Libri – Enzo Barnabà, Morte agli italiani. Il massacro di Aigues-Mortes, 1893, Infinito Edizioni (pp. 128, euro 12,00)
Gerard Noiriel, II massacro degli italiani. Aigues-Mortes, 1983. Quando il lavoro lo rubavamo noi, Marco Tropea (pp. 320, euro 18,00)
Paolo Persichetti
Liberazione 13 febbraio 2011

Un grande massacro può restare solo un piccolo scandalo». E’ un po’ il destino toccato al “Massacre des Italiens”, il pogrom scatenatosi in Camargue, il 17 agosto 1893, contro i lavoratori stagionali italiani impiegati nelle saline francesi di Aigues-Mortes che provocò 8 morti, 14 dispersi e 99 feriti. Allora la Francia era il Paese che accoglieva il maggiore flusso di migranti europei e l’Italia quello che ne esportava il numero più grande. Dopo il libro di Enzo Barnabà, Morte agli italiani. Il massacro di Aigues-Mortes, 1893, Infinito Edizioni (pp. 128, euro 12,00), uscito in occasione del centenario della strage e ristampato nel 2008, l’episodio che portò i due Paesi sull’orlo del conflitto armato è uscito finalmente dal lungo oblio in cui era caduto. Della questione è tornato ad occuparsi lo storico Gérard Noiriel con un saggio da poco tradotto che affronta la vicenda con gli strumenti della socio-storia: II massacro degli italiani. Aigues-Mortes, 1983. Quando il lavoro lo rubavamo noi, Marco Tropea (pp. 320, euro 18,00). Storia dal basso e storia dall’alto si intrecciano nell’indagine condotta da Noiriel che definisce l’accaduto «l’esempio più truce di xenofobia operaia in qualsiasi storia dell’immigrazione». Un’eruzione d’odio verso «gli italiani che ci rubano il lavoro» le cui dinamiche possono dirci molte cose su fatti analoghi avvenuti ai nostri giorni, come la caccia all’uomo contro gli stagionali africani di Rosarno, in Calabria. 
Ogni anno, tra agosto e settembre, al momento della raccolta del sale ad Aigues-Mortes affluivano migliaia di lavoratori richiamati dalla speranza di trovare un lavoro stagionale. I documenti delle prefetture descrivono un clima d’allarme e i problemi suscitati dall’afflusso in massa di questa manodopera migrante, ben oltre la forza-lavoro richiesta ma utile serbatoio di riserva ed efficace strumento di pressione per abbassare il costo del lavoro. Potevano affluire fino a 2000 stagionali a fronte dei 1200-1300 utilizzati, aumentando del 50% la popolazione del posto con inevitabili difficoltà d’accoglienza e sicurezza. Uomini soli e giovani, ritenuti instabili, la cui presenza “selvaggia” suscitava problemi sanitari per l’assenza di acque sorgive e il deflusso delle acque fognarie. Diffusa era poi la propagazione della malaria.
In quelle settimane tre gruppi sociali venivano messi di fronte ad una condizione di bestiale concorrenza tra loro: i locali, gli stagionali francesi originari delle vicine Cevennes, a cui nel tempo si aggiunsero gli italiani, perlopiù Piemontesi, ed infine i “trimards” (lavoratori nomadi francesi), profondamente destabilizzati dalla crisi economica e ridotti ad una condizione di forte marginalità. Questi ultimi ebbero un ruolo centrale nelle violenze, tra i processati, infatti, 18 su 37 erano senza fissa dimora e tra questi 11 su 17 furono accusati dei reati più gravi.
La presenza di stagionali italiani era cresciuta col tempo. Provenienti da un’economia più povera erano disposti a compensi inferiori e ritmi di lavoro più intensi. Nell’agosto del 1893 erano stati assunti 621 italiani contro 700-800 francesi, meno dei 900 degli anni precedenti. La raccolta era organizzata per gruppi geografici separati, ma la necessità d’integrare l’effettivo con stagionali “occasionali” portò alla formazione di alcune squadre miste. Fu proprio in uno di questi gruppi che scoppiò la prima rissa. Motivi di rivalità diedero fuoco ad un malcontento sordo che covava da tempo «contro i forestieri che rubavano il lavoro accettando qualsiasi condizione». Le cause del massacro avevano ragioni ben chiare, condizioni di lavoro massacranti (tra cui pesava la scarsità di acqua potabile corrente in mezzo ad un mare di sale) e la messa in competizione tra forza-lavoro locale e straniera. Solo l’anno successivo al massacro le autorità realizzarono un servizio di derivazione dell’acqua corrente e poco dopo la Compagnie des salins du Midi meccanizzò la raccolta del sale. Nel frattempo la macchina amministrativa inventò la carta d’identità per stranieri, che consentiva di regolare la tutela del lavoro nazionale. Soluzioni tecniche messe in atto dai dominatori – spiega Noiriel – per risolvere i problemi che loro stessi avevano creato. Quella carneficina viene oggi ricordata come un esempio tipico di razzismo, nonostante all’epoca l’episodio venne interpretato con categorie ben diverse. Il razzismo sul piano lessicale ancora non esisteva. La parola entrò nel vocabolario francese solo nel 1902, il termine xenofobia nel 1903. Lo scontro vedeva contrapposti i sostenitori del nazionalismo, che chiedevano l’espulsione pura e semplice degli stranieri, e i fautori del liberalismo che invece chiedevano di punire solo coloro che mostravano un’inclinazione verso il male. La difesa della manodopera nazionale agitava anche le correnti socialiste. Per Noiriel decisivo fu il ruolo del fattore nazionale nella legittimazione del massacro. Paradossalmente quell’eccidio mise in mostra quanto fosse avanzato il processo di nazionalizzazione delle masse. Fu solo più tardi con l’affaire Dreyfus e l’uccisione del presidente Sadi Carnot da parte di Sante Caserio, l’anarchico italiano che volle vendicare l’esecuzione di Ravachol, che fattore nazionale e questione operaia si separarono nella percezione pubblica.
relazioni economiche soprattutto nel settore dell’energia). Si tratta degli anni in cui l’Italia fa ammenda, anche se in modo superficiale, del proprio passato coloniale e tenta di reinserire la Libia nella comunità internazionale, riconoscendole un ruolo di ponte tra Africa ed Europa. È in questo contesto che comincia a divenire centrale nei rapporti bilaterali il tema dell’immigrazione, nodo che assume nel tempo un aspetto del tutto sproporzionato rispetto alla sua dimensione reale. Il grosso dell’immigrazione, infatti, non passa per Lampedusa, anche se la via del mare è una vera emergenza umanitaria che ha trasformato il mediterraneo in un cimitero liquido. Nel dicembre 2000 viene firmato un primo accordo che stipula una collaborazione globale nelle politiche di lotta contro terrorismo, criminalità organizzata, traffico di stupefacenti e immigrazione clandestina. Il fatto che un fenomeno a carattere multidimensionale come l’immigrazione, che investe clima, agricoltura, geopolitica, economia mondiale, processi socioculturali, sia apparentato a fenomeni di natura criminale o di violenza politica (nella fattispecie internazionale), confina da subito la questione all’interno di rigidi binari sicuritari che investono l’ordine pubblico, la difesa del territorio e la sicurezza dello Stato. A questo punto, se la politica estera è sempre più legata al tema dell’immigrazione e, questa, essendo gestita unicamente secondo un’ottica sicuritaria attiene alle competenze delle forze di polizia, diventa inevitabile che le relazioni mediterranee finiscano in misura crescente nelle mani del ministero degli Interni piuttosto che in quello degli Esteri. A occuparsene saranno nuove burocrazie, come la Direzione generale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere (istituita dalla Bossi-Fini), portatrice di una cultura d’apparato poco incline a una comprensione multidimensionale del problema e delle soluzioni, con l’effetto di ingenerare preoccupanti stravolgimenti in
materia di funzionamento dello Stato e di equilibrio dei poteri, oltre a ledere le convenzioni internazionali sui diritti umani e i principi costituzionali. Spostare le tensioni di là delle frontiere non significa essere immuni dalle conseguenze, ma solo ampliare l’area e l’intensità dell’impatto che ne deriva. Tutti i successivi patti bilaterali stipulati tra Italia e Libia sono figli di questa impostazione iniziale. Accordi di polizia e di gestione delle frontiere che rivoluzionano la stessa nozione di confine. La filosofia contenuta in questi trattati, caratterizzati per altro da una sistematica segretezza sui loro contenuti, senza che il Parlamento sia mai stato chiamato a pronunciarsi, è quella di delocalizzare oltrefrontiera i nostri originari Cpt. Tra il 2004 e il 2005, il governo italiano finanzia la costruzione di tre campi di «trattenimento» in territorio libico. Si tratta di un vero e proprio outsourcing. L’informazione trapela dal rendiconto annuale della corte dei conti del 2004. Quella dell’anno successivo dettaglia ulteriormente la voce: si tratta probabilmente della costruzione di un centro di accoglienza in località Gharyan (Tripoli), del costo di 6,6 milioni di euro, dell’appalto per un secondo centro a Kufra e di un terzo campo previsto nella zona di Sebha, principale punto d’arrivo dei flussi transahariani in provenienza dal Niger. Campi costruiti ricorrendo a capitoli di spesa del ministero dell’Interno previsti per l’edificazione di Cpt in territorio nazionale. Da parte libica emerge, invece, l’abile e cinico utilizzo dei flussi migratori, aperti e chiusi come un rubinetto, trasformati così in uno strumento di pressione e ricatto diplomatico da mettere sul tavolo delle trattative bilaterali. Uno degli obiettivi principali della Jamahiriya è la fine dell’embargo sulle armi. L’interventismo estero del nostro ministero degli Interni ha come risvolto inevitabile quello di rendere un fatto di politica interna le scelte della politica estera libica. L’ipercentralità assunta dalla questione della migranza nella politica italiana ha modificato anche l’approccio libico, fino a indurlo al clamoroso tradimento degli originari ideali panafricani che avevano mosso la rivoluzione verde del colonnello Gheddafi.
