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Amnistia sociale
di Vincenzo Guagliardo
il manifesto 6 agosto 2013
E’ evidente che, già di per sé, “oggettivamente”, la proposta di indulto-amnistia “sociale” né potrebbe né – credo – voglia sancire la fine di un’epoca o l’oltrepassamento di un cosiddetto ciclo di lotte. E’ vero semmai l’esatto contrario: segna l’esigenza sentita da più parti, anche molto diverse tra loro, di resistere a qualcosa di nuovo: la pervasività del sistema penale eretta contro ogni manifestazione del conflitto sociale. Questa tendenza arriva ormai a delle esagerazioni caricaturali (ma pure inquietanti, e gravi per chi le deve subire), come quella savoiarda di voler accusare addirittura di terrorismo il movimento No Tav in Val di Susa.
Decenni fa il movimento operaio lottava per pane, lavoro e minor fatica. Alla lotta poteva seguire o meno la repressione secondo i rapporti di forza esistenti. Oggi invece ogni lotta trova a priori un ostacolo di possibile rilievo penale (e di tipo inquisitoriale). Deve fare i conti con una nuova realtà sapientemente (o ciecamente?) costruita negli ultimi tre decenni passo dopo passo, di emergenza in emergenza, da quella contro il “terrorista” a quella contro il lavavetri dichiarata da qualche sindaco-sceriffo.
Le democrazie occidentali rivelano una tendenza “totalitaria” che non può più essere ignorata: da un lato c’è gente in galera da oltre trent’anni e dall’altro c’è gente che è “illegale” per il fatto stesso di esistere grazie a leggi che la privano del permesso di soggiorno. In mezzo a questi due poli, e fra mille gradazioni diverse, può ormai ritrovarsi ognuno.
E ora vediamo in quale cornice stanno questi due poli estremi: nella sua specificità, il caso italiano suscita attenzione persino a livello europeo. Segnali simbolicamente forti sono arrivati dal Vaticano che ha abolito l’ergastolo e riconosciuto la tortura come reato, e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo.
E’ importante sottolineare di nuovo che l’ondata repressiva al livello sociale non avviene come repressione “a valle” di episodi signicativi di lotta violenta, ma “a monte”, quale modello di controrivoluzione preventiva offerto come politica principale – per non dire unica – nei confronti del variegato e frammentatissimo proletariato attuale. (Il “resto” è espropriazione di reddito dei poveri a favore dei ricchissimi). Perciò se prima eravamo nell’epoca del “pane e lavoro”, ora siamo in quella di “pane, lavoro e libertà”, da subito, e non “dopo”.
Diritto di manifestare, fine dell’ergastolo e no alla tortura saranno necessariamente la nuova cornice, accanto alle lotte sul lavoro e per il reddito, entro cui dovrà resistere il proletariato attuale contro la propria frammentazione e le drammatiche corporativizzazioni che possono derivarne. Sarà l’inizio di un lungo, nuovo e difficile processo storico e non il sereno suggello di un passato. Sarà il mezzo con cui costruire una grande unità oggi ancora lontana.
E non potrà essere solo una piattaforma rivendicativa: richiede ovviamente un impegno personale che vada al di là del manifestare per chiedere il diritto di manifestare.
La tendenza “totalitaria” infatti è tale perché cancella la differenza tra diritto privato e diritto pubblico. Vuole attentare alla stessa volontà dell’individuo, la vuole sostituire con la norma dell’autorità in ogni piega. Il premio ha sostituito il diritto. L’individuo non è più un “cittadino” ma un suddito o, meglio, un malato da curare da se stesso. E’ così che le aule di giustizia sono diventate un mercato (delle coscienze) attraverso nuovi riti come il “patteggiamento” e il “rito abbreviato” dove alcuni avvocati si prestano ormai a rinunciare al loro ruolo classico di difensori dell’imputato per ridursi a portaborse del pm Difficilmente la resistenza qui indicata andrà avanti se non saprà sottrarsi a questi riti e difendere invece le proprie ragioni dalla logica di mercato applicata alle idee.
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Paolo Persichetti
L’Humanité 10 ottobre 2001
«Uno spazio giudiziario europeo»! Ecco la soluzione per ogni problema, il rimedio contro i mali del XXI° secolo: «terrorismo planetario», insicurezza crescente, invasione delle popolazioni senza risorse. Lotta senza quartiere contro il crimine, tolleranza zero, giudiziarizzazione sempre più estesa della vita sociale e politica, ma legge ed ordine possono arrivare a dominare queste nuove contraddizioni e sfide? O al contrario siamo di fronte ad una cinica panoplia di argomenti che fanno della paura, dell’angoscia e dell’ansia, dei nuovi ingredienti del mercato politico? Dispositivi ansiongeni, deliri sicuritari, demagogia giudiziaria, non rischiano forse di rivolgersi contro i loro promotori al pari di una medicina che uccide il malato?
Una nuova tappa è stata raggiunta con la proposta del mandato d’arresto europeo, accompagnato da un progetto di riformulazione estensiva dell’infrazione di terrorismo. Un colpo di acceleratore è venuto nel momento in cui l’enorme breccia aperta nelle mura del Pentagono e le rovine fumanti delle Twin Towers ricordano bruscamente che la storia non è affatto finita sotto le rovine del muro di Berlino. Una congiuntura che i sostenitori dello spazio giudiziario europeo cercano di volgere a loro vantaggio profittando della drammatizzazione. In realtà, il mandato d’arresto europeo è la conclusione di un processo avviato da diverso tempo. Non sorge certo dalle necessità del momento. Lungamente riflettuto, questo progetto si è sempre confrontato all’assenza di un fondamento giuridico-costituzionale e a delle forti perplessità politiche.
Innanzitutto, che cosa è mai lo «spazio giudiziario europeo»? Uno spazio costituzionale unificato, dotato di pesi e contrappesi omogenei, di un sistema giuridico coerente, di una polizia unica, di criteri di formazione della prova identici? No! L’Europa, non ha nemmeno ancora assunto lo statuto di persona giuridica. L’Unione europea, non può firmare in quanto tale le convenzioni e i trattati internazionali. Sono i quindici che firmano, uno per uno. Di cosa parliamo dunque?
Vista da un altro continente, l’Europa appare uno spazio economico, finanziario e monetario, che cerca di accordarsi sul piano legislativo attraverso il principio di sussidiarità. L’Europa politica è un nano, l’Europa militare balbetta, quanto all’Europa sociale essa è uno spettro (che s’aggira per i suoi Palazzi). L’Europa è un fantasma costituzionale e lo spazio giudiziario un inganno, il luogo dell’arbitrario puro.
La nozione di «mutuo riconoscimento» degli atti di giustizia, sentenze e mandati di arresto, è il fragile rimedio trovato per aggirare la sovranità degli Stati ancora in vigore. Gli Stati nazionali sono ancora là: non sono stati aboliti, né abbattuti né sorpassati. La tecnostruttura di Bruxelles ha escogitato una scorciatoia che nasconde in realtà una cultura profondamente antigiuridica e anticostituzionale. Non si tratta di una «rivoluzione copernicana», come è stato scritto, al contrario siamo di fronte al compimento di una vera controriforma.
Il mutuo riconoscimento, infatti, non tiene conto delle asimmetrie giudiziarie presenti negli Stati membri: differenze tra rito accusatorio, semi-accusatorio e istruttorio; diversità di procedura; qualificazione a geometria variabile delle infrazioni e della entità delle pene incorse; presenza o assenza dell’obbligo dell’azione penale; diversa valutazione del valore della parola dei pentiti, ecc.
In nessun momento queste diversità sono state prese in conto come invece ancora accade nelle attuali procedure di estradizione. Non solo ma il muto riconoscimento, nella forma in cui esso è stato presentato nella «proposta di decisone quadro», infrange la regola della non retroattività delle norme (nullum crimen sine lege). Non è un problema di fiducia o sfiducia reciproca tra paesi membri. Il diritto racchiude dei rapporti sociali, è dunque una questione di regole, di diritti acquisiti, di garanzie che esprimono il livello di civiltà e di mediazione che esiste all’interno di ogni singolo paese. La lista d’eccezione (art. 27) è un palliativo che ha l’obiettivo di sostituire la regola della «doppia incriminazione». Non è sufficiente che una infrazione sia punita in entrambi i paesi perché vi sia il riconoscimento della richiesta di estradizione. Occorre anche che ci sia conformità nella qualificazione del reato, poiché in alcuni paesi europei (e in Italia in modo particolare) esistono delle legislazioni penali speciali che raddoppiano, se non addirittura moltiplicano, le qualificazioni, col fine dichiarato di perseguire le finalità politiche delle condotte ritenute illegali.
La sovrapposizione tra mandato d’arresto europeo ed estensione della infrazione di terrorismo ha come obiettivo di seppellire definitivamente anche il riconoscimento residuale della natura politica di alcune infrazioni. Due di queste nuove qualificazioni (esse sono state riassunte in tredici punti) attirano in modo particolare l’attenzione: «la cattura illecita d’istallazioni statali o governative, di mezzi di trasporto pubblico, d’infrastrutture, di luoghi pubblici e di beni o il danneggiamento che possono loro essere causati», punto (f); e «la realizzazione d’attentati che perturbino un sistema d’informazione», punto (j).
L’espressione «cattura illecita», che nella formulazione in lingua francese del testo della commissione intrattiene ancora qualche ambiguità, in realtà è da intendersi chiaramente nel senso di «occupazione», come recita senza mezzi termini la versione italiana. Essa, dunque, non offre alcun dubbio su quali siano i reali comportamenti illegali presi di mira. Il legislatore non pensa qui di limitare la portata della norma al caso di un attacco manu militari di un commando terrorista contro istallazioni istituzionali, ma vuole estenderla a pratiche sociali e di massa come l’eventuale occupazione nel corso di manifestazioni o scioperi di scuole, stazioni, uffici pubblici. Il riferimento implicito ai movimenti che hanno partecipato alle mobilitazioni di Seattle, Göteborg, Genova, fa chiaramente parte dei retropensieri dei redattori del testo, i quali non si nascondono affatto quando suggeriscono senza particolari pudori che «ciò potrebbe riguardare atti di violenza urbana, per esempio».
Ogni occupazione di immobili appartenenti a società pubbliche, ogni azione di gruppi di disoccupati, precari, immigrati che occupano le prefetture per rivendicare la loro regolarizzazione, i tradizionali «colpi di mano» dei sindacalisti della Cgt o le azioni di disobbedienza civile della confederazione paesana di José Bové, come la distruzione di coltivazioni di Ogm, i raids dei portuali o delle coordinazioni rurali e dei cacciatori; tutti costoro avrebbero già largamente commesso azioni da considerare, secondo i nuovi criteri, degli «atti terroristici», al pari dei cattivi per antonomasia, i militanti che di volta in volta si raccolgono nel famoso Black bloc.
Falso! Ribattono alcuni che ricordano come la qualificazione di un atto terrorista subentri unicamente quando si è di fronte alla presenza congiunta di un elemento materiale (l’atto illecito) e di un elemento intenzionale (la volontà politica sovversiva). Ma la volontà può essere l’oggetto d’interpretazioni fin troppo libere e soggettive e tutto ciò applicato a delle aree sociali d’opposizione, dissidenti o situate spesso ai confini delle norme costituite, può ingenerare nella magistratura e nelle forze di polizia la tentazione di liquidare fastidiosi fenomeni di contestazione e protesta sociale e politica, causando enormi danni alla tutela dello spazio di espressione democratica.
Questa obiezione tuttavia resta di grande utilità poiché senza grandi infingimenti designa il momento volitivo-intenzionale come il passaggio qualificante dell’atto terroristico. Innovazione per nulla scontata, poiché in passato la nozione di terrorismo non era mai uscita ad emanciparsi dal suo sostanziale carattere aporetico e strumentale. Nei trattati internazionali si erano tentate alcune caute definizioni che fondamentalmente si attenevano alle modalità fenomenologiche delle azioni compiute, caratterizzate per il ricorso ad una sostanziale iperviolenza indirizzata contro civili. I moventi, politici o religiosi, erano rimasti sempre fuori dai tentativi di definizione, al contrario di quanto invece si afferma nei codici penali di alcuni paesi, come l’Italia, dove la qualificazione investe atti e intenti di sovversione dell’ordinamento democratico, successivamente corretto con costituzionale e presente nel 270 bis cp vecchia formula, o nel 280 cp, e attraverso l’introduzione di una aggravante specificata, che si sono aggiunte a definizioni di infrazione politica ereditate dal legislature fascista come la canonica formulazione contenuta all’interno dell’art. 270 del codice penale, dove viene chiamata in causa la sovversione violenta di una classe sociale o degli ordinamenti economico o sociali costituiti nello Stato.
Allo stesso modo nei manuali di alcune strutture operative americane, come l’Fbi, il Pentagono, prendevano apertamente in considerazione le finalità politiche antigovernative, o introducevano distinzioni tra popolazione civile e militare, intendendo per civile anche militari in borghese, o in situazioni non belligeranti.
L’estensione del significato di atto terrorista proposta nella decisione quadro della commissione europea non deriva più dalla semplice realizzazione degli atti illegali in sé, che trova già un ampio sanzionamento come infrazione di diritto comune in tutti i codici dei paesi membri, ma dalla sua eventuale giustificazione ideologica, addirittura non solo rivendicata ma attribuita o presunta. È dunque in primo luogo questo elemento ideologico, culturale, mentale, politico e non materiale, ad essere specificamente punito. Negate a suo tempo, secondo quell’assurda finzione che vorrebbe le democrazie esenti dalla presenza dell’inimicizia politica, che per questo viene depoliticizzata e relegata a semplice illegalità criminale, le infrazioni politiche vengono ripescate sotto una veste ipercriminalizzata.
Non finisce qui. Il riferimento alla «occupazione di luoghi pubblici e di beni o il danneggiamento che possono loro essere causati», alla stessa maniera delle azioni di pirataggio informatico (poiché a questi comportamenti si rivolge il punto j), lascia cadere definitivamente ogni velo d’ipocrisia morale. Oramai ogni attacco condotto contro la proprietà, i beni, mobili o immobili, materiali o immateriali, rappresenta una infrazione di tipo terrorista. L’argomento etico, che in passato fondava il ricorso allo stigma terrorista per ogni atto che avesse leso la tutela della integrità della vita umana, è rimpiazzato dal riconoscimento dell’unico valore supremo da proteggere: l’etica del capitale.
Non è un sistema giudiziario sopranazionale o extra-nazionale quello che sta nascendo a scala europea, con dei pesi e contrappesi omogenei, ma una semplice estensione della sovranità giudiziaria di ogni Stato membro. Il tutto chiaramente a discapito delle garanzie personali dei cittadini dell’Unione. Un grande pregiudizio investe le libertà individuali e pubbliche che perdono, con il superamento delle procedure di estradizione, un luogo «terzo» che aveva funzione di garantire i diritti della persona domandata dallo Stato richiedente.
In nessun modo dunque è possibile sostenere l’equazione tra il ruolo svolto dalle vecchie chambres d’accusations e le funzioni marginali attribuite al magistrato che deciderà della messa in esecuzione del nuovo mandato. All’avviso di conformità giuridica, pronunciato dopo un’approfondita analisi e dibattito contraddittorio del caso, per lasciare la decisone finale all’autorità politica, il nuovo progetto oppone una semplice verifica dell’identità della persona e della regolarità formale del mandato. I mezzi di ricorso vegono soppressi, riducendo al minimo i margini di valutazione giuridica ed esautorando quelli d’opportunità politica.
Tutto ciò non avviene in presenza di uno Stato unico europeo, il che renderebbe logica una tale innovazione procedurale ma di una coesistenza di Stati sovrani che, contrariamente a quanto afferma la critica sovranista, non subiscono una alienazione di parti della loro sovranità nazionale. In realtà, la creazione di uno spazio giudiziario comune non è altro che la cessione di una parte della sovranità interna a discapito delle garanzie individuali. Questa perdita è compensata dalla estensione della sovranità esterna, consentita dalla esecuzione dei suoi atti di giustizia sull’intero territorio dell’Unione.
Link
Agamben, L’exception permanente
Agamben, Lo Stato d’eccezione
La giudiziarizzazione dell’eccezione 1
La giudiziarizzazione dell’eccezione 2
Il caso italiano, lo Stato di eccezione giudiziario
Agamben, Europe des libertes ou europe des polices?
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