Carlo Giuliani, quel passo in più

Quel passo in più mentre gli altri andavano indietro, la tua vita è tutta lì
Per questo ti vogliamo bene

I tratti addolciti del viso tradivano la sua giovane età. Si era staccato dal gruppo e in una mano teneva una pietra che scagliò con tutta la sua forza contro un drappello d’uomini bardati con scudi e mazze, caschi e stivali, armi da fuoco alla cintola. Quasi appagato da quell’incosciente gesto di sfida s’era voltato per riguadagnare le fila dei suoi compagni. Teneva larghe le braccia mentre le mani erano nude come in quella foto dell’anarchico diventata un manifesto, quando l’eco d’alcuni colpi di pistola risuonò nell’aria. I suoi compagni urlavano, mentre un poliziotto aveva preso la mira per fucilarlo alle spalle. Il suo sorriso s’era trasformato in una smorfia di dolore. Colpito alla schiena ma ancora incredulo continuava a camminare ma le sue falcate sembravano ormai passi di danza. Cadde sull’asfalto solo dopo aver compiuto una piroetta. Era il giugno del 2001, a Gotebörg. Il “movimento dei movimenti” solo per poco era scampato al suo primo morto. Un presagio maledetto che si avverò qualche settimana più tardi a Genova, in piazza Alimonda, dove un altro giovane, all’incirca della stessa età, venne ucciso da un coetaneo in divisa con un colpo in mezzo agli occhi.
Carlo Giuliani la morte l’ha vista in faccia mentre gli altri manifestanti avevano avuto il tempo d’indietreggiare di fronte a quell’arma spianata. Forse era troppo tardi per fermarsi o forse non voleva arretrare, ma andare fino in fondo per impedire a quel braccio teso, armato e in divisa di Stato, di continuare la sua minaccia. Due colpi, una quiete irreale cadde d’improvviso sul campo di battaglia rotta poi da nuove grida, mentre il corpo di Carlo veniva oltraggiato dalle ruote del Defender dei carabinieri.
“Fiori velenosi venuti solo per sfasciare”(1), non trovò migliore espressione una dirigente dell’organizzazione antimondialista Attac per liquidare i fatti di Gotebörg. Secca e adirata contro quella che ai suoi occhi sembrava una teppaglia neoluddista, madame Susan George, trovò più che normale che una pietra valesse un colpo di pistola tirato alle spalle. Autoconvocate, quelle orde d’insorti in cerca di sommosse non erano gradite. Disturbavano le ordinate kermes internazionali, i carnevali di strada, i convegni compunti dei professionisti dell’associazionismo, una nuova burocrazia della società civile che pensava di poter fronteggiare gli irruenti spiriti animali del capitalismo ultraliberale attraverso forme di regolazione economica, strumenti procedurali e regole etiche. Misure inadeguate quanto l’idea di poter fermare l’Oceano in tempesta con dei sacchetti di sabbia. Nello stesso periodo, un appello sottoscritto da intellettuali italiani e francesi, tra cui spiccavano le firme d’alcuni ex partecipanti ai movimenti politici degli anni Settanta, censurava le violenze e gli scontri di piazza, in modo particolre le brutalità commesse nei confronti di merci come “i cassonetti bruciati e le vetrine rotte”. Costoro invocavando manifestazioni ordinate e ottenevano nient’altro che forze dell’ordine. Decisamente la storia non è intenzionata a smentire quell’adagio che vuole ogni tragedia ripresentarsi in farsa. Per nulla appagati da tanta stigmatizzazione etica prim’ancora che politica, prendiparola del Forum sociale genovese e leaders d’alcune componenti noglobal, sponsorizzati dai loro grandi elettori mediatici, lanciarono il ritornello infinito, e per giunta dopo un anno ancora non provato, degli infiltrati. Lo fecero a caldo, sopraffatti dal pregiudizio e da servile paura, quando il corpo straziato di Carlo Giuliani non aveva ancora un nome. Nei salotti volanti delle dirette Rai di prima serata che seguivano il G8 circolava ancora la voce che il giovane ucciso fosse uno spagnolo, di certo un basco, un black bloc in ogni caso. Gli invitati (2), ancora accaldati per aver sfilato nei cortei del pomeriggio, attaccarono le forze di polizia colpevoli d’inerzia per aver lasciato devastare la città da bande di facinorosi vestiti di nero. Le forze dell’ordine avevano assalito i cortei quando questi sfilavano ancora lungo i percorsi autorizzati, in diversi punti della città i carabinieri avevano fatto uso d’armi da fuoco, in risposta gli acuti esponenti noglobal invece di pretendere meno forze dell’ordine invocavano più forza pubblica in piazza. Sollecitati con tanto ardore, il sabato successivo le forze di polizia eseguirono con zelo il loro mandato fin dentro alla Diaz. Immemore o forse ignaro che solo nei paesi dove vi è un controllo autoritario dello spazio pubblico le forze di polizia organizzano e svolgono il servizio d’ordine nei cortei, l’arrogante e mai pago presidente della Lila, Vittorio Agnoletto, pretendeva la tutela poliziesca per le sue sfilate nonviolente. Solo in tarda serata, sopraggiunta la notizia che quel manifestante deceduto altri non era che il figlio di un noto sindacalista della Cgil genovese, il “reprobo” Carlo Giuliani divenne finalmente un ragazzo da difendere, un imbarazzante martire da far proprio.

(1) Le Courrier d’information, n. 246, Martedi 19 giugno 2001.
(2) Un isterico Vittorio Agnoletto e un fin troppo incauto Fausto Bertinotti.

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Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo

Il mandato d’arresto europeo e la riformulazione estensiva dell’infrazione di terrorismo

Paolo Persichetti
L’Humanité 10 ottobre 2001

«Uno spazio giudiziario europeo»! Ecco la soluzione per ogni problema, il rimedio contro i mali del XXI° secolo: «terrorismo planetario», insicurezza bandiera_europa001_2 crescente, invasione delle popolazioni senza risorse. Lotta senza quartiere contro il crimine, tolleranza zero, giudiziarizzazione sempre più estesa della vita sociale e politica, ma legge ed ordine possono arrivare a dominare queste nuove contraddizioni e sfide? O al contrario siamo di fronte ad una cinica panoplia di argomenti che fanno della paura, dell’angoscia e dell’ansia, dei nuovi ingredienti del mercato politico? Dispositivi ansiongeni, deliri sicuritari, demagogia giudiziaria, non rischiano forse di rivolgersi contro i loro promotori al pari di una medicina che uccide il malato?
Una nuova tappa è stata raggiunta con la proposta del mandato d’arresto europeo, accompagnato da un progetto di riformulazione estensiva dell’infrazione di terrorismo. Un colpo di acceleratore è venuto nel momento in cui l’enorme breccia aperta nelle mura del Pentagono e le rovine fumanti delle Twin Towers ricordano bruscamente che la storia non è affatto finita sotto le rovine del muro di Berlino. Una congiuntura che i sostenitori dello spazio giudiziario europeo cercano di volgere a loro vantaggio profittando della drammatizzazione. In realtà, il mandato d’arresto europeo è la conclusione di un processo avviato da diverso tempo. Non sorge certo dalle necessità del momento. Lungamente riflettuto, questo progetto si è sempre confrontato all’assenza di un fondamento giuridico-costituzionale e a delle forti perplessità politiche. arresto-manette-001
Innanzitutto, che cosa è mai lo «spazio giudiziario europeo»? Uno spazio costituzionale unificato, dotato di pesi e contrappesi omogenei, di un sistema giuridico coerente, di una polizia unica, di criteri di formazione della prova identici? No! L’Europa, non ha nemmeno ancora assunto lo statuto di persona giuridica. L’Unione europea, non può firmare in quanto tale le convenzioni e i trattati internazionali. Sono i quindici che firmano, uno per uno. Di cosa parliamo dunque?
Vista da un altro continente, l’Europa appare uno spazio economico, finanziario e monetario, che cerca di accordarsi sul piano legislativo attraverso il principio di sussidiarità. L’Europa politica è un nano, l’Europa militare balbetta, quanto all’Europa sociale essa è uno spettro (che s’aggira per i suoi Palazzi). L’Europa è un fantasma costituzionale e lo spazio giudiziario un inganno, il luogo dell’arbitrario puro.
La nozione di «mutuo riconoscimento» degli atti di giustizia, sentenze e mandati di arresto, è il fragile rimedio trovato per aggirare la sovranità degli Stati ancora in vigore. Gli Stati nazionali sono ancora là: non sono stati aboliti, né abbattuti né sorpassati. La tecnostruttura di Bruxelles ha escogitato una scorciatoia che nasconde in realtà una cultura profondamente antigiuridica e anticostituzionale. Non si tratta di una «rivoluzione copernicana», come è stato scritto, al contrario siamo di fronte al compimento di una vera controriforma.
Il mutuo riconoscimento, infatti, non tiene conto delle asimmetrie giudiziarie presenti negli Stati membri: differenze tra rito accusatorio, semi-accusatorio e istruttorio; diversità di procedura; qualificazione a geometria variabile delle infrazioni e della entità delle pene incorse; presenza o assenza dell’obbligo dell’azione penale; diversa valutazione del valore della parola dei pentiti, ecc.
In nessun momento queste diversità sono state prese in conto come invece ancora accade nelle attuali procedure di estradizione. Non solo ma il muto riconoscimento, nella forma in cui esso è stato presentato nella «proposta di decisone quadro», infrange la regola della non retroattività delle norme (nullum crimen sine lege). Non è un problema di fiducia o sfiducia reciproca tra paesi membri. Il diritto racchiude dei rapporti sociali, è dunque una questione di regole, di diritti acquisiti, di garanzie che esprimono il livello di civiltà e di mediazione che esiste all’interno di ogni singolo paese. La lista d’eccezione (art. 27) è un palliativo che ha l’obiettivo di sostituire la regola della «doppia incriminazione». Non è sufficiente che una infrazione sia punita in entrambi i paesi perché vi sia il riconoscimento della richiesta di estradizione. Occorre anche che ci sia conformità nella qualificazione del reato, poiché in alcuni paesi europei (e in Italia in modo particolare) esistono delle legislazioni penali speciali che raddoppiano, se non addirittura moltiplicano, le qualificazioni, col fine dichiarato di perseguire le finalità politiche delle condotte ritenute illegali.
La sovrapposizione tra mandato d’arresto europeo ed estensione della infrazione di terrorismo ha come obiettivo di seppellire definitivamente anche il black-bloc riconoscimento residuale della natura politica di alcune infrazioni. Due di queste nuove qualificazioni (esse sono state riassunte in tredici punti) attirano in modo particolare l’attenzione: «la cattura illecita d’istallazioni statali o governative, di mezzi di trasporto pubblico, d’infrastrutture, di luoghi pubblici e di beni o il danneggiamento che possono loro essere causati», punto (f); e «la realizzazione d’attentati che perturbino un sistema d’informazione», punto (j).
L’espressione «cattura illecita», che nella formulazione in lingua francese del testo della commissione intrattiene ancora qualche ambiguità, in realtà è da intendersi chiaramente nel senso di «occupazione», come recita senza mezzi termini la versione italiana. Essa, dunque, non offre alcun dubbio su quali siano i reali comportamenti illegali presi di mira. Il legislatore non pensa qui di limitare la portata della norma al caso di un attacco manu militari di un commando terrorista contro istallazioni istituzionali, ma vuole estenderla a pratiche sociali e di massa come l’eventuale occupazione nel corso di manifestazioni o scioperi di scuole, stazioni, uffici pubblici. Il riferimento implicito ai movimenti che hanno partecipato alle mobilitazioni di Seattle, Göteborg, Genova, fa chiaramente parte dei retropensieri dei redattori del testo, i quali non si nascondono affatto quando suggeriscono senza particolari pudori che «ciò potrebbe riguardare atti di violenza urbana, per esempio».
Ogni occupazione di immobili appartenenti a società pubbliche, ogni azione di gruppi di disoccupati, precari, immigrati che occupano le prefetture per rivendicare la loro regolarizzazione, i tradizionali «colpi di mano» dei 6_g sindacalisti della Cgt o le azioni di disobbedienza civile della confederazione paesana di José Bové, come la distruzione di coltivazioni di Ogm, i raids dei portuali o delle coordinazioni rurali e dei cacciatori; tutti costoro avrebbero già largamente commesso azioni da considerare, secondo i nuovi criteri, degli «atti terroristici», al pari dei cattivi per antonomasia, i militanti che di volta in volta si raccolgono nel famoso Black bloc.
Falso! Ribattono alcuni che ricordano come la qualificazione di un atto terrorista subentri unicamente quando si è di fronte alla presenza congiunta di un elemento materiale (l’atto illecito) e di un elemento intenzionale (la volontà politica sovversiva). Ma la volontà può essere l’oggetto d’interpretazioni fin troppo libere e soggettive e tutto ciò applicato a delle aree sociali d’opposizione, dissidenti o situate spesso ai confini delle norme costituite, può ingenerare nella magistratura e nelle forze di polizia la tentazione di liquidare fastidiosi fenomeni di contestazione e protesta sociale e politica, causando enormi danni alla tutela dello spazio di espressione democratica.
Questa obiezione tuttavia resta di grande utilità poiché senza grandi infingimenti designa il momento volitivo-intenzionale come il passaggio qualificante dell’atto terroristico. Innovazione per nulla scontata, poiché in passato la nozione di terrorismo non era mai uscita ad emanciparsi dal suo sostanziale carattere aporetico e strumentale. Nei trattati internazionali si erano tentate alcune caute definizioni che fondamentalmente si attenevano alle modalità fenomenologiche delle azioni compiute, caratterizzate per il ricorso ad una sostanziale iperviolenza indirizzata contro civili. I moventi, politici o religiosi, erano rimasti sempre fuori dai tentativi di definizione, al contrario di quanto invece si afferma nei codici penali di alcuni paesi, come l’Italia, dove la qualificazione investe atti e intenti di sovversione dell’ordinamento democratico, successivamente corretto con costituzionale e presente nel 270 bis cp vecchia formula, o nel 280 cp, e attraverso l’introduzione di una aggravante specificata, che si sono aggiunte a definizioni di infrazione politica ereditate dal legislature fascista come la canonica formulazione contenuta all’interno dell’art. 270 del codice penale, dove viene chiamata in causa la sovversione violenta di una classe sociale o degli ordinamenti economico o sociali costituiti nello Stato.
Allo stesso modo nei manuali di alcune strutture operative americane, come l’Fbi, il Pentagono, prendevano apertamente in considerazione le finalità politiche antigovernative, o introducevano distinzioni tra popolazione civile e militare, intendendo per civile anche militari in borghese, o in situazioni non belligeranti. boxshot
L’estensione del significato di atto terrorista proposta nella decisione quadro della commissione europea non deriva più dalla semplice realizzazione degli atti illegali in sé, che trova già un ampio sanzionamento come infrazione di diritto comune in tutti i codici dei paesi membri, ma dalla sua eventuale giustificazione ideologica, addirittura non solo rivendicata ma attribuita o presunta. È dunque in primo luogo questo elemento ideologico, culturale, mentale, politico e non materiale, ad essere specificamente punito. Negate a suo tempo, secondo quell’assurda finzione che vorrebbe le democrazie esenti dalla presenza dell’inimicizia politica, che per questo viene depoliticizzata e relegata a semplice illegalità criminale, le infrazioni politiche vengono ripescate sotto una veste ipercriminalizzata.
Non finisce qui. Il riferimento alla «occupazione di luoghi pubblici e di beni o il danneggiamento che possono loro essere causati», alla stessa maniera delle azioni di pirataggio informatico (poiché a questi comportamenti si rivolge il punto j), lascia cadere definitivamente ogni velo d’ipocrisia morale. Oramai ogni attacco condotto contro la proprietà, i beni, mobili o immobili, materiali o immateriali, rappresenta una infrazione di tipo terrorista. L’argomento etico, che in passato fondava il ricorso allo stigma terrorista per ogni atto che avesse leso la tutela della integrità della vita umana, è rimpiazzato dal riconoscimento dell’unico valore supremo da proteggere: l’etica del capitale.
Non è un sistema giudiziario sopranazionale o extra-nazionale quello che sta nascendo a scala europea, con dei pesi e contrappesi omogenei, ma una semplice estensione della sovranità giudiziaria di ogni Stato membro. Il tutto chiaramente a discapito delle garanzie personali dei cittadini dell’Unione. Un grande pregiudizio investe le libertà individuali e pubbliche che perdono, con il superamento delle procedure di estradizione, un luogo «terzo» che aveva funzione di garantire i diritti della persona domandata dallo Stato richiedente.
In nessun modo dunque è possibile sostenere l’equazione tra il ruolo svolto dalle vecchie chambres d’accusations e le funzioni marginali attribuite al magistrato che deciderà della messa in esecuzione del nuovo mandato. All’avviso di conformità giuridica, pronunciato dopo un’approfondita analisi e dibattito contraddittorio del caso, per lasciare la decisone finale all’autorità politica, il nuovo progetto oppone una semplice verifica dell’identità della persona e della regolarità formale del mandato. I mezzi di ricorso vegono soppressi, riducendo al minimo i margini di valutazione giuridica ed esautorando quelli d’opportunità politica.
Tutto ciò non avviene in presenza di uno Stato unico europeo, il che renderebbe logica una tale innovazione procedurale ma di una coesistenza di Stati sovrani che, contrariamente a quanto afferma la critica sovranista, non subiscono una alienazione di parti della loro sovranità nazionale. In realtà, la creazione di uno spazio giudiziario comune non è altro che la cessione di una parte della sovranità interna a discapito delle garanzie individuali. Questa perdita è compensata dalla estensione della sovranità esterna, consentita dalla esecuzione dei suoi atti di giustizia sull’intero territorio dell’Unione.

Link
Agamben, L’exception permanente
Agamben, Lo Stato d’eccezione
La giudiziarizzazione dell’eccezione 1
La giudiziarizzazione dell’eccezione 2
Il caso italiano, lo Stato di eccezione giudiziario
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