intellettuale del «regime culturale» della sinistra. Un avversario così spregevole da pretendere addirittura di essere pagato per una trasmissione televisiva (ma come, non si era detto che il mercato non doveva essere demonizzato?). Ed è tale la diffidenza, il sospetto, l’ostilità, l’antipatia nei confronti di Saviano che si è dovuta allestire una trincea di «scalette» televisive per arginarlo, neutralizzarlo, metterlo nelle condizioni di non nuocere, di non dire cose troppo compromettenti. Il risultato è, per il momento, catastrofico. L’impressione generale oramai è che la destra abbia paura di Roberto Saviano, di quello che può dire, delle simpatie che può attirare tra gli avversari del governo. La seconda impressione è che la destra viva ormai prigioniera di una sindrome dell’assedio che scorge dappertutto i segnali occulti di complotti, cospirazioni, manovre contro il governo. E se chi è sospettato non fa parte a pieno titolo della schiera dei detrattori più feroci, ci pensa la destra a scavare il fossato che lo porta dall’ altra parte, a rinfoltire l’esercito degli avversari. Ecco così il nuovo caso. Non solo il caso Santoro. Non solo il caso Travaglio. Non solo il caso Gabanelli. Non solo il caso Floris. Ma adesso il caso Saviano. Un altro nuovo iscritto alla tribù delle vittime del bavaglio, vero o immaginario. Anche se il nuovo iscritto non è della tribù della sinistra: l’importante è farlo diventare, con uno spirito autodistruttivo davvero incomprensibile nello schieramento che vince un’elezione dopo l’altra e perciò dovrebbe mostrare la forza della tranquillità e non il terrore di chi è rinchiuso in una fortezza. Certo, Saviano firma gli appelli contro il governo. Certo, non fa niente per non lasciarsi arruolare nella sinistra firmaiola che vuole fare dell’autore di Gomorra un’icona, un santino, un paladino del Bene in lotta perenne contro il Male (berlusconiano). Ma da destra mai un gioco di sponda, un riconoscimento, una parola di solidarietà per chi, comunque, è costretto a vivere una vita blindata a causa delle minacce camorriste. Come se l’unico gioco che la destra è in grado di condurre è quello del vittimismo, del regalare alla sinistra anche ciò che alla sinistra non appartiene di diritto. Un vittimismo di maggioranza, un vittimismo dei vincitori: ecco l’unicum italiano. E nel vittimismo, ogni sfumatura viene schiacciata. Ogni interlocuzione con chi è diverso ma non nemico viene sommersa dall’urlo della curva che vede comunisti dappertutto, che percepisce la Rai come un fortino della sinistra e una trasmissione con Saviano come un assalto illegittimo al governo. «Molti nemici, molto onore»: e si sa come andò a finire.

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Diffida e atto di messa in mora. Rettifica libro “La parola contro la camorra” di Roberto Saviano
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Doppio Stato? Una teoria in cattivo stato

Note a margine di un dibattito infinito

di Vladimiro Satta*

L’Altro, 17 giugno 2009

Un passaggio del discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica lo scorso 9 maggio, in occasione della Giornata della Memoria, ha suscitato una pubblica discussione storiografica tuttora in corso. Napolitano ha definito «fantomatico» il “doppio Stato”, locuzione che fu introdotta nel copj13-1.asppanorama italiano degli studi venti anni fa da Franco De Felice a proposito dei fenomeni eversivi degli anni di piombo e, in seguito, fu replicata con modifiche nelle varianti chiamate “Stato parallelo”, “Stato duale” e simili. In molti casi, il “doppio Stato” e i suoi derivati sono stati raffigurati quali protagonisti di una storia dell’Italia repubblicana vista in termini di sequela di complotti orditi in seno alle istituzioni.
Tra i primi commenti al cenno presidenziale sul «fantomatico doppio Stato» si registra (11 maggio) il plauso di Pierluigi Battista, vicedirettore del Corriere della Sera, il quale lo ha salutato come una solenne bocciatura delle connesse teorie cospirative. Battista, nel suo pezzo, ha tratteggiato origini e lineamenti di quella che ha chiamato «misteriologia doppiostatista», ha elencato coloro che a suo avviso ne sono stati i maggiori esponenti e ha prospettato la possibilità che essa vada «in soffitta, almeno come storia ufficiale», se non anche come «fiction». Più sinteticamente e meno trionfalisticamente pure lo storico Giovanni Sabbatucci (Messaggero, 10 maggio) ha ripercorso il cammino della teoria del “doppio Stato” e se ne è augurato il definitivo tramonto. Su Liberazione (30 maggio) un altro storico, Marco Clementi, ha osservato che «uno studioso non può certo accontentarsi di una teoria senza riscontri (…) e i riscontri, per il doppio Stato, mancano», dopo che un redattore del quotidiano, Paolo Persichetti, aveva parlato d’inclinazione delle teorie complottistiche a disinteressarsi delle prove e, anzi, a spacciare le smentite per indizi di ulteriori cospirazioni contro la verità (21 maggio).
Alcuni fautori della tesi “doppiostatista” sono rimasti silenti, mentre altri hanno ribadito pienamente le loro convinzioni (senza pretese di completezza, segnalo: il 12 maggio L. Orlando, intervistato dal Corriere della Sera; il 13 maggio, G. De Lutiis su Liberazione, B. Gravagnuolo e M. Travaglio su Unità, F. Orlando su Europa; il 15 maggio, L. Grimaldi su Liberazione; poi di nuovo Travaglio, dapprima oralmente alla Fiera del Libro a Torino, il 16 maggio, e successivamente in forma scritta su Internet). Altri ancora, infine, hanno preso le distanze in vario modo rispetto alla teoria del “doppio Stato” e all’elenco redatto da Battista (G. Fasanella, lettera al Corriere della Sera, 12 maggio; G. Pellegrino, intervistato pure lui dal Corriere della Sera, 13 maggio; A. Giannuli, Liberazione, 4 giugno). Giannuli, in particolare, ha demolito «il mito» che le sconfitte della sinistra siano imputabili al “doppio Stato”; d’altro lato, asserendo che il “doppio Stato” non è un soggetto bensì «un processo», non è una doppia rete istituzionale mezza legale e mezza no, non è una sorta di cupola politico-criminale, non è la P2 né un servizio segreto misterioso e rinunciando ad attribuirgli il fine di «destabilizzare per stabilizzare» (conclusione che ancora compariva in un suo saggio del 2007), egli in pratica lo ha ridotto ad una mera astrazione priva di ragion d’essere, dai connotati a dir poco evanescenti, la cui identità poggia su un nome che non si addice ad «uno stato di fatto» né ad un «modo duplice di funzionare». Giannuli non ha intenzione di abbandonare del tutto il concetto di “doppio Stato”, ma arrivati a questo punto sarebbe più consequenziale farlo e guardare avanti.
Qualcuno ha protestato contro Battista interpretando la sua soddisfazione alla stregua di un anatema contro i teorici del complottismo “doppiostatista” e leggendo le sue indicazioni nominative alla stregua di liste di proscrizione, perciò è bene puntualizzare che la libertà di continuare a pensarla diversamente dal Capo dello Stato, dal vicedirettore del Corriere della Sera o da chiunque altro non è minimamente in questione. E guai se lo fosse. Le critiche altrui possono dispiacere ed alle volte essere sommarie o ingiuste, ma non vanno dipinte come intimidatorie quando non lo sono, anche perché così facendo si renderebbe impossibile il sano confronto tra opinioni diverse. Fare nomi, di per sé, non equivale a stilare liste di proscrizione e anzi ha due pregi: offre ai lettori riferimenti utili per approfondire (se lo desiderano) e consente di  dare a ciascuno il suo. A condizione, beninteso, di non commettere errori nell’attribuzione delle rispettive posizioni.
copj13.aspL’articolo di Battista tanto deprecato dai teorici della cospirazione contiene qualche inesattezza e tende ad appiattire le differenze tra i personaggi che cita: per fare un paio di esempi, Fasanella non fu consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta su terrorismo e stragi, e la linea di Giannuli diverge sensibilmente dallo schema iniziale di De Felice. Inoltre, l’articolo ha il difetto di non spiegare perché il giornalista concordi con Napolitano e dissenta dai teorici del “doppio Stato”.
Dal canto mio, avendo in passato criticato estesamente le teorie del “doppio Stato” e simili, mi rallegro della dichiarazione del Quirinale. Trovo altresì opportuno che il Presidente abbia soggiunto: «per quante ombre abbiano potuto pesare sulla ricerca condotta in sede giudiziaria e per quante riserve si possano nutrire sulle conclusioni da tempo raggiunte, non si possono gettare indiscriminati e ingiusti sospetti sull’operato di quanti indagarono e in particolare sull’operato della magistratura, esplicatosi in molteplici istanze e gradi di giudizio». Non si dimentichino i successi, dunque, non si dia per scontato che tutti gli sbagli fossero dolosi, e si consideri che un conto è avere decenni per riflettere giovandosi del lavoro pregresso compiuto da inquirenti, tribunali, commissioni di inchiesta, studiosi e via dicendo, mentre altro conto è agire sul momento, magari con urgenza.
E’ dolorosamente vero che le conoscenze sullo stragismo sono tuttora alquanto lacunose e che il disastro aereo di Ustica nel quale perirono 81 persone è addirittura un mistero, essendo certo solo che non si trattò di guasto ai motori né di cedimento strutturale. Ma le istanze di più verità e più giustizia non si appagano con le fantasie. Il discorso complessivo sulla condotta dello Stato di fronte agli attacchi piovuti da destra e da sinistra dalla fine degli anni Sessanta agli Ottanta, la quale presenta luci ed ombre, va impostato partendo da un quadro della situazione che esamini contestualmente le forze attaccanti e gli strumenti di contrasto disponibili.
In Italia le offensive eversive furono, per ampiezza e articolazione, superiori agli analoghi fenomeni occorsi in altri Paesi democratici. Lo stragismo neo-nazifascista, il terrorismo rosso e lo spontaneismo armato nero furono prodotti genuini degli ambienti più estremisti della società italiana di allora. Sebbene parzialmente concomitanti, essi non formarono un blocco unico né si allearono fra loro. Sul versante statale, i primi tempi furono caratterizzati da impreparazione degli apparati –che erano strutturati prevalentemente in funzione di controllo dell’ordine pubblico, un altro fronte caldo- e arretratezza della normativa, che per inerzia del legislatore si protrassero fino alla metà del 1974; seguì una seconda fase, da metà del 1974 ai primi del 1978, segnata da interventi rilevanti ma ondivaghi, per certi aspetti persino contraddittori e, comunque, non sempre positivi nel breve termine, che interessarono sia l’assetto degli apparati repressivi, sia la normativa su ordine pubblico, libertà dei cittadini e relative garanzie; una terza ed ultima fase si aprì dopo la pesante sconfitta militare patita in occasione della vicenda Moro, allorché lo Stato seppe risalire la china e maturò la sua vittoria definitiva grazie al concorso di molteplici fattori, fra i quali la ricostituzione in versione rafforzata dei nuclei antiterrorismo dei Carabinieri al comando di Carlo Alberto dalla Chiesa e la legislazione che incoraggiò il cosiddetto pentitismo. L’emergenza eversiva legittimò norme e trattamenti giuridici di eccezione a difesa dell’ordine pubblico e della sicurezza che, tuttavia, non compromisero la libertà di espressione, il pluralismo politico e lo svolgimento di libere elezioni, una triade che rappresenta l’essenza delle democrazie. Anzi, i metodi con i quali l’Italia riuscì a debellare gli eversori furono più morbidi che in altri Paesi.
Passando ad analisi differenziate dei risultati conseguiti contro i nemici di turno, si nota che furono diseguali: maggiori contro il terrorismo rosso e contro lo spontaneismo armato nero, minori contro lo stragismo, un po’ perché quest’ultimo era più sfuggente, e un po’ perché esso talvolta usufruì di protezioni, attestate da episodi di slealtà degli apparati nei confronti della magistratura inquirente. Si trattò di favoreggiamenti a posteriori che, quantunque intrinsecamente gravi, non equivalgono a responsabilità dirette né a complicità nell’ideazione, preparazione o esecuzione degli attentati. Il Sid, quando nel 1973 negò alla magistratura le informazioni sul Giannettini da essa richieste, travalicò le comprensibili esigenze di copertura del suo collaboratore, i cui legami con il Servizio furono poi rivelati dal Ministro della Difesa Andreotti nel 1974. De Lutiis, nel 1997, scrisse che l’iniziale copertura del Giannettini, a suo avviso avallata dai politici, dipese dal fatto che «nell’attuazione dell’eccidio [di Piazza Fontana] era in qualche modo coinvolto un settore istituzionale dello Stato e dunque un possibile esecutore o intermediario non poteva essere abbandonato, rischiandosi in tal caso il disvelamento dell’intera catena di comando della strage». Se fosse stato così, però, non si capirebbe perché nel 1974 Andreotti abbia rovesciato la decisione di un anno prima. E’ più ragionevole supporre che, seppure tardivamente, l’opportunità di collaborare alle indagini su un crimine quale la bomba di Piazza Fontana abbia finalmente prevalso sulla tutela di una fonte del Servizio. In questo e negli altri casi del genere non ravviso le catene di comando dirette dalla Nato evocate da De Lutiis su Liberazione, e non le ravvisò neppure la magistratura che respinse le corrispondenti ipotesi in sede giudiziaria.
Comunque, lo stragismo cessò più per il fallimento dei propri obiettivi politici e per lo scioglimento del Movimento Politico Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale che per l’azione di contrasto svolta da forze di polizia e servizi segreti.
Concludo associandomi a Fassino e a Tranfaglia (cfr. Ansa e varie) nel dire che la gestione del Ministero dell’Interno negli anni Novanta da parte di Napolitano non merita il biasimo di Travaglio. L’attuale Presidente, all’epoca, diede piena collaborazione alla magistratura e alla Commissione Stragi, adoperandosi per recuperare e fornire tutta la documentazione possibile. Per quanto riguarda la Stragi valgano gli apprezzamenti tributati a Napolitano di cui è rimasta traccia nei resoconti e nelle relazioni periodiche sull’attività della Commissione.

* Documentarista della ex-Commissione Stragi

 

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Dietrologia e doppio Stato nella narrazione storiografica della sinistra italiana-PaoloPersichetti

La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori – Pierluigi Battista
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Italie, le theme du complot dans l’historiographie contemporaine – Paolo Persichetti
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori
Ci chiameremo la Brigata rossa
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Storia della dottrina Mitterrand

 

 

 

La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori

E il Quirinale affondò l’ideologia del “doppio Stato”

Pierluigi  Battista
Corriere Sera 11 maggio 2009

Storici, politologi, politici, giornalisti, memorialisti, avevano trovato in una formula enigmatica come il «Doppio Stato» (uno ufficiale e democratico, l’altro, occulto e «criminale») la chiave per svelare ogni segreto. Il Presidente della Repubblica ha richiamato al dovere di sciogliere i misteri, liberandosi però della misteriologia superstiziosa, del racconto cospirazionista della storia italiana; di rischiarare tutte le oscurità sulle stragi, senza mettere sotto accusa come «falsa» l’intera democrazia italiana. «Fantomatico», dice perentorio il capo dello Stato. Fantomatico il «Doppio Stato», fantomatici i ghirigori storiografici sul Doppio Stato, fantomatico il «doppiostatismo» inteso come ideologia, racconto cospirazionista della storia italiana, la dietrologia come chiave onnicomprensiva delle vicende d’ Italia. Il presidente della Repubblica ha richiamato al dovere di sciogliere i misteri, liberandosi però della misteriologia superstiziosa. Di rischiarare senza tutte le oscurità sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia, a cominciare da quella di Piazza Fontana del 12 dicembre del 1969, ma non di mettere sotto accusa come «falsa» l’intera democrazia italiana. E lo ha detto avendo accanto Gemma Calabresi e Licia Pinelli. Per chiudere un capitolo di lutti e tragedie. E con esso anche la sua posticcia sovrastruttura retorica: il «doppiostatismo», appunto. Storici, politologi, politici, giornalisti, memorialisti avevano trovato in quella formula all’ apparenza così enigmatica – il «Doppio Stato» – la chiave universale per svelare ogni segreto. Dicevano che la storia italiana repubblicana, tutt’ intera la storia italiana repubblicana, era fatta di due piani. Uno ufficiale e formale, vestito con i panni della democrazia. L’altro, occulto, inconfessabile e «criminale» nella sua essenza. Uno popolato di burattini che mimavano i riti della democrazia: le elezioni, il discorso pubblico, i partiti, la lotta politica. L’altro manovrato dai burattinai che faceva la vera politica con le armi sporche delle stragi, del terrorismo, della corruzione sistematica, della criminalità organizzata. Uno apparentemente autoctono e nazionale. L’altro di matrice internazionale. E quando si diceva internazionale, si diceva l’ America, la Cia. Da sempre e per sempre, con o senza guerra fredda.
La nozione di «Doppio Stato» ha una storia nobile. Risale alla descrizione che Ernst Fraenkel, interpretato in Italia da Norberto Bobbio, aveva fatto della dittatura nazionalsocialista costruita da Hitler. Sul piano accademico, si era avvalsa verso la fine degli anni Ottanta di una rimodulazione erudita per opera di Franco De Felice, uno degli intellettuali più brillanti e versatili che gravitavano attorno all’Istituto Gramsci, la prestigiosa fondazione culturale destinata a una funzione tutt’altro che secondaria soprattutto ai tempi del Pci, ma anche dopo lo scioglimento del partito-madre. Ma sul piano emotivo la narrazione doppiopesista prende forma e coraggio con la celeberrima formula della «strage di Stato», con l’ opuscolo che all’ indomani dell’ eccidio di Piazza Fontana indica al «movimento» la controstoria, non solo la controinchiesta, di quelle bombe che inaugurarono la stagione cruenta della «strategia della tensione»: la certezza che la strage non solo non fosse opera degli anarchici di Valpreda, ma che fosse maturata nel sottoscala torbido dei servizi di sicurezza dello Stato sleali, dei vertici militari in combutta con parti del potere politico, manovrati dal partito «amerikano» e coadiuvati per l’ esecuzione materiale del loro disegno criminoso dalla manovalanza dell’ estremismo fascista e neofascista, adibita alla messa in atto della strategia stragista e adusa all’ infiltrazione della parte più vulnerabile dell’ estremismo di sinistra. Lo spaventoso tributo di sangue pagato dall’ Italia colpita dalle stragi che seguirono quella di Piazza Fontana e soprattutto la palude giudiziaria in cui, tra omertà, reticenze, depistaggi, si impantanarono i processi chiamati a identificare i responsabili di quei massacri, resero la rappresentazione del «doppio Stato» una figura sempre più malleabile e multiuso. Dal terrorismo delle Brigate Rosse («sedicenti» si diceva, proprio perché manovrate dalla parte occulta e «deviata» dello Stato) alla P2, dagli scandali economici (il petrolio) e bancari fino alla grande fioritura della stagione antimafia, tutto divenne materia dei sacerdoti della nuova dottrina del «doppiostatismo». Politicamente se ne fece interprete soprattutto Luciano Violante, l’ ex magistrato e poi presidente della Commissione parlamentare antimafia ai tempi dell’ incriminazione di Andreotti che in anni recenti deplorò la visione «distorta», esageratamente dietrologica di chi riduceva l’ intera storia politica italiana a un romanzo criminale. La Rete di Leoluca Orlando fece del «doppiostatismo» addirittura il credo ufficiale. Tra gli storici più impegnati in una rilettura doppiostatista si segnalarono Nicola Tranfaglia e Paul Ginsborg. Ex politici e studiosi di diritto come Sergio Flamini e Giuseppe De Lutiis diedero vita a una copiosa produzione di libri a sostegno della battaglia contro il tentacolare «doppio Stato». Eredi e continuatori della nobile schiatta di giornalisti detti «pistaroli» per il loro diuturno esercizio di smascheramento delle «piste» segrete che a loro dire avrebbero condotto all’ individuazione dei mandanti e degli esecutori delle stragi e del terrore, si infoltirono le schiere di pubblicisti e ricercatori che prestavano la loro opera di consulenza per le commissioni parlamentari sui «misteri d’ Italia», da Aldo Giannuli ai fratelli Cipriani, da Giovanni Fasanella a Sandro Provvisionato ai tanti altri impegnati a sinistra, da Dimitri Buffa e Nicola Rao, meglio collocati a destra. Fino a lambire la letteratura noir e la fiction politica, come nel caso dello scrittore Carlo Lucarelli. Il «doppiostatismo» si trasformò in una ricostruzione narrativamente avvincente della «vera storia d’ Italia». Immancabilmente partiva, come origine di ogni nefandezza occulta, dal patto («fantomatico», secondo la definizione del capo dello Stato) tra americani e mafia ai tempi dello sbarco alleato in Sicilia. Si snodava attraverso l’ eccidio di Portella della Ginestra. Si sovrapponeva a ogni passaggio oscuro della storia nazionale, dalla morte di Mattei al tentato golpe di Junio Valerio Borghese, al Piano di Rinascita nazionale di Licio Gelli. Si adornava di un lessico formalizzato («terzo livello», «mandanti a volto coperto», «spezzoni deviati» della magistratura, della massoneria, della politica eccetera). La misteriologia doppiostatista ora rischia di andare in soffitta, almeno come storia ufficiale. Come fiction, è un po’ meno sicuro. La scheda L’origine del termine La nozione di «Doppio Stato» risale alla descrizione che il politologo tedesco Ernst Fraenkel aveva fatto della dittatura nazionalsocialista costruita da Adolf Hitler (sopra nella foto). Tale nozione, in Italia è stata interpretata da Norberto Bobbio, e, sul piano accademico, è stata rimodulata per opera di Franco De Felice dell’ Istituto Gramsci Le parole di Napolitano Il presidente Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno della memoria, a proposito delle verità mancanti sulle stragi ha osservato: «Il nostro Stato democratico, proprio perché è sempre rimasto uno Stato democratico, e in esso abbiamo sempre vissuto, non in un fantomatico “doppio Stato”, porta su di sé questo peso».

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Quando la memoria uccide la ricerca storica – Paolo Persichetti
Storia e giornate della memoria – Marco Clementi
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana – Paolo Persichetti
Doppio Stato? Una teoria in cattivo stato – Vladimiro Satta
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Le thème du complot dans l’historiographie italienne – Paolo Persichetti
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori
Ci chiameremo la Brigata rossa – Vincenzo Tessandori
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Storia della dottrina Mitterrand