Leonardo Bertulazzi nell’atelier di liutaio dove lavorava prima di essere arrestato e sottoposto a procedura di estradizione
La mattina di lunedì 16 luglio è stato esaminato davanti la corte suprema federale di cassazione argentina il ricorso presentato dalla difesa di Bertulazzi contro il nuovo arresto eseguito dopo il parere favorevole alla estradizione concesso dalla corte suprema di giustizia. La corte si è riservata e la decisione finale verrà comunicata nei prossimi giorni. In precedenza sempre la corte di cassazione aveva annullato la sua incarcerazione, concedendo la misura dei domiciliari, perché il ricorso presentato contro la revoca dello status di rifugiato politico, riconosciutogli nel 2024, sospendeva l’effetto della decisione unilaterale intrapresa del governo fascista di Javier Milei. L’avvocato di Bertulazi, Rodolfo Yanzón, ha ribadito che nonostante il parere favorevole concesso alla estradizione: «Bertulazzi continua ad avere lo status di rifugiato presso le Nazioni Unite, poiché è pendente un causa presso il tribunale amministrativo su questa questione». E la corte suprema è stata molto chiara sul punto: l’estradizione non può essere materializzata finché non verrà chiarita in modo definitivo la questione del rifugio. Milei ha introdotto una nuova legge su misura che impedisce di concedere protezione alle persone implicate in reati di terrorismo (anche se il sequestro dell’armatore Costa per cui è stato condannato Bwrtulazzi non lo è perché realizzato prima dell’introduzioni delle aggravanti speciali antiterrorismo). Norma antiBertulazzi che tuttavia non ha valore retroattivo e non può incidere su una decisone presa ventuno anni prima.
Estradare Bertulazzi per riabilitare la dittatura Nei giorni scorsi, prima la ministra della sicurezza nazionale, Patricia Bullrich, e successivamente Maria Florencia Zicavo, capo gabinetto del ministero della Giustizia argentino e responsabile della Commissione nazionale per i rifugiati (Conare), oltre a rilanciare la menzogna sul ruolo «importante che Bertulazzi avrebbe avuto nell’operazione che portò al rapimento e al successivo omicidio di Aldo Moro», nonostante in quel momento si trovasse nelle carceri italiane da quasi un anno, fake agitato con forza nello spazio pubblico argentino per rafforzare il dossier fragile che sostiene le ragioni della estradizione, hanno proposto un ribaltamento del giudizio storico sul recente passato dittatoriale argentino. L’estradizione di Bertulazzi fa parte di una più generale riscrittura e cancellazione della storia e dei crimini della dittatura, all’interno della quale i soli colpevoli e responsabili diventano gli oppositori, coloro che hanno combattuto la dittatura e da questa sono stati perseguitati: ex prigionieri politici, i militanti assassinati, le migliaia di desaparecidos, i minori rapiti e adottati dalle famiglie dei militari del regime. L’operazione Bertulazzi serve ad aprire una prima breccia, ribaltando la responsabilità della violenza e dei crimini attribuendola a chi provò ad opporsi alla dittatura o nemmeno fece in tempo a farlo. Un po’ come se oggi in Italia il governo Meloni iniziasse a dare la caccia ai superstiti ancora in vita della resistenza antifascista.
Il gioco delle tre carte D fronte a questa operazione la sinistra italiana, il Pd, i «democratici», tacciono, fanno finta di non sentire o capire, per soddisfare la pretesa punitiva della giustizia dell’emergenza di cui sono stati i padrini. La procura genovese in mano a giudici di Md, si è portata garante davanti alla giustizia argentina sulla possibilità che una volta in Italia Bertulazzi possa essere riprocessato nuovamente, e giudicato stavolta correttamente, correggendo le pesanti e inique condanne ricevute all’epoca (leggere l’intervista di Mario Di Vito del manifesto). Una bella promessa che purtroppo non è una garanzia poiché la legge italiana dice altro, prevede solo 30 giorni per fare la richiesta di riapertura del processo, ma poi sarà la corte d’appello a decidere. E l’intera giurisprudenza passata ci dice che una cosa del genere non è mai avvenuta. Addirittura in alcuni casi analoghi i giudici hanno fatto partire il conteggio dei trenta giorni non dal momento della riconsegna all’Italia dell’estradato ma da quando questi avrebbe avuto notizia ufficiale delle condanne pendenti. Ovvero in questo caso oltre venti anni fa, quando la giustizia argentina decise di non estradarlo perché condannato in contumacia. Il sistema giudiziario italiano non ha mai voluto rimettere in discussione i processi di quegli anni. E così la nuova destra argentina oggi al potere potrà sbiancare la storia della dittatura sulla pelle dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi con la complicità delle anime bella della sinistra italiana.
Genova solidale contro l’estradizione di Leonardo Bertulazzi
di Leonardo Bertulazzi
Ci sono stati tempi in cui la prigione non è stata l’unico modo per epurare una condanna. L’esilio è stato per molti secoli il destino imposto ai trasgressori. Si considerava l’esilio, lo sradicamento come una pena, una pena senza ritorno, una rottura totale del corso della vita di una persona tra un prima nella propria terra, la terra della sua famiglia, e un dopo tutto da costruire, senza l’aiuto dei codici che la vita, relazioni e conoscenze di prima avevano sedimentato. Questa rottura, questa separazione dell’albero dalle sue radici vive nel senso degli esiliati come una pietra miliare cruciale che segna il profondo della loro coscienza in modo più o meno doloroso, ma sempre presente. L’esilio è sempre stato considerato una pena, una punizione. Nel 1951 con la convenzione di Ginevra i paesi del mondo hanno sottoscritto l’impegno di promuovere la protezione degli stranieri in cerca di un rifugio. Ciò che nella convenzione di Ginevra spicca come impegno inderogabile è il principio di “Non Refoulement”: una volta che un paese riconosce un espatriato come rifugiato, offrendogli la sua protezione, si impegna a non mancare alla parola data, a non riportarlo nel paese in cui è in pericolo. Dare asilo significa dire: “Qui sei al sicuro. Qui puoi rifarti la vita». La convenzione di Ginevra sancisce nel principio del “non refoulement” una prova che era già iscritta nella coscienza collettiva come espressione del valore della parola data, del dovere di uno stato di rispettare i suoi impegni e di non giocare con la vita delle persone e dei profughi, trasformandoli in moneta di scambio per gli affari tra paesi. Il paese che concede la sua protezione a uno straniero lo mette in condizione di vivere nel suo territorio e nella sua società, dove porterà il granello di sabbia del suo lavoro, attività e relazioni umane. Ecco perché il caso di Leonardo Bertulazzi fa così male. È arrivato 23 anni fa, ha lavorato, ha formato una casa, è invecchiato in pace. Oggi, a 73 anni, è in prigione e potrebbe essere estradato. Lo stesso paese che lo ha ospitato sembra disposto a cederlo, anche se il suo status di rifugiato è ancora in vigore. Per giustificare il colpo di scena, viene dipinto come un “assassino”. Falso: mai è stato accusato o condannato per crimini di sangue. La cosa inquietante è vedere uno Stato cedere alle pressioni esterne e dimenticare la sua parola, lasciando un rifugiato alla mercé di coloro che lo hanno perseguitato. Il “non-refoulement” o non-refoulement non è lettera piccola, è il muro che protegge le vite dalla diplomazia delle convenienze. Se lo abbattiamo, non tradiamo solo Leonardo: infrangiamo la fiducia in tutto il sistema di protezione internazionale. Il caso Bertulazzi non è un altro dossier. È la prova vivente che la nostra parola vale qualcosa o se finisce fradicia e rotta, come carta bagnata.
Oggi è un liutaio, per anni ha lavorato come grafico e traduttore, è stato un militante della colonna genovese delle Brigate rosse ai suoi esordi, nella pirma metà degli anni 70. Nel 1980 lascia l’Italia, quando viene processato vive già all’estero da tempo ma i giudici pensano sia un clandestino in attività così lo condannano ad una pena abnorme, 27 anni, nonostante fosse stato un irregolare, cioè mai clandestino, senza reati di sangue contestati. Dopo esser passato per la Grecia, approda in Salvador dove vive fino al 2002, quando entra in Argentina dove viene arrestato. La magistratura tuttavia nega l’estradizione perché condannato in contumacia. Poco dopo gli viene concesso l’asilo politico, procedura che interrompe il processo di estradizione annullando il rigetto già pronunciato. Nel 2013 la sua condanna va in prescrizione, la cassazione italiana conferma ma successivamente la procura di genova fa riaprire il procedimento ottenendo l’annullamento della decisione. Nell’estate 2024 la nuova giunta argentina del presidente Milei, un nostalgico delle dittature fasciste sud americane e del piano Condor, con una decisione arbitraria annulla la concessione dell’asilo politico. Il governo Meloni ne approfitta e rilancia l’estradizione avvalendosi della mancata conclusione della precedente procedura di estradizione, dove era stato espresso parere favorevole. I nuovi giudici, allineati col nuovo potere revanchista, concedono una estradizione col trucco accettando la promessa fatta dalla procura genovese che una volta in Italia Berrtulazzi sarà nuovamente processato: nonostante la legge e la giurisprudenza non lo prevedano.
Mario Di Vito, il manifesto 18 marzo 2025
Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali: due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina. Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato arrestato. Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città in cui vive dal 2002.
«Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan todos era lo slogan».
E lei arriva lì. Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una campagna in mio favore.
E poi? Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della giustizia.
Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni? Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai.
Da allora il paese è molto cambiato. Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che la tortilla se de vuelta.
In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano. La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza.
Veniamo ai suoi processi. Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo già lasciato il paese da anni.
La procura di Genova scrive: «In conclusione, è ragionevole riconoscere che nessun elemento allo stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua contumacia». Lo stesso giudice argentino, che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura che avrò diritto a un nuovo processo.
Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria, anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)». Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un nuovo processo.
Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di 10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti antifascisti e nuovi». Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto “più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta, mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che hanno provocato il rigurgito fascista.
Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo, per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia? Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi. Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando.
Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti? Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno 2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23 febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però,la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era stato preso in considerazione.
Quale sarebbe il fatto nuovo? Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires.
La Cassazione aveva annullato la prescrizione. Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo.
Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti? Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi. L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito. Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza.
Si fonda su una bugia l’avviso favorevole concesso dalla magistratura argentina alla estradizione dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi, riparato negli anni 80 in America Latina, prima in Salvador e poi dal 2002 in Argentina, dove vent’anni fa gli era stato riconosciuto l’asilo politico, ritirato con una decisione arbitraria dopo l’arrivo al potere del governo fascio-revanchista Milei. La procura generale di Genova ha fatto sapere ai giudici di Buoneos Aires che una volta in Italia Bertulazzi avrà sicuramente diritto ad un nuovo processo, tanto è bastato per concede l’ammissibilità alla estradizione. Sono state pubblicate ieri, 7 marzo, le motivazioni giuridiche che hanno portato a questa decisione sancita nella udienza del 27 febbraio scorso. I giudici argentini sono tornati sui loro passi, smentendo l’avviso contrario espresso 21 anni fa, il 5 giugno del 2003, quando rifiutarono l’estradizione perché l’Italia non forniva sufficienti garanzie sullo svolgimento di un nuovo processo contro Leonardo Bertulazzi. Va detto che l’ordinamento penale argentino non prevede la contumacia. Purtroppo l’iter decisionale dei giudici argentini non venne completato perché nel frattempo giunse il riconoscimento dello status di rifugiato, che secondo la legislazione argentina, e la convenzione sui diritti dei rifugiati, impedisce la consegna e persino il processo di estradizione quando lo status di rifugiato è in vigore. Situazione che portò la corte suprema a revocare quella prima decisione e non dichiarare irricevibile la domanda di estradizione. Così al governo Milei è bastato ritirare con un pretesto lo status di rifugiato per riaprire la partita. Bertulazzi era stato condannato nel 1985 in due diversi processi – quando già da diverso tempo aveva lasciato l’Italia – a 15 anni di reclusione per complicità nel sequestro Costa del 1977 e 19 anni per il reato associativo, condanne che una volta cumulate, nel 1997, hanno portato a una pena definitiva di 27 anni. Una enormità considerando la breve militanza all’interno della colonna genovese, interrotta anche da un periodo di detenzione, e il fatto che fosse un «irregolare» a cui non sono stati mai contestati reati di sangue. Secondo i giudici, in questa nuova procedura sarebbe intervenuto un fatto nuovo che avrebbe cambiato le carte in tavola: ovvero le garanzie fornite dal procuratore generale della Repubblica di Genova, in una nota del 9 settembre 2024, in merito alla possibilità per Bertulazzi di ottenere un nuovo processo una volta riconsegnato all’Italia. Le garanzie della procura genovese tuttavia contrastano con l’ordinamento italiano, art. 175 comma 2 cpp, che non prevede automatismi in caso di condanne in contumacia ma soltanto la possibilità per il condannato estradato, entro 30 giorni dalla consegna, di poter chiedere la riapertura del processo a certe condizioni. Dominus della decisione resta la corte di appello non la procura generale. Corte che non si è ancora pronunciata e non ha inviato alcuna rassicurazione ai giudici argentini. Sul punto poi esiste una costante giurisprudenza di cassazione che scoraggia le richieste di riapertura. Il principio di intangibilità della cosa giudicata resta fortemente radicato nel sistema giudiziario italiano e nella cultura giurisprundenziale, un muro invalicabile, un tabù intoccabile. A favore di Bertulazzi tuttavia postrebbero giocare altri passaggi presenti nell’ordinanza dei giudici argentini, lì dove si afferma esplicitamente che «per la Repubblica Argentina, dal punto di vista dell’estradizione, [Bertulazzi} è un accusato, tenendo conto che queste condanne devono essere riaperte nella Repubblica Italiana». Altro passaggio da sottolineare è quello dove i giudici ricordano che, «la persona condannata in contumacia deve essere considerata un imputato e godere di garanzie sufficienti per esercitare il suo diritto alla difesa una volta arrivata nel suo paese». Insomma per i giudici argentini Bertulazzi, poiché condannato in contumacia, non va considerato e non può essere estradato in qualità di condannato ma solo di persona imputata, ovvero in attesa di giudizio. Il concetto è molto chiaro, meno chiara è l’interpretazione che ne sarà data in Italia se la corte suprema federale dovesse confermare l’estradizione e il Conare rigettasse il ricorso contro l’abolizione del status di rifugiato politico. Cosa farà allora la magistratura italiana che sciopera in questi giorni contro il progetto di separazione delle carriere voluto con forza dal governo Meloni? Cosa diranno l’opposizione, l’avvocatura, i giuristi?
Leonardo Bertulazzi, l’ex brigatista a cui nei giorni scorsi il governo argentino sotto la guida del nuovo presidente di estrema destra Javier Milei ha revocato l’asilo politico, concesso nel 2004 dalla commissione nazionale per i rifugiati, è stato accusato di aver avuto un ruolo nella «logistica del rapimento Moro» e di aver avuto una funzione di «alto rango all’interno dell’organizzazione», nonostante nel 1978 fosse in carcere da almeno un anno. E’ quanto ha scritto il ministero della sicurezza argentino nel suo comunicato ufficiale, imbeccato dai vertici della Direzione centrale della polizia di prevenzione e dagli altri uffici di polizia che hanno coordinato questa nuova operazione di fine estate. Una gigantesca bufala confezionata per impressionare l’opinione pubblica e la magistratura argentina e rafforzare l’inconsistenza giuridica della loro bravata, gonfiando a dismisura il ruolo e la biografia politica di Bertulazzi all’interno delle Brigate rosse di fine anni Settanta.
Il falso sillogismo E’ noto che la base di via Montalcini 8, a Roma, nella quale fu custodito Moro durante i 55 giorni del sequestro, venne acquistata da Laura Braghetti (e per questo condannata all’ergastolo) con una parte della somma del sequestro Costa. Ergo, siccome Bertulazzi è stato condannato a 15 anni di carcere per complicità – del tutto marginali – nel sequestro dell’armatore genovese, se ne deve concludere che lo stesso ha acquistato per conto delle Brigate rosse quella base e quindi ha avuto un ruolo nel sequestro. Più o meno è stato questo il falso sillogismo abilmente insinuato nei comunicati ufficiali che hanno portato la stampa e i vari siti d’informazione, ormai in mano a persone professionalmente disinformate, a replicare una simile castroneria. E’ bastata una velina per cancellare evidenze processuali e storiche stratificate da decenni.
La compagnia di giro Mollicone, Calabrò, Fioroni Fake ripreso da tutti i giornali oltre che da una comica dichiarazione del responsabile cultura (e che cultura!) di Fratelli d’Italia, il parlamentare Federico Mollicone, citando un libro di Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni (ex presidente della seconda commissione Moro), ha affermato che l’arresto di Bertulazzi può portare a «nuove evidenze nell’indagare sull’esatta ubicazione di Moro durante il sequestro». Per farla breve, secondo il Mollicone-Calabrò-Fioroni pensiero, Moro sarebbe stato trattenuto «in un box di Corso Vittorio 42, che era nelle disponibilità della residenza diplomatica dell’allora Ambasciatore del Cile presso la Santa Sede», per intenderci un diplomatico del dittatore Pinochet. Le evidenze storiche, oltre che le sentenze sulla base delle quali sono stati comminati decine di ergastoli e secoli di carcere, ci dicono invece che i soldi del sequestro dell’armatore Costa furono redistribuiti equamente tra le varie colonne brigatiste. La colonna romana, che agli inizi del 1977 era in fase di costruzione, approfittò della sua quota per acquistare tre appartamenti: uno in via Paolombini, l’altro via Albornoz e l’ultimo in via Montalcini. L’abitazione di via Palombini cadde nel maggio 1978 dopo la cattura e le torture inferte a Enrico Triaca, che gestiva la tipografia di via Pio Foà; via Albornoz non venne mai utilizzata perché solo dopo l’acquisto si scoprì che nello stesso pianerottolo abitava un carabiniere, quindi fu rivenduta; via Montalcini fu ceduta dopo il sequestro Moro. A questo intricato giro di acquisizioni e vendite immobiliari Bertulazzi, ovviamente, era totalmente estraneo.
Nel 1978 era in carcere Nulla c’entrava per due ragioni: la prima perché non faceva parte della colonna romana ma di quella genovese, all’interno della quale, da semplice irregolare, non ha mai rivestito ruoli di vertice o dirigenziali. Proveniente dal Lotta continua entrò a far parte delle Br genovesi nel 1976 per restarvi poco tempo perché – e qui veniamo alla seconda ragione – nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Dall’ospedale lo condussero direttamente in prigione dove restò per scontare una condanna di due anni. Durante il sequestro Moro, Bertulazzi era detenuto. Questa è la verità.
Duramente sanzionato nonostante il ruolo marginale Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese perché era latitante. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire d’accapo con il conteggio. E così a quarantotto anni dopo arriva la nuova richiesta di estradizione già rifiutata nel 2002 per la contumacia, non contemplata nel sistema giudiziario argentino. Per questo raccontarla sempre più grossa, dopo cinquant’anni, resta l’unica risorsa che il governo e le autorità di polizia italiano hanno per riavere indietro questi esuli di un tempo che non c’è più.
Nella serata del del 29 agosto 2024 i siti d’informazione hanno diffuso la notizia del nuovo arresto a Buenos Aires (nel pomeriggio ora locale) di Leonardo Bertulazzi, un cittadino italiano oggi settantaduenne, ex appartenente alla colonna genovese delle Brigate rosse che nel 2004 aveva ottenuto lo statuto di rifugiato politico dalla Commissione nazionale per i rifugiati (Conare). In un comunicato le autorità governative argentine hanno affermato che Bertulazzi è stato arrestato dopo che risoluzione del Conare era stata revocata dalle autorità del governo nazionale in presenza di una nuova richiesta di arresto formulata dal governo di Giorgia Meloni.
Nel 2002 un giudice federale respinge la domanda di estradizione Nel novembre 2002 Bertulazzi era stato raggiunto da una richiesta di estradizione da parte del governo italiano per una condanna a 27 anni di reclusione, a seguito di un cumulo giudiziale che sommava la banda armata, l’associazione sovversiva e la complicità nel sequestro dell’armatore Pietro Costa, realizzato dalle Brigate rosse nel gennaio del 1977. Dopo sette mesi di detenzione il giudice federale Maria Romilda Servini de Cubria emise una sentenza di rigetto perché il processo e la condanna erano avvenuti in «contumacia», possibilità non prevista dalle leggi procedurali argentine. Il magistrato, ritenendo che in questo modo l’esule italiano non avrebbe potuto esercitare il suo diritto costituzionale di difesa una volta estradato, ne ordinò la liberazione. Successivamente, come abbiamo visto, Berlulazzi avviò la procedura per il riconoscimento dello statuto di rifugiato politico.
L’estinzione prima riconosciuta poi annullata Nel 2018, trascorsi 30 anni dalla momento in cui la sua condanna era diventata definitiva, il suo legale presentò davanti alla corte d’appello di Genova istanza per il riconoscimento della estinzione della pena, come previsto dall’articolo 172 del codice penale. La corte accolse la richiesta ma nel maggio dello stesso anno la cassazione annullò la decisione, facendo valere un cavillo tecnico-giuridico che imponeva il ricalcolo dei tempi di estinzione della pena a partire dal nuovo arresto del 2002: «Essendo perdurata la latitanza del Bertulazzi dopo la scarcerazione — hanno scritto i giudici nel loro provvedimento —, e rappresentando l’arresto eseguito (in forza di una procedura di estradizione sulla cui legittimità nulla è mai stato contestato dalla difesa del condannato) la manifestazione del concreto interesse dello Stato ad eseguire la pena, il decorso dei termini di prescrizione è iniziato ex novo». Nel frattempo da quel primo arresto sono trascorsi altri 22 anni e parte delle condanne inflittegli, quelle relative ai reati associativi, sono andate nuovamente prescritte.
Il comunicato del governo argentino
In un comunicato ufficiale emesso dal governo argentino si esplicitano le ragioni che hanno portato alla cancellazione dello status di rifugiato: «Questo arresto riflette l’impegno dell’Argentina a favore dei valori della democrazia e dello stato di diritto (sic!) ed espone al mondo la ferma decisione del presidente Javier Milei di non convivere con l’impunità della sinistra. Si tratta di un passo fondamentale affinché le istituzioni destinate a proteggere le persone in situazioni vulnerabili non vengano prese indebitamente dai terroristi che minacciano la pace e la democrazia». Al di là delle affermazioni di Milei, l’estradizione di Bertulazzi non sarà una cosa scontata e semplice anche se la magistratura ha per ora confermato lo stato di arresto.
«Posizione giuridica mutata» A pronunciare la convalida, secondo un’agenzia dell’Ansa, sarebbe stato lo stesso giudice che nel 2003 aveva respinto la richiesta di estradizione italiana perché a suo avviso la posizione giuridica di Bertulazzi sarebbe mutata rispetto al 2003. Stando a quanto riportato da alcune fonti giornalistiche argentine, secondo il magistrato le richiesta di estinzione della pena presentata nel 2018 avrebbe comportato un riconoscimento della sentenza di condanna. Sempre secondo l’Ansa, l’Italia ora avrebbe 45 giorni per formalizzare la richiesta di estradizione e Bertolazzi la possibilità di ricorrere contro la decisione che ha cancellato il suo status di rifugiato politico oltre che opporsi alla procedura di estradizione una volta avviata. Conosceremo meglio nelle prossime settimane i contenuti giuridici di questa nuova richiesta e in che maniera l’Italia cercherà di aggirare la palese violazione del principio del ne bis in idem. Una procedura di estrazione c’è già stata ed è stata respinta: a che titolo se ne chiede una nuova? Il timore è che le autorità argentine vogliano fare strame delle procedure e delle leggi internazionali e magari espellere Bertulazzi in un paese vicino che poi lo consegnerebbe, come avvenuto in altri casi, alla polizia italiana. Sono anni ormai che l’Italia ogni qual volta affronta battaglie estradizionali riceve solo sonori schiaffi, ragion per cui si è specializzata nelle consegne speciali.
Governi gemellie nostalgia del piano Condor
Offrendo la testa di Bertulazzi su un piatto d’argento alla sua amica e gemella politica Giorgia Meloni, il governo del fascista Milei sembra intenzionato a condurre una guerra ideologica contro i simboli della sinistra. All’epoca del suo primo arresto Bertulazzi aveva ottenuto il sostegno della madri della plaza de Mayo. I toni da crociata impiegati nel comunicato ufficiale del ministero della sicurezza sono abbastanza espliciti: si afferma che Leonardo Bertulazzi «è uno dei terroristi latitanti più ricercati dalla giustizia europea […] Ex membro del gruppo terroristico marxista-leninista italiano Brigate Rosse, Bertulazzi è responsabile di crimini atroci che hanno minacciato i valori democratici e la vita di molteplici vittime. Questa organizzazione terroristica è stata responsabile di numerosi atti di violenza in Italia negli anni ’70 e ’80». Insomma le accuse si fanno generiche e ideologiche, la responsabilità penale è personale e non risultano crimini di sangue imputati a Bertulazzi, condannato per complicità nel sequestro Costa sulla base delle dichiaraioni di un pentito quando era già fuori dall’Italia. Milei, vuole forse far dimenticare gli anni in cui nel suo Paese trovavano ospitalità i peggiori criminali nazisti, si lanciavano in mare i corpi vivi degli oppositori di sinistra ed era in vigore il piano Condor, ovvero la liquidazione di tutti gli oppositori dei vari regimi militari fascisti Sud americani.
La bufala congeniata per favorire l’arresto Sempre nella dichiarazione governativa si diffonde un falso storico clamoroso, ovvero un presunto ruolo di Berlulazzi nella «logistica del rapimento Moro» e una sua funzione di «alto rango all’interno dell’organizzazione». Evidentemente le autorità di polizia italiane non hanno correttamente informato i loro omologhi argentini: Bertulazzi era un irregolare che non ha mai avuto ruoli di vertice nella colonna genovese e ai tempi del sequestro Moro era detenuto a causa di un incidente incorso nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, dove rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Nulla c’entra o poteva sapere del sequestro Moro per altro realizzato dalla colonna romana. I soldi del sequestro Costa erano stati redistribuiti equamente tra tutte le colonne brigatiste: la colonna romana, ancora in fase di costituzione, approfittò della sua quota del sequestro per acquistare tre appartamenti situati in via Paolombini, via Albornoz e via Montalcini, dove fu tenuto nascosto Moro nei 55 giorni del sequestro. Bertulazzi, che entrò nella colonna genovese nel 1976 dopo aver militato in Lotta continua, ha militato complessivamente per una anno nelle Brigate rosse prima di finire in carcere e scontare una condanna di due anni. Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco: Bertulazzi riuscì a fuggire e i due suoi due compagni furono arrestati. La direzione centrale della polizia di prevenzione per ottenere il favore del governo argentino deve aver giocato la carta di un suo coinvlgimento nella vicenda Moro, ormai impiegata come un passe-partout, res nullius che chiunque può evocare a sproposito come un qualunque Federico Mollicone di turno.
Dopo l’assoluzione degli imputati per la strage di Brescia del 1974 parla Giovanni De Luna: «Senza verità giudiziaria il passato non passa»
La tesi sostenuta dal professor De luna in questa intervista è oggi molto diffusa. Essa ritiene infatti che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. A nostro avviso si tratta di una deriva sbagliata, anzi devastante poiché:
a) innesca una privatizzazione del diritto di punire; b) la giustizia processuale perde in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa; c) conseguenza che apre la portà al rischio di verità giudiziarie di comodo, verità politiche – altrimenti dette “ragion di Stato” – necessarie a placare domande che vengono dall’opinione pubblica o servono a lenire semplicemente la sofferenza dei familiari, ad appagarne il risentimento; d) devasta la dimensione psicologica delle vittime stesse, messe di fronte all’assurdo paradosso di dover pretendere verità da quello stesso Stato coinvolto nei fatti incriminati; e) verità che evidentemente non potrà mai venire senza che sia investita la dimensione del cambiamento politico delle istituzioni coinvolte; f) ne può uscire soltanto un atteggiamento vittimistico e querulante che di fronte al frustrante fallimento degli esiti processuali, o peggio al mancato appagamento che la scena giudiziaria offre (“la verità giudiziaria non dice tutto”, “i colpevoli nascondono altre verità”, ”la pena deve essere infinità anche una volta sconata per intero”), trascina la figura della vittima in una spirale di risentimento senza fine, di avvitamento rancoroso;
E’ sulla verità storica che occore dunque lavorare. Ciò dipende da quelle categorie, gli imprenditori della memoria, che lavorano con la materia storica ma dipende anche e soprattutto dall’autorganizzazione sociale, dalla capacità di creare le condizioni politiche perché questa verità esca fuori.
Paolo Persichetti
Liberazione 18 novembre 2010
Nonostante le cinque fasi istruttorie e gli otto gradi di giudizio l’ennesimo processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia si è concluso senza essere riuscito ad accertare, «oltre ogni ragionevole dubbio», l’identità degli autori e dei mandanti dell’attentato che il 28 maggio 1974 provocò 8 morti e 102 feriti durante una manifestazione antifascista. Come è accaduto anche per gli undici gradi di giudizio sulla strage di piazza Fontana la macchina della giustizia sembra girare a vuoto quando si tratta di identificare autori e mandanti della violenza stragista che ha insanguinato la prima parte degli anni 70.
Sia chiaro, i processi non servono soltanto a condannare le persone chiamate in giudizio ma a stabilire una «verità giudiziaria» (che non per forza è la copia carbone della verità storica), la quale prevede anche la possibilità di giungere a delle assoluzioni (circostanza che si ha tendenza a dimenticare troppo facilmente). Credere che un processo non sia servito a nulla quando non porta a delle condanne è dunque un errore di prospettiva che contiene un’idea deformata di giustizia. Tuttavia il dispositivo di assoluzione emesso martedì dalla corte d’assise di Brescia suscita molta frustrazione poiché non afferma la piena estraneità delle persone assolte, ma ricorre all’ambigua formula della «prova mancante e contraddittoria».
In sostanza la sentenza (capiremo meglio una volta rese pubbliche le motivazioni scritte), sembra riconoscere un fondamento alla ricostruzione del contesto all’interno del quale è maturata la strage. L’ambiente neofascista veneto, le cellule ordinoviste, la presenza d’infiltrati e doppiogiochisti del servizio segreto militare italiano e della Cia. Nonostante ciò il processo – riconosce sul manifesto lo storico Mimmo Franzinelli – era appesantito da una ricostruzione dei fatti «sovrabbondante, talvolta dietrologica», sorretta da «un castello accusatorio poi crollato con la ritrattazione di Maurizio Tramonte» (la fonte Sismi denominata Tritone), «personaggio infido, collaboratore di giustizia premiato con larghe prebende», e la presenza di altri testi che hanno ritrattato in aula le precedenti ammissioni, come Martino Siciliano e Carlo Digilio, ordinovista in contatto con la Cia, mentre l’autore materiale sarebbe stato un altro ordinovista morto per overdose nel 1991.
Dopo questa ennesima sconfitta comincia a farsi strada l’idea che ad oltre 30 anni dai fatti il mezzo processuale abbia esaurito ogni capacità conoscitiva sulle vicende più oscure e drammatiche degli anni 70.
Professor De Luna, il giudice Salvini dice che ora gli storici devono sostituirsi ai giudici. Se la verità giudiziaria non è accessibile – ha spiegato – l’unica via è una commissione di esperti indipendenti per la memoria del Paese.
Mi sembra una idea strampalata. Ognuno deve fare il suo mestiere. I giudici fanno i giudici e gli storici gli storici. Non confondiamo le due cose. La storia non è un tribunale.
L’idea che la verità sia accessibile unicamente per via giudiziaria, questo voler delegare continuamente alla magistratura la funzione di scrivere la storia degli anni 70 non è un errore, oltre che la prova di una mancanza di coraggio della società civile e di timidezza da parte degli storici?
L’assenza di verità giudiziaria impedisce l’elaborazione del lutto, non rimargina le ferite perché vengono meno i presupposti di verità e giustizia che delle istituzioni virtuose dovrebbero fornire. Questo vuoto rende impossibile la convivenza civile, tiene aperta una memoria conflittuale, un passato che non passa che nutre rancori, desideri di vendetta, richieste di risarcimenti, bisogno di legittimazione. Un groviglio identitario di passioni, una dimensione emotiva e sentimentale della memoria che resta campo di battaglia permanente tra opposti atteggiamenti vittimari.
Eppure di fronte a verità giudiziarie pienamente accertate, pesanti condanne emesse e scontate, come è avvenuto per la lotta armata di sinistra, questa vertigine vittimaria non è affatto cessata. Al contrario, alimentata dalle più fantasiose dietrologie, si è spesso mostrata ancora più aggressiva.
E’ vero, però c’è una differenza di fondo tra chi chiede verità e giustizia, quando questa manca, e chi mantiene un atteggiamento vittimario quando siamo di fronte a sentenze che hanno certificato le responsabilità individuali. In questo caso l’atteggiamento vittimario cambia di segno e perde il suo interesse pubblico e il suo valore civile per trasformarsi in una memoria che può essere carica di rancore o restare confinata in una dimensione individuale.
Lei distingue un vittimismo virtuoso da uno ripiegato su se stesso.
Non tutte le memorie vittimarie sono uguali. Il familismo civico è stato possibile grazie alla presenza di una verità giudiziaria. E’ in questo modo che molti familiari hanno potuto elaborare il lutto ed in alcuni casi avvicinarsi addirittura alla ragioni degli assassini. Quella legata alla mancanza della verità giudiziaria è oggettivamente una memoria pubblica che dovrebbe ispirare i valori della cittadinanza.
Ma se la verità giudiziaria, quando c’è, non è appagante, cosa deve fare un Paese perché il passato passi?
Avere delle istituzioni virtuose in grado di recintare uno spazio pubblico fatto di verità, di giustizia, di valori riconoscibili dove non c’è più una democrazia legata al mondo dell’indicibile e del nascosto ma del visibile e della trasparenza.
E se queste istituzioni non sono virtuose o addirittura appaiono colluse con la stagione delle stragi?
Poco prima che cadesse il governo Prodi era stata approvata la legge per togliere il segreto di Stato. Un segnale di trasparenza. Poi i regolamenti attuativi non sono mai stati realizzati. Finché le istituzioni si comporteranno così quel ruolo virtuoso non sarà mai ricoperto.