Sinistra francese: l’empasse del Pcf

Stallo nel Pcf. Il 34° congresso approva una linea attendista che delude tutte le componenti interne

di Paolo Persichetti, Liberazione 14 dicembre 2008

«Affittasi 450 mq, piazza Colonel-Fabien, primo piano, immobile classificato monumento storico». Si tratta delle sede nazionale del partito comunista francese realizzata nel 1971 dal grande architetto Oscar Nieimeyer. Altri tempi. Dopo aver già affittato, nel luglio scorso, buona parte del secondo piano ad una società di produzione di film d’animazione, la direzione nazionale del Pcf s’appresta a mettere sul mercato anche il primo piano del grande palazzo a vetri situato nel 19° municipio parigino, per fare fronte alle casse vuote di un partito in crisi profonda. Tranquilli però, restano ancora tre piani, oltre a quello interrato, dove un tempo si tenevano le riunioni del comitato centrale e nel quale si trova ancora l’importante archivio storico del partito. Un vero tesoro per storici e ricercatori.p19pcfni01
L’ufficio della segretaria generale Marie-George Buffet, situato al quinto, per il momento non è in pericolo, salvo un improbabile voto contrario espresso dalla platea dei circa mille delegati del 34° congresso che si chiude oggi nel futuristico quartiere della Défense, in una sala congressi due piani sotto la grande Arche , realizzata da Johann Otto von Spreckelsen, architetto danese.
Mai immagine poteva essere più rappresentativa delle condizioni di criticità attraversate da questa forza politica in lento declino che alle ultime presidenziali ha visto il suo candidato toccare il minimo storico con l’1,93%. Satellizzata politicamente dai socialisti sotto la regia di Mitterrand, in ritardo di fronte alle mutazioni della società, rimasta ancorata ad una mentalità «fordista» in una società totalmente diversa, quasi sempre estranea ai nuovi movimenti radicali, incapace di interpretare ciò che ribolle nelle banlieues, che pure spesso governa, e reclutare le nuove figure del proletariato metropolitano, precari e sans pariers, ha visto entrare in crisi il suo modello di compromesso sociale praticato nelle amministrazioni locali. I suoi militanti e il suo elettorato sono invecchiati e ancora troppo “bianchi” in una società che si etnicizza. Il Pcf è entrato in una empasse da cui non riesce a venir fuori. Stretto alla sua sinistra dalla popolarità di Olivier Besancenot e del Nuovo partito anticapitalista, che si candida ad occupare buona parte dello spazio “di protesta”, per smarcarsi dovrebbe radicalizzare la sua posizione rischiando però di compromettere le strategie di alleanza elettorale con i socialisti, rischiando di perdere così gli amministratori locali che _dsc0351costituiscono ancora il nerbo partante della sua forza, della sua visibilità e ragion d’essere.
È questo il dilemma attorno al quale è ruotato il dibattito di questa ultima assise congressuale, apertasi in un clima teso tra polemiche e divisioni. Dei quasi 79 mila aderenti, che al 30 ottobre avevano pagato le quote d’iscrizione acquisendo così il diritto di prender parte al voto, solo 22 mila hanno appoggiato il documento della segretaria uscente. Appena il 25% circa. La metà dei militanti si è astenuta e il 9,22% ha votato scheda bianca. Insomma una candidatura molto debole con una linea “centrista” che tenta di navigare a vista la difficile fase. Nel testo di orientamento denominato «base comune» si riafferma l’utilità del partito e il mantenimento del nome e del suo contenuto ideologico tradizionale, affermando al tempo stesso la volontà di trovare un accordo con le altre forze della sinistra radicale, mantenendo tuttavia l’alleanza in sede locale con il partito socialista. Un po’ tutto e il suo contrario. Allo stato l’unica strategia d’alleanza plausibile sembra quella con il Partito della sinistra di Jean-Luc Mélenchon, una formazione però ancora virtuale che rischia di esser schiacciata dalla sterzata a sinistra impressa al partito socialista, almeno fino alle prossime europee, dalla nuova segreteria Aubry. Proposta che ha trovato insoddisfatte le altre componenti: “ortodossi” e “identitari”, convinti che questa linea sia «troppo flou»; l’ex segretario Robert Hue, sostenitore di un’alleanza organica con i socialisti e che per questo ha lasciato gli incarichi dando vita alla «Nep», Nuovo spazio politico. Infine i “rinnovatori”, la componente dei comunisti unitari che è stata esclusa dai futuri organi dirigenti per la sua decisione di prender parte, durante il congresso, ad un incontro con altre forze della sinistra radicale «per la creazione di una forza politica unitaria, antiliberale e per la trasformazione sociale».
Nonostante le grosse divergenze tra le diverse anime interne, i delegati hanno votato a larga maggioranza (68,7%) il testo d’orientamento presentato da Marie-George Buffet, che dovrebbe essere rieletta segretaria oggi con un mandato temporaneo, inquadrato in una direzione collegiale di sei membri. Hanno votato contro i comunisti unitari, che hanno creato la sorpresa presentando una lista alternativa, e su posizioni opposte gli ortodossi più oltranzisti vicini al deputato di Vénissieux, André Gerin.

Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo

Il mandato d’arresto europeo e la riformulazione estensiva dell’infrazione di terrorismo

Paolo Persichetti
L’Humanité 10 ottobre 2001

«Uno spazio giudiziario europeo»! Ecco la soluzione per ogni problema, il rimedio contro i mali del XXI° secolo: «terrorismo planetario», insicurezza bandiera_europa001_2 crescente, invasione delle popolazioni senza risorse. Lotta senza quartiere contro il crimine, tolleranza zero, giudiziarizzazione sempre più estesa della vita sociale e politica, ma legge ed ordine possono arrivare a dominare queste nuove contraddizioni e sfide? O al contrario siamo di fronte ad una cinica panoplia di argomenti che fanno della paura, dell’angoscia e dell’ansia, dei nuovi ingredienti del mercato politico? Dispositivi ansiongeni, deliri sicuritari, demagogia giudiziaria, non rischiano forse di rivolgersi contro i loro promotori al pari di una medicina che uccide il malato?
Una nuova tappa è stata raggiunta con la proposta del mandato d’arresto europeo, accompagnato da un progetto di riformulazione estensiva dell’infrazione di terrorismo. Un colpo di acceleratore è venuto nel momento in cui l’enorme breccia aperta nelle mura del Pentagono e le rovine fumanti delle Twin Towers ricordano bruscamente che la storia non è affatto finita sotto le rovine del muro di Berlino. Una congiuntura che i sostenitori dello spazio giudiziario europeo cercano di volgere a loro vantaggio profittando della drammatizzazione. In realtà, il mandato d’arresto europeo è la conclusione di un processo avviato da diverso tempo. Non sorge certo dalle necessità del momento. Lungamente riflettuto, questo progetto si è sempre confrontato all’assenza di un fondamento giuridico-costituzionale e a delle forti perplessità politiche. arresto-manette-001
Innanzitutto, che cosa è mai lo «spazio giudiziario europeo»? Uno spazio costituzionale unificato, dotato di pesi e contrappesi omogenei, di un sistema giuridico coerente, di una polizia unica, di criteri di formazione della prova identici? No! L’Europa, non ha nemmeno ancora assunto lo statuto di persona giuridica. L’Unione europea, non può firmare in quanto tale le convenzioni e i trattati internazionali. Sono i quindici che firmano, uno per uno. Di cosa parliamo dunque?
Vista da un altro continente, l’Europa appare uno spazio economico, finanziario e monetario, che cerca di accordarsi sul piano legislativo attraverso il principio di sussidiarità. L’Europa politica è un nano, l’Europa militare balbetta, quanto all’Europa sociale essa è uno spettro (che s’aggira per i suoi Palazzi). L’Europa è un fantasma costituzionale e lo spazio giudiziario un inganno, il luogo dell’arbitrario puro.
La nozione di «mutuo riconoscimento» degli atti di giustizia, sentenze e mandati di arresto, è il fragile rimedio trovato per aggirare la sovranità degli Stati ancora in vigore. Gli Stati nazionali sono ancora là: non sono stati aboliti, né abbattuti né sorpassati. La tecnostruttura di Bruxelles ha escogitato una scorciatoia che nasconde in realtà una cultura profondamente antigiuridica e anticostituzionale. Non si tratta di una «rivoluzione copernicana», come è stato scritto, al contrario siamo di fronte al compimento di una vera controriforma.
Il mutuo riconoscimento, infatti, non tiene conto delle asimmetrie giudiziarie presenti negli Stati membri: differenze tra rito accusatorio, semi-accusatorio e istruttorio; diversità di procedura; qualificazione a geometria variabile delle infrazioni e della entità delle pene incorse; presenza o assenza dell’obbligo dell’azione penale; diversa valutazione del valore della parola dei pentiti, ecc.
In nessun momento queste diversità sono state prese in conto come invece ancora accade nelle attuali procedure di estradizione. Non solo ma il muto riconoscimento, nella forma in cui esso è stato presentato nella «proposta di decisone quadro», infrange la regola della non retroattività delle norme (nullum crimen sine lege). Non è un problema di fiducia o sfiducia reciproca tra paesi membri. Il diritto racchiude dei rapporti sociali, è dunque una questione di regole, di diritti acquisiti, di garanzie che esprimono il livello di civiltà e di mediazione che esiste all’interno di ogni singolo paese. La lista d’eccezione (art. 27) è un palliativo che ha l’obiettivo di sostituire la regola della «doppia incriminazione». Non è sufficiente che una infrazione sia punita in entrambi i paesi perché vi sia il riconoscimento della richiesta di estradizione. Occorre anche che ci sia conformità nella qualificazione del reato, poiché in alcuni paesi europei (e in Italia in modo particolare) esistono delle legislazioni penali speciali che raddoppiano, se non addirittura moltiplicano, le qualificazioni, col fine dichiarato di perseguire le finalità politiche delle condotte ritenute illegali.
La sovrapposizione tra mandato d’arresto europeo ed estensione della infrazione di terrorismo ha come obiettivo di seppellire definitivamente anche il black-bloc riconoscimento residuale della natura politica di alcune infrazioni. Due di queste nuove qualificazioni (esse sono state riassunte in tredici punti) attirano in modo particolare l’attenzione: «la cattura illecita d’istallazioni statali o governative, di mezzi di trasporto pubblico, d’infrastrutture, di luoghi pubblici e di beni o il danneggiamento che possono loro essere causati», punto (f); e «la realizzazione d’attentati che perturbino un sistema d’informazione», punto (j).
L’espressione «cattura illecita», che nella formulazione in lingua francese del testo della commissione intrattiene ancora qualche ambiguità, in realtà è da intendersi chiaramente nel senso di «occupazione», come recita senza mezzi termini la versione italiana. Essa, dunque, non offre alcun dubbio su quali siano i reali comportamenti illegali presi di mira. Il legislatore non pensa qui di limitare la portata della norma al caso di un attacco manu militari di un commando terrorista contro istallazioni istituzionali, ma vuole estenderla a pratiche sociali e di massa come l’eventuale occupazione nel corso di manifestazioni o scioperi di scuole, stazioni, uffici pubblici. Il riferimento implicito ai movimenti che hanno partecipato alle mobilitazioni di Seattle, Göteborg, Genova, fa chiaramente parte dei retropensieri dei redattori del testo, i quali non si nascondono affatto quando suggeriscono senza particolari pudori che «ciò potrebbe riguardare atti di violenza urbana, per esempio».
Ogni occupazione di immobili appartenenti a società pubbliche, ogni azione di gruppi di disoccupati, precari, immigrati che occupano le prefetture per rivendicare la loro regolarizzazione, i tradizionali «colpi di mano» dei 6_g sindacalisti della Cgt o le azioni di disobbedienza civile della confederazione paesana di José Bové, come la distruzione di coltivazioni di Ogm, i raids dei portuali o delle coordinazioni rurali e dei cacciatori; tutti costoro avrebbero già largamente commesso azioni da considerare, secondo i nuovi criteri, degli «atti terroristici», al pari dei cattivi per antonomasia, i militanti che di volta in volta si raccolgono nel famoso Black bloc.
Falso! Ribattono alcuni che ricordano come la qualificazione di un atto terrorista subentri unicamente quando si è di fronte alla presenza congiunta di un elemento materiale (l’atto illecito) e di un elemento intenzionale (la volontà politica sovversiva). Ma la volontà può essere l’oggetto d’interpretazioni fin troppo libere e soggettive e tutto ciò applicato a delle aree sociali d’opposizione, dissidenti o situate spesso ai confini delle norme costituite, può ingenerare nella magistratura e nelle forze di polizia la tentazione di liquidare fastidiosi fenomeni di contestazione e protesta sociale e politica, causando enormi danni alla tutela dello spazio di espressione democratica.
Questa obiezione tuttavia resta di grande utilità poiché senza grandi infingimenti designa il momento volitivo-intenzionale come il passaggio qualificante dell’atto terroristico. Innovazione per nulla scontata, poiché in passato la nozione di terrorismo non era mai uscita ad emanciparsi dal suo sostanziale carattere aporetico e strumentale. Nei trattati internazionali si erano tentate alcune caute definizioni che fondamentalmente si attenevano alle modalità fenomenologiche delle azioni compiute, caratterizzate per il ricorso ad una sostanziale iperviolenza indirizzata contro civili. I moventi, politici o religiosi, erano rimasti sempre fuori dai tentativi di definizione, al contrario di quanto invece si afferma nei codici penali di alcuni paesi, come l’Italia, dove la qualificazione investe atti e intenti di sovversione dell’ordinamento democratico, successivamente corretto con costituzionale e presente nel 270 bis cp vecchia formula, o nel 280 cp, e attraverso l’introduzione di una aggravante specificata, che si sono aggiunte a definizioni di infrazione politica ereditate dal legislature fascista come la canonica formulazione contenuta all’interno dell’art. 270 del codice penale, dove viene chiamata in causa la sovversione violenta di una classe sociale o degli ordinamenti economico o sociali costituiti nello Stato.
Allo stesso modo nei manuali di alcune strutture operative americane, come l’Fbi, il Pentagono, prendevano apertamente in considerazione le finalità politiche antigovernative, o introducevano distinzioni tra popolazione civile e militare, intendendo per civile anche militari in borghese, o in situazioni non belligeranti. boxshot
L’estensione del significato di atto terrorista proposta nella decisione quadro della commissione europea non deriva più dalla semplice realizzazione degli atti illegali in sé, che trova già un ampio sanzionamento come infrazione di diritto comune in tutti i codici dei paesi membri, ma dalla sua eventuale giustificazione ideologica, addirittura non solo rivendicata ma attribuita o presunta. È dunque in primo luogo questo elemento ideologico, culturale, mentale, politico e non materiale, ad essere specificamente punito. Negate a suo tempo, secondo quell’assurda finzione che vorrebbe le democrazie esenti dalla presenza dell’inimicizia politica, che per questo viene depoliticizzata e relegata a semplice illegalità criminale, le infrazioni politiche vengono ripescate sotto una veste ipercriminalizzata.
Non finisce qui. Il riferimento alla «occupazione di luoghi pubblici e di beni o il danneggiamento che possono loro essere causati», alla stessa maniera delle azioni di pirataggio informatico (poiché a questi comportamenti si rivolge il punto j), lascia cadere definitivamente ogni velo d’ipocrisia morale. Oramai ogni attacco condotto contro la proprietà, i beni, mobili o immobili, materiali o immateriali, rappresenta una infrazione di tipo terrorista. L’argomento etico, che in passato fondava il ricorso allo stigma terrorista per ogni atto che avesse leso la tutela della integrità della vita umana, è rimpiazzato dal riconoscimento dell’unico valore supremo da proteggere: l’etica del capitale.
Non è un sistema giudiziario sopranazionale o extra-nazionale quello che sta nascendo a scala europea, con dei pesi e contrappesi omogenei, ma una semplice estensione della sovranità giudiziaria di ogni Stato membro. Il tutto chiaramente a discapito delle garanzie personali dei cittadini dell’Unione. Un grande pregiudizio investe le libertà individuali e pubbliche che perdono, con il superamento delle procedure di estradizione, un luogo «terzo» che aveva funzione di garantire i diritti della persona domandata dallo Stato richiedente.
In nessun modo dunque è possibile sostenere l’equazione tra il ruolo svolto dalle vecchie chambres d’accusations e le funzioni marginali attribuite al magistrato che deciderà della messa in esecuzione del nuovo mandato. All’avviso di conformità giuridica, pronunciato dopo un’approfondita analisi e dibattito contraddittorio del caso, per lasciare la decisone finale all’autorità politica, il nuovo progetto oppone una semplice verifica dell’identità della persona e della regolarità formale del mandato. I mezzi di ricorso vegono soppressi, riducendo al minimo i margini di valutazione giuridica ed esautorando quelli d’opportunità politica.
Tutto ciò non avviene in presenza di uno Stato unico europeo, il che renderebbe logica una tale innovazione procedurale ma di una coesistenza di Stati sovrani che, contrariamente a quanto afferma la critica sovranista, non subiscono una alienazione di parti della loro sovranità nazionale. In realtà, la creazione di uno spazio giudiziario comune non è altro che la cessione di una parte della sovranità interna a discapito delle garanzie individuali. Questa perdita è compensata dalla estensione della sovranità esterna, consentita dalla esecuzione dei suoi atti di giustizia sull’intero territorio dell’Unione.

Link
Agamben, L’exception permanente
Agamben, Lo Stato d’eccezione
La giudiziarizzazione dell’eccezione 1
La giudiziarizzazione dell’eccezione 2
Il caso italiano, lo Stato di eccezione giudiziario
Agamben, Europe des libertes ou europe des polices?

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