«Dov’è Placido Rizzotto?», il dirigente della camera del lavoro di Corleone rapito dalla mafia

Archivio – Quando l’antimafia era sociale e dal basso. Contro le lotte contadine nella Sicilia del dopoguerra si abbattè una doppia repressione: quella giudiziaria e poliziesca e quella del blocco agrario-mafioso appoggiato dalla Democrazia cristiana. Migliaia di braccianti furono arrestati, processati e condannati, decine e decine di sindacalisti rapiti e uccisi dalla mafia

«“Dov’è Rizzotto?” Questo grido, scandito a pieni polmoni dal segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio a Palermo, in Piazza Politeama gremita, me lo ricordo con un brivido. Gridava scandendo “Do-vè Ri-zzo-tto” tante e tante volte, come se aspettasse risposta, e l’eco rimbombava passava girava si perdeva nella piazza raggelata, con decine di migliaia di persone che trattenevano il fiato e le lacrime», racconta un testimone a Giuliana Saladino nel suo libro Terra di rapina, uscito nel 1977 e che tanto fece discutere.
Il paesaggio agrario della Sicilia nel secondo dopoguerra era ancora dominato dalla presenza del grande latifondo. Il movimento contadino, incentivato dal decreto del 19 ottobre 1944 varato dal ministro dell’agricoltura, il comunista Fausto Gullo, che distribuiva i terreni incolti a cooperative di contadini, si oppose a questo sistema attraverso l’occupazione dei latifondi. Sulle lotte contadine si abbatté una fortissima repressione giudiziaria e poliziesca. Oltre tremila furono i braccianti denunciati, solo 386 quelli assolti. In tutto furono processati 2.323 contadini, condannati complessivamente a 293 anni e 36 mesi di reclusione. Alla durissima repressione contro le lotte bracciantili contribuì la saldatura di un blocco agrario-mafioso appoggiato dalla Democrazia cristiana. Il ruolo giocato nello sbarco angloamericano in Sicilia diede nuova linfa alle famiglie mafiose incaricate dagli agrari di gestire e proteggere i latifondi, vessando la manodopera bracciantile col «gabellotto», l’imposta mafiosa, e il caporalato. Sui dirigenti del movimento contadino si abbatté la rappresaglia mafiosa. Le sparizioni e le uccisioni seguiranno nei decenni successivi, anche quando la vecchia mafia agraria divenne metropolitana arricchendosi con il traffico dell’eroina, il racket e gli appalti pubblici, fino all’omicidio, nell’aprile del 1982, del segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, e del suo autista, Rosario Di Salvo, passando per quello di Peppino Impastato. Nel corso della campagna elettorale del 1948 nella provincia di Palermo furono compiuti alcuni dei più efferati delitti: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia e Cangelosi a Camporeale. Non a caso tutti e tre socialisti. Nonostante la scissione della componente socialdemocratica in Sicilia i socialisti erano rimasti uniti. Il blocco agrario-mafioso non colpiva solo per difendere i propri interessi economici ma ragionava anche di politica. Placido Rizzotto aveva ventisei anni, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 lasciò la sua unità militare e si unì alle Brigate partigiane Garibaldi. Tornato in Sicilia fu eletto presidente dell’Anpi di Palermo e segretario della Camera del lavoro di Corleone, dove prese la direzione delle lotte per l’occupazione delle terre che permise alla cooperativa “Bernardino Verro” di Corleone la gestione di un intero feudo. Una sfida diretta al potere mafioso locale tenuto da Michele Navarra e dal boss emergente Luciano Liggio, autore materiale del delitto, insieme a Vincenzo Collura e Pasquale Criscione. Tutti e tre vennero poi assolti per insufficienza di prove, dopo aver ritrattato la loro confessione in sede processuale.
Rizzotto fu rapito la sera 10 marzo 1948, ucciso e gettato in una “ciacca” (fenditura) profonda cinquanta metri alle doline di Rocca Busambra. Diversi testimoni assistettero al rapimento e un giovane pastore di 10 anni, Giuseppe Letizia, al riparo di una roccia vide la sua esecuzione, per questo venne ucciso dal Michele Navarra.
Nel 2009 vennero finalmente ritrovati nella fenditura della Rossa alcuni resti ossei, oltre ad una cintura e una moneta in corso di validità nel 1948, ma solamente nel marzo 2012 grazie all’esame del dna giunse la conferma che quelle ossa appartenevano a Rizzotto. Il 24 marzo del 2012 si tennero i funerali di Stato in sua memoria. «Non si nasce schiavi o padroni, chi ci vuole diventare ci diventa. Noi dobbiamo restare uniti, compagni, perché da soli non si cambiano le cose» (Placido Rizzotto).

Il trentacinquesimo assassinio
Girolamo Li Causi, l’Unità, p.1, mercoledì dì 17 marzo 1948

Il 2 marzo a petrali a Soprana in provincia di Palermo, comune al centro di una decina di borghi contadini, disseminati in una zona in cui impera sovrano il latifondo, mentre zappava il suo spezzone di terra, presente il figlio undicenne, veniva trucidato il vecchio compagno Epifanio Li Puma capo contadino che da 30 anni lottava contro i baroni, contro gli Sgadari, i Mocciari, i Pottino. Il delitto, per ammissione stessa delle autorità, è politico; tutti sanno chi lo ha premeditato, organizzato ed eseguito. Anche la polizia lo sa. Li Puma veniva freddamente atterrato da due briganti della banda di Dino, banda che vive grazie alla complicità dei baroni che le assicurano ospitalità, sussistenza, protezione. Niente giustifica l’efferato delitto. Li Puma, padre di nove figli, contadino poverissimo, aveva trascorso tutta la sua esistenza lavorando la terra, dirigendo la lega contadina di Petralia, organizzando la cooperativa “La madre terra” che da tre anni è in lotta con i signori feudali per il possesso meno precario della terra, per più umane condizioni di esistenza. Dal Marchese proprietario, al campiere che indica ai banditi la vittima perché non sbaglino, ai sicari rotti ad ogni delitto, la catena è limpida. Ma la polizia come già per altre decine di contadini capilega trucidati in questi ultimi mesi archivia le pratiche. Lo spaventoso è che le autorità hanno rinunziato persino a scoprire chi sono stati gli assassini dell’avv. Campo, vice segretario regionale della Democrazia cristiana ucciso mentre in macchina si recava da Alcamo in provincia di Trapani ad Agrigento. Scelba ha mandato già un suo ispettore centrale; ma questi dopo poche ore di permanenza a Palermo, ha fatto ritorno a Roma senza aver concluso nulla. La Democrazia cristiana non ha interesse a scoprire gli assassini dell’avv. Campo, perché, come si ammette dall’opinione pubblica siciliana, specialmente da quegli strati che più sono qualificati per esprimere opinioni e giudizi su tali misfatti, dovrebbe scoprire i suoi legami con quelle organizzazioni criminose che vanno sotto il generico nome di mafia. Non erano ancora trascorsi sette giorni dall’assassinio di Li Puma ed ecco che a Corleone, altro grossissimo borgo al centro anch’esso di una delle più caratteristiche zone del latifondo, in provincia di Palermo, sparisce il segretario di quella Camera del Lavoro e presidente di quella sezione reduci e combattenti. Placido Rizzotto, partigiano garibaldino. Fino a questo momento nulla si sa della sua sorte. Centinaia di contadini divisi in squadre battono la campagna, esasperati, trepidanti, seguiti dall’ansia di tutto un popolo che non sa darsi pace della efferatezza del delitto. Ma si sa che l’ultima persona che il Rizzotto incontrò la sera del mercoledì 10 marzo fu il gabelletto del feudo “Drago” proprietà del barone Alù e della baronessa Cammarata: feudo dal quale, dopo due anni di vana richiesta da parte della cooperativa “Bernardino Verro”, solo nel dicembre scorso i contadini erano riusciti a strappar 50 ettari di terra. Ebbene fino ad avanti ieri mattina Pacciardi, vice-presidente del consiglio per l’ordine pubblico, ignorava che in Sicilia era stato assassinato Li Puma ed era scomparso Rizzotto. E Scelba? Non sappiamo se anche lui lo ignorasse: però sappiamo che egli si sta dando un gran da fare per occultare le prove della complicità di agenti dello spionaggio americano con il banditismo siciliano. Precisamente egli intima ai suoi organi periferici di consegnargli le copie eventualmente esistenti della lettera del bandito Giuliano al giornalista americano Stern, nella quale il bandito chiede armi. Pesanti per la lotta contro il bolscevismo e da indicazioni pratiche per migliorare i suoi collegamenti con gli agenti americani. A Palermo il governo regionale ricostituitosi con la presidenza dell’avvocato Alessi, ma con la partecipazione dei gruppi di destra che lo avevano prima gettato nel fango per poi averlo più prono ai loro voleri, venerdì scorso si è rifiutato di rispondere ad una interrogazione urgente del Blocco del Popolo che gli chiedeva conto della fine del Rizzo e delle gravissime condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia. […]

Arriva il partito della legalità

Ispirato da Eugenio Scalfari, organizzato e diretto da Carlo De Benedetti, probabile capolista un Roberto Saviano ancora recalcitrante ma disponibile a dare il suo imprimatur (non può certo sputare sul piatto dove mangia), scende in campo il partito della legalità

Un po’ come la fine di Craxi coincise con il trionfo postumo del craxismo, il tramonto di Berlusconi ci sta lasciando in eredità molte cose del berlusconismo e del suo modello speculare, l’antiberlusconismo. Prendiamo un esempio: il tracollo elettorale del Pdl nelle recenti amministrative non sta affatto provocando l’uscita di scena del partito-azienda. Al contrario assistiamo al moltiplicarsi di questo modello d’organizzazione diretta degli interessi più influenti della borghesia imprenditoriale e finanziaria nella politica.


Mentre i ceti popolari scompaiono dalla politica attiva, grande borghesia, finanza, Confindustria e salotti scendono direttamente in politica moltiplicando i loro partiti-azienda

Accanto all’ipotesi del Partito dei produttori di Montezemolo, ai blocchi di partenza ormai da molto tempo, costruito anch’esso attorno ad un cuore aziendale, si annuncia l’arrivo del Partito di Repubblica camuffato da cartello della società civile. Mentre la formazione di Montezemolo si candida a colmare il vuoto che il declino del berlusconismo rischia di lasciare dietro di sé, il Partito di Repubblica mira paradossalmente a tenere in vita l’esperienza dell’antiberlusconismo riproducendone il calco speculare: modello mediatico-carismatico, un propietario magnate, una strategia ispirata dal marketing politico, assenza di democrazia interna, gruppo dirigente e apparato cooptato.
Da diversi anni ormai il richiamo alla società civile è diventato lo schermo dietro il quale si cela, nella gran parte dei casi, la discesa in campo dei poteri forti, dei grandi salotti, dei miliardari, senza dover più ricorrere al tradizionale ruolo di mediazione e filtro dei professionisti della politica di cui parlava Weber (relegati nel migliore dei casi al ruolo di gregari o yesmen). Una concezione sempre più oligarchica della politica tanto più lontana da modelli partecipativi e di rappresentanza, sicuramente più presenti in alcune forme-partito classiche del Novencento, quanto più è forte l’appello alla società civile. Non a caso da mesi il governo è retto da un sedicente esecutivo di tecnici che sfugge a qualsiasi principio di rappresentanza elettorale (una sorta di golpe soft).


La repressione emancipatrice leit-motiv del partito promosso dal gruppo editorial-fianziario di Carlo De Benedetti

L’arrivo di una lista ispirata dal duo De Benedetti-Scalfari è data per certa. Ad anticipare questa mossa era stato lo stesso Eugenio Scalfari in un editoriale apparso su Repubblica del 13 maggio scorso. A dire il vero, in quella circostanza, l’ex fondatore di Repubblica aveva condizionato la formazione di «una lista civica apparentata con il Pd e rappresentativa del principio di legalità» alla permanenza del “porcellum”, il sistema elettorale attualmente in vigore. Per Scalfari la legalità, di cui vi sarebbe «urgente bisogno», deve essere il tema ideologico dirimente di questa nuova formazione  per combattere «la corruzione, le mafie, le oligarchie corporative nella pubblica amministrazione, l’evasione fiscale e la legalità costituzionale» (manca ovviamente qualsiasi riferimento alle illegalità della finanza internazionale motore scatenante della crisi economica attuale).
Niente di nuovo dal pulpito di Repubblica che da decenni ha fatto della “repressione emancipatrice” la religione civile che ha permesso di mettere una pietra tombale sulla questione sociale.


Saviano capolista?

Il nuovo Partito della legalità – sempre secondo le parole del suo ispiratore – dovrebbe chiamare a raccolta «persone competenti e civilmente impegnate nella difesa di questi valori». Profilo nel quale molti hanno subito visto l’inconfondibile silhouette di Roberto Saviano.
Chiamato in causa l’autore di Gomorra si è subito precipitato a smentire la circostanza senza rinunciare alla sua consueta dose di vittimismo. Nella celebre rubrica dell’Espresso, che fu un tempo di Giorgio Bocca, Saviano ha attaccato quelli che fanno «disinformazione» annunciando sistematicamente la sua entrata in politica ogni qualvolta gli accade di mietere trionfali ascolti televisivi, nonostante le sue mediocri prestazioni. Gli autori di queste voci, ha spiegato con toni stizziti ma sempre meno convincenti (stavolta a tirarlo in ballo è stato Scalfari mica i suoi avversari), sarebbero dei disonesti che attribuendogli l’intenzione di entrare in politica vorrebbero soltanto delegittimarlo, macchiandone l’illibatezza che gli verrebbe dal non essere «percepito come schierato».
Frase interessante solo per il participio inavvertitamente impiegato. L’uomo che sostiene di voler «ridare dignità alle parole della politica», perché le parole, differentemente da come cantava Mina, non sono chiacchiere ma «azione», strumenti capaci di «costruire prassi diverse», non può non sapere che l’essere percepito è altra cosa che dall’essere realmente.
E’ singolare questa teoria della dissimulazione che ricorda da vicino uno dei più classici precetti della politica descritti da Machiavelli, «Ognun vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei», in uno scrittore ­– da tempo sempre meno autore e sempre più interprete – che non cessa di rappresentarsi come sacerdote del vero, senza infingimenti, mediazioni e filtri. Per giunta, dopo la querela milionaria presentata contro il Corriere del Mezzogiorno e Marta Herling, per la polemica sulle fonti indirette e anonime citate nel racconto sul terremoto di Casamicciola, a molti non è sfuggito che Saviano stia dimostrando più interesse al valore monetario delle parole piuttosto che al loro significato.


Il prezzo delle parole

Sarà forse per questa concezione borsistica della lingua, che poca importanza attribuisce al senso delle parole tanto da arrivare a sostenere parole senza senso, che Saviano può scrivere cose come: la fedina penale pulita in politica sarebbe un handicap, un «elemento di sospetto e fragilità». Tesi che nell’orgia di demagogia populista attuale non appare di grande originalità: lo affermano ogni giorno Marco Travaglio e Beppe Grillo.
Chissà se sui banchi di scuola gli hanno mai spiegato che la Costituzione italiana è stata scritta da fior fior di pregiudicati, ex galeotti, ex latitanti ed ex sorvegliati speciali con tanto di confino. E che tra questi si contano ben due presidenti della Repubblica.
Se sei pregiudicato – prosegue ottusamente lo scrittore embedded (con Saviano il vecchio modello dell’impegno civile e politico si è trasformato nell’arruolamento, nell’intruppamento tra le file dei crociati dell’ordine, dei professionisti della punizione) – «vuol dire che hai già un protettore. A seconda del reato commesso, ci sarà la mafia, un partito o una cricca a garantire per te. Invece se sei incensurato non hai tutela, puoi essere aggredito da tutti senza che nessuno ne abbia danno».
Per Saviano le carceri italiane sarebbero sovraffollate di potenti ultratutelati, non di una umanità dolente, di disgraziati senza peso e senza futuro. Esperti e operatori del settore non esitano a definire il sistema carcerario una discarica sociale. E nelle discariche, fino a prova contraria, c’è a munnezza; tanto per citare la considerazione sociale attribuita al popolo delle prigioni.
Sembra di capire che per Saviano l’unico modello di società possibile sia una sorta di 41 bis diffuso, un regime di massima sicurezza sociale, un sistema di gabbie e recinti concentrici dove le parole anziché libere finirebbero confiscate sotto chiavistello. E lui ovviamente sarebbe il portachiave.


Scalfari insiste: «Saviano ci servi»
. Mica puoi sputare sul piatto dove mangi!

Per nulla convinto dell’atteggiamento prudente messo in mostra dall’esponente di punta della scuderia di Roberto Santachiara, in una intervista al Fatto quotidiano Scalfari ha ribadito che la presenza dello scrittore nella lista per la legalità «sarebbe un valore aggiunto che può decidere le elezioni». Saviano è considerato un brand vincente, non è più una persona ma un dispositivo, una macchina del consenso di cui non si può fare a meno. Scalfari-Mangiafuoco non può rinunciare alla sua marionetta per mettere in scena il teatrino della poltica. Quale che sia la decisione finale, lo scrittore ha confermato che in ogni caso non rinuncierà «alla possibilità di costruire un nuovo percorso».


Il nuovo mix: partito delle procure e partito delle scorte

Insomma i giochi sembrano fatti. Manca solo l’annuncio ufficiale che secondo alcune indiscrezioni è previsto per il prossimo 14 giugno, data di avvio della festa di tre giorni organizzata da Repubblica a Bologna. Un serbatoio pronto per stilare le liste esiste già: si tratterebbe di pescare tra gli aderenti all’associazione “Libertà e Giustizia”, fondata sempre da De Benedetti. La base di riferimento resta il “ceto medio riflessivo” che ha animato l’esperienza dei Girotondi e riempito gli spalti durante le adunate al Palascharp. C’è poi il partito delle procure a cui si affiancherà quello delle scorte spalleggiato da Saviano.


Legalità e iperliberismo: stessa spiaggia, stesso mare…

A questo punto resta da chiedersi cosa potrà portare di nuovo l’avvento di questo partito al di là delle considerazioni tattiche sull’ipoteca messa su un Pd fragile e senza prospettive, che rischierebbe di diventare addirittura un satellite eterodiretto (vecchio pallino della redazione repubblichina) dalla nuova formazione. L’estenuante richiamo al principio di legalità impone un bilancio ed una decostruzione del concetto.
Il richiamo alla legalità, da tangentopoli ad oggi, oltre a non aver impedito ma in qualche modo favorito venti anni di Berlusconismo è servito da legittimazione al passaggio brutale dallo stato sociale a quello penale. La legalità è stata in campo politico-giudiziario il corrispettivo dell’iperliberismo in materia economico-sociale. Un contesto dove i forti sono diventati più forti e i deboli più deboli. Se vogliamo cominciare a capovolgere questa situazione è arrivato il momento di mettere in campo un movimento antipenale.

© Not Published by arrangement with Roberto Santachiara literary agency

 

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1985, Salvatore Marino muore di torture negli uffici della questura di Palermo

Salvatore Marino era stato arrestato nel corso delle indagini seguite alla morte del commissario Beppe Montana, ucciso dalla mafia il 28 luglio 1985. Giocatore di calcio, due mesi prima aveva fatto vincere alla sua squadra la promozione in serie D, fu ritrovato cadavere su una spiaggia palermitana dove gli uomini della squadra mobile palermitana l’avevano abbandonato dopo un’intera notte di bestiali torture

UNA PARTITA GIOCATA ALLA MORTE
Gabriella Greison e Matteo Lunardini
il manifesto, 6 Ottobre 2004, pag. 18

E’ una storia dimenticata, quella che si svolse tra la primavera e l’estate del 1985. E’ la storia di un poliziotto, di un mediano, e della sua ultima partita. Non una sfida da coppa Campioni, non una partita da storia del calcio. Eppure l’evento clou della stagione siciliana fu lo stesso capace di trasformare il «Nino Novara» di Agrigento in un Maracanà. Una trepidazione che si sentiva fin nella Valle dei Templi, a Porto Empedocle e a Sciacca, feudi del tifo del Ribera. E si sentiva a Bagheria, Casteldaccia, e Palermo, da dove 15 pullman partirono per sostenere il Pro; la squadra che aveva condotto una stagione da protagonista e che guidava la classifica con un punto di vantaggio sul Ribera.
Era il 26 maggio 1985. Sull’imbattuto campo del Ribera al Pro bastava un pareggio e l’allenatore Russotto lo sapeva. Lui era un mago, un mister moderno, uno che amava il gioco d’attacco; il suo pupillo, Salvatore Marino, era un mediano di grande corsa e con il fiuto del gol. Contro l’Olimpia Abitare, in svantaggio di una rete, Marino era salito dalle retrovie e centrato la porta con due eurogol, due fucilate che avevano portato vittoria e primato in classifica ai nerazzurri del Pro. Era stata la svolta della stagione.
«Ma oggi niente scherzi», gli ripeteva il mister. «Oggi non ti muovi da davanti la difesa. A noi basta il pareggio». Marino guardava serio mister Russotto. Aveva 25 anni e la testa ben salda sulle spalle. Quel che gli dicevano, lui lo faceva. Fu così che venne il giorno del la gara. Bastarono pochi minuti dal fischio d’inizio, con il Ribera catapultato in avanti, per capire che la Maginot organizzata da mister Russotto – con Marino posizionato davanti alla difesa a mo’ di frangiflutti – era insormontabile. Bastò una mezz’ora per capire che la foga del Ribera si sarebbe ben presto trasformata in frustrazione. Il Nino Novara, avvolto nella canicola, fu raggelato in contropiede una volta al ’41 e un’altra al ’57. A nulla servì il gol del Ribera all’89’. Il Pro, dopo 40 anni di purgatorio, era di nuovo in serie D. A Bagheria fu organizzata una festa che si protrasse per giorni. Poi tutti andarono in vacanza. E Salvatore Marino poté dedicarsi alla sua passione: le immersioni nel mare.
Serpico, su una moto
Ma c’era un’altra persona che in quel periodo amava fare immersioni. Era un siciliano anche lui, aveva un fisico atletico anche lui, si chiamava Beppe Montana. Dal 1982 era funzionario della squadra mobile di Palermo. I suoi modi poco ortodossi gli avevano procurato il soprannome Serpico. Come Serpico, Montana amava dirigere le investigazioni in modo informale, girando sopra una moto tra le vie di Palermo. Era convinto che i mafiosi latitanti non vivessero in sud America, ma conducessero una vita tranquilla nelle cittadelle della mafia. Bastava fare un giro per accorgersene. E così aveva cominciato a fare.
Nell’83, mentre infuriava la guerra tra mafie, i suoi uomini individuarono l’arsenale di San Ciro Maredolce. Saltarono fuori mitra, fucili, pistole, munizioni. Armi delle famiglie Greco e Marchese in lotta con i corleonesi per la supremazia nella cupola. Poi, nella primavera ’84 si presentarono a casa di Masino Spadaro, dove il boss stava trascorrendo indisturbato la sua latitanza. E lo arrestarono. Infine, il 24 luglio 1985, fecero irruzione in una villa a Bonfornello. Otto gli arrestati, tra cui alcuni luogotenenti dei Greco e un riciclatore di narcodollari appartenenti a Luciano Liggio.
Il 28 luglio era una bellissima domenica e Montana, a pochi giorni dall’inizio delle ferie, si rilassava sul suo motoscafo. L’aveva comprato per compiacere le sue passioni: quella dello sci nautico e quella della lotta alla mafia. Dal largo della costa era infatti facile individuare gli insediamenti delle famiglie, le grotte sotterranee e i cunicoli segreti. Con alcuni amici e la fidanzata, Montana attraccò il motoscafo a Porticello. Parlò con Antonio Orlando, il titolare del cantiere di rimessaggio. Gli chiese di un ristorantino dove mangiare del buon pesce. Non riuscì nemmeno a sentire la risposta. Due killer a viso scoperto gli spararono in faccia. Si accasciò sull’asfalto, mentre le urla della fidanzata e degli amici fendevano la folla sul lungomare. Morì all’istante.
La squadra mobile di Palermo, coordinata dal commissario capo Ninni Cassarà, si mise immediatamente sulle tracce dei killer. Tra Palermo e Casteldaccia duecento persone furono ascoltate. Qualcuno fece una soffiata: dopo essere scappati in moto, gli emissari delle cosche avevano preso un’auto d’appoggio. Una Peugeot 205 rossa che qualcuno aveva avvistato domenica sera a Porticello. Non era rubata, apparteneva a una famiglia di pescatori. Si chiamavano Marino e vivevano nella borgata di Sant’Erasmo. Uno di loro faceva il calciatore. Era fortemente sospettato di essere un fiancheggiatore del commando.
La famiglia Marino, padre madre e sette fratelli, fu chiamata in questura. Salvatore Marino era però irrintracciabile. Alcuni poliziotti gli perquisirono la casa, un umile alloggio a pochi passi dal mare di Romagnolo e, arrotolati in un giornale del 30 luglio, due giorni dopo l’assassinio Montana, trovarono dieci milioni. Altri ventiquattro furono rinvenuti in un armadio. Salvatore Marino si presentò alla questura il giorno dopo accompagnato dal suo avvocato. Fu immediatamente interrogato. Gli chiesero dove si trovasse la sera di domenica 28 luglio. Rispose: «In piazza a Porticello, con la fidanzata, a mangiare un gelato». Ma là, in mezzo al via vai della passeggiata domenicale, Beppe Montana aveva trovato la morte. Gli chiesero da dove provenissero i soldi trovati in casa. Rispose: «Dalla mia squadra». Ma i dirigenti della società lo smentirono: mai dati soldi in nero. Gli chiesero chi fosse la sua fidanzata. Rispose: «La figlia di Antonio Orlando». Ma questo era l’ultimo uomo ad aver parlato con il superpoliziotto. Il fermo del calciatore fu confermato fino al mattino seguente.
Durante la notte però successe qualcosa. Gli uomini di Beppe Montana ci vollero vedere più chiaro. Andarono a prelevare Marino nel carcere. «Ora te lo facciamo vedere noi chi comanda!» e gli mostrarono i soldi e il giornale in cui erano avvolti. «Sono i guadagni della tua attività di calciatore?» e lo fecero sedere per terra. «Non vuoi dirci chi ha sparato?» e cominciarono a percuoterlo. «Ti piace fare il sub?» e gli spararono in bocca acqua di mare. Per tutta la notte Salvatore Marino fu torturato. Acqua salata e botte. Alle luci dell’alba era ridotto un cadavere. Nessuno sarebbe più riuscito a rianimarlo. Il mediano dal gol facile era morto.
I poliziotti si fecero prendere dal panico. Consegnarono il corpo esanime di Marino a una «volante» della polizia, e questa, ignara dell’accaduto, lo trasportò in ospedale. Dissero di averlo ritrovato sull’arenile di Sant’Erasmo e per dodici ore il calciatore fu scambiato per un immigrato. La fine di Salvatore Marino fu chiara solo il 2 agosto. I giornali di tutto il mondo pubblicarono la foto del suo cadavere all’obitorio, la faccia orrendamente tumefatta e il corpo straziato. Sul braccio c’erano segni di denti umani. Scoppiò lo scandalo.
«Se lo stato spara…»
La lotta alla mafia era stata difficile da sempre. Tuttavia negli ultimi anni qualcosa era cambiato. Le famiglie avevano conosciuto qualche sconfitta, alla quale avevano risposto alzando il tiro. Se lo Stato spara, la mafia mitraglia. Erano così caduti poliziotti e magistrati. Boris Giuliano, Calogero Zucchetto e Mario D’Aleo. Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici e Giacomo Ciaccio Montalto. Le loro morti avevano messo il problema della mafia al centro delle priorità degli italiani. Ora, il barbaro assassinio di Salvatore Marino inficiava l’aura da eroi che l’antimafia si era pian piano costruita.
In questo clima si celebrarono i funerali. A Palermo, per il saluto estremo a Beppe Montana, partecipò poca gente. Si rese irreperibile anche il cardinale Pappalardo. I pochi colleghi del poliziotto rimasti in Sicilia ascoltarono disgustati l’omelia essenziale del vescovo. Ninni Cassarà non esitò ad attaccare la latitanza dello stato, sempre disponibile quando si trattava di intervenire ai funerali, ma latitante in fatto di azioni concrete.
Al funerale di Salvatore Marino, invece, c’era una folla sterminata. C’erano i compagni di squadra, le bandiere nerazzurre e gli amici. Cinquanta corone di fiori circondarono l’appartamento dello Sperone. Su una piccola ghirlanda di palme e gladioli bianchi comparve la maglia da calcio numero 4. Sotto una pioggia di applausi, i «picciotti» trasportarono il feretro bianco – usato di solito per la morte di un fanciullo – fino nel cuore del «rione dei contrabbandieri», il feudo di Masino Spadaro. Poi giunsero in piazza Kalsa, quartiere d’origine dei Marino, dove i sigarettai, i fruttivendoli, i venditori di musso, i pescatori di riccio, si fermarono un istante urlando di commozione. La gente affacciata alle finestre chiamò il nome di Salvatore, scandendo incitamenti come se il ragazzo fosse lanciato a rete in un campo da calcio. Qualcuno gridò «poliziotti assassini». Al santuario di Santa Teresa alla Kalsa, il carmelitano scalzo Mario Frittitta lesse il brano del «mistero di un giovane che muore». Se Gesù Cristo avesse camminato per le strade di Palermo, tutto ciò non sarebbe accaduto. Mister Russotto ci tenne a intervenire: «Lo chiamavano Big Jim perché era tutto muscoli. Si tuffava da venti metri senza bombole. Giocava anche quattro partite di seguito. Era buono, generoso, sorridente, compagnone. Questa è una storia troppo strana per essere vera».
La sera del 5 agosto il ministro Scalfaro e il presidente del consiglio Craxi esercitarono il potere di cui disponevano. Rimuovendo il capo della Squadra mobile, il capitano dei carabinieri e il dirigente della sezione antirapine. I tre sarebbero stati prima condannati e poi assolti per omicidio preterintenzionale. Il 6 di agosto la mafia esercitò il potere di cui disponeva. Uccidendo il commissario Ninni Cassarà e l’agente Nino Antiochia, massacrati sotto casa con un commando di 15 persone. Finiva così una delle più calde estati di Sicilia. A settembre tutto sarebbe ripartito da capo, campionato di serie D incluso. Ma nessuna squadra avrebbe avuto in rosa Salvatore Marino. Salvatore Marino aveva giocato la sua ultima partita il 26 di maggio. E l’aveva vinta. Poi si era limitato ad ubbidire.

Link
Caso Gullotta, le torture furono praticate da un nucleo antiterrorismo dei carabinieri

Covergenze paralelle: iniziativa con Saviano e confronto Fini-Veltroni

Mafia: IL 25 INIZIATIVA A POLLICA CON SAVIANO E CONFRONTO FINI-VELTRONI

(ASCA) – Roma, 15 set 2010 – Un intervento di Roberto Saviano e un confronto tra Gianfranco Fini e Walter Veltroni sulla legalità e contro ogni mafia. L’iniziativa, intitolata ”Sfida per la democrazia”, è stata organizzata da Democratica, l’associazione che fa capo a Veltroni, e da Generazione Italia, che fa riferimento al Presidente della Camera. Si terrà nel pomeriggio di sabato 25 settembre a Pollica, luogo simbolo dopo l’uccisione del sindaco Angelo Vassallo.
«Su questioni come la legalità – ha detto Italo Bocchino (Fli) illustrando la manifestazione – e fatti preoccupanti come l’uccisione del sindaco di Pollica-Acciaroli, si deve lavorare su un fronte comune con iniziative che spingano i partiti a isolare la criminalita’ e a non tollerare zone grige. E’ positiva questa convergenza per affrontare un tema con due grandi leader».
Per Marco Minniti (Pd) «è un elemento importante che due organizzazioni che fanno riferimento a schieramenti politici diversi decidano di organizzare questa iniziativa insieme. Abbiamo a che fare con mafie radicate in Italia con ramificazioni internazionali forti. L’impegno della politica deve essere per una lotta senza quartiere alle mafie. C’è bisogno di un’assunzione di responsabilità da parte della politica che deve tagliare i rapporti con la mafia. Le mafie votano e fanno votare. Ma è importante che quei voti la politica li respinga».
Per il vice presidente della Commissione antimafia, Fabio Granata (Fli), quella a Pollica «è una manifestazione della bella politica che su questi temi non puo’ non parlare un linguaggio univoco. Non si puo’ pensare che non ci sia un nesso tra i soldi che mancano per le auto della polizia e i 60 miliardi drenati dalla corruzione e i 120 miliardi gestito dalle mafie e dalle ecomafie».