Grenoble, vince il bossnapping. La Caterpillar cede e non chiude gli stabilimenti

Una vertenza modello quella dei lavoratori della Caterpillar. Forme innovative di lotta, fantasia, audacia e determinazione. L’esempio si espande. A Edf-Gdf i lavoratori dell’energia riprendono gli insegnamenti di Emile Pouget, l’autore di un piccolo opuscolo scritto nei primi anni del Novecento, frutto del lavoro della commissione sabotage della Cgt: regalano corrente alle famiglie meno abienti e lasciano al buio i decisori, ministeri, uffici, banche, sedi sociali di grandi imprese, per «farsi vedere meglio»

Paolo Persichetti
Liberazione 21 aprile 2009

1409LD1
La lotta senza remore paga. Lo dimostra una volta di più la vicenda dei lavoratori della Caterpillar di Grenoble e Echirolles che, dopo due mesi di mobilitazione e un clamoroso bossnapping del direttore e tre altri dirigenti del gruppo, realizzato il 31 marzo scorso, hanno strappato domenica un accordo alla multinazionale americana. I due siti francesi non saranno chiusi. Al contrario nell’accordo si parla di nuovi investimenti. I posti soppressi scendono da 733 a 600. La riduzione del tempo di lavoro dovrebbe ulteriormente alleggerire i tagli di personale. Per evitare che si trasformino in licenziamenti secchi saranno accompagnati da maggiori incentivi in denaro, prepensionamenti per i più anziani e corsi di formazione con mantenimento del salario, finanziati dalla regione Rhône-Alpes, per chi verrà ricollocato altrove. Insomma un vasto impiego d’ammortizzatori sociali (l’azienda già faceva uso della cassa integrazione) consentirà una uscita dalla crisi. Un preliminare del negoziato era stato il ritiro delle misure disciplinari prese contro 8 operai che avevano partecipato ai picchetti davanti alla fabbrica. Nelle prossime ore il protocollo d’accordo sarà sottoposto a referendum. Una vertenza modello quella della Caterpillar. Da soli e contro tutti, con un vasto ventaglio d’azioni, che hanno dato largo sfogo alla fantasia e all’audacia, i lavoratori hanno imposto la trattativa, conquistato visibilità mediatica e consenso sociale, strappato risultati ai vertici di un’azienda che avevano deciso di trasferire la produzione all’estero. Per questo il modello si espande e assume nuove forme, come regalare corrente alle famiglie povere e fare il buio nei ministeri per «farsi vedere meglio». A Edf-Gdf applicano alla lettera il libro di Emile Pouget, Le sabotage.

Link
Bossnapping, una storia che viene da lontano
Bossnapping nuova arma sociale dei lavoratori
Bruxelles,manager Fiat trattenuti dagli operai in una filiale per 5 ore
F
rancia, altri manager sequestrati e poi liberati
Francia, padroni assediati torna l’insubordinazione operaia
Rabbia populista o nuova lotta di classe
Francia, sciopero generale contro la crisi
S
ciopero generale, giovedi 29 gennaio la Francia si è fermata
Francia, tre milioni contro Sarko e padroni

Bossnapping, nuova arma sociale dei lavoratori

Gerarchie d’impresa costrette a misurarsi con la trattativa forzata imposta dai lavoratori in lotta. È finita l’epopea dei golden boys e degli yuppie. Per far fronte allo stess dei manager pronto un kit antisequestro

Paolo Persichetti
Liberazione 11 aprile 2009

Brutti tempi per le gerarchie d’impresa chiamate a confrontarsi con un nuovo fenomeno chiamato bossnapping, «La nuova arma sociale dei lavoratori», scrive il quotidiano francese Libération. L’obbligo di non alzarsi più dal tavolo e uscire dagli uffici delle direzioni aziendali fintantoché non si è pervenuti ad un accordo accettabile. Davvero brutte nottate in bianco attendono i Patrons. La sensazione è che la crisi attuale abbia fatto girare il vento. È finita la pacchia. L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. I manager sono sotto stress. continental_scioperofuocoFa di nuovo capolino la «grande paura», quella raccontata da Cesare Romiti in un libro di Gianpaolo Pansa, vera e propria autobiografia del ceto imprenditoriale italiano degli anni 70. Per fare fronte a questo trauma, un avvocato francese esperto di diritto e relazioni sociali, Sylvain Niel, ha preparato un piccolo manuale, pubblicato dal quotidiano economico la Tribune. Nell’opuscolo, l’esperto dispensa ai manager una decina di consigli «anti sequestro», per «evitare di cadere in trappola durante una trattativa» e su come comportarsi in caso di sequestro.

Azioni legittime
Azioni legittime o azioni illegali? Il ricorso al bossnapping, cioè alla «trattativa forzata» da parte degli operai quando le aziende rifiutano di negoziare i piani di crisi, oppure nemmeno accettano di sedere al tavolo delle trattative comunicando semplicemente la lista dei dipendenti licenziati, fa discutere non solo la Francia.
Va detto subito che fino a questo momento si è trattato di un modello di lotta che oltre a riscontrare consenso nell’opinione pubblica è risultato “pagante”, come ha dimostrato fino ad ora l’esperienza concreta, seppur attuato in un contesto ultradifensivo che mira unicamente a ridurre i danni. Alla Caterpillar di Grenoble sembra che l’azienda abbia rinunciato a licenziare, garantendo l’apertura della fabbrica per altri tre anni nella speranza che intervenga un nuovo ciclo espansivo. In altri siti, gli operai hanno ottenuto migliori indennità di licenziamento, ammortizzatori sociali, riducendo anche l’attacco portato ai livelli occupazionali.
Questo repertorio d’azione – come viene definito dal linguaggio asettico dei sociologi del conflitto che cercano di fotografare i comportamenti sociali senza caricarli di giudizi di valore -, comincia ad estendersi altrove seguendo un classico dispositivo d’emulazione. È arrivato in Belgio mercoledì scorso, dove tre manager Fiat sono rimasti bloccati per 5 ore negli uffici di una filiale commerciale di Bruxelles. C’è stato per l’ennesima volta in Francia, dove i dipendenti di Faurecia, azienda dell’indotto automobilistico filiale del gruppo Psa Peugeot Citroen, giovedì sera hanno bloccato per 5 ore tre quadri dirigenti del gruppo. In questo caso il bossnapping messo in pratica dai dipendenti ha assunto una valenza ancora più significativa perché il sito è costituito essenzialmente da uffici di un centro studi, dove le maestranze (circa mille) sono in prevalenza “colletti bianchi”, ingegneri, tecnici e amministrativi. Ciò vuol dire che il ricorso a pratiche di lotta radicale non è solo patrimonio della classe operai ma guadagna anche i ceti medi colpiti dalla crisi. Un blocco di manager nei loro uffici c’è anche stato in italia, alla Benetton di Piobesi, il 25 febbraio scorso, ma è passato sotto silenzio.
«Si tratta di azioni sindacali coordinate e organizzate assolutamente non paragonabili a dei sequestri», ha spiegato dalla Francia il segretario della Cgt, Bernard Thibault, che ha giustificato il ricorso a queste forme d’azione «fintantoché non producono rischi fisici sui dirigenti d’impresa». Azioni più che legittime dunque, capaci d’attirare per la loro alta simbolicità «microfoni e telecamere», se è vero che cortei, scioperi e picchetti non sono più sufficienti per costringere il padronato a trattare.

Conflitto negoziato
Il succo del ragionamento è semplice: quando le gerarchie aziendali fanno orecchie da mercante, pensando d’imporre il loro punto di vista senza ascoltare quello della controparte operaia, occorre imporre loro la trattativa. Lì dove non c’è negoziato si apre allora uno spazio di conflitto ulteriore. È il «conflitto negoziato» che in Francia, a differenza dell’Italia, non ha mai perso agibilità politica e sociale. Le azioni «coups de poing» (colpo di mano), non appartengono solo al repertorio d’azione della Cgt, ma sono condivise oltre che da altri sindacati collocati sul fronte della sinistra radicale e anticapitalista, come le coordinazioni e Sud, anche dalle associazioni rurali, dei contadini, pescatori e camionisti, spesso bacini elettorali delle forze moderate.

Embrioni di autonomia operaia
Oltralpe la tradizione corporativa del conflitto ha mantenuto sempre piena legittimità. Fintantoché non vengono percepite come un attacco politico alla sicurezza dello Stato, queste forme d’azione collettiva sono ritenute domande sociali a cui la politica è chiamata a dare risposte. Semmai in quel che accade oggi emerge un forte deficit delle forze politiche della sinistra incapaci di fornire rappresentanza. Queste lotte difensive hanno il sapore di embrioni vitali di autonomia operaia. La sensazione è che la crisi attuale abbia fatto girare il vento. L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. I manager sono sotto stress. Per fare fronte a questo trauma, un avvocato francese esperto di diritto e relazioni sociali, Sylvain Niel, ha preparato un piccolo manuale, pubblicato dal quotidiano economico la Tribune. Nell’opuscolo, l’esperto dispensa ai manager una decina di consigli «anti sequestro», per «evitare di cadere in trappola durante una trattativa» e su come comportarsi in caso di sequestro.
A leggerlo sembra una presa in giro, ma è tutto vero. Prima regola: conservare un «kit di sopravvivenza», un telefono cellulare di scorta con numero criptato e recapiti d’emergenza (polizia, famiglia), trousse per la toilette, cambio di biancheria nel caso si dovesse passare la notte in ufficio. Ma, suggerisce l’esperto, «è meglio prevenire» per non finire come quel responsabile del personale di un’azienda che si vide costretto ad uscire disteso in una bara dalla sala in cui era “ospitato” . Fondamentale allora è «una stima del rischio di ammutinamento contro la direzione», «individuare sempre i leader della protesta», «non andare mai da soli a negoziare con le parti sociali, ricorrere sempre ad un mediatore». Infine, se dovesse andare male «accettare tutte le richieste dei dipendenti perché gli impegni presi sotto costrizione non hanno valore giuridico».
Manca però la cosa essenziale, qualche buon libro di filosofia capace di aprire la testa dei manager per dare aria alle loro anguste visioni culturali nutrite solo di manuali sulla gestione delle risorse umane, la performatività delle prestazioni, l’economia aziendale. Magari Discours sur l’inégalité parmi les hommes di Jean-Jacques Rousseau e il primo libro del Capitale del dottor Marx, così tanto per cominciare.

Sullo stesso argomento
Bossnapping, una storia che viene da lontano
Grenoble, vince il bossnapping. La Caterpillar cede e non chiude gli stabilimenti
Bruxelles, manager Fiat trattenuti dagli operai in una filiale per 5 ore
Francia, altri manager sequestrati e poi liberati
Francia, padroni assediati torna l’insubordinazione operaia
Rabbia populista o nuova lotta di classe?
Francia, sciopero generale contro la crisi
Sciopero generale, giovedi 29 gennaio la Francia si è fermata
Francia, tre milioni contro Sarko e padroni

Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo

Il mandato d’arresto europeo e la riformulazione estensiva dell’infrazione di terrorismo

Paolo Persichetti
L’Humanité 10 ottobre 2001

«Uno spazio giudiziario europeo»! Ecco la soluzione per ogni problema, il rimedio contro i mali del XXI° secolo: «terrorismo planetario», insicurezza bandiera_europa001_2 crescente, invasione delle popolazioni senza risorse. Lotta senza quartiere contro il crimine, tolleranza zero, giudiziarizzazione sempre più estesa della vita sociale e politica, ma legge ed ordine possono arrivare a dominare queste nuove contraddizioni e sfide? O al contrario siamo di fronte ad una cinica panoplia di argomenti che fanno della paura, dell’angoscia e dell’ansia, dei nuovi ingredienti del mercato politico? Dispositivi ansiongeni, deliri sicuritari, demagogia giudiziaria, non rischiano forse di rivolgersi contro i loro promotori al pari di una medicina che uccide il malato?
Una nuova tappa è stata raggiunta con la proposta del mandato d’arresto europeo, accompagnato da un progetto di riformulazione estensiva dell’infrazione di terrorismo. Un colpo di acceleratore è venuto nel momento in cui l’enorme breccia aperta nelle mura del Pentagono e le rovine fumanti delle Twin Towers ricordano bruscamente che la storia non è affatto finita sotto le rovine del muro di Berlino. Una congiuntura che i sostenitori dello spazio giudiziario europeo cercano di volgere a loro vantaggio profittando della drammatizzazione. In realtà, il mandato d’arresto europeo è la conclusione di un processo avviato da diverso tempo. Non sorge certo dalle necessità del momento. Lungamente riflettuto, questo progetto si è sempre confrontato all’assenza di un fondamento giuridico-costituzionale e a delle forti perplessità politiche. arresto-manette-001
Innanzitutto, che cosa è mai lo «spazio giudiziario europeo»? Uno spazio costituzionale unificato, dotato di pesi e contrappesi omogenei, di un sistema giuridico coerente, di una polizia unica, di criteri di formazione della prova identici? No! L’Europa, non ha nemmeno ancora assunto lo statuto di persona giuridica. L’Unione europea, non può firmare in quanto tale le convenzioni e i trattati internazionali. Sono i quindici che firmano, uno per uno. Di cosa parliamo dunque?
Vista da un altro continente, l’Europa appare uno spazio economico, finanziario e monetario, che cerca di accordarsi sul piano legislativo attraverso il principio di sussidiarità. L’Europa politica è un nano, l’Europa militare balbetta, quanto all’Europa sociale essa è uno spettro (che s’aggira per i suoi Palazzi). L’Europa è un fantasma costituzionale e lo spazio giudiziario un inganno, il luogo dell’arbitrario puro.
La nozione di «mutuo riconoscimento» degli atti di giustizia, sentenze e mandati di arresto, è il fragile rimedio trovato per aggirare la sovranità degli Stati ancora in vigore. Gli Stati nazionali sono ancora là: non sono stati aboliti, né abbattuti né sorpassati. La tecnostruttura di Bruxelles ha escogitato una scorciatoia che nasconde in realtà una cultura profondamente antigiuridica e anticostituzionale. Non si tratta di una «rivoluzione copernicana», come è stato scritto, al contrario siamo di fronte al compimento di una vera controriforma.
Il mutuo riconoscimento, infatti, non tiene conto delle asimmetrie giudiziarie presenti negli Stati membri: differenze tra rito accusatorio, semi-accusatorio e istruttorio; diversità di procedura; qualificazione a geometria variabile delle infrazioni e della entità delle pene incorse; presenza o assenza dell’obbligo dell’azione penale; diversa valutazione del valore della parola dei pentiti, ecc.
In nessun momento queste diversità sono state prese in conto come invece ancora accade nelle attuali procedure di estradizione. Non solo ma il muto riconoscimento, nella forma in cui esso è stato presentato nella «proposta di decisone quadro», infrange la regola della non retroattività delle norme (nullum crimen sine lege). Non è un problema di fiducia o sfiducia reciproca tra paesi membri. Il diritto racchiude dei rapporti sociali, è dunque una questione di regole, di diritti acquisiti, di garanzie che esprimono il livello di civiltà e di mediazione che esiste all’interno di ogni singolo paese. La lista d’eccezione (art. 27) è un palliativo che ha l’obiettivo di sostituire la regola della «doppia incriminazione». Non è sufficiente che una infrazione sia punita in entrambi i paesi perché vi sia il riconoscimento della richiesta di estradizione. Occorre anche che ci sia conformità nella qualificazione del reato, poiché in alcuni paesi europei (e in Italia in modo particolare) esistono delle legislazioni penali speciali che raddoppiano, se non addirittura moltiplicano, le qualificazioni, col fine dichiarato di perseguire le finalità politiche delle condotte ritenute illegali.
La sovrapposizione tra mandato d’arresto europeo ed estensione della infrazione di terrorismo ha come obiettivo di seppellire definitivamente anche il black-bloc riconoscimento residuale della natura politica di alcune infrazioni. Due di queste nuove qualificazioni (esse sono state riassunte in tredici punti) attirano in modo particolare l’attenzione: «la cattura illecita d’istallazioni statali o governative, di mezzi di trasporto pubblico, d’infrastrutture, di luoghi pubblici e di beni o il danneggiamento che possono loro essere causati», punto (f); e «la realizzazione d’attentati che perturbino un sistema d’informazione», punto (j).
L’espressione «cattura illecita», che nella formulazione in lingua francese del testo della commissione intrattiene ancora qualche ambiguità, in realtà è da intendersi chiaramente nel senso di «occupazione», come recita senza mezzi termini la versione italiana. Essa, dunque, non offre alcun dubbio su quali siano i reali comportamenti illegali presi di mira. Il legislatore non pensa qui di limitare la portata della norma al caso di un attacco manu militari di un commando terrorista contro istallazioni istituzionali, ma vuole estenderla a pratiche sociali e di massa come l’eventuale occupazione nel corso di manifestazioni o scioperi di scuole, stazioni, uffici pubblici. Il riferimento implicito ai movimenti che hanno partecipato alle mobilitazioni di Seattle, Göteborg, Genova, fa chiaramente parte dei retropensieri dei redattori del testo, i quali non si nascondono affatto quando suggeriscono senza particolari pudori che «ciò potrebbe riguardare atti di violenza urbana, per esempio».
Ogni occupazione di immobili appartenenti a società pubbliche, ogni azione di gruppi di disoccupati, precari, immigrati che occupano le prefetture per rivendicare la loro regolarizzazione, i tradizionali «colpi di mano» dei 6_g sindacalisti della Cgt o le azioni di disobbedienza civile della confederazione paesana di José Bové, come la distruzione di coltivazioni di Ogm, i raids dei portuali o delle coordinazioni rurali e dei cacciatori; tutti costoro avrebbero già largamente commesso azioni da considerare, secondo i nuovi criteri, degli «atti terroristici», al pari dei cattivi per antonomasia, i militanti che di volta in volta si raccolgono nel famoso Black bloc.
Falso! Ribattono alcuni che ricordano come la qualificazione di un atto terrorista subentri unicamente quando si è di fronte alla presenza congiunta di un elemento materiale (l’atto illecito) e di un elemento intenzionale (la volontà politica sovversiva). Ma la volontà può essere l’oggetto d’interpretazioni fin troppo libere e soggettive e tutto ciò applicato a delle aree sociali d’opposizione, dissidenti o situate spesso ai confini delle norme costituite, può ingenerare nella magistratura e nelle forze di polizia la tentazione di liquidare fastidiosi fenomeni di contestazione e protesta sociale e politica, causando enormi danni alla tutela dello spazio di espressione democratica.
Questa obiezione tuttavia resta di grande utilità poiché senza grandi infingimenti designa il momento volitivo-intenzionale come il passaggio qualificante dell’atto terroristico. Innovazione per nulla scontata, poiché in passato la nozione di terrorismo non era mai uscita ad emanciparsi dal suo sostanziale carattere aporetico e strumentale. Nei trattati internazionali si erano tentate alcune caute definizioni che fondamentalmente si attenevano alle modalità fenomenologiche delle azioni compiute, caratterizzate per il ricorso ad una sostanziale iperviolenza indirizzata contro civili. I moventi, politici o religiosi, erano rimasti sempre fuori dai tentativi di definizione, al contrario di quanto invece si afferma nei codici penali di alcuni paesi, come l’Italia, dove la qualificazione investe atti e intenti di sovversione dell’ordinamento democratico, successivamente corretto con costituzionale e presente nel 270 bis cp vecchia formula, o nel 280 cp, e attraverso l’introduzione di una aggravante specificata, che si sono aggiunte a definizioni di infrazione politica ereditate dal legislature fascista come la canonica formulazione contenuta all’interno dell’art. 270 del codice penale, dove viene chiamata in causa la sovversione violenta di una classe sociale o degli ordinamenti economico o sociali costituiti nello Stato.
Allo stesso modo nei manuali di alcune strutture operative americane, come l’Fbi, il Pentagono, prendevano apertamente in considerazione le finalità politiche antigovernative, o introducevano distinzioni tra popolazione civile e militare, intendendo per civile anche militari in borghese, o in situazioni non belligeranti. boxshot
L’estensione del significato di atto terrorista proposta nella decisione quadro della commissione europea non deriva più dalla semplice realizzazione degli atti illegali in sé, che trova già un ampio sanzionamento come infrazione di diritto comune in tutti i codici dei paesi membri, ma dalla sua eventuale giustificazione ideologica, addirittura non solo rivendicata ma attribuita o presunta. È dunque in primo luogo questo elemento ideologico, culturale, mentale, politico e non materiale, ad essere specificamente punito. Negate a suo tempo, secondo quell’assurda finzione che vorrebbe le democrazie esenti dalla presenza dell’inimicizia politica, che per questo viene depoliticizzata e relegata a semplice illegalità criminale, le infrazioni politiche vengono ripescate sotto una veste ipercriminalizzata.
Non finisce qui. Il riferimento alla «occupazione di luoghi pubblici e di beni o il danneggiamento che possono loro essere causati», alla stessa maniera delle azioni di pirataggio informatico (poiché a questi comportamenti si rivolge il punto j), lascia cadere definitivamente ogni velo d’ipocrisia morale. Oramai ogni attacco condotto contro la proprietà, i beni, mobili o immobili, materiali o immateriali, rappresenta una infrazione di tipo terrorista. L’argomento etico, che in passato fondava il ricorso allo stigma terrorista per ogni atto che avesse leso la tutela della integrità della vita umana, è rimpiazzato dal riconoscimento dell’unico valore supremo da proteggere: l’etica del capitale.
Non è un sistema giudiziario sopranazionale o extra-nazionale quello che sta nascendo a scala europea, con dei pesi e contrappesi omogenei, ma una semplice estensione della sovranità giudiziaria di ogni Stato membro. Il tutto chiaramente a discapito delle garanzie personali dei cittadini dell’Unione. Un grande pregiudizio investe le libertà individuali e pubbliche che perdono, con il superamento delle procedure di estradizione, un luogo «terzo» che aveva funzione di garantire i diritti della persona domandata dallo Stato richiedente.
In nessun modo dunque è possibile sostenere l’equazione tra il ruolo svolto dalle vecchie chambres d’accusations e le funzioni marginali attribuite al magistrato che deciderà della messa in esecuzione del nuovo mandato. All’avviso di conformità giuridica, pronunciato dopo un’approfondita analisi e dibattito contraddittorio del caso, per lasciare la decisone finale all’autorità politica, il nuovo progetto oppone una semplice verifica dell’identità della persona e della regolarità formale del mandato. I mezzi di ricorso vegono soppressi, riducendo al minimo i margini di valutazione giuridica ed esautorando quelli d’opportunità politica.
Tutto ciò non avviene in presenza di uno Stato unico europeo, il che renderebbe logica una tale innovazione procedurale ma di una coesistenza di Stati sovrani che, contrariamente a quanto afferma la critica sovranista, non subiscono una alienazione di parti della loro sovranità nazionale. In realtà, la creazione di uno spazio giudiziario comune non è altro che la cessione di una parte della sovranità interna a discapito delle garanzie individuali. Questa perdita è compensata dalla estensione della sovranità esterna, consentita dalla esecuzione dei suoi atti di giustizia sull’intero territorio dell’Unione.

Link
Agamben, L’exception permanente
Agamben, Lo Stato d’eccezione
La giudiziarizzazione dell’eccezione 1
La giudiziarizzazione dell’eccezione 2
Il caso italiano, lo Stato di eccezione giudiziario
Agamben, Europe des libertes ou europe des polices?

Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu

La fine dell’asilo politico
Garapon, L’utopia moralizzatrice della giustizia internazionale
Carcere, gli spettri del 41-bis
Dopo la legge Gozzini tocca al 41-bis, giro di vite sui detenuti
Tarso Gendro, “l’Italia è ancora chiusa negli anni di piombo”
Brasile, stralci della decisione del ministro della giustizia Tarso Gendro