Alla fine la rifondazione… del muro ha sostituito quella del comunismo. La deriva nostalgica e neocarrista di quel po’ che resta della sinistra partitica
Paolo Persichetti
Liberazione 18 dicembre 2008
In Grecia soffia da giorni un vento insurrezionale, come ha titolato le Monde. Le cancellerie europee tremano all’idea che la ribellione possa espandersi oltre i confini ellenici. In Francia, spiegava nei giorni scorsi Libération, i vertici istituzionali seguono con trepidazione la situazione temendo quello che i sociologi dell’azione collettiva chiamano «effetto mimetico»: ovvero una nuova possibile Intifada delle banlieues più intensa del 2005. La paura del contagio s’aggira come uno spettro per l’Europa. Polizie e intelligence scrutano ogni più piccolo segnale d’insofferenza sociale lì dove rabbia, insoddisfazione e indignazione covano in attesa dell’innesco che le faccia esplodere contro condizioni d’esistenza sempre più disagevoli e precarie, con redditi che – quando esistono – perdono quotidianamente potere d’acquisto.
Tutt’intorno, come un virus, la bancarotta del capitalismo finanziario si riversa sull’economia reale. Falliscono grandi banche e agenzie di rating. Gli Stati devono mettere mano alle riserve e iniettano denaro pubblico per sostenere l’economia. Intanto precipita la produzione, si fermano le fabbriche: cassa integrazione e mancato rinnovo dei contratti a termine colpiscono centinaia di migliaia di lavoratori. Nel giro di pochi mesi 30 anni di apologetica neoliberale, di déregulation e monetarismo sono finiti in soffitta a fare i conti con la critica dei topi. In Francia, come in Italia, importanti movimenti di studenti, insegnanti e genitori hanno bloccato i progetti di riforma dei sistemi scolastici che avrebbero inciso pesantemente sull’economia delle famiglie e sul futuro dei giovani. A riprova che la lotta paga. E cosa accade dentro il partito della rifondazione comunista e sulle pagine del suo giornale? Che uno scenario del genere non suscita appassionate discussioni, non intrìga, non stimola, non scatena fiumi di lettere o articoli, nonostante la redazione faccia – con i suoi pochi mezzi – uno sforzo notevole per raccontare tutto ciò. Arrivano al contrario interventi, come al solito un po’ lamentosi e risentiti, che parlano d’altro: di tessere, d’immagini effigiate su pezzi di carta, roba da «burocrazia partitica» ci avrebbero spiegato Robert Michels e Max Weber, per non scomodare il povero Marx. L’immaginario politico non s’investe sulla realtà, sulla vita che scorre attorno a noi e ci dice cose importanti, ma sull’autoreferenzialità organizzativa, su vuote pulsioni identitarie, cioè se una tessera debba o no portare l’immagine di un muro che crolla. Ma chi se ne frega! Verrebbe da rispondere. L’episodio si carica di una densità simbolica decisiva, paradigmatica. Psicodrammi di un partito…. sempre più sterile. Le lotte stanno fuori, la società si muove… per tutta risposta c’è chi si chiude dentro sigillando le finestre per paura che gli spifferi del movimento reale disturbino le manovre d’apparato, tra cui l’assalto alla diligenza del giornale, perché alcuni, purtroppo, sono convinti che il «nemico è tra di noi»… E così le sorti del nostro futuro sembrano tutte racchiuse sul frontespizio di una tessera, mentre le teste sono rivolte al passato, all’archeologia di una fase storica che non ha più niente da dirci, se non che certe strade non vanno più seguite. 
Prima di andare avanti nel mio intervento, chiedo una cosa a chi sta facendo la gentilezza di leggermi: evitiamo d’affrontare questa discussione come l’ennesima stucchevole puntata di uno scontro postcongressuale che si trascina da mesi e avvelena ormai ogni possibile riflessione. Non se ne può più. Sono arrivato al giornale a fine maggio, anche se già collaboravo da alcuni anni. Non sono iscritto, anche se Rifondazione l’ho vista nascere al Brancaccio nel 1990. Mi interessa un confronto che sappia andare oltre, anche perché questa polemica sul muro di Berlino taglia trasversalmente le diverse culture politiche che compongono i gruppi di maggioranza e minoranza di questo partito. E sarebbe ora che ognuno riprendesse un po’ della propria libertà.
Aggiungo che non intervengo sul merito della scelta fatta dai giovani comunisti di raffigurare la caduta del muro insieme all’ Onda studentesca sulla carta della loro organizzazione. Non so se al loro posto avrei fatto la stessa cosa. Non è questo il punto. Nel 2009 cade anche il ventennale di Tienamen e della liberazione di Mandela, cioè della fine dell’apartheid. Di queste due vicende, insieme a quella del muro, ho un ricordo molto particolare perché le ho vissute dal carcere. C’è un episodio sconosciuto che vorrei raccontare: all’epoca erano in corso nell’aula bunker di Rebibbia diversi maxi processi; l’appello del Moro ter, quello per insurrezione contro i poteri dello Stato, oltre a quello contro le Br-Udcc nel quale ero imputato. In quel momento si discuteva molto di soluzione politica, c’erano settori dello Stato che volevano chiudere la vicenda della lotta armata. L’atteggiamento dei media verso i prigionieri politici era cambiato e così accadeva che ogni tanto ci veniva offerta la parola. In una pausa delle udienze, il giornalista Ennio Remondino intervistò Prospero Gallinari e tra le diverse domande gli chiese anche con chi stessero i prigionieri delle Br: con il governo cinese, che aveva inviato i carri armati in piazza, o con i manifestanti di Tienamen? «Con gli occupanti della piazza, e con chi se no?», fu la risposta. Naturalmente Bruno Vespa, allora direttore del Tg1, tagliò quella frase che smontava uno dei cliché più classici e mistificatori incollati sulla pelle dei militanti della lotta armata. 
Una parte significativa delle formazioni della nuova sinistra, nate tra la fine degli anni 60 e gli anni 70, erano profondamente critiche nei confronti delle diverse esperienze del «socialismo reale». La presa di distanza, se non il rappresentarsi come una via radicalmente alternativa, erano uno degli elementi costitutivi delle aggregazioni militanti che occuparono lo spazio politico a sinistra del Pci e delle diverse scuole neomarxiste che si svilupparono in quegli anni. «Socialimperialismo», «capitalismo monopolistico di Stato», «degenerazione burocratica» erano solo alcune delle categorie impiegate per definire i paesi del campo socialista. Quale che fosse il giudizio sul ruolo oggettivo che la presenza del patto di Varsavia giocava nello scacchiere geopolitico (più o meno calmieratore dell’aggressività occidentale, secondo alcuni, o apertamente controrivoluzionario per altri), l’opinione sulla natura soggettiva dell’Urss e delle repubbliche popolari dopo il termidoro staliniano era senza appello. È altrettanto importante ricordare come nella storia del Pci, i più accesi difensori della stagione brezneviana erano significativamente quelli che poi in politica interna sposavano le posizioni più moderate in materia sociale ed economica e illiberali sul terreno delle libertà e delle lotte, valga per tutti la figura di Giorgio Amendola che riusciva a conciliare Croce con Stalin.
L’aspetto interessante della discussione attuale è il significato di sintomo che assume la difesa retrospettiva del muro di Berlino, fatto per giunta da militanti che al momento della sua scomparsa erano adolescenti o bambini. Questa polemica parla d’altro, rinvia cioè a un grave irrisolto, una rimozione, un malinteso veicolato da una memoria totalmente reinventata. Si rappresenta il muro come un argine salvifico senza capire che la posa della sua prima pietra conteneva già in sé la sconfitta, il riconoscimento manifesto di una inferiorità psicologica ancor prima che politica, l’incapacità di reggere il confronto aperto. Non solo il muro non frenava nulla ma fomentava i sogni più improbabili e le fantasie più irrealistiche verso l’altra parte, contribuendo alla costruzione del mito occidentale, alla narrazione fiabesca del capitalismo. In psicologia sociale vale la stessa regola della psicologia clinica: divieti e interdetti non fanno altro che accendere il desiderio. 
Ci sono epoche della storia nelle quali il passato, un certo passato, appare come una zavorra da cui è necessario liberarsi per spiccare di nuovo il volo, sentirsi come la prima alba del mondo. L’89 ci ha messo di fronte all’ambivalenza di una sconfitta. Ambivalenza, perché il crollo del muro di Berlino (mentre nel frattempo molti altri ne sono stati costruiti dall’Occidente, in Palestina come nella frontiera sud degli Stati uniti) ha liberato anche Marx dalle prigioni dei socialismi da caserma nelle quali era stato confinato. Perché non riuscire a vedere nella caduta del muro una grande opportunità da cogliere, non una sventura da recriminare! Una sfida che sollecita un ritorno al cantiere marxiano e la ripresa di una critica al capitalismo attraverso lo sviluppo delle poche tradizioni politiche non liquidabili, come quelle del comunismo critico e libertario rimaste per tutto il Novecento schiacciate tra due nemici: capitalismo e “social-comunistocrazia” statalista. 
È davvero singolare che oggi chi vuole riabilitare il muro riproponga, in fondo, lo stesso ritornello berlusconiano, secondo cui «l’unico comunismo possibile è stato quello realizzato in Russia», che né più né meno corrisponde non certo alla breve stagione rivoluzionaria degli anni 20 ma alla cappa stalino-brezneviana che ha fatto del socialismo reale una sorta di variante collettivista, versione parossistica del fordismo. In realtà la riflessione critica sulla biforcazione che ha portato fuori strada l’esperienza del comunismo è andata ancora più lontano. C’è chi rimonta più indietro, invitando a riconsiderare il peso della svolta lassalliana come matrice originaria dell’impianto statalista, anteposto a quello sociocentrico, che ha intrappolato il movimento operaio.
un circo Barnum e, come in un mattinale della questura, s’inventa pure un fantomatico dibattito tra ‘uscisti’ ed ‘entristi’ della lotta armata. Soprattutto prende di petto Oreste Scalzone, che dopo trent’anni ha avuto reati e condanna prescritti. Il suo è un minestrone di parole che ammucchiano colore, gossip, dicerie, fandonie, pregiudizi. Ce l’ha persino col loro modo di parlare. L’argot inevitabile d’ogni migrante che ha dovuto apprendere la nuova lingua per necessità. Ma poi aggiunge che alcuni tra loro pubblicano libri, fanno ricerca universitaria, aprono librerie e negozietti, senza rendersi conto della contraddizione. Ha da ridire anche sul fatto che non vestono Prada e si meraviglia di come si possa campare ventisei anni di espedienti, cioè di precariato. Domanda interessante, questa, che dovrebbe rivolgere ai cantori nostrani della deregolamentazione del mercato del lavoro.
Chi vede Parigi dagli appartamenti dei grandi boulevards, e guadagna con un solo articolo il corrispettivo di quattro stipendi da operaio e otto da precario nei call center, è preso d’angoscia di fronte ad una simile prospettiva e percepisce i marciapiedi delle città, il caldo maleodorante del suo reticolo sotterraneo di vie ferrate, come un’insidia dura e ingenerosa. Dante parlava dell’esilio con parole molto amare: «tu lascerai ogni cosa diletta/ […] Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». Sarà che ognuno fa le sue esperienze, saranno le diavolerie della tecnologia, ma a Parigi ci sono tanti ascensori e infinite scale mobili e poi ad esser salato è il burro, non il pane. Insomma, se la città la vivi dai sottotetti dei quartieri popolari e multietnici, quella durezza diventa generosità, solidarietà, complicità naturale, intreccio di vite che arrivano da mille angoli del pianeta, ognuna con la sua valigia di storie. Scalzone, e altri come lui, tutto questo l’hanno vissuto sempre al presente, senza nostalgie, senza rimpianti e con le radici che ormai crescevano all’insù.
Immorale è il viaggio quando si rimane stranieri, ha scritto tempo fa Claudio Magris. E stranieri i fuoriusciti non lo sono mai stati. La nostalgia è stata quella degli altri, come racconta Milan Kundera, anche lui un tempo esiliato. Nóstos e Àlgos sono parole greche che indicano «ritorno» e «sofferenza». Nostalgia è dunque la tristezza che provoca l’impossibilità di tornare. Ma in altre lingue l’etimologia è diversa e trae origine dal latino ignorare. In questo caso, la nostalgia si esprime come «sofferenza per l’ignoranza» di non sapere quel che accade lontano da noi. Ma Scalzone, in tutti questi anni, non ha avuto il tempo di rimpiangere e ignorare proprio nulla, come Ulisse nell’alcova di Calipso. Coinvolto tra mille incontri e scoperte in tutte le battaglie della nuova modernità liquida, come la chiama Zygmunt Bauman: migranti, senza tetto, giovani delle banlieues, precari, altermondialisti, scioperi come quello generale del ’95, mentre a casa sua facevano tappa musicisti, poeti, teatranti e giramondo, scappati e scampati da magistrature, eserciti e polizie di mezzo mondo, compreso qualche fascista gravemente ammalato e un democristiano ricercato. Per farsi aprire bastava esibire come passaporto un mandato di cattura.
I nostalgici sono rimasti in Italia, alcuni perché hanno fatto degli anni ’70 l’oggetto del loro incarognito risentimento, come Sergio Segio. Uno che si racconta avvinto da un ineluttabile destino. «Non c’è salvezza possibile per chi ha sognato di cambiare il mondo», scrive in un libro dove inanella una serie impressionante di goffe citazioni scapigliate, iscrivendosi nel «novero dei destinati alla sconfitta che non scelgono l’esilio ma di andare fino in fondo, pagando quel che bisogna pagare al sogno a lungo coltivato». Convinzione che lo porta a rivendicare una sorta di primazìa etica: l’aver prima commesso l’errore giusto ed in seguito aver ripudiato nel modo più giusto la giustezza dell’errore passato. Prova d’eccellenza assoluta, che giustificherebbe il suo irrefrenabile desiderio d’accedere allo status di persona non comune che un tempo si diceva persino comunista.
rappresenta da oltre vent’anni un’anticipazione del possibile, ciò che avrebbe potuto essere il futuro italiano se fosse stata varata una soluzione politica per gli anni ’70. Una smentita cocente per gli imprenditori dell’emergenza, un esempio da cancellare con ferocia e motivo d’incontenibile livore per chi tra dissociazioni e pentimenti, in cambio di laute ricompense premiali, non perde occasione di salire in cattedra e recitare l’autocritica degli altri.